8 ottobre 1904 – Long Island, New York: i piccoli costruttori americani escono duramente sconfitti dalle case europee nella prima Vanderbilt Cup, un copione che si ripeterà nei due anni successivi. Tra le cause, la mancanza di strutture adatte a provare intensivamente le vetture, le cui prestazioni sono ormai incompatibili con le strade dissestate e sempre più trafficate di molti stati. La pensa così anche Carl G. Fisher, impresario di Indianapolis di umilissime origini ma straordinario spirito di iniziativa, che alla fine del secolo dà vita a una fortunata rete di distribuzione di biciclette. Abilissimo nel campo pubblicitario e nello stringere solide relazioni commerciali, Fisher si afferma in breve anche nel nascente settore automobilistico come rivenditore ufficiale di numerosi marchi della zona, di cui avverte il bisogno di una struttura di collaudo adatta ai sempre più prestanti modelli immessi sul mercato. Nei primi anni del ‘900 inizia a maturare quindi in lui l’idea di un circuito, di 3 o 5 miglia, che possa fungere da banco di prova e terreno di gara per i costruttori alla ricerca di promozione. La difficoltà nel trovare l’appezzamento di terra adatto e i tanti investimenti paralleli fanno però slittare l’avvio del progetto fino al 1908, quando 80 acri di terra pianeggiante a 5 miglia a ovest della città diventano disponibili. Fisher non perde tempo, aggiudicandosi in breve il terreno grazie al sostegno economico dei soci in affari James A. Allison, futuro fondatore della Allison Engine Company; Arthur Newby, presidente della National Motor Vehicle Company e filantropo; Frank Wheeler, spregiudicato uomo d’affari e coproprietario della Wheeler-Schebler Carburetor Company, con cui fonda la Indianapolis Motor Speedway Company. Insieme all’ingegnere P.T. Andrews, Fisher successivamente mette nero su bianco il suo progetto ripiegando, per poter accomodare anche le tribune, su un ovale da 2,5 miglia da completarsi con un infield di pari lunghezza, idea poi abbandonata per le difficoltà subentrate in fase di realizzazione. Tra queste, la costruzione di un ponte sopra il ruscello che ancora oggi scorre sotto il rettilineo principale e la south short chute, nonché i problemi legati alla stesura del mix di roccia tritata, tar e macadam impiegato per la realizzazione del manto stradale, che prestò si dimostrerà inadatto a veicoli da competizione.
In ritardo con i lavori, il primo evento ospitato dallo Speedway è il concorso nazionale di mongolfiere, ma quando l’associazione nazionale motociclisti fa tappa a Indy per una serie di gare, i detriti e la inestinguibile nube di polvere sollevata dalle due ruote trasformano l’evento in un fiasco. La settimana successiva la prima due giorni di corse automobilistiche attira, oltre a un pubblico numerosissimo, alcuni dei più importanti nomi del motorismo americano, tra cui Barney Oldfield, Louis Chevrolet, Ray Harroun e Louis Schwitzer. Le precarie condizioni di sicurezza portano però a una serie di gravi incidenti, che costano la vita al pilota Wilfred Bourque oltre che al meccanico Claude Kellum e due spettatori. E’ chiaro che il proseguimento dell’attività può passare solo attraverso una nuova pavimentazione. Nell’autunno del 1909 ben 3.200.000 mattoni vengono quindi depositati sullo Speedway, permettendo la riapertura alle corse nel Memorial Day successivo, che registra un enorme successo di pubblico. Fortuna non incontrata però dagli eventi programmati per i mesi successivi, tanto da spingere Fisher e soci all’idea di una sola grande corsa annuale da tenersi il giorno del Memorial Day, dal ricco montepremi e di durata compatibile con le tipiche attività di una giornata festiva. Nasce così la Indianapolis 500, inizialmente denominata International 500 Mile Sweepstakes Race.
Carl Fisher comincia a immaginare il suo circuito ideale. pinterest.com
I fondatori della Indianapolis Motor Speedway Company, da destra: James Allison, Carl Fisher, Frank Wheeler e Arthur Newby, in compagnia di Henry Ford, sulla sinistra. indianapolismotorspeedway.com
Il 30 maggio 1911 è lo stesso Carl Fisher a guidare sulla sua automobile personale il gruppo, disposto su file da 5 in base all’ordine di iscrizione. Dopo 6 ore e 43 minuti di gara la vittoria arride alla Marmon Wasp di Ray Harroun, ingegnere e inventore, che trionfa grazie alla strategia (procede a un passo fisso di 75 mph per minimizzare i lentissimi cambi gomme) e a un’invenzione semplice ma geniale: lo specchietto retrovisore, che gli permette di fare a meno del meccanico di bordo nonostante le proteste degli avversari. L’evento è un grandioso successo e tanta è l’esposizione ricevuta che la Marmon, soddisfatta, può ritirarsi dalle competizioni, imitata l’anno dopo dalla National, che nel 1912 coglie un insperato successo con il giovane Joe Dawson. Sospettose sulle corse yankee ma attirate dal ricco montepremi, le case europee fanno il loro debutto ufficiale a Indy nel 1913, con Joules Goux che porta a casa il successo per la Peugeot, non senza rinunciare a qualche rinfrescante bicchiere di champagne durante le soste, mentre nel 1914 è René Thomas a portare alla vittoria la Delage. Il vero grande personaggio dei primi anni della 500 miglia (e delle corse americane in generale) è però Raffaele “Ralph” De Palma. Nato in Puglia nel 1882 ed emigrato negli States 10 anni più tardi, l’italo-americano entra nella storia già nel 1912, quando domina la corsa ma viene abbandonato al penultimo giro dalla sua Mercedes, che spinge dalla curva 4 fino al traguardo, per poi andare a congratularsi con il vincitore Dawson, ricevendo l’ovazione del pubblico. La sorte lo ripaga comunque nel 1915, anno in cui ha la meglio sull’inglese di origine italiana Dario Resta, ritiratosi nel finale dopo una lunga lotta, ma vincente l’anno dopo su una Peugeot privata nell’ultima edizione pre conflitto, di distanza limitata a 300 miglia. La corsa chiude infatti i battenti nel biennio 1917-1918, in cui Fisher concede la struttura all’aviazione come centro di manutenzione e collaudo. Quando lo Speedway riapre alle competizioni nel 1919, il protagonista è sempre lui, De Palma, che domina fino a metà gara per poi essere tradito dal motore e lasciare spazio ad Howdy Wilcox, primo uomo a superare le 100 mph di media in prova, che vince su Peugeot.
Il vincitore del 1911, Ray Harroun, su Marmon Wasp. indycar.comAl penultimo giro Ralph De Palma spinge la sua Mercedes verso il traguardo, aiutato dal meccanico di bordo Rupert Jeffkins. indycar.comDario Resta posa sulla sua Peugeot in compagnia del meccanico di bordo Robert Dahnke. indycar.com
Gli anni ’20 si aprono con l’ultima di una serie di modifiche regolamentari che vedono la cilindrata massima ridursi progressivamente dai 9,8 litri del 1911 fino ai 3 litri dei Gran Premi europei. Le qualifiche, in vigore dal 1913, passano poi da uno a quattro giri cronometrati. Il nuovo sistema premia subito Ralph De Palma, per la prima volta in pole, ma dopo una lunga fase comandata da Joe Boyer è il compagno di marca Gaston Chevrolet, il più giovane dei fratelli svizzeri, a conquistare il successo sull’auto di famiglia, la Frontenac. L’anno dopo è poi Tommy Milton a capitalizzare sulle sfortune di De Palma, superando un grave handicap visivo per bissare il successo per la famiglia Chevrolet, ancora in lutto per la scomparsa di Gaston, avvenuta alla fine della stagione precedente.
Reduce da uno storico trionfo al GP di Francia 1921, nel 1922 tocca poi a Jimmy Murphy entrare nella storia, primo a vincere dalla pole position a bordo di una Deusenberg spinta da un motore di Harry Miller, le cui successive iterazioni monopolizzeranno lo schieramento per decenni. L’inventore americano l’anno dopo si scopre anche telaista, realizzando una vettura completa che Tommy Milton porta al successo, diventando il primo plurivincitore della corsa, supportato da Howdy Wilcox, che fa a suo modo la storia guidando la corsa su due vetture diverse dopo essere brevemente subentrato a Milton a metà gara. Ancora pallino delle case europee, nella stessa edizione Indy scopre la sovralimentazione grazie alla Mercedes di Christian Lautenschlagen, ispirando i fratelli Deusenberg, che nel 1924 presentano una vettura dotata di compressori Roots, condotta in partenza da Lora Corum e portata poi alla vittoria dal subentrante Joe Boyer, il più veloce della squadra. Il successo è bissato nel 1925 da Peter De Paolo, nipote e meccanico di Ralph De Palma, che precede di meno di un minuto il duo Dave Lewis-Bennet Hill su una rivoluzionaria Miller a trazione anteriore. Soluzione che si dimostra efficace anche l’anno successivo nonostante la riduzione di cilindrata a 1,5 litri, quando Lewis è però beffato dalla più convenzionale Miller a trazione posteriore del velocissimo rookie Frank Lockhart, nella prima edizione accorciata causa pioggia. È solo un guasto a negare il bis nel 1927 al pilota dell’Ohio, che dopo aver segnato il nuovo record della pista in prova deve lasciare la vittoria a George Souders, il primo a vincere la corsa senza mai cedere la vettura.
Il 1928 segna una svolta epocale nella gestione dello Speedway. Ormai totalmente preso dai suoi investimenti in Florida, Carl Fisher ha perso ogni interesse per la sua creatura, che non è più in cima ai pensieri neanche del socio Allison. In cerca di un acquirente, il patron della potente Allison Engineering propone quindi l’affare a una vecchia conoscenza. Eroe di guerra e uno dei primi assi nella storia dell’aeronautica americana, al ritorno in patria dopo la prima guerra mondiale Eddie Rickenbacker è una celebrità, in grado di dar vita a una promettente casa automobilistica, che però non supera la depressione di metà anni ’20. Protagonista della 500 miglia nel 1916, Rickenbacker riesce comunque a entrare nel consiglio direttivo della AAA, l’ente sanzionatore della corsa, divenendone in breve presidente. Quando Allison, che morirà improvvisamente qualche mese più tardi colpito dalla polmonite, gli propone di rilevare lo Speedway, l’ex asso non perde tempo nel reperire i fondi necessari, prendendo il controllo della struttura con la sua nuova società, la Indianapolis Motor Speedway Corporation. Una delle prime iniziative dei nuovi gestori è la costruzione di un campo da golf, per metà interno alla pista, che insieme ai test privati permette di produrre introiti durante il resto dell’anno.
Dal punto di vista sportivo, la vigilia della 500 miglia 1928 è funestata dalla scomparsa di Frank Lockhart, venuto a mancare durante un tentativo di record di velocità a Daytona Beach, ultima di una serie di tragedie che ha il suo apice nel settembre 1923 con la scomparsa nel giro di due settimane di Joe Boyer, Howdy Wilcox e Dario Resta. La prima pole di una vettura a trazione anteriore, guidata da Leon Duray, precede la vittoria di un uomo che farà la storia della corsa, Louis Meyer, che sopravvive allo stillicidio di rotture cogliendo l’ennesimo successo per la Miller, replicato l’anno successivo da Leo Keech, morto incredibilmente due settimane più tardi nell’ovale di Altoona, già fatale a Boyer e Wilcox.
Jimmy Murphy porta per la priva volta al successo un motore Miller sulla sua Deusenberg, accompagnato da Ernie Alson. indycar.comLora Corum guida alla partenza la prima vettura sovralimentata a vincere la Indy500, condotta al traguardo dal co vincitore Joe Boyer. interactives.wpri.comPrima vittoria nel 1928 per Louis Meyer. indycar.com
Due anni dopo aver rilevato lo Speedway, Rickenbacker introduce intanto le prime importanti innovazioni della sua gestione. Nel tentativo di coinvolgere nuovamente le grandi case automobilistiche e riallacciare il rapporto tra la corsa e la produzione, per 1930 il regolamento tecnico vede l’aumento della cilindrata massima a 6 litri ed il bando della sovralimentazione, permessa solo per i motori a due tempi. Viene inoltre introdotto un sistema di equivalenza tra peso e potenza delle vetture, che devono nuovamente accogliere il meccanico di bordo. Alcune storiche variazioni riguardano anche il regolamento sportivo: la bandiera verde, normalmente impiegata per segnalare l’ultimo giro, viene ora impiegata per dare il via alla corsa, prendendo il posto della bandiera rossa, da qui in poi impiegata in caso di sospensione della gara. L’edizione 1930 è totalmente dominata dalla Miller a trazione anteriore del 23enne Billy Arnold, che stabilisce un record tutt’ora imbattuto rimanendo in testa per ben 198 giri. Il pilota dell’Illinois va vicinissimo al bis nei due anni successivi, rimanendo però coinvolto in brutti incidenti con alcuni doppiati che lasciano campo libero a Louis Schneider nel ’31 e Fred Frame nel ’32, anno in cui Arnold cede alle suppliche della neo sposa lasciando le corse. Il 1933 vede le qualifiche passare da 4 a 10 giri cronometrati, cosa che estende le prove ufficiali a due giornate. Al termine di un mese di maggio funestato da 5 incidenti mortali, la vittoria va ancora alla Miller di Louis Meyer, primo plurivincitore dai tempi di Tommy Milton. Oltre al ritorno a 33 partenti e norme ancora più stringenti sulla quantità di combustibile disponile, il 1934 passa agli annali come la prima edizione condotta da una vettura a 4 ruote motrici, la Four Wheel Drive guidata da Frank Brisco, che però termina solo nona, con Bill Cummings vincitore sulla solita Miller a trazione anteriore dopo una dura battaglia con Mauri Rose.
Il sempre più pesante bilancio di vittime, non certo aiutato dal ritorno a vetture biposto, impone nel biennio ‘35-’36 importanti novità riguardo la sicurezza: nelle curve vengono costruiti nuovi muretti (perpendicolari alla pista e non al terreno) e il banking viene uniformato a circa 9° lungo tutto il raggio. Le porzioni di pista più rovinate vengono ricoperte di asfalto (i mattoni sopravvivono nel rettilineo principale fino al 1961) e si introducono un sistema di luci per segnalare i periodi di neutralizzazione della corsa, il rookie test per vagliare il livello dei debuttanti e l’obbligo di indossare il casco. Il meccanico di bordo viene invece eliminato nel 1937. L’edizione del ’35 vede la prima delle 4 pole position di Rex Mays, più giovane poleman di sempre a 22 anni, che passerà alla storia come uno dei migliori piloti a non portare a casa il successo, che arride invece a Michele Cavino “Kelly” Petillo, abile e controverso pilota di origine italiana che porta alla vittoria per la prima volta il motore Offenhauser, un 4 cilindri in linea a sua volta derivante dalle tante invenzioni di Harry Miller, che segnerà la storia della corsa. Nel ’36 è invece ancora Louis Meyer a portare a casa il successo, il terzo, in una corsa che vede molti concorrenti rimanere a secco nel finale a causa della nuova formula consumo. Oltre a essere il primo tre volte vincitore, Meyer introduce casualmente la tradizione del latte in victory lane, dissetandosi con un bicchiere di buttermilk. È inoltre il primo vincitore a ricevere in regalo la pace car e soprattutto è il primo neo campione a comparire sul Borg Warner Trophy, il nuovo trofeo realizzato dalla Spaulding-Gohran su progetto di Robert Hill, che riporta in basso rilievo il volto di tutti i vincitori.
Il 1937 vede il ritorno della sovralimentazione, che risulta subito nel nuovo record della pista fatto segnare da Jimmy Snider. È però Wilbur Shaw a centrare il successo su una Stevens dalla aerodinamica evoluta, tagliando il traguardo con 2 soli secondi di vantaggio sul duo Hepburn-Swanson dopo aver rallentato nel finale per via della bassa pressione dell’olio. Nel 1938 l’uniformazione al regolamento europeo sui motori (3 litri sovralimentati o 4.5 litri aspirati) vede poi prevalere in prova e in gara la Wetteroth di Floyd Roberts. Oltre che il positivo debutto di una vettura a motore posteriore, la Miller quattro ruote motrici di George Bailey, l’edizione 1939 è ricordata invece per la seconda affermazione di Wilbur Shaw, vincitore dopo aver visto una foratura negare il poker a Louis Meyer, che poco più tardi appende il casco al chiodo, rilevando insieme a Dale Drake la produzione del motore Offenhauser. Shaw si ripresenta invece ai nastri di partenza nel 1940, cogliendo il terzo successo personale e il secondo di fila per la Maserati di Mike Boyle, con cui manca lo storico tris consecutivo nel 1941 per un incidente in cui rimedia un brutto infortunio alla schiena. La vittoria va così a Mauri Rose, che su ordine del team manager Lou Moore rileva a metà gara un tutt’altro che compiacente Floyd Davies, dichiarato comunque co-vincitore.
Billy Arnold domina l’edizione 1930 accompagnato sulla sua Miller da Spider Matlock. indycar.comNel ’35 Kelly Petillo conquista la prima vittoria per il 4 cilindri Offenhauser accompagnato da JImmy Dunham. indycar.comOltre a diventare il primo tre volte vincitore e introdurre casualmente la tradizione del latte in victory lane, nel 1936 Louis Meyer è anche il primo vincitore ad essere “premiato” con il Borg Warner Trophy. indycar.comNel 1940 Wilbur Shaw diventa il secondo tre volte vincitore della corsa, conquistando il secondo successo consecutivo su Maserati. indycar.comIl Wheeler-Schebler Trophy, coppa messa in palio dalla società di uno dei quattro soci fondatori dell’Indianapolis Motor Speedway, Frank Wheeler. Inizialmente inteso come premio per le corse precedenti alla 500 miglia del 1909 e 1910, il trofeo è stato poi assegnato al concorrente di ogni edizione in testa al 160° giro, per poi essere definitivamente consegnato a Harry Hartz, primo proprietario di team a cogliere tale traguardo per tre volte. La coppa è stata riscattata nel 1956 dallo Speedway, facendo ora bella mostra di sé nel museo della pista. indianapolis-photos.funcityfinder.com
Come in occasione del primo conflitto mondiale, l’entrata in guerra degli Stati Uniti porta alla chiusura delle operazioni dello Speedway, che nei tre anni successivi non riceve nessuna manutenzione, lasciando stupefatto Wilbur Shaw, divenuto nel frattempo manager e collaudatore della Firestone, che tornando a Indy per un test di gomme trova il circuito in stato di totale abbandono. Preoccupato dalle voci che vorrebbero la struttura lasciare il campo nel dopo guerra a un quartiere residenziale, Shaw vola a New York per incontrare Rickenbacker, che pur non escludendo una riapertura è disponibile a valutarne la vendita. Shaw non perde allora tempo nel cercare finanziatori e dopo vari contatti infruttuosi viene messo in comunicazione con Anton “Tony” Hulman Jr., imprenditore di Terre Haute con una profonda passione per la 500 miglia fin da bambino. Non ci vuole molto a trovare un accordo gradito a entrambe le parti. Nel novembre 1945 Rickenbacker accetta quindi di cedere lo Speedway per 750.000 $ (circa lo stesso prezzo da lui pagato 15 anni prima) a Hulman, che insieme al nuovo direttore generale Shaw comincia una corsa di sei mesi per rendere presentabile lo Speedway in vista del Memorial Day 1946.
Lo Speedway è ancora un cantiere a cielo aperto quando Ralph Hepburn conquista la pole spinto dal potentissimo motore Novi, un V8 sovralimentato terribile e sfortunato protagonista dei successivi 15 anni. In gara Hepburn conduce per un quarto di distanza, lasciando poi il successo alla Thorne di George Robson. Nonostante l’annuncio di un progressivo programma di innalzamento del montepremi, l’edizione 1947 è preceduta da una furiosa polemica tra gli organizzatori e l’associazione piloti sui premi, che porta a notevoli ritardi e a una griglia rimaneggiata. Per tutta la corsa la vittoria rimane un affare privato tra i piloti di Lou Moore, con il dominatore Bill Holland beffato dal compagno di squadra Mauri Rose, che nel finale ignora l’ordine di preservare l’auto andando a vincere in mezzo alle polemiche. L’anno dopo Rose si ripete, raggiungendo Meyer e Shaw a quota tre successi, approfittando delle sventure della Novi, temuta da tutti dopo l’incidente mortale di Hepburn in prova, ma portata in pole e poi quasi al successo dal giovane Duke Nalon, costretto a un rabbocco imprevisto nel finale. Nel ’49 è invece un cedimento meccanico a negare il successo al pilota dell’Illinois, gravemente ustionato nell’incendio che avvolge la pista dopo il violento impatto con il muro. La corsa si risolve quindi in un remake del 1947, con Rose che rompe però nel finale lasciando libero Holland di portare a casa il terzo successo consecutivo per patron Lou Moore.
Seduti, da sinistra, Tony Hulman, Eddie Rickenbacker e Wilbur Shaw siglano l’accordo che sancisce il passaggio dello Speedway all’imprenditore dell’Indiana. indystar.comMauri Rose, qui immortalato con il suo team manager Lou Moore, nel 1948 si conquista per la terza volta un posto sul Borg Warner Trophy. indycar.comDuke Nalon sfiora la vittoria nel biennio ’48-’49 sull’indomabile Kurtis Novi. indycar.com
Il 1950, anno in cui la 500 miglia assegna punti per il nascente mondiale di Formula 1 nonostante l’incompatibilità del regolamento tecnico (cilindrata per i motori sovralimentati di 3 litri a Indy contro 1,5 in F1), vede il dominio in prova del rookie Walt Faulkner, che centra pole e record della pista. In gara è però Johnnie Parsons a prendere il largo, trionfando con la sua Kurtis-Offy quando la pioggia obbliga la sospensione della corsa dopo 138 giri. Per la terza volta in pole, Duke Nalon e la Novi non vanno molto lontano neanche nel 1951 in una corsa dominata nella seconda parte da Lee Wallard, che trionfa nel tripudio generale nonostante un ammortizzatore rotto e varie abrasioni dovute alle fortissime vibrazioni. Il 1952 segna poi l’inizio di un’era tecnica, quella dei roadsters, che resisterà per quasi quindici anni. Così soprannominati da Bill Vukovich per una vaga somiglianza con le tipiche vetture stradali, si tratta di modelli di forma bassa e allungata, con il motore in posizione anteriore e disassato sulla sinistra, mentre l’abitacolo è normalmente posto sulla destra a fianco dell’albero motore, con lo scopo di abbassare il più possibile il centro di gravità ed assecondare le curve. È però un’altra grande novità tecnica a fare scalpore in qualifica. La pole va infatti a Fred Agabashian alla guida di una vettura a motore diesel della Cummins, tornata già nel 1951 grazie a una concessione di cilindrata di ben 6,5 litri rispetto ai 3 litri delle vetture sovralimentate a benzina/metanolo. Oltre a conquistare la prima (e unica) pole di una vettura diesel, la Cummins è anche la prima vettura dotata di turbocompressore, rispetto alla sovralimentazione meccanica usata dai concorrenti. Agabashian è però presto costretto al ritiro in una gara dominata da Bill Vukovich, che però finisce a muro nel finale per un problema allo sterzo, lasciando la vittoria alla vettura da dirt track del giovane Troy Ruttman, sopravvissuto anche a un principio di incendio durante una sosta. L’edizione vede anche l’unica partecipazione ufficiale della Ferrari, con Alberto Ascari che dice addio alla corsa dopo 40 giri per la rottura di una ruota, mentre occupa una rispettabile ottava piazza.
Pronunciato ufficialmente per la prima volta da Wilbur Shaw, il comando “Gentlemen, start your engines” nel 1953 porta bene a Vukovich, che conquista un meritato successo dopo aver dominato per 195 giri in una delle edizioni più calde di sempre. “Mad Russian” (in realtà di origine serba) concede poi il bis nel 1954, piegando il focoso rookie Jimmy Bryan, alle prese con un ammortizzatore rotto. Nel ’55 Vukovich potrebbe quindi centrare il traguardo sfuggito a Shaw, le tre vittorie consecutive, ma i due sono invece uniti a pochi mesi di distanza da un tragico destino. Il direttore dello Speedway muore infatti nell’ottobre del ’54 in un incidente aereo, mentre Vukovich perde la vita in gara volando fuori pista dopo essere rimasto coinvolto in un incidente a catena. La tragedia offusca la bella vittoria del grande pilota e meccanico Bob Sweikert, che centra la prima affermazione a Indy per il leggendario capo meccanico AJ Watson, bissata l’anno dopo dal veloce e spettacolare rookie Pat Flaherty, che parte in pole e capitalizza sulle solite sfortune della Novi di Paul Russo.
Le scomparse di Vukovich e di Manny Ayulo in prova si sommano nella stagione ‘55 agli incidenti che costano la vita a Larry Crocket, Mike Nazaruk, Jerry Hoyt e Jack McGrath, oltre al tremendo incidente che a Le Mans lascia sul terreno 80 vittime. Un bilancio inaccettabile per la AAA, che a fine stagione abbandona il mondo delle competizioni. Senza ente sanzionatore per la 500 miglia, Tony Hulman decide allora di fondare la sua organizzazione, il United States Auto Club (USAC), che nei decenni seguenti patrocinerà non solo la 500 miglia e il National Championship di cui essa fa parte, ma anche campionati midget, sprint car e stock car.
Dopo aver risollevato lo Speedway, nel biennio ’56-’57 Tony Hulman apporta inoltre il primo grande rinnovamento alla struttura, affrontando prima la riasfaltatura della pista (a eccezione del rettilineo principale, completato nel ’61), poi la costruzione del muretto divisorio tra lo stesso rettilineo e la pit lane e infine realizzando una nuova sede di uffici e direzione gara al posto della ormai decadente Pagoda, risalente agli anni ’20. Il ’57 vede anche una leggera riduzione di cilindrata (2,8 litri per i sovralimentati e 4,2 per gli aspirati), ma soprattutto un’evoluzione del concetto di roadster introdotta dal geniale ma squattrinato George Salih, che investe anche la sua casa su una vettura con motore inclinato di 72° rispetto all’asse verticale, nel tentativo di abbassare ulteriormente il baricentro. Il concetto è vincente, perché nel finale la migliore guidabilità consente al veterano Sam Hanks di avere la meglio sulla potentissima Novi di Paul Russo, centrando un successo da libro Cuore a ritiro ormai annunciato. La favola continua poi nel ’58 quando è Jimmy Bryan a trionfare in un’edizione ricordata anche per l’enorme incidente multiplo del primo giro che costa la vita a Pat O’Connor. Le tragedie proseguono purtroppo anche l’anno dopo, con le morti in prova di Bob Cortner e Jerry Unser (fratello maggiore di Bobby e Al) che spingono verso i primi modelli di tute ignifughe. La corsa va alla Watson-Offy di Rodger Ward, che ha la meglio su Jim Rathmann anche grazie a un’innovazione introdotta da AJ Watson, gli air jacks pneumatici per il sollevamento della vettura, che riducono notevolmente il tempo speso in pit lane.
Storica pole position nel 1952 della Cummins diesel turbocompressa di Fred Agabashian. indycar.comUno dei più grandi di sempre allo Speedway, nel ’54 Bill Vukovich centra il secondo successo consecutivo. usatoday.comSam Hanks vince nel 1957 sulla innovativa Salih, caratterizzata da un centro di gravità molto più basso rispetto ai roadsters tradizionali. indycar.comUna folla oceanica attende la partenza dell’edizione 1957. indycar.com
La sfida tra i due si rinnova nell’edizione che apre il decennio forse più entusiasmante nella storia della corsa. Nella seconda metà gara Ward e Rathmann ingaggiano infatti un esaltante duello fatto di sorpassi e controsorpassi, fino a quando il campione uscente non comincia a vedere le tele dei propri pneumatici, lasciando strada nel finale a Rathmann, che dopo tre secondi posti coglie finalmente il meritato successo. Cinquant’anni dopo la prima edizione, nel 1961 la 500 miglia scopre due nuove leggende in Parnelli Jones, che da rookie conduce a lungo prima di perdere un cilindro, e AJ Foyt, rallentato da un rabbocco imprevisto nel finale e poi furiosamente in recupero sul poleman Eddie Sachs, che a due giri dal termine deve fermarsi per un cambio gomme d’emergenza, lasciando il successo a SuperTex. L’edizione passa alla storia anche per la scomparsa in prova di Tony Bettenhausen, favorito della vigilia e tra i più affermati piloti dell’epoca, oltre che per il debutto del due volte campione del mondo Jack Brabham, che con la sua Cooper-Climax ripropone il concetto di motore posteriore, conquistando un buon nono posto. Nel ’62 Parnelli Jones abbatte il muro delle 150 mph, dominando poi la corsa fino a quando un guasto ai freni lo lascia attardato durante le soste. Ad approfittarne è quindi Rodger Ward, che trionfa ancora precedendo di poco il compagno Len Sutton.
Ispirato da Brabham, Dan Gurney debutta intanto su una vettura a motore posteriore, sotto gli occhi di Colin Chapman, che nel ’63 iscrive due Lotus 25-Ford opportunamente adattate per lo stesso Gurney e Jim Clark. Lo scozzese si piazza in seconda fila sulla sua agile monoscocca inseguendo da subito Jones, che dalla pole va in fuga lasciando alle Lotus (molto più parche nei consumi) il comando durante le soste. Più che Clark, sempre all’inseguimento, nel finale la minaccia maggiore per Jones è una perdita d’olio che gli fa rischiare una bandiera nera, mai esposta. Tra le polemiche il californiano porta quindi a casa un successo comunque meritato, con Clark che si rifà comunque l’anno successivo, conquistando la pole in una griglia ormai divisa tra roadsters e imitazioni della Lotus. La corsa assume però subito connotati tragici quando nel gruppo Dave MacDonald va in testacoda in curva 4, innescando un incidente a catena e un enorme incendio in cui perde la vita insieme al popolarissimo Eddie Sachs. L’incendio porterà l’anno successivo all’impiego del metanolo come unico combustibile ammesso, in quanto estinguibile con l’acqua. La corsa, sospesa per la prima volta nella storia per un incidente, riprende due ore dopo e quando le Lotus di Clark e Bobby Marshman sono messe KO rispettivamente da una sospensione e una perdita d’olio, la lotta per la vittoria si riduce ai roadsters di Foyt e Jones, con il primo a prevalere quando un incendio in pit lane costringe il campione uscente al ritiro. In piena guerra delle gomme, con la Goodyear impegnata a rovesciare il regno quarantennale della Firestone, è a quest’ultima che Chapman si rivolge nel ‘65 per gommare la sua Lotus 38 e risolvere i problemi indotti dalle Dunlop impiegate nei due anni precedenti. Il risultato è il dominio totale di Clark, che si vede soffiare la pole da Foyt ma in gara poi comanda per 192 giri, centrando agevolmente il successo.
La griglia del ’66, ormai dominata da vetture a motore posteriore e divisa, oltre che tra Goodyear e Firestone, anche tra motori Ford e Offenahuser (in alcuni casi addirittura turbosovralimentati), è comandata dal rookie del ’65 Mario Andretti, che è però presto costretto al ritiro. Jim Clark, passato dal British Green al bianco rosso STP, è ancora protagonista, ma incappa in due testacoda che lasciano campo libero al veloce ma spesso sfortunato Lloyd Ruby, a lungo in testa ma tradito dal motore Ford dopo 150 giri. Il comando passa così alla Lola del giovane Jackie Stewart, che però è a sua volta costretto al ritiro a 8 giri dalla fine, lasciando la vittoria al compagno Graham Hill, che conquista così la famosa Triple Crown, avendo già vinto la 24 ore di Le Mans e il Gran Premio di Monaco. L’invasione di team e piloti europei prosegue nel 1967, ma a fare notizia è la Paxton schierata da Mister STP Andy Granatelli per Parnelli Jones. La vettura, spinta da una turbina da elicottero Pratt&Whitney montata alla sinistra dell’abitacolo in un telaio tubolare, è inoltre dotata di quattro ruote motrici e freno aerodinamico. Qualificatosi prudenzialmente in seconda fila, già al primo giro Jones non ha difficoltà nel superare il poleman Andretti e dominare la corsa fino a 4 giri dal termine, quando la rottura di un banalissimo cuscinetto a sfera lo costringe ad accostare sull’erba, lasciando il successo a Foyt, che entra nel novero dei tre volte vincitori slalomeggiando tra varie vetture incidentate all’ultimo giro.
Tutt’altro che scoraggiato, Granatelli unisce le forze con Colin Chapman, presentando nel ’68 tre Lotus 56 dotate di un’innovativa forma a cuneo e spinte dalla stessa turbina Pratt&Whitney, nonostante le limitazioni all’aspirazione imposte dall’USAC. In una delle 500 miglia più memorabili di sempre, che vede scontrarsi il meglio dei piloti europei e americani oltre alle più svariate tecnologie (motori aspirati, sovralimentati, turbocompressi, turbocompressi 4 ruote motrici, a turbina a 4 ruote motrici), la lotta per la vittoria si restringe alla Lotus del poleman Joe Leonard e alla Eagle-Offy Turbo di Bobby Unser, culminando in un’ultima ripartenza a 10 giri dalla fine che vede la Lotus parcheggiare ammutolita nell’erba della curva 1, vittima di un altro banale guasto, mentre il futuro Uncle Bobby conquista la prima vittoria a Indy di un motore turbocompresso, della Eagle e della famiglia Unser. Il ritiro di Leonard regala il secondo posto a Dan Gurney, che fa a sua volta la storia diventando il primo pilota a usare un casco integrale in gara. Il ’68 è anche l’ultimo anno al via di una vettura a motore anteriore, la Mallard dell’indomabile Jim Hurtubise, che per anni si opporrà alla dittatura delle “posteriori” cercando in vano di qualificare il suo roadster. Il decennio si chiude infine nel 1969 con la vittoria di Mario Andretti, che dopo aver distrutto la sua Lotus in prova beneficia dei problemi ai rivali principali, Foyt e Ruby, portando al successo la vecchia Brawner Hawk. In victory lane Mario è poi protagonista di uno degli scatti più iconici nella storia della 500 miglia, “subendo” il wet kiss di patron Andy Granatelli.
Il due volte vincitore Rodger Ward da il benvenuto nel ’61 al bicampione del mondo Jack Brabham, al debutto su una Cooper-Climax a motore posteriore. indycar.comParnelli Jones beve il latte in victory lane nel ’63 al termine di una lunga lotta con Jim Clark. indycar.comJim Clark fa la storia nel ’65 conquistando sulla sua Lotus 38-Ford la prima vittoria di un’auto a motore posteriore. indycar.comAJ Foyt nel ’67 raggiunge Shaw, Meyer e Rose affermandosi come il pilota più vincente degli anni ’60. indycar.comParnelli Jones e il team Granatelli al gran completo attorno alla Paxton STP a turbina del 1967. indycar.comLe Lotus 56 a turbina di Leonard e Hill precedono la Eagle-Offy Turbo del vincitore ’68 Bobby Unser. granatelliturbines.comAndy Granatelli festeggia in victory lane il campione 1969 Mario Andretti. indycar.com
Il ritiro della Lotus, successivo al clamoroso incidente in prova di Andretti, segna l’inizio del reflusso dell’ondata europea abbattutasi sullo Speedway negli anni ’60. Sempre meno piloti di F1 si cimentano infatti nella corsa, che a metà degli anni settanta torna ad essere un evento strettamente nord americano in termini di partecipanti, raccogliendo comunque l’interesse della McLaren, che per buona parte del decennio si spartisce il grosso della griglia con la Eagle di Dan Gurney. Dopo le prime avvisaglie del ’69, nel 1970 molte vetture cominciano a mostrare dei dispositivi aerodinamici applicati al corpo vettura. Tra queste la PJ Colt-Ford del team Vel’s Parnelli, gestita dal leggendario capo meccanico George Bignotti e affidata ad Al Unser, che conquista la pole in una griglia di soli motori turbo, egualmente divisi tra Ford e Offenhauser. La gara, disturbata inizialmente dalla pioggia, non ha storia, con Unser che conduce ben 191 giri, precedendo Mark Donohue, rookie of the year uscente con il team Penske. Il 1971 vede il debutto della nuova McLaren M16, che chiude definitivamente l’era delle monoposto a sigaro ispirandosi chiaramente alla Lotus 72 di F.1. La vettura, che aggira il bando agli alettoni collegando una vistosa appendice aerodinamica posteriore al cofano motore, domina le prove con Donohue, anche se è il pilota ufficiale Peter Revson a centrare la pole. Dopo un incidente in pit lane che vede incredibilmente la pace car investire dei fotografi, Donohue domina la corsa fino alla rottura del cambio, lasciando spazio ad Al Unser, che concede il bis dopo il ritiro del compagno di squadra Leonard.
Con la liberalizzazione degli alettoni e l’avvento delle gomme slick, nel ‘72 le prestazioni cominciano però a diventare inquietanti: Bobby Unser, in pole su una Eagle-Offy a 195.9 mph di media, migliora infatti di oltre 17 mph il record di Revson. In gara però il vincitore ’68 non va oltre il 31° giro e quando anche il dominatore Gary Bettenhausen (figlio dell’indimenticato Tony) si ritira a 20 tornate dal termine, è il compagno Donohue a raccogliere il comando, andando a conquistare il primo successo per Roger Penske e la McLaren. Con ali sempre più grandi e potenze che superano ormai i 1000 cavalli, l’edizione ’73 potrebbe vedere battuto anche il muro delle 200 mph, ma in realtà passa alla storia come l’edizione più buia nella storia della 500 miglia. Dopo la morte in prova di Art Pollard, un clamoroso incidente in partenza vede infatti la McLaren di Salt Walther finire contro le reti, prendere fuoco e poi concludere la sua corsa capovolta. L’incidente causa diversi feriti tra gli spettatori, costando serie ustioni e lesioni alle mani al pilota che però, incredibilmente, sopravvive. Dopo un rinvio di ben due giorni per pioggia, è Al Unser a comandare la corsa quando Swede Savage va in testacoda in curva 4, impattando contro il muretto interno, che fa esplodere letteralmente la sua Eagle. Nella confusione che segue Armando Teron, addetto alla tabella del californiano, muore subito dopo investito da un mezzo dei commissari mentre si reca sul luogo dell’incidente. La corsa riprende un’ora più tardi e dopo il ritiro di Unser è Gordon Johncock a trovarsi in testa quando la pioggia interrompe definitivamente la gara al 133° giro. Savage sopravvive incredibilmente all’incidente, morendo un mese più tardi per complicazioni subentrate ai numerosi interventi subiti.
Drastiche misure si rendono necessarie per calmierare le prestazioni delle vetture, cui viene imposto un controllo della sovralimentazione tramite valvola pop off, oltre a una riduzione nelle dimensioni degli alettoni e dei serbatoi. Il muretto esterno viene inoltre alzato da 91 a 163 cm mentre il muro interno all’uscita della curva 4 viene reso parallelo al rettilineo principale. Nel ’74, ultimo anno di guerra delle gomme per via dell’abbandono della Firestone, AJ Foyt parte dalla pole sulla sua Coyote-Foyt (motore turbo derivato dal Ford ’64), ma il più veloce è Rutherford, che recupera dalla 25° piazza e va definitivamente in testa quando il texano abbandona per una perdita d’olio, centrando il successo per il team McLaren. Foyt si ripete in prova nel 1975, raggiungendo Rex Mays a quota quattro pole position. Dopo aver guidato le prime fasi di gara però nulla può contro la Wildcat-DGS (una versione più aggiornata del turbo Offy) di Wally Dallenbach, che domina fino al 162° giro, tradito da un pistone. Bobby Unser, in lotta con Johnny Rutherford per la vittoria, emerge quindi in testa dall’ultimo pit stop ed è dichiarato vincitore quando un nubifragio si abbatte poco dopo sullo Speedway.
La pioggia è ancora protagonista nell’edizione ’76, che vede il poleman Rutherford superare Foyt poco prima di metà gara, quando la corsa viene sospesa al 103° giro e un nuovo scroscio di pioggia impedisce qualche ora dopo la ripresa delle ostilità, consegnando il successo al pilota McLaren. Per SuperTex l’appuntamento con la quarta, storica affermazione è comunque solo rimandato. Nel 1977 Tom Sneva entra nella storia, sfondando ufficialmente il muro delle 200 mph, complice anche la riasfaltatura della pista. È però Johncock a guidare la corsa più a lungo di tutti, per poi ritirarsi al 179° giro e lasciare il comando a Foyt, che controlla Sneva fino al traguardo conquistando sulla sua Coyote il tanto atteso trionfo. A festeggiarlo nel tripudio generale anche Tony Hulman, all’ultima grande gioia legata allo Speedway prima di venire a mancare nell’ottobre seguente per un improvviso malore.
La prima edizione dell’era post Hulman vede Tom Sneva centrare un’altra pole a oltre 200 mph di media sui quattro giri, dovendosi però ancora accontentare della seconda piazza in gara, beffato questa volta dalla Lola di Al Unser, che conquista il terzo successo personale, il primo per il motore Cosworth DFX (versione turbo del celeberrimo DFV di F.1) e per Jim Hall, al debutto a Indy. Dopo il primo anno di rodaggio, il geniale ex pilota e ingegnere texano nel ’79 decide però di schierare una sua monoposto, la Chaparral 2K, prima Indycar a seguire la strada dell’effetto suolo introdotta in F.1 dalla Lotus 78. In un’edizione che vede al via ben 35 vetture (il numero più alto dal 1933) per via di una diatriba sulla valvola pop-off, Al Unser domina la prima metà gara, prima di incontrare problemi al cambio e lasciare strada al fratello Bobby, che incalzato dal giovane compagno di squadra Rick Mears nel finale accusa a sua volta un guasto alla trasmissione. Con Foyt staccato quasi di un giro, Mears ha quindi gioco facile nel controllare la situazione e cogliere il primo successo allo Speedway, che coincide con la prima affermazione di un telaio Penske e la seconda del motore Cosworth, all’inizio di un dominio che durerà un decennio.
La fine degli anni ’70 segna anche una rivoluzione nella situazione politica attorno all’USAC e alla 500 miglia. L’antiquata, se non addirittura assente, strategia di gestione e promozione del National Championship comincia infatti a non essere più tollerata dalle squadre, alle prese con costi in continua ascesa contrapposti a montepremi striminziti e scarsa appetibilità per gli sponsor, a causa di un’esposizione mediatica inesistente al di fuori della Indy500. Tale malcontento, riassunto in una serie di punti e possibili correttivi, viene espresso inequivocabilmente nel 1978 nel White Paper di Dan Gurney, rigettato però dall’USAC, sempre più sorda alle richieste dei proprietari, che a fine stagione prendono la storica decisione di riunirsi in un’associazione, la CART, e fondare un omonimo campionato in opposizione all’USAC. Nel giro di pochi anni la nuova serie si afferma, potendo contare su tutti i grandi nomi del panorama motoristico, cui si aggiungono progressivamente squadre e piloti della morente Can-Am. Di converso, il campionato USAC affronta un calo verticale di prestigio, partecipanti e corse in calendario, riducendosi dopo il 1985 alla sola 500 miglia. Le due organizzazioni raggiungono quindi nell’83 un compromesso: la Indy500 continua ad essere un evento organizzato dall’USAC con regole indipendenti dal campionato CART, che però può annoverare la corsa nel suo calendario. Una situazione che si manterrà grosso modo stabile fino al 1995.
Al Unser domina il biennio ’70-’71 sull’iconica Colt Johnny Lightning. indycar.comNel 1972 Mark Donohue regala la prima vittoria alla McLaren e a Roger Penske. pinterest.comNel 1977 Janet Guthrie fa la storia diventando la prima donna a qualificarsi per la Indy500. motorsportretro.comAJ Foyt è accompagnato da Tony Hulman nel giro d’onore per il quarto successo conquistato nel 1977. indycar.com
Dopo i problemi di affidabilità del ‘79 la Chaparral si ripresenta nel 1980 con i favori del pronostico, grazie anche alle vittorie a raffica mietute nel campionato CART. Johnny Rutherford, passato alla corte di Jim Hall dopo l’abbandono di Al Unser e la chiusura del programma McLaren, domina prove e gara, entrando nel ristretto cerchio dei tre volte vincitori, che presto deve fare però spazio a un nuovo membro. Bobby Unser replica infatti a Lone Star, aggiudicandosi la doppietta pole-gara nel 1981 a bordo di una Penske PC9B dalle minigonne finalmente efficaci. La vittoria è però poco limpida, perché all’uscita da un pit stop sotto regime di bandiera gialla Unser, in testa, supera tutte le vetture davanti a se posizionandosi dietro la pace car, una manovra non permessa dal regolamento e che viene punita dall’USAC nei risultati ufficiali del giorno dopo, in cui Unser viene retrocesso al secondo posto dietro Mario Andretti. Al termine di una lunga battaglia legale, in ottobre l’USAC rovescia però la decisione, giudicata eccessiva, perché non punendo Unser durante la corsa la direzione gara ne avrebbe di fatto avallato la condotta.
Vinta a tavolino l‘edizione ’81, la Penske perde invece in pista la 500 miglia del 1982. Dopo un incidente in partenza innescato da Kevin Cogan che elimina tra gli altri Foyt e Andretti, la corsa si risolve in un lungo confronto tra Rick Mears e Gordon Johncock. In un finale infuocato in cui le urla del pubblico arrivano a coprire il rombo dei motori, negli ultimi 10 giri il campione ’79 recupera ben 11” all’avversario, non riuscendo però a passare un determinatissimo Johncock, che al volante di una Wildcat precede la Penske di 16 centesimi nel finale più ravvicinato fino ad allora. Le delusioni per la Penske continuano nell’83 quando è Tom Sneva, due volte campione nazionale non confermato dal Capitano nel ’79, a conquistare una popolarissima vittoria per George Bignotti e il telaio March, che colma il vuoto lasciato dalla McLaren, riaffermando la bontà delle monoposto inglesi. L’edizione, che vede la pole position del rookie Teo Fabi, passa agli annali anche per il debutto di Al Unser Jr., che nel finale ostacola a più riprese Sneva nel tentativo di ritardare l’inevitabile sorpasso sul padre Al Senior. Accantonato momentaneamente il proprio telaio, Roger Penske si rifà però nel biennio successivo, quando Rick Mears conquista un successo schiacciante su una March nei colori Pennzoil, mentre a Danny Sullivan sono necessari due tentativi nel 1985 per passare definitivamente Mario Andretti e andare a vincere nonostante un testacoda, nell’edizione passata alla storia per lo “spin and win”.
La March si conferma poi vincente anche nel 1986, quando al termine di una entusiasmante battaglia a tre con Kevin Cogan e Rick Mears, Bobby Rahal prende il comando in una ripartenza all’ultimo giro, conquistando un commovente successo per Jim Trueman, patron del team Truesports, che nove giorni più tardi perde una lunga battaglia con il cancro. Dopo il successo del ’69 e l’illusione del 1981, l’87 sembra invece l’anno buono per il ritorno al successo di Mario Andretti, che su una Lola spinta dal nuovo e potente motore Ilmor conquista la pole e domina la gara, potendo contare su un giro di vantaggio quando una valvola lo pianta in asso a 23 giri dalla fine. Il comando è quindi rilevato da Roberto Guerrero, che però fa spegnere il motore durante l’ultima decisiva sosta, regalando il successo ad Al Unser, che raggiunge Foyt a quota quattro successi in una gara che né lui, sostituto dell’infortunato Ongais, né la sua March 86C, ritirata in fretta e furia dalla hall di un albergo, avrebbero dovuto disputare. Dopo una vittoria per certi versi fortuita Roger Penske, ormai davanti a Lou Moore come proprietario più vincente della storia, domina il campo nel 1988 anche nelle vesti di costruttore, con Rick Mears che sulla nuova PC17 domina la seconda parte di gara dopo aver recuperato un giro, centrando il terzo successo personale. Nel 1989 il californiano entra poi ulteriormente nella storia arrivando a quota cinque pole position, una più di AJ Foyt e Rex Mays. La gara è però dominata da Emerson Fittipaldi su una Penske del team Patrick, che negli ultimi giri se la deve vedere però con un agguerrito Al Unser Jr., con cui ingaggia un feroce duello nel traffico. L’epilogo arriva a tre miglia dalla fine, quando un contatto ruota a ruota in curva 3 spedisce Unser contro il muro, consegnando al due volte campione del mondo un diamante preziosissimo nella sua collezione di successi.
Nel 1980 Johnny Rutherford porta a casa il terzo successo personale al volante della Chaparral 2K “Yellow Submarine”. speedville.comBobby Unser conquista nel 1981 un discusso terzo successo allo Speedway. indycar.comGordon Johncock precede di un soffio Rick Mears nel 1982. pinterest.comDanny Sullivan recupera da questo testacoda per conquistare l’edizione 1985. forbes.comNel 1987 Al Unser raggiunge AJ Foyt a quota 4 successi. pinterest.com
Il brasiliano, passato al team Penske insieme alla Marlboro, si candida al bis l’anno successivo, dominando per 92 giri prima di incontrare problemi di gomme e lasciare spazio ad Arie Luyendyk. Superato Rahal nel finale l’olandese coglie infatti un insperato successo per Vince Granatelli Jr., segnando anche un record di gara che resisterà ben 23 anni. Il biennio successivo apre invece un nuovo capitolo dell’Andretti Curse, la maledizione degli Andretti, ormai entrata di diritto tra le tradizioni della 500 miglia. Michael Andretti domina infatti l’edizione 1991 tenendo a bada Fittipaldi, che però è costretto ad abbandonare nel finale da problemi al cambio. Dopo l’ultimo pit stop, Michael si ritrova così dietro all’altra Penske di Rick Mears, che supera in ripartenza, all’esterno, con una manovra che manda in visibilio i 400.000 presenti. Sembrerebbe finita, ma al giro seguente Rick restituisce il favore, superando Michael all’esterno della curva 1 a una velocità impossibile. Dopo di che il californiano se ne va, sfruttando solo alla fine tutto il potenziale della sua vettura e raggiungendo di diritto AJ Foyt e Al Unser nel circolo dei quattro volte vincitori. Nel 1992 invece Andretti è semplicemente intoccabile, dominando la corsa sulla sua Lola motorizzata dalla rientrante Ford Cosworth, che annichilisce la concorrenza…fino a 11 giri dalla fine, quando un banale guasto costringe Michael alla resa, lasciando basiti Paul Newman e Carl Haas, che a distanza di 5 anni rivivono la terribile delusione patita con papà Mario nel 1987. Senza più il giovane Andretti a rubare la scena, la corsa si risolve in un duello finale in cui la Galmer di Al Unser Jr. ha la meglio sulla Lola di Scott Goodyear per soli 43 millesimi, ad oggi il margine di vittoria più ridotto di sempre. Oltre ad aggiungere un altro membro della famiglia Unser sul Borg Warner Trophy, Al Jr. fa la storia anche in victory lane, spiegando a Jack Arute le sue lacrime con un “you just don’t know what Indy means” che, dopo il muro colpito nel 1989, lascia pochi dubbi sul posto occupato dalla 500 miglia nel cuore di Little Al.
Il 1992 passa agli annali anche per il nuovo record della pista fatto segnare da Roberto Guerrero su una Lola spinta da un motore Buick stock block, ovvero derivato dalla serie. Sempre restìa al cambiamento, dopo aver accettato giocoforza il pensionamento del mitico 4 cilindri Offenhauser ad opera del DFX Cosworth, che domina ininterrottamente dal ’78 all ’87, per incentivare la partecipazione di piccoli team e costruttori americani l’USAC ammette unità di derivazione di serie con distribuzione ad aste e bilancieri e due sole valvole per cilindro, cui garantisce un largo vantaggio in termini di pressione di sovralimentazione rispetto alle unità a doppio albero a camme in testa. Nonostante le potenze clamorose raggiunte, che già 7 anni prima di Guerrero permettono a Pancho Carter di conquistare pole e record nel 1985, la cronica mancanza di affidabilità non permette però a questi motori, in larga parte prodotti dalla Buick, di essere competitivi in gara prima con i Cosworth DFX e poi con i più moderni Ilmor-Chevrolet, che monopolizzano la scena dall’88 fino al ’93, creando una netta separazione della griglia in quanto inizialmente disponibili solo per i top teams. Il ritorno della Cosworth con il suo potente XB cambia in parte le carte in tavola, ma dopo la delusione del ’92 la casa americana dovrà aspettare ben tre anni per arrivare al successo. In pole nel 1993 con Arie Luyendyk, la Ford sfiora la vittoria con il campione del mondo in carica Nigel Mansell, che riporta l’attenzione internazionale sulla 500 miglia ma è beffato dalla Penske di Emerson Fittipaldi in una ripartenza nel finale.
Penske che fa ancora la storia nel ’94, sfruttando l’apertura a propulsori ad aste e bilancieri non più solo di serie per presentare tre vetture spinte da un potentissimo motore realizzato in gran segreto dalla Ilmor (poi targato Mercedes), con cui Emerson Fittipaldi sfiora il terzo successo personale, che arride invece al poleman e neo compagno di squadra Al Unser Jr., premiato da un errore del brasiliano negli ultimi giri. Sommersa di ordini per il ’95, la Ilmor viene poi gelata dalla decisione dell’USAC di ridurre drasticamente la pressione massima per i motori di tale tipologia. Mossa che segna il punto più basso nei rapporti tra le due organizzazioni, con l’USAC e la dirigenza dello Speedway, passata nel ’90 a Tony George, nipote di Tony Hulman, sempre più indisposti verso la CART e i contratti di leasing sui motori, che di fatto garantiscono il controllo della griglia a Ilmor e Ford. L’eterno conflitto di personalità tra George e i proprietari di team appesantisce poi la lunga discussione per un regolamento tecnico più sostenibile, sfociando nella creazione a partire dal ’96 di un nuovo campionato concorrente alla CART, la Indy Racing League, basato su vetture più semplici ed economiche e incentrato sulla 500 miglia.
L’edizione del ’95, l’ultima quindi a far parte anche del calendario CART, vive subito un incredibile shock quando le Penske di Unser e Fittipaldi, private del potentissimo motore Mercedes, mancano incredibilmente la qualificazione. La corsa è poi un susseguirsi di colpi di scena, dal solito calo delle Menard ex-Buick, in pole con Scott Brayton, agli incidenti che tolgono di mezzo Andretti, Vasser e Pruett, fino alla penalizzazione di Scott Goodyear, che getta al vento una vittoria storica anche per la Honda e la rientrante Firestone, superando la pace car all’ultima ripartenza e lasciando il successo alla Reynard-Ford del giovane Jacques Villeneuve, penalizzato di due giri in precedenza per la stessa infrazione.
In attesa delle nuove vetture in arrivo nel ’97, la prima edizione della corsa sotto le insegne IRL vede impegnate le stesse vetture dell’anno prima ma diversi piloti, a causa del boicottaggio delle squadre CART, indignate dalla decisione di Tony George di riservare 25 dei 33 posti in griglia ai piloti stabilmente impegnati nel suo campionato. La riasfaltatura invernale permette ad Arie Luyendyk di segnare nuovi record sul giro e in qualifica, ma la pole va ancora a Scott Brayton. La gioia dura poco però per il team Menard, sconvolto qualche giorno più tardi dalla scomparsa del suo pilota in un incidente in curva 2 causato da una foratura. Tony Stewart, promettentissimo rookie e compagno di Brayton, è protagonista delle prime fasi sotto una pressione spaventosa. Quando anche lui come altri attesi protagonisti rimane però attardato da vari contrattempi, è Alessandro Zampedri a far sperare nel primo successo tricolore dai tempi di De Palma. Tradito da un ammortizzatore, l’italiano è però costretto a lasciare spazio nel finale a Buddy Lazier, che trionfa nonostante un recente infortunio alla schiena. Un violentissimo incidente multiplo all’ultimo giro costa invece caro a Zampedri, che finendo contro le reti della curva 4 subisce gravi infortuni agli arti inferiori. Il bresciano è comunque ai nastri di partenza nel 1997, quando l’arrivo dei nuovi di motori stock block 4 litri aspirati pone fine all’era dei turbo, in vigore con poche variazioni dalla fine degli anni ’60. La griglia, composta da 35 vetture in seguito al ripescaggio di due esclusi risultati più veloci di alcuni qualificati “di diritto”, vede impegnati veterani, giovani speranze delle ruote scoperte e semi sconosciuti piloti delle divisioni Midget e Sprint Car. Non sorprende quindi che la vittoria vada al campione ’90 Arie Luyendyk, che dopo aver conquistato la pole (15 mph più lenta del ’96, lo scarto più grande dal ‘72) ha la meglio nel finale sul compagno di squadra Scott Goodyear, ancora una volta vicinissimo al successo.
Dopo la prima vittoria del telaio G Force, nel ’98 tocca però alla Dallara imporsi con Eddie Cheever, che dopo aver chiuso miracolosamente il budget alla vigilia della corsa, sopravvive a un contrattempo iniziale per poi contenere d’autorità gli attacchi di Buddy Lazier negli ultimi giri. La casa italiana si ripete poi nel ’99, quando un’incomprensione con il doppiato Carlson spedisce contro il muro il poleman Luyendyk, lasciando campo libero a Kenny Brack. In un finale da brivido lo svedese si ritrova però a inseguire Robby Gordon, in disperata attesa di una bandiera gialla che però non arriva, lasciando il californiano a secco all’inizio dell’ultimo giro. Lo svedese riporta quindi in victory lane patron Foyt 22 anni dopo l’ultimo trionfo su Coyote, oltre alla Oldsmobile, al terzo successo consecutivo.
Rick Mears riprende il comando da Michael Andretti nel finale dell’edizione ’91 conquistando il suo quarto successo. pinterest.comAl Unser Jr. precede di soli 43 millesimi Scott Goodyear, conquistando nel 1992 l’edizione con il minor margine di vittoria di sempre. indycar.comBattendo Luyendyk e Mansell in una serrato finale, nel ’93 Emerson Fittipaldi entra ancora di più nella storia conquistando il secondo successo a Indy. Vittoria però ricordata anche per lo sgradevole “incidente” del dopo gara, in cui il brasiliano rifiuta di bere il tradizionale latte, assaggiando invece il succo d’arancia di sua produzione. L’episodio creerà una spaccatura quasi insanabile con l’irremovibile pubblico della 500 miglia. blog.ims.comAl Unser Jr. fa il bis nel ’94, portando al successo il potentissimo motore Ilmor-Mercedes ad aste e bilancieri. indycar.comArie Luyendyk porta a casa nel 1997 la sua seconda 500 miglia al debutto del nuovo pacchetto tecnico voluto da Tony George. pinterest.comKenny Brack riporta in victory lane patron AJ Foyt 22 anni dopo il quarto successo da pilota. indycar.comJim Nabors intona, poco prima del comando di accensione dei motori, Back Home Again in Indiana, tradizione entrata stabilmente a far parte del cerimoniale nel 1946 e portata avanti da Nabors quasi ininterrottamente dal 1972 fino al ritiro dalla scene, nel 2014. Sullo sfondo la nuvola di palloncini, tradizione risalente al 1948, rilasciati durante la strofe finali. nbcsports.com
Dopo tre anni di guerra, piccoli segnali di distensione tra CART e IRL arrivano nel 2000, anno in cui la lega di Tony George adotta motori aspirati 3,5 litri non più derivanti dalla produzione. Il team Ganassi, tricampione CART, partecipa infatti all’evento con Juan Pablo Montoya e Jimmy Vasser. Nell’atteso duello tra i campioni delle due serie in qualifica è Greg Ray a spuntarla sul colombiano, che dopo l’uscita di scena del rivale è però il dominatore della corsa, portando al successo la sua G Force Aurora dopo aver condotto per ben 167 giri. La sfida sale di livello l’anno successivo, quando oltre al team Ganassi anche Roger Penske fa il suo ritorno con due vetture, imitato da Barry Green, che schiera una Dallara Oldsmobile per Michael Andretti. Scott Sharp conquista la pole, ma è solo il primo dei big IRL ad abbandonare la corsa, complicata dalle difficili condizioni atmosferiche. Determinato a lavare l’onta del ’95 e chiudere la bocca a quanti lo avevano deriso nel debutto IRL della sua squadra a Phoenix, Roger Penske centra uno storico 1-2, con Helio Castroneves a prendere il comando su Gil De Ferran dopo l’ultima sosta. La Dallara centra anche il terzo posto con Michael Andretti, che precede quattro vetture del team Ganassi in una classifica dominata dai team CART. Due sconfitte di fila sono troppe per la lega di Tony George, che nel 2002 può però contare tra le sue fila lo stesso team Penske, fuoriuscito clamorosamente dalla CART a fine 2001. Dopo la pole di Junqueira, pilota CART di Chip Ganassi, la corsa è dominata dal rookie Tomas Scheckter, che getta però tutto alle ortiche con un banale errore in curva 4. In un remake del ’99 Castroneves, mai protagonista, evita l’ultima sosta e prende il comando nella speranza di una bandiera gialla. La neutralizzazione questa volta arriva, ma proprio quando Paul Tracy affianca il brasiliano in curva 3 con la bandiera bianca ormai in vista. Nonostante l’assenza di prove certe su chi fosse davanti al momento della bandiera gialla, il brasiliano viene dichiarato vincitore e a nulla valgono le proteste del team Green, vittima probabilmente di una decisione più politica che sportiva.
Dopo 6 anni di dominio quasi incontrastato Oldsmobile/Chevrolet, nel 2003 l’arrivo di Toyota e Honda insieme ai migliori team di una serie CART ormai al collasso cambiano le carte in tavola. Nonostante i migliori sforzi di Scheckter e Kanaan, Roger Penske coglie il terzo successo consecutivo, impresa centrata in precedenza solo da Lou Moore ma che non riesce a Castroneves, che su Dallara è preceduto dalla G Force del compagno De Ferran nella prima vittoria di un costruttore giapponese, la Toyota. Dopo il successo sfiorato nel ’95 e i trionfi in CART è però la Honda negli anni successivi a fare la voce grossa, interpretando meglio dei rivali la nuova formula 3 litri. Nel 2004 è infatti Buddy Rice a regalare al colosso nipponico il primo successo, piazzando la sua G Force del team Rahal davanti alle Dallara di Tony Kanaan e Dan Wheldon. L’inglese si rifà però l’anno successivo, superando nelle ultime fasi un altro pilota del team Rahal, la rookie Danica Patrick, beniamina del pubblico e in testa nel finale per via di una diversa sequenza di rifornimenti.
A dieci anni dall’inizio della guerra IRL-CART(che dopo il fallimento del 2003 sopravvive sotto il nome ChampCar) è chiaro a tutti come l’unico risultato del conflitto sia stato lo svilimento di una corsa il cui primato di popolarità è ormai seriamente minacciato dalla Daytona 500 Nascar, al punto che a fine 2005 Chevrolet e Toyota abbandonano il campo, lasciando alla sola Honda l’onere, più che l’onore, di fornire i motori ai 33 partenti del 2006. Dan Wheldon, passato dal team di Michael Andretti alla corte di Chip Ganassi, domina la corsa, rimanendo però attardato nel finale, deciso da una ripartenza a 5 giri dalla bandiera a scacchi che vede il rientrante Michael Andretti comandare sul figlio Marco, strepitoso rookie. La fine della Maledizione degli Andretti sembra a un passo, ma entrambi non fanno i conti con il poleman Sam Hornish, che dopo un contrattempo in pit lane si fa largo a ruotate nel traffico dell’ultimo restart, avventandosi in volata sul giovane Marco, che precede per 63 millesimi. Il rookie of the year è protagonista anche dell’edizione 2007, condizionata dalla pioggia, che alla fine vede prevalere Dario Franchitti, bravo a recuperare da un contrattempo iniziale e trovarsi al posto giusto quando la pioggia rifà capolino sullo Speedway a 34 giri dal termine.
Il 2008 vede invece il dominatore della stagione Scott Dixon centrare la doppietta pole-vittoria, avendo la meglio su un coriaceo Vitor Meira e Marco Andretti. L’edizione conta alla partenza solo telai Dallara e motori Honda, determinando una forzata condizione di monomarca, lontana anni luce dal concetto ispiratore della corsa. Piuttosto che un livellamento dei valori in campo, il binomio Dallara-Honda promuove un duopolio Penske-Ganassi che domina l’edizione 2009, con il poleman Helio Castroneves che approfitta dei guai di Dixon e Franchitti per conquistare il terzo liberatorio successo allo Speedway, arrivato a cancellare una difficile diatriba legale con l’agenzia delle entrate nell’inverno precedente.
Juan Pablo Montoya domina da rookie nel 2000, riportando un clamoroso successo per il team Ganassi. pinterest.comSam Hornish mette a segno una strepitosa rimonta soffiando sul traguardo al rookie Andretti l’edizione 2006. Bill Watson, indycar.comHelio Castroneves festeggia la sua terza affermazione nell’edizione 2009.
Nel 2010 è invece lo scozzese a candidarsi a una vittoria che non appare a rischio fino agli ultimi giri, giocati sui consumi, in cui Franchitti evita l’ultimo rabbocco incalzato da Wheldon, finché il brutto incidente che chiude la stagione di Mike Conway non provoca la neutralizzazione della corsa con la bandiera a scacchi ormai in vista. Il tre volte campione IndyCar conduce a lungo anche l’edizione successiva, quella del centenario, alternandosi con il compagno Dixon. In un finale fotocopia del 2010 Franchitti è però costretto questa volta a una sosta d’emergenza, lasciando il comando al rookie Hildebrand, che sembra lanciato verso una facile vittoria quando all’ultima curva finisce incredibilmente a muro nel tentativo di doppiare Kimball. Pur riuscendo a tagliare il traguardo, il californiano si vede sfilare il comando negli ultimi metri da Dan Wheldon, al secondo successo in carriera, il primo per il minuscolo team di Bryan Herta. Lo sfortunato pilota inglese, scomparso qualche mese più tardi nell’ovale di Las Vegas, da il nome al nuovo telaio Dallara, il DW12, che inaugura una nuovo pacchetto tecnico comprendente anche nuovi motori 2,2 turbo prodotti da Chevrolet, Honda e Lotus, con quest’ultima che abbandona al termine della prima stagione. Dopo un dominio Chevy in prova è però la Honda a dominare nel 2012 una corsa che, a differenza delle edizioni precedenti, offre un altissimo numero di sorpassi per via della poderosa scia prodotta dalle nuove vetture. Alla fine a spuntarla è ancora Franchitti, che dopo una lunga battaglia con il compagno Dixon resiste all’avventuroso attacco dell’arrembante Takuma Sato, a muro all’ultimo giro.
L’edizione 2013 è invece un festival Chevrolet, con le vetture dei team Andretti, Penske, KV e ECR a scambiarsi continuamente il comando fino all’ultima ripartenza, in cui il leader Hunter-Reay non può nulla contro Tony Kanaan e il giovane Munoz. Il successivo botto a muro di Franchitti obbliga poi al definitivo intervento della pace car, che sancisce la popolarissima vittoria del brasiliano, in testa in 8 delle 11 500 miglia disputate. Lo scontro tra motoristi torna d’attualità nell’edizione 2014, decisa da uno spettacolare duello tra la Chevrolet di Castroneves e la Honda di Ryan Hunter-Reay, con quest’ultimo che prendendo definitivamente il comando all’inizio dell’ultimo giro riporta alla vittoria gli Stati Uniti 8 anni dopo Sam Hornish. L’ equilibrio tra i due marchi viene però sconvolto nell’edizione 2015 degli aerokits, le vesti aerodinamiche prodotte dai costruttori con lo scopo di ampliare la varietà tecnica, che sono però protagonisti di una serie di allarmanti incidenti nelle prove. Dopo gli opportuni correttivi la gara scorre poi relativamente liscia, riducendosi a un dominio delle vetture Chevrolet dei team Penske e Ganassi, con Juan Pablo Montoya che sale in cattedra nel finale, avendo la meglio su Will Power e Scott Dixon e centrando il secondo successo personale (a 15 anni dal trionfo con il team Ganassi), il 16° per Roger Penske.
L’intervento equilibratore della serie ribalta però la situazione nel 2016, che vede la Honda protagonista in prova con James Hinchcliffe, in pole 12 mesi dopo un incidente quasi fatale in prova, e poi vincente in gara con il rookie Alexander Rossi, bravo a evitare l’ultimo rabbocco e tagliare il traguardo a motore spento, per regalare un altro successo al team di Bryan Herta nella 100° edizione della corsa. Ancora sugli scudi nel 2017, la Honda può contare anche sui servigi di Fernando Alonso, che due mesi prima della corsa decide di saltare il Gran Premio di Monaco per tentare l’assalto alla Indy500 su una vettura del team Andretti. Dopo i tremendi incidenti di Bourdais in prova e del poleman Dixon nei primi giri, la corsa vede il ritiro di diverse vetture Honda, tra cui lo stesso Alonso, osannato dal pubblico, risolvendosi in un duello finale in cui Takuma Sato si riprende il successo mancato nel 2012, negando a Helio Castroneves la tanto agognata quarta vittoria, quattro anni dopo la sconfitta patita da Hunter-Reay. Il successo del giapponese porta inoltre a 4-2 il totale di vittorie Honda rispetto a Chevy dall’introduzione della formula turbo 2,2 litri.
Da sinistra, la Marmon Wasp, vincitrice nel 1911 con Ray Harroun, la Dallara-Honda di Dan Wheldon vincitrice nel 2011 e la Kurtis-Offy vincitrice nel 1961 con AJ Foyt. Dana Garrett, indycar.comDan Wheldon, vincitore a 100 anni di distanza da Ray Harroun, immortalato con la moglie Susie e i figli Sebastian e Oliver. Brett Kelley, indycar.comTerzo successo per Dario Franchitti nel 2012 dopo un duro confronto con Takuma Sato. pinterest.comLa partenza della 100° edizione nel 2016. Russ Lake, racingnation.comDopo la vittoria nell’edizione del centenario con Dan Wheldon, Alexander Rossi regala a Bryan Herta la vittoria anche nella 100° edizione. Dana Garrett, indycar.com
Primo giorno di prove a Indianapolis in preparazione della Indy 500. La giornata è stata divisa in due sessioni, la prima esclusiva dei “veterani” (chi ha partecipato all’edizione precedente), la seconda aperta a tutti, in particolare ai debuttanti e piloti che chiamati a completare il programma di riacclimatamento. Tra i primi Zachary Claman De Melo, scelto da Dale Coyne per sostituire l’infortunato Pietro Fittipaldi nonostante la ridottissima esperienza sugli ovali. Entrambe le sessioni sono state a tratti interrotte da piovaschi, oltre che dalla minaccia di fulmini. La prova mattutina si è chiusa con un tris del team Penske, lungamente impegnato in prove di gruppo, con Pagenaud che sfruttando una generosa scia ha preceduto di ben 4 decimi Castroneves e Newgarden. Il brasiliano ha poi concluso in testa anche la seconda sessione davanti a Carpenter, a sua volta motorizzato Chevy.
Giornata di prove tranquilla a Indianapolis, senza interruzioni per pioggia o incidenti. Le uniche bandiere gialle sono infatti arrivate per ispezione della pista e per recuperare la vettura di Tony Kanaan, rimasto fermo in uscita dalla pit lane. Dopo la buona prova dei piloti Chevy del primo giorno, la Honda ha monopolizzato le prime quattro posizioni con ben quattro team differenti. Marco Andretti è stato il più veloce superando la barriera delle 227 miglia davanti a Dixon, Sato e Wickens. Charlie Kimball ha invece guidato la pattuglia Chevy precedendo Kanaan, sempre tra i più veloci, Chaves e Carpenter, con Servia e Karam a chiudere la top ten. Andretti e Dixon hanno poi commentato il comportamento della vettura nel traffico, sottolineando come i sorpassi al vertice non dovrebbero essere un problema, mentre nel traffico la scia appare così forte da rendere difficile completare una manovra di sorpasso anche in caso di errore di chi precede.
Terza giornata di prove a Indianapolis e ancora una volta il tempo più veloce arriva la mattina, questa volta dalla vettura motorizzata Honda di Graham Rahal, l’unico a superare la barriera delle 226 miglia. Il pilota americano, che in conferenza stampa non ha mancato di sottolineare la difficoltà di gestire il sottosterzo nel gruppo con questo nuovo UAK, ha preceduto Tony Kanaan, costantemente ai piani alti della classifica, oltre al leader della seconda giornata Marco Andretti. A seguire ben sei Chevrolet a chiudere la top ten, con l’unica intromissione di Zachary Claman De Melo. Ancora tempo perfetto sullo Speedway, le uniche bandiere gialle sono arrivate per operazioni di ispezione della pista e, negli ultimi minuti, per una strisciata contro il muro della curva 4 di JR Hildebrand, finito in sottosterzo nel traffico.
Un Fast Friday con cielo coperto e un breve accenno di pioggia nelle ultime ore, ha confermato l’alto livello di competitività della griglia, rendendo difficile ogni previsione sull’esito del bump day di sabato. Marco Andretti ha ancora una volta comandato la lista dei tempi, grazie a una generosa scia che lo ha portato alla velocità media di 231.8 mph (Bourdais, il più veloce nel 2017, girò a 233.1 mph), precedendo di poco Robert Wickens e Ed Carpenter.
In vista delle qualifiche, molta più importanza ricopre però la classifica dei giri senza scia, che invece mostra al vertice un tris del team Penske, con Will Power, unico a lambire il muro delle 230 miglia, in vantaggio di quasi un miglio orario su Newgarden e Pagenaud. Poco più indietro l’altra Chevrolet guidata da Ed Carpenter, a precedere la prima Honda di Sebastien Bourdais, che a un anno dal terribile schianto in curva 2, appare ancora una volta il più credibile candidato alla pole della casa giapponese. La top ten è occupata poi da altre tre vetture Chevy, con Pigot e Danica Patrick a precedere Castroneves, 10°. Tra loro le altre ormai consolidate punte Honda, Rossi e Wickens.
Nel tentativo di schiodarsi dall’ultima posizione, James Davison ha forse osato troppo con le regolazioni, finendo contro il muro della curva 2 tradito dal vento. L’australiano, fermo a 224.7 mph, appare a questo punto un probabile candidato all’eliminazione, a meno che il team Foyt non riesca a portare la sua macchina al livello delle titolari di Kanaan (227,9 mph) e Leist (227,6 mph). Davanti a Davison appaiono a rischio almeno 7 piloti che non hanno superato il muro delle 226,5 mph. A sorpresa, Graham Rahal non è andato oltre le 225,4 mph, potendo comunque contare sul supporto di Servia (227,1) e Sato (226,8). Allo stesso modo, Pippa Mann, Jay Howard e Sage Karam potrebbero beneficiare delle regolazioni dei compagni più veloci. Più critica è invece la situazione di Kyle Kaiser (226,0) e Gabby Chaves (226,5), che dovranno trovare con le loro forze quelle frazioni di miglio che potrebbero fare la differenza. Il californiano, il più attivo di tutti con 62 giri completati, appare al momento il secondo più probabile candidato all’eliminazione.
Indianapolis 500 – Fast Friday – 18/05/2018
Pos.
Pilota
Squadra
Pacchetto
N
Sponsor
Media
Tempo
Distacco
1
Marco Andretti
Andretti
Honda
98
US Concrete
231.802
38,8262
–.—-
2
Robert Wickens
Schmidt
Honda
6
Lucas Oil
231.732
38,8379
0.0117
3
Ed Carpenter
Carpenter
Chevy
20
Fuzzy’s
231.066
38,9499
0.1237
4
Oriol Servia
Rahal
Honda
64
Manitowac
230.247
39,0884
0.2622
5
Will Power
Penske
Chevy
12
Verizon
229.78
39,1679
0.3417
6
Sebastien Bourdais
Coyne
Honda
18
Sealmaster
229.74
39,1747
0.3485
7
Tony Kanaan
Foyt
Chevy
14
ABC
229.5
39,2157
0.3895
8
Matheus Leist
Foyt
Chevy
4
ABC
229.365
39,2388
0.4126
9
Stefan Wilson
Andretti
Honda
25
Driven
229.273
39,2545
0.4283
10
Alexander Rossi
Andretti
Honda
27
NAPA
229.235
39,2611
0.4349
11
Gabby Chaves
Harding
Chevy
88
Harding
229.135
39,2782
0.4520
12
Helio Castroneves
Penske
Chevy
3
Pennzoil
229.122
39,2804
0.4542
13
Spencer Pigot
Carpenter
Chevy
21
Preferred
229.069
39,2895
0.4633
14
Josef Newgarden
Penske
Chevy
1
Verizon
228.994
39,3024
0.4762
15
Kyle Kaiser
Juncos
Chevy
32
Binderholz
228.87
39,3237
0.4975
16
Simon Pagenaud
Penske
Chevy
22
Menard’s
228.857
39,3259
0.4997
17
Ed Jones
Ganassi
Honda
10
NTT Data
228.646
39,3621
0.5359
18
Charlie Kimball
Carlin
Chevy
23
Fiasp
228.524
39,3831
0.5569
19
Jay Howard
Schmidt
Honda
6
One Cure
228.365
39,4106
0.5844
20
Danica Patrick
Carpenter
Chevy
13
Go Daddy
228.284
39,4245
0.5983
21
Scott Dixon
Ganassi
Honda
9
PNC Bank
228.233
39,4334
0.6072
22
Carlos Munoz
Andretti
Honda
29
Ruoff
228.028
39,4688
0.6426
23
Ryan Hunter-Reay
Andretti
Honda
28
DHL
227.889
39,4929
0.6667
24
Takuma Sato
Rahal
Honda
30
Panasonic
227.782
39,5115
0.6853
25
Conor Daly
Coyne
Honda
17
Usaf
227.7
39,5257
0.6995
26
Sage Karam
D&R
Chevy
24
Wix
227.593
39,5442
0.7180
27
Zachary Claman De Melo
Coyne
Honda
19
Paysafe
227.315
39,5926
0.7664
28
Zach Veach
Andretti
Honda
26
One Thousand One
227.314
39,5928
0.7666
29
James Hinchcliffe
Schmidt
Honda
5
Arrow Electronics
227.262
39,6019
0.7757
30
JR Hildebrand
D&R
Chevy
66
Salesforce
227.242
39,6053
0.7791
31
Pippa Mann
Coyne
Honda
63
Life
227.226
39,6082
0.7820
32
Max Chilton
Carlin
Chevy
59
Gallagher
227.089
39,6321
0.8059
33
Graham Rahal
Rahal
Honda
15
United Rentals
226.811
39,6806
0.8544
34
James Davison
Foyt
Chevy
33
Jonathan Byrd
226.705
39,6991
0.8729
35
Jack Harvey
Shank
Honda
60
Sirius XM
226.611
39,7157
0.8895
Velocità massima
Marco Andretti
237,223 mph
381,691 km/h
Indianapolis 500 – Fast Friday, Tempi senza scia – 18/05/2018
Pur con due sole eliminazioni da determinare, il Bump Day ha mantenuto in pieno le attese di suspense e tensione fino all’ultimo, complice la pioggia, decretando un verdetto incredibile. Avevamo detto che con l’equilibrio tecnico visto nelle prove fare previsioni sui due esclusi sarebbe stato compito arduo, ma mai avremmo pensato di dover raccontare l’esclusione di James Hinchcliffe. In difficoltà nel Fast Friday, il canadese ha avuto la sfortuna di effettuare il suo primo tentativo dopo la prima interruzione per pioggia, arrivata dopo i primi 11 tentativi. Con una temperatura che andava salendo e la pista non più gommata, il Sindaco non è andato oltre le 224,78 mph, buono solo per il 32° posto. Una volta completati i tentativi individuali e superata la seconda interruzione per pioggia, il rito del “bump” si è ridotto ad un’ora di tentativi, tra chi cercava di conquistare un posto in griglia e altri, più fortunati, tornati in pista per entrare nei primi nove e giocarsi la pole domani. Tra i primi Oriol Servia, il più veloce venerdì tra i piloti del team Rahal e ora alle prese con una vettura inguidabile. All’ultima chance dopo due tentativi abortiti, lo spagnolo è finalmente riuscito a completare la sua corsa, nonostante un ultimo giro nettamente più lento dei precedenti.
E’ stato poi il turno di Conor Daly, che dopo aver annullato il secondo tentativo ha sfruttato ogni centimetro di pista tra l’erba e il muro per guadagnarsi un posto in griglia a scapito di James Hinchcliffe. Inspiegabilmente attendista (Graham Rahal, non immediatamente minacciato, aveva già provveduto a migliorare di poco il suo primo tentativo), il canadese ha aspettato l’esclusione per tornare in pista con meno di 15 minuti dal colpo di pistola, salvo poi scoprire un problema a un cerchio nel giro di lancio e tornare in pit lane. Dopo un vano tentativo di Alexander Rossi di entrare in Fast Nine, a meno di due minuti dallo scoccare delle 17:50 Hinchcliffe si è quindi trovato in coda a Pippa Mann, a sua volta fuori dai 33 e all’ultimo tentativo. L’inglese ha preso la pista, ma subito dopo la fine del primo giro, troppo lento, è arrivato il colpo di pistola a sancire la fine delle prove e l’esclusione di entrambi. La Mann in conferenza stampa ha a stento trattenuto le lacrime per il fallimento di un progetto durato un anno, ma ancor più dura è l’esclusione di Hinchcliffe, che dovrà ora spiegare al suo sponsor Arrow un’esclusione inimmaginabile fino a ieri e la relativa mancanza di esposizione mediatica. I loghi della società saranno certamente distribuiti tra le altre vetture del team, ma subito dopo la fine delle prove già circolavano voci di un possibile approdo del canadese sulla vettura di Howard, eventualità già verificatasi (ultimo caso Hunter Reay al posto di Junqueira nel 2011) ma che speriamo non si ripeta. In barba alle nostre previsioni e al dispiegamento di forze dei team Schmidt, Coyne e Rahal, Kyle Kaiser e Gabby Chaves non sono mai stati sfiorati dal pericolo dell’esclusione, piazzandosi agevolmente in mezzo al gruppo. Molto più sudata la qualificazione di James Davison, “on the bubble” fino all’ultimo ma comunque bravo insieme al team Belardi/Foyt a rimettere insieme la macchina dopo lo schianto di ieri e crederci fino alla fine.
Davanti si è invece assistito a un dominio Chevrolet con Castroneves, il più lento ieri tra i piloti Penske, al comando grazie anche al sorteggio favorevole che lo ha visto in pista con le temperature più basse del mattino. Anche più impressionante appare quindi a tal proposito il secondo posto di Carpenter, ultimo in pista tra i big e bravo a mettersi dietro Pagenaud e Power. Considerando anche i tempi del Fast Friday, la pole sarà probabilmente un affare tra l’australiano e il padrone di casa, alla ricerca della terza partenza dall’interno della prima fila. Sebastien Bourdais ha nuovamente capeggiato un contingente Honda con un solo altro rappresentante in Fast Nine, Scott Dixon, settimo e circondato dalle altre Chevy di Pigot, Newgarden e Danica Patrick, che sarà la prima a dare l’assalto alla pole nella sessione decisiva.
Indianapolis 500 – Qualifica, Giorno 1 – 19/05/2018
P.
Pilota
Squadra
Motore
Giro 1
Giro 2
Giro 3
Giro 4
Tempo
Media
Distacco
1
Helio Castroneves
Penske
Chevy
228,740
229,108
229,080
228,749
02:37.2607
228.919
2
Ed Carpenter
Carpenter
Chevy
229,266
228,909
228,686
227,913
02:37.4167
228.692
0,156
3
Simon Pagenaud
Penske
Chevy
228,238
228,440
228,388
228,150
02:37.6845
228.304
0,424
4
Will Power
Penske
Chevy
227,946
228,196
228,250
228,385
02:37.7604
228.194
0,500
5
Sebastien Bourdais
Coyne
Honda
228,336
228,297
227,848
227,882
02:37.8322
228.090
0,572
6
Spencer Pigot
Carpenter
Chevy
228,231
228,288
228,069
227,621
02:37.8588
228.052
0,598
7
Josef Newgarden
Penske
Chevy
228,274
228,248
228,158
227,518
02:37.8608
228.049
0,600
8
Scott Dixon
Ganassi
Honda
228,198
227,946
227,531
227,455
02:38.0457
227.782
0,785
9
Danica Patrick
Carpenter
Chevy
228,031
227,597
227,545
227,269
02:38.1654
227.610
0,904
Qualificati ma esclusi dalla lotta per la pole position
La missione del team Penske nel 2018 è semplice: riportare la Indy500 a Detroit. Ma almeno in qualifica è il secondo team in ordine di importanza, quello di Ed Carpenter, a conquistare la prima pole marchiata Chevrolet dal 2015. Avevamo detto che sarebbe stato un duello tra Carpenter e Power, ma in realtà non c’è stata nessuna contesa. Già dal primo giro il padrone di casa ha messo le cose in chiaro, unico a viaggiare oltre le 230 mph, controllando poi il degrado delle gomme per chiudere anche l’ultimo giro sopra le 229 mph, praticamente la velocità del miglior passaggio fatto registrare da Pagenaud, che si è dovuto accontentare della seconda piazza a quasi 6 decimi di distacco. Terza pole position negli ultimi sei anni quindi per Carpenter, ancora una volta accompagnata dal caloroso saluto del pubblico. Will Power, terzo, non ha osato abbastanza con le regolazioni della sua vettura, precedendo Newgarden, che con i 6 punti conquistati per la quarta piazza allunga in classifica su Rossi, ora a 8 lunghezze. Male Castroneves, ultimo a tentare il colpaccio e alla fine solo ottavo davanti a Scott Dixon. 12 mesi dopo il tremendo incidente in curva 2, Bourdais ha affrontato i suoi fantasmi, portando a casa un buon quinto posto, ammettendo poi con molta onestà di non aver spremuto tutto dalla vettura quando le gomme hanno iniziato a cedere. Lontani dal capo squadra, Spencer Pigot e Danica Patrick si sono comunque ben comportati, centrando la sesta e settima casella di partenza.
Nella sessione per le posizioni tra la 10° e la 33°, sugli scudi il team Foyt, che conquista la quarta fila con Kanaan e Leist, più veloci di Dixon. Saranno accompagnati da Marco Andretti, il migliore di un team Andretti lontano, almeno in qualifica, dalle prestazioni degli ultimi due anni, Le altre vetture si sono piazzate infatti tra la 14° e la 25° piazza, a eccezion di Alexander Rossi, sopravvissuto a quattro giri bizzarri che lo hanno visto rallentare di due miglia a ogni passaggio e precipitare incredibilmente in ultima fila. Discorso simile per Ed Jones, che partirà 29°. Ancora belle prove per i team Carlin (Kimball 15°), Juncos (Kaiser 17°) e Harding (Chaves 22°), mentre proseguono le difficoltà per Rahal e Schmidt, che piazzano Sato e Wickens rispettivamente in 16° e 18° piazza ma tutte le altre auto nelle ultime tre file. Grande prova anche di James Davison, 19° dopo la gran paura del Bump Day.
Indianapolis 500 – Qualifica, Pole Day – 20/05/2018
Ultima giornata di prove a Indianapolis prima del Carburetion Day del venerdì pre gara. In una sessione dedicata a cercare le ultime risposte sul comportamento della vettura in condizioni simili a quelle che presumibilmente si avranno in gara, Sage Karam ha preceduto di oltre un miglio Tony Kanaan in un 1-2 Chevrolet. A seguire Ryan Hunter-Reay, primo tra i piloti Honda, a precedere Alexander Rossi e il duo Penske Castroneves-Power. Marco Andretti ha portato a tre il numero di vetture del padre Michael in top 10, precedendo Claman De Melo e Scott Dixon. Molto più importante dei tempi però, è stato il lavoro svolto dalle squadre per trovare il set up in grado di rendere le vetture gestibili nel traffico. Tutti i piloti hanno infatti sottolineato la difficoltà di sorpasso nel gruppo, per via dell’effetto congiunto di turbolenza e scia, che ha reso la vettura tendenzialmente sottosterzante, determinando un consumo eccessivo delle gomme anteriori. Si è quindi assistito a scelte di assetto radicali per rendere la vettura più guidabile, con il risultato talvolta di indurre sovrasterzo nella vettura. La difficile ricerca della giusta finestra di utilizzo meccanico-aerodinamica potrebbe essere ulteriormente complicata della sensibilità del nuovo UAK alle alte temperature, che riducendo la densità dell’aria provocano una marcata riduzione di efficienza del fondo vettura. Ad oggi (martedì 22/5) per la giornata di gara sono previste temperature nell’ordine dei 30°C.
Quasi tutti i piloti hanno coperto un notevole numero di giri (Will Power 120), a eccezione di Matheus Leist, che ha perso le prime ore di prove per un problema tecnico, e Robert Wickens, a muro in curva 2 dopo solo 3 giri a causa di un improvviso sovrasterzo.
Ultima sessione di prove tranquilla per i 33 partenti della 500 miglia 2018, con Tony Kanaan che ha chiuso in testa la sessione staccando nettamente Scott Dixon in virtù di una generosa scia. All’exploit del brasiliano di casa Chevy la Honda ha risposto piazzando tre vetture di tre squadre diverse tra i primi 5. Dixon ha infatti preceduto Andretti e Bourdais. Kimball ha ancora ben impressionato con il team Carlin chiudendo al quinto posto davanti a Sato, Power e Danica Patrick, in allarme a metà sessione per un problema elettronico che ha costretto il team ECR a riportare la vettura brevemente dietro il muretto della pit lane. Prove come sempre di difficile interpretazione a causa della forte influenza delle scie, considerando soprattutto la discrepanza nelle prestazioni di Andretti (in verità a caccia di scie per tutto il mese) con quelle dei compagni Hunter-Reay, 26°, e Rossi, addirittura 32° nonostante 29 giri all’attivo.
Indianapolis 500 – Carb Day – 25/05/2018
Pos.
Pilota
Squadra
Motore
N
Sponsor
Media
Tempo
Distacco
1
Tony Kanaan
Foyt
Chevy
14
ABC
227.791
39,510
–.—-
2
Scott Dixon
Ganassi
Honda
9
PNC Bank
225.684
39,879
0.3688
3
Marco Andretti
Andretti
Honda
98
US Concrete
225.220
39,961
0.4511
4
Sebastien Bourdais
Coyne
Honda
18
Sealmaster
224.815
40,033
0.5230
5
Charlie Kimball
Carlin
Chevy
23
Fiasp
224.712
40,051
0.5413
6
Takuma Sato
Rahal
Honda
30
Panasonic
224.083
40,164
0.6538
7
Will Power
Penske
Chevy
12
Verizon
223.942
40,189
0.6790
8
Danica Patrick
Carpenter
Chevy
13
Go Daddy
223.653
40,241
0.7310
9
Spencer Pigot
Carpenter
Chevy
21
Preferred
223.584
40,253
0.7435
10
Ed Jones
Ganassi
Honda
10
NTT Data
223.556
40,258
0.7484
11
Oriol Servia
Rahal
Honda
64
Manitowac
223.537
40,262
0.7519
12
Sage Karam
D&R
Chevy
24
Wix
223.278
40,309
0.7986
13
James Davison
Foyt
Chevy
33
Jonathan Byrd
223.241
40,315
0.8053
14
Ed Carpenter
Carpenter
Chevy
20
Fuzzy’s
223.219
40,319
0.8092
15
Josef Newgarden
Penske
Chevy
1
Verizon
223.186
40,325
0.8153
16
Jack Harvey
Shank
Honda
60
Sirius XM
223.098
40,341
0.8311
17
Helio Castroneves
Penske
Chevy
3
Pennzoil
222.913
40,375
0.8646
18
Carlos Munoz
Andretti
Honda
29
Ruoff
222.802
40,395
0.8847
19
Jay Howard
Schmidt
Honda
6
One Cure
222.705
40,412
0.9023
20
Simon Pagenaud
Penske
Chevy
22
Menard’s
222.589
40,433
0.9233
21
Graham Rahal
Rahal
Honda
15
United Rentals
222.526
40,445
0.9349
22
Kyle Kaiser
Juncos
Chevy
32
Binderholz
222.384
40,471
0.9607
23
Zach Veach
Andretti
Honda
26
One Thousand One
222.090
40,524
1.014
24
JR Hildebrand
D&R
Chevy
66
Salesforce
222.027
40,536
1.026
25
Gabby Chaves
Harding
Chevy
88
Harding
221.961
40,548
1.038
26
Ryan Hunter-Reay
Andretti
Honda
28
DHL
221.916
40,556
1.046
27
Robert Wickens
Schmidt
Honda
6
Lucas Oil
221.821
40,573
1.063
28
Matheus Leist
Foyt
Chevy
4
ABC
221.799
40,577
1.067
29
Stefan Wilson
Andretti
Honda
25
Driven
221.763
40,584
1.074
30
Zachary Claman De Melo
Coyne
Honda
19
Paysafe
221.572
40,619
1.109
31
Max Chilton
Carlin
Chevy
59
Gallagher
221.441
40,643
1.133
32
Alexander Rossi
Andretti
Honda
27
NAPA
221.374
40,655
1.145
33
Conor Daly
Coyne
Honda
17
Usaf
219.707
40,964
1.454
Velocità massima
Helio Castroneves
234,101 mph
376,668 km/h
Griglia di Partenza – 102° Indianapolis 500
P
Pilota
Media
Distacco
Pilota
Media
Distacco
Pilota
Media
Distacco
Fila 1
1
Ed Carpenter
229.618
2
Simon Pagenaud
228.761
0,587
3
Will Power
228.607
0,693
Fila 2
4
Josef Newgarden
228.405
0,833
5
Sebastien Bourdais
228.142
1,014
6
Spencer Pigot
228.107
1,039
Fila 3
7
Danica Patrick
228.090
1,050
8
Helio Castroneves
227.859
1,210
9
Scott Dixon
227.262
1,625
Fila 4
10
Tony Kanaan
227.664
1,346
11
Matheus Leist
227.571
1,410
12
Marco Andretti
227.288
1,607
Fila 5
13
Z. Claman De Melo
226.999
1,809
14
Ryan Hunter-Reay
226.788
1,956
15
Charlie Kimball
226.657
2,048
Fila 6
16
Takuma Sato
226.557
2,118
17
Kyle Kaiser
226.398
2,230
18
Robert Wickens
226.296
2,302
Fila 7
19
James Davison
226.255
2,330
20
Max Chilton
226.212
2,361
21
Carlos Munoz
226.048
2,476
Fila 8
22
Gabby Chaves
226.007
2,505
23
Stefan Wilson
225.863
2,607
24
Sage Karam
225.823
2,635
Fila 9
25
Zach Veach
225.748
2,688
26
Oriol Servia
225.699
2,722
27
JR Hildebrand
225.418
2,921
Fila 10
28
Jay Howard
225.388
2,942
29
Ed Jones
225.362
2,961
30
Graham Rahal
225.327
2,986
Fila 11
31
Jack Harvey
225.254
3,037
32
Alexander Rossi
224.935
3,264
33
Conor Daly
224.429
3,625
In una Indianapolis 500 d’altri tempi per difficoltà di guida, imprevedibilità e selezione del gruppo, Will Power porta a casa a 37 anni il successo più importante della sua carriera. Una vittoria che chiude il cerchio per l’australiano, già a un passo dal successo del 2015, che ora aggiunge al campionato conquistato nel 2014 anche un posto sul Borg Warner Trophy. Aldilà del gran ritmo mostrato da Penske e Chevrolet nelle prove, non sorprende che proprio in questa 500 miglia Power abbia finalmente trovata la quadra. Come ampiamente anticipato alla vigilia, gli oltre trenta gradi ambientali hanno esacerbato le caratteristiche del nuovo aerokit, estremamente sensibile alle condizioni ambientali e piuttosto avaro di strumenti correttivi per l’assetto. Alle prese con un livello di deportanza complessiva drasticamente minore rispetto agli anni passati, i piloti sono tornati finalmente a guidare, parzializzando o addirittura chiudendo completamente l’acceleratore in tutte e quattro le curve, sempre sul filo di un’equilibrio in continua evoluzione tra sottosterzo e sovrasterzo. Eterno sostenitore di una riduzione del carico aerodinamico, come in altre occasioni Power ha quindi operato nelle condizioni ideali per mettere a frutto sensibilità e precisione innate, che unite ad una sempre più affinata visione strategica (nelle 500 miglia almeno) e alla determinazione di portare finalmente a casa l’alloro tanto ambito, gli hanno dato una marcia in più quando la corsa è entrata nella fase cruciale.
Nel primo quarto di gara sembrava invece poter essere la grande occasione di Ed Carpenter. Subito in testa al via, il padrone di casa ha condotto agevolmente le prime fasi, prendendo subito margine sulle Penske di Pagenaud e Power, mentre dalla quarta fila Tony Kanaan ha dato spettacolo, portandosi al secondo posto dopo il primo turno di soste. Lenta ma costante anche la progressione di Rossi, in rimonta dall’ultima fila fino al primo incidente della gara, che ha visto il campione uscente Sato franare in curva 3 su Davison, lentissimo a causa di un forte sovrasterzo. Dopo un breve botta e risposta con Kanaan, Carpenter ha continuato a comandare anche dopo la seconda neutralizzazione per l’incidente di Ed Jones in curva 2, primo di una lunga serie di testacoda che ha coinvolto anche i veterani. Poco dopo la ripartenza il pilota degli Emirati è stato infatti imitato da Danica Patrick, fino a quel momento ai margini della top ten, che ha chiuso così tristemente la sua lunga carriera.
Dopo il primo timido tentativo alla prima ripartenza, allo sventolare della bandiera verde Kanaan ha dimostrato di fare sul serio, prendendo il comando su Carpenter e allungando fino al terzo turno di soste, effettuato in regime di corsa libera, quando il brasiliano è stato subito costretto a tornare in pit lane causa una foratura. Dopo un breve periodo comandato da un gruppetto composto da Newgarden, Rahal, Wickens e Munoz, fuori sequenza essendosi fermati durante la neutralizzazione per l’incidente della Patrick, il comando è quindi passato a Power, che nei giri successivi ha visto il suo vantaggio su Carpenter e Pagenaud oscillare in funzione del traffico. Più indietro è continuata la bella rimonta di Rossi, ormai affacciatosi in top ten. A 100 miglia dal traguardo, con ancora il gruppo di Rahal e Newgarden in testa per via del quarto turno di soste dei primi, Bourdais è poi finito in testacoda all’uscita di curva 3, tradito dalla turbolenza di Rossi. L’americano, bravo a sfruttare le incertezze di chi lo precedeva, ha poi dato spettacolo nelle due ripartenze successive, risalendo all’esterno dalla nona alla sesta piazza prima dell’incidente di Castroneves (quinto e in piena lotta per la vittoria) in curva 4, per poi installarsi in terza piazza quando Karam ha imitato il brasiliano appena dopo la bandiera verde.
Con una quarantina di giri da completare è arrivato come sempre il momento delle decisioni, tra una strategia basata sulla velocità con probabile rabbocco nel finale, o l’alternativa di approfittare della neutralizzazione e sperare in altre bandiere gialle per vedere il traguardo senza ulteriori soste. Del secondo avviso sono stati tra gli altri Servia, Wilson e, a sorpresa ma fino a un certo punto, Dixon, a lungo in top ten ma senza mai dare l’impressione di poter dare la zampata. Le speranze di vittoria del neozelandese sono però finite quasi subito, perché 10 giri dopo la ripartenza tutto il gruppo dei primi ha visitato la pit lane, con Power che non ha fatto fatica una volta tornato in pista a mettere nel mirino Dixon, in disperata attesa di una bandiera gialla. L’australiano, primo dei piloti sulla strategia “principale” davanti a Carpenter, Rossi, Hunter-Reay e Pagenaud, è sembrato quindi in controllo della gara, ma a 12 giri dal termine il botto di Kanaan in curva 2 ha aperto un nuovo scenario. Con la minaccia del velocissimo Carpenter alle spalle, alla ripartenza del 194° giro Power si è infatti ritrovato a inseguire il trio Servia-Wilson-Harvey. Superato subito lo spagnolo, autore di una ripartenza da dimenticare dopo aver dato spettacolo in tutti i restart precedenti, l’australiano ha faticato più del previsto per inquadrare Harvey, mentre Wilson davanti sembrava poter prendere margine e conquistare un’incredibile vittoria. Entrambi hanno però tentato il bluff, puntando ad una definitiva (e tutt’altro che improbabile) neutralizzazione piuttosto che a vedere il traguardo. Quando la bandiera gialla non è arrivata Wilson e Harvey hanno quindi dovuto imboccare la pit lane a quattro giri dal termine, lasciando libero un incontenibile Power di conquistare il liberatorio trionfo, il 17° a Indy per Roger Penske e il terzo dal 2012 per la Chevrolet.
Alle sue spalle Carpenter, autore di una gran gara ma forse meno determinato dell’australiano, ha portato a casa il miglior risultato di sempre a Indy, meditando però sulla posizione persa durante lo soste. Il padrone di casa ha preceduto Dixon, insperatamente sul podio al termine di una prova complicata, ma bravo nel finale a contenere Alexander Rossi, autore di una rimonta strepitosa dall’ultima fila e ancora una volta segnalatosi come il pilota più spettacolare del campionato. L’americano ha preceduto ancora il compagno Hunter-Reay, autore di una prova solida ma meno efficace nelle ripartenze, al pari di Pagenaud, nel treno di testa per tre quarti di gara ma un po’ sparito negli ultimi 50 giri. Carlos Munoz si è confermato specialista dello Speedway completando una prova consistente e piazzandosi al top tra i piloti non full time (fatta eccezione per Carpenter). Il colombiano, settimo, ha preceduto anche Newgarden, questa volta tradito dalla decisione di Tim Cindric (comunque comprensibile data la presenza di Power e Pagenaud davanti) di spaiare le strategie. L’americano ha preceduto Robert Wickens, miglior rookie, bravo a vedere il traguardo in una corsa difficilissima, sopravvivendo alle infinite insidie del gruppo. La top ten è stata quindi chiusa da Graham Rahal, non il più veloce tra i piloti Honda ma autore di una eccellente rimonta dal fondo. Delusione per Marco Andretti, in lotta con Hunter-Reay per tutta la gara ma rimasto attardato nel finale, e per Spencer Pigot, che ha perso il treno buono dopo una penalità a metà gara per eccesso di velocità in pit lane.
Dopo due anni di dominio Honda, al netto delle belle rimonte di Rossi e Hunter Reay la Chevrolet ha semplicemente dominato l’evento, monopolizzando sia la lista dei giri veloci a pista libera che le velocità massime. Raramente si è infatti vista una vettura Honda riuscire a completare un sorpasso su una Chevy non disturbata dal traffico.
Guardando la classifica non possiamo infine che confermare le nostre continue proteste verso un sistema di punteggio insensato quanto antisportivo. I punti doppi permettono infatti a Power di sovvertire un deficit di 43 punti e passare al comando con due lunghezze di vantaggio su Rossi (arrivato 4°, non ultimo…) e ben 10 sull’ex leader Newgarden. Bourdais, uscito dall’Indy GP con soli 26 punti di ritardo da Newgarden si ritrova ora a 75 punti da Power (che precedeva di 17…). James Hinchcliffe, clamorosamente eliminato in qualifica, passa invece da 34 a 99 punti di ritardo precipitando dalla 5° alla 10° piazza, 2 sole posizioni più in alto di Ed Carpenter, 12° con due sole corse all’attivo. Dispiace dirlo ma un campionato serio non dovrebbe aver bisogno né di punti doppi né di giri regalati ai doppiati per movimentare la situazione, specie se già spettacolare di suo.
102° Indianapolis 500 – Ordine d’arrivo – 27/05/2018
Chi mi conosce sa che l’automobilismo è la mia grande passione e l’IndyCar la mia serie preferita. Ho sviluppato un’attrazione per questa categoria fin dal lontano ’96, quando vidi per la prima volta la 500 miglia di Indianapolis, trasmessa su Telemontecarlo. Negli anni successivi, pur concentrando la mia attenzione sulla rincorsa al titolo di Schumacher e della Ferrari, il seme della passione piantato quel 26 maggio 1996 è lentamente cresciuto, superando le difficoltà dettate da una copertura quasi inesistente nelle tv in chiaro e dall’assenza di altre fonti di informazione oltre Autosprint, che compravo saltuariamente e che nel corso degli anni aveva sempre più ridotto la propria attenzione verso le corse americane.
Dopo quella Indy 500 non avevo più avuto modo di vedere gare IndyCar, ma quelle sensazioni di eccitazione, velocità, rischio condensate in quella frase – “entrano in curva a 370 all’ora” – sentita in telecronaca, continuavano a farmi considerare quelle corse come qualcosa di esotico, divertente e intrinsecamente “cool”. Sfogliando Autosprint avevo anche scelto, semplicemente sulla base dei loro nomi, i miei piloti preferiti, tali Greg Moore e Helio Castroneves, di cui non conoscevo neanche la faccia. Per capire quanto strampalato potesse essere il mio tifo, ricordo di aver festeggiato a lungo nell’estate 2000 per una vittoria di Castroneves in un posto chiamato Mid Ohio. Risultato di cui venni a conoscenza per caso grazie al televideo. Greg, che ho poi imparato ad apprezzare per qualità ben più importanti di un nome simpatico, perse la vita sull’ovale di Fontana nel ’99, cosa che scoprii solo qualche anno dopo.
Dopo quel primo contatto del ’96, mi riavvicinai seriamente all’IndyCar (in quel caso alla CART) nel 2001, quando Italia Uno trasmise in diretta le corse di Lausitzring e Rockingham, le prime in Europa dopo oltre vent’anni. La pioggia e i recenti attentati terroristici di New York e Washington avevano messo a rischio la disputa dell’evento tedesco, senza però smorzare il mio entusiasmo verso un appuntamento che avevo tanto atteso. L’eccitazione per la gara fu poi ulteriormente amplificata dalla bella prestazione di Alex Zanardi, rovinata nel finale da una strategia che sembrava averne compromesso la vittoria. Avevo lo sguardo un po’ perso nel vuoto nel momento in cui le telecamere inquadrarono la sua vettura fuori controllo e centrata poco dopo da Tagliani. Nei mesi successivi ho seguito attentamente il recupero del bolognese, sviluppando una venerazione che dura tuttora. Parallelamente, pur sostenendo con passione imprese e cadute di un giovane Montoya in Formula 1, continuavo ad approfondire il mio interesse per le corse americane, seguendo il mio “pupillo” Castroneves, già da allora fonte della mia disperazione, dopo aver perso il titolo contro Sam Hornish nel 2002 e Scott Dixon nel 2003. Ricordo in particolare l’ultima gara di quella stagione, che cercai di decifrare in qualche modo guardando per un po’ il segnale incomprensibile del canale Tele+, che trasmetteva l’evento sul satellite.
La svolta, quella vera, è arrivata nel 2004, quando Sportitalia ha acquisito i diritti della Indy Racing League, permettendomi di assistere finalmente all’intero campionato. Da quel momento la mia passione è decollata, raggiungendo vette ossessive che mi spingevano a registrare tutte le corse e riguardarle più volte nel giro di pochi mesi. Contemporaneamente portavo avanti una convinta opera di conversione, alla stregua dei vegani tanto di moda oggi, esortando appassionati o meno di motosport a interessarsi al mio campionato preferito. Col tempo, il passaggio all’università e la maggiore indipendenza conquistata hanno poi fatto sviluppare nella mia mente un’idea, apparentemente irrealizzabile ma naturale sviluppo della mia passione: andare a vedere l’IndyCar dal vivo, nel suo luogo sacro:
Indianapolis
Avevo ricevuto un cospicuo assegno dalla Regione Sardegna come premio per aver conseguito il diploma a pieni voti, investendo la somma nel mio sostentamento quotidiano ma con una promessa da parte dei miei genitori: “quando vorrai andare da qualche parte, quei soldi saranno lì”. Gli anni però passavano, più veloci dei miei progressi all’Università, che con mille sforzi nel 2012 hanno però portato finalmente al conseguimento della laurea triennale. Ero a metà del percorso, avevo raggiunto il primo obiettivo e avevo davanti due mesi, agosto e settembre, di totale libertà. Eppure non feci nulla, a parte grandi giri in bici e giornate passate a guardare le Olimpiadi.
Tante volte in quegli anni avevo detto frasi tipo: “una volta laureato vorrei andare a Indianapolis” o, “un giorno andrò a Indianapolis” e ancora, “se devo fare un viaggio non mi interessano le grandi città, io voglio Indianapolis, e poi Le Mans”…ma ammettiamolo, suonavano vere e realistiche quanto i proclami di Coulthard e Barrichello a inizio anno: “questa sarà la mia stagione”. Non lo era mai.
Sembrava qualcosa più grande di me, che al massimo ero andato in gita a Barcellona e non avevo mai viaggiato da solo. Una sortita a Le Mans invece poteva anche starci, da un punto di vista organizzativo ed economico appariva sicuramente più abbordabile e sarebbe stata una buona palestra nel caso avessi mai tentato il “piano A”. Ma non ero convinto, anche a causa di una crescente disaffezione per il motorsport, con un ambiente europeo sempre più finto e corroso dai soldi e un’IndyCar affetta da una disorganizzazione avvilente.
Eppure dopo alcuni mesi di avvisaglie, un giorno di metà gennaio 2013 la scintilla si è accesa, nel più improbabile dei modi. Avevo passato la mattinata a casa di alcuni colleghi, dove il mio gruppo di lavoro si era riunito per la più classica e inutile delle esercitazioni universitarie. In un momento di pausa il discorso era caduto sul motorsport e, come spesso accadeva, le mie invettive sulla Formula 1 e gli elogi all’IndyCar venivano accolti con prese in giro e derisione da parte dei miei colleghi, monotematici adepti della “massima serie”, incapaci di formulare un pensiero o un giudizio vagamente indipendente da quello del resto della massa istruita dai media. Finito il lavoro ero tornato a casa riflettendo sulla discussione, che in breve generò in me un unico pensiero, di rivalsa: un “adesso vi faccio vedere io”, che ha poi preso la forma di un viaggio fino a quel momento solo sognato.
Un esame era imminente e avrei dovuto studiare per tutto il pomeriggio, ma il tarlo era ormai entrato nella mia testa e non potevo far altro che assecondarlo, riprendendo le mie ricerche su costi dei biglietti aerei, hotel ancora disponibili, costi di soggiorno, biglietti della pista per tutto il fine settimana, attività nel week end di gara, macchine esposte nel museo, mezzi di trasporto e itinerari da seguire.
Prima di cena avevo poi parlato con mia madre, una telefonata lunghissima in cui il suo immediato supporto l’aveva costretta, suo malgrado, a subire il riassunto di quanto da me appreso nella serata, con la voce che tremava dall’emozione per qualcosa che sembrava impossibile e invece stava accadendo.
Mi immaginavo a chiacchierare con i piloti durante le sessioni di autografi, speravo di vedere le Penske bianco rosse nel museo, sognavo di fare una foto e scambiare due battute con Rick Mears e parlare in italiano con Mario Andretti che chissà, magari colpito dal viaggio mi avrebbe procurato un pass per la zona dei garages. Mi vedevo baciare la linea d’arrivo, quella iarda di mattoni ultimo ricordo dei tempi eroici in cui tutta la pista era ricoperta dei rossi “bricks” (da cui il soprannome “Brickyard” della pista). Insomma, nelle settimane successive ho avuto modo di dare ampio spazio alla mia immaginazione, cominciando però anche a curare gli aspetti più pratici e concreti della questione.
La prima cosa da fare era bloccare una stanza d’albergo, in quanto i posti alla portata dei comuni mortali diminuivano di ora in ora, oltre a prenotare il volo. Con internet ormai chiunque sarebbe in grado di organizzare una vacanza, ma francamente mi sono stancato in fretta di ricerche incrociate hotel+volo e confronti vari, per cui ho deciso di affidarmi a un’agenzia, opzione che mi dava più sicurezza oltre a permettermi di instaurare un’assicurazione su ritardi e possibili inconvenienti.
Dopo mille considerazioni basate su costo, distanza dalla pista, mezzi di trasporto disponibili e ovviamente recensioni di altri viaggiatori, ho preso un rischio finendo per scegliere un hotel chiamato Econo Lodge, parte di un complesso di strutture alberghiere nei pressi dell’aeroporto di Indianapolis, che non godeva di grande fama ma chiedeva “solo” 300€ per un soggiorno di 5 notti.
Avevo infatti deciso di arrivare il giovedì sera (23 maggio, la gara era fissata per il 26) e ripartire il martedì mattina, in modo da avere un giorno in più in caso di pioggia la domenica della gara. Oltre a una questione di costi, la durata del mio soggiorno era ovviamente legata anche a problemi scolastici, cadendo Indianapolis in un periodo, fine maggio, abbastanza critico in quanto pieno di pre-esami per i quali avrei studiato tutto il trimestre. Anche per il volo avevo accettato quello che appariva un buon compromesso tra costi e tempo trascorso in aeroporto. Sarei arrivato a Indianapolis seguendo il percorso Cagliari-Roma-Boston-Indy, mentre al ritorno sarei passato per New York, dove era prevista una lunga attesa. I biglietti andata e ritorno mi sono costati in tutto 760€, una tariffa più che favorevole per un viaggio così lungo e frenetico.
Contemporaneamente avevo ordinato anche i biglietti per la gara e gli altri giorni in pista. Scegliere il posto da cui seguire la 500 miglia significa sempre rinunciare a qualcosa e decidere quale aspetto dell’evento attrae di più. Chi è affascinato dalla storia e dalla pomposità della manifestazione di solito cerca di stare sul rettilineo d’arrivo, il più vicino possibile alla iarda di mattoni, sacrificando un po’ la visione del tracciato. Chi è più interessato alla gara vera e propria cerca invece un posto in curva, il più in alto possibile, in modo da vedere la maggior parte della pista. Considerando che, incredibilmente, questa sarebbe stata la mia prima corsa dal vivo, ho privilegiato la competizione. I posti migliori in curva 1 erano partiti da parecchio, per cui avevo scelto di accomodarmi in curva 3, da cui avrei potuto osservare praticamente ¾ di pista. La spesa totale non ha superato i 120€, alla faccia di chi va a Monza a regalare metà del suo stipendio a Ecclestone e complici.
C’erano poi diverse pratiche burocratiche da sbrigare. Non essendo mai uscito dall’Unione Europea non avevo il passaporto, per l’ottenimento del quale è stato necessario un esborso, tra bolli e tasse varie, di circa 90 euro, oltre a un passaggio in questura per la raccolta delle impronte digitali e della retina. L’ultimo tassello, l’autorizzazione a entrare nel suolo americano (detta ESTA, costo 14 euro), ha segnato il punto di non ritorno, il viaggio era programmato e non restava che sopportare l’attesa e concentrarsi sullo studio. Solo quando tutto era ormai pronto, a fine febbraio, ho lasciato trapelare ad amici e colleghi le miei intenzioni, un po’ come chi va a fare l’esame di guida senza dirlo a nessuno per non attirarsi malasorte e dover sopportare i commenti di un eventuale fallimento. Già da allora, il terrore di fare una cazzata ed essere rispedito a casa da Roma mi perseguitava.
L’arrivo a marzo del passaporto e ad aprile dei biglietti per la gara hanno scandito le tappe di avvicinamento, insieme ai miei esami, in particolare uno di Sistemi di lavorazione andato particolarmente bene. Peccato che qualche settimana prima della partenza il professore abbia fissato il secondo parziale proprio nei giorni del mio viaggio, spostandolo dietro mia insistenza al giorno successivo il mio ritorno, cosa che mi costringe incredibilmente a far conoscere il suolo americano anche ad alcuni quaderni, che potrei aprire nelle tante ore di attesa nei vari aeroporti.
Raccolti incoraggiamenti e raccomandazioni familiari nell’ultima visita a casa, i giorni precedenti alla partenza sono passati nella trepidazione, tra qualche sessione di shopping, il ritiro in agenzia di biglietti e documenti vari, la conversione di 70€ in dollari (in modo da aver un po’ di contante nel malaugurato caso in cui la mia carta prepagata non sia accettata in America), l’acquisto di un adattatore per la presa di corrente e un ultimo atroce dubbio, subito fugato, sulla possibilità che il mio vetusto cellulare non funzioni negli States, dove sono attivi solo telefoni tri-band o superiori.
Sistemato tutto, sono pronto a partire.
Programma viaggio d’andata
Aeroporto partenza
Giorno
Ora Partenza
Aeroporto arrivo
Giorno
Ora Arrivo
Cagliari – Elmas
23/05/2013
06.30
Roma – Fiumicino
23/05/2013
07.35
Roma – Fiumicino
23/05/2013
11.00
Boston – Logan
23/05/2013
14.20 (20.20 italiane)
Boston Logan
23/05/2013
20.35
Indianapolis
23/05/2013
23.05
Programma viaggio di ritorno
Aeroporto partenza
Giorno
Ora Partenza
Aeroporto arrivo
Giorno
Ora Arrivo
Indianapolis
28/05/2013
09.20
New York – La Guardia
28/05/2013
11.30
New York – JFK
28/05/2013
21.30
Roma – Fiumicino
29/05/2013
12.05 (06.05 americane)
Roma – Fiumicino
29/05/2013
13.20
Cagliari – Elmas
29/05/2013
14.30
IL VIAGGIO
Ed eccoci qui, dopo oltre 100 giorni di attesa, sogni, speranze, paure, incertezze, eccitazione, arriva il momento della partenza, mattina del 23 maggio 2013. Il giorno prima vado a lezione e di sera faccio le valigie e ultimo i preparativi. Prenoto un taxi per le quattro e mezza, indeciso se sia troppo presto o meno, compro medicine contro la diarrea e il raffreddore, ultima chiamata a casa, cena leggera, saluti, doccia e a letto, senza ancora aver deciso cosa mettermi!
Mi sveglio come previsto verso le tre e mezza. Non mi piace uscire senza essermi appena lavato e, consapevole della lunghissima giornata che mi attende, mi do una rinfrescata ai punti nevralgici, pur sapendoli perfettamente puliti. Ci metto più del previsto, un problema dovendo ancora risolvere l’enigma della vestizione. Il giorno prima faccio una lavatrice in extremis, pioveva un po’ a sprazzi tutta la settimana. Tra le cose lavate opto per una tuta leggera con le scarpe da tennis e la fida Nike rossa sotto. Scelgo la comodità, ma poche ore dopo me ne pentirò amaramente. Alle quattro e mezza, mentre proseguo nell’interminabile e più volte ripetuta verifica di ciò che mi porto appresso, squilla inaspettato il cellulare. È il tassista, che mi dirà chiama tutti i suoi clienti mattinieri perché spesso hanno bisogno di essere svegliati. Il telefono squilla quando stavo per uscire, cosa che faccio di fretta per non svegliare i coinquilini, ho già fatto abbastanza casino.
La strada è sgombra, dandoci la possibilità di chiacchierare del loro lavoro poco fortunato a Cagliari, dell’orario strano, del mio viaggio. In aeroporto trovo un posto semideserto, con pochissima gente ai check in. Non sono pratico della trafila aeroportuale, sono in grande anticipo e non so neanche se il mio check in è iniziato, tanto prima c’è un volo per Milano. Faccio quindi un giro dell’aeroporto. Quando torno indietro verso gli sportelli, quindici minuti dopo, è appena arrivato un folto gruppo di turisti venezuelani, probabilmente in Sardegna per partecipare a qualche convegno. La situazione mi appare ancora più confusa, staranno andando a Milano? Resto lì a guardarli qualche minuto, facendo finta di stare in fila. Chiedo poi ragguagli a una signora di colore, che praticamente non mi caga.
A un certo punto sbuca provvidenziale Francesco (mio ex conquilino e addetto al check in all’aeroporto di Elmas). Sapeva del mio viaggio, ma non quando sarei partito, non ci eravamo più sentiti da febbraio. Me la sarei cavata comunque, ma sono contento di vederlo. Mi dice subito che l’orda di venezuelani è diretta a Roma…e già lì mi sento un po’ coglione. Contravvenendo un po’ alle regole, sbriga prima la mia pratica e poi apre il suo sportello a tutti gli altri. Qui ho finalmente il primo sospiro di sollievo, i miei documenti e l’ESTA sembrano essere validi. Non so perché ma era questa la mia preoccupazione principale, che il passaporto elettronico funzionasse e che io non avessi fatto cazzate con l’ESTA. Ci salutiamo, ma lo rivedrò all’imbarco. Più leggero, nella mente e nel fisico, avendo mollato lì il trolley, mi dirigo verso l’area d’imbarco con consapevole anticipo, ma tanto non c’è niente da fare.
Eseguo la classica trafila della sicurezza. Inizialmente non mi tolgo le scarpe, sono di plastica penso, ma sarò costretto a levarle. Attendo poi per più di un’ora l’imbarco nell’area di attesa, dove sono circondato da persone di ogni estrazione e colore. Venezuelani certo, ma anche africani e nord europei. Penso che, seppur a pochi chilometri da casa, il mondo mi sembra d’improvviso molto più grande. E la nostra isola molto meno isolata.
L’attesa è a dir poco noiosa, sono consapevole di essere solo all’inizio della mia avventura. Mi chiedo, ma senza troppa ansia, cosa farò a Roma. Troverò subito la via giusta? Il mio incubo rimane quello di essere bloccato all’imbarco per aver saltato qualche passaggio della procedura, di aver dimenticato qualcosa. Forse ho l’inquietudine stampata in faccia, una signora venezuelana mi guarda e ci sorridiamo a vicenda. Lo stesso accade col marito poco dopo. Non so se vedano in me solo un giovane un po’ ansioso che affronta la sua prima avventura, o il sorriso sia solo un segno di intesa tra viaggiatori alzatisi troppo presto per le loro abitudini.
L’aeroporto inizia a prendere vita, ma troppo tardi per fare qualunque cosa, ormai è iniziato l’imbarco. Saluto Francesco ed entro nell’aereo. Su tutti i voli d’andata avrò degli ottimi posti, quasi sempre solo e in coda. Il mio amico mi aveva detto che l’agenzia non aveva prenotato un posto in particolare, non so se sia merito suo ma penso di si.
Volare non mi ha mai impressionato negativamente, per cui non ho nessuna preoccupazione quando prendo il mio posto. A fianco a me siedono due signori, penso continentali, che viaggiano in Sardegna per lavoro. L’aereo decolla alle 6.30, poco prima riesco a scattare una foto al motore destro, ce l’ho proprio di fianco. Come detto decollo e atterraggio non mi impressionano per niente. Rimango però sorpreso, e sarà così per tutti i voli, da come i motori sembrino andare sempre al massimo dal decollo fino alle fasi di avvicinamento alla destinazione. In aereo ci servono degli snacks e qualche bibita che accetto volentieri, avevo preferito non far colazione. Mi sorprendo di quanto sia breve la traversata: dei 45 minuti totali solo 20-25 sono di volo effettivo. Appena raggiunta la quota di “crociera”, è già tempo di scendere. Non mi aspettavo l’effetto della depressurizzazione, che mi induce un po’ di dolore al collo, oltre a tapparmi l’orecchio destro.
Come previsto e come Francesco mi aveva confermato, non devo ritirare i bagagli a Roma. Dall’aereo una navetta ci conduce all’interno del terminal. Qui dai tabelloni vedo quale dovrò raggiungere per il volo successivo, quello che mi condurrà a Boston. Rimango sorpreso dell’efficienza delle navette che permettono di muoversi da un terminal all’altro. Puoi arrivare ovunque in pochissimi minuti. Nell’attesa sono ancora in compagnia dei venezuelani, ma ascolto anche la conversazione di alcuni italiani. Una ragazza dice di non aspettare altro che essere a Times Square a sorseggiare un drink e guardare la gente che passa. Sorrido a questa affermazione, magari penso a quanto diverse possano essere le nostre vite. “Comunque martedì prossimo un giro a TS lo farò anch’io”, mi dico.
Vedendo tante persone, così diverse e così simili, è inevitabile chiedersi che vita facciano. Se come me stanno prendendo aerei per fare un viaggio tanto atteso, una semplice vacanza o, come la gran parte, semplicemente come parte ordinaria della loro vita, imposta dal lavoro.
Dopo aver attraversato altri sportelli della sicurezza trovo un’edicola, dove compro Autosprint, che mi auguro tratterà in maniera decente la gara che sto andando a vedere. Le due commesse sono tipicamente romane, parlano degli affaracci loro non degnandomi di uno sguardo, senza nemmeno rispondere al mio saluto di commiato. “La maleducazione di Roma colpisce ancora”, penso.
Arrivo al mio terminal, con almeno tre ore di anticipo. L’imbarco inizia più o meno alle 10 e mezza. Ho tutte le carte d’imbarco che mi servono ma non sono sicuro di essere a posto con i documenti, per cui chiedo delucidazioni alla prima hostess che vedo. Lei mi rincuora, ma ancora non sono del tutto convinto. Rimango nel dubbio fino all’imbarco e tiro un sospiro di sollievo quando mi fanno passare senza problemi.
L’attesa è snervante, non per la tensione ma per la noia pazzesca. Non ho neanche gran voglia di leggere Autosprint. Entro in quello stato di svogliatezza totale che sembra affliggermi in ogni aeroporto. Mi faccio un giro, ma inizio a capire che gli aeroporti sono tutti uguali e c’è poco da scoprire. Anche i negozi sono poco interessanti. Mi siedo, ancora una volta attorniato da stranieri di ogni estrazione, anche se stavolta sono gli americani, ovviamente, in superiorità numerica. Ancora una volta mi sento uno straniero nel mio paese. Ascolto la conversazione tra due americane, dicono che una hostess è una stronza perché sembra non le abbia aiutate per niente. Ci rivedremo sull’aereo.
Inizio ad accorgermi di aver sbagliato indumenti. La maglietta rossa è troppo vecchia e non regge al mio sudore nervoso. So che sto un po’ puzzando ma penso che la situazione sia sotto controllo. Al momento dell’imbarco noto personaggi particolari, una bella donna mora con indosso una tuta (solo noi due forse siamo vestiti così), un anziano signore campano che prende a male parole il nipote (inizio a vergognarmi di loro già da Roma). Come sempre, gente di ogni tipo. Saliamo finalmente a bordo e con grande gioia scopro che il sedile a fianco al mio è vuoto. Non dovrò preoccuparmi troppo delle mie ascelle e potrò mettermi un po’ come mi pare.
Dal finestrino noto che gli addetti hanno difficoltà a far aderire i bagagli al rullo che li trasporta in stiva. Ad un certo punto noto che ne prendono uno e lo sbattono con forza sul rullo, guardo bene ed è proprio il mio. “Sei fortunato che non abbia avuto il tempo di filmarti”, penso dell’addetto. Se riscontrassi dei danni sarebbe stata una prova perfetta. Il decollo prende un po’ di tempo, ci sono un sacco di aerei in fila, di vari tipi, compagnie, dimensioni. Vedo anche un 747 con i suoi 4 impressionanti motori. Il nostro Airbus 330 ne ha “solo” due. Alla vigilia non credevo che aerei da tratte così lunghe potessero avere solo due propulsori, ma il 330 fa egregiamente il suo lavoro. Mi appare un aereo medio, ovviamente un po’ più curato del 320 che ci ha portato a Roma.
Ci viene servito il pranzo, finalmente si mangia, anche se la situazione particolare non mi porta chissà quale appetito. Vedo scorrere sotto di noi un po’ di Italia, Mediterraneo, tanta tanta Francia. Poi inizia l’oceano. Saliamo sopra i banchi di nuvole, incredibilmente fitte. La luce esterna è meravigliosamente limpida, tanto che per aiutare i passeggeri a prendere sonno ci viene chiesto di chiudere le tendine. La cosa non mi fa molto piacere, dal momento che mi impedisce di fare un po’ tutto, leggere e, se mai ne avessi trovato la forza, studiare col tablet o dal quaderno. Incredibilmente ci metto un po’ a capire dove cavolo vada infilato lo spinotto delle cuffie, rischio quasi di fare danni. Mi guardo un film, Django Unchained, che a tratti mi diverte molto e fa passare almeno due ore…ma il viaggio è veramente interminabile.
Non ci sono parole per descrivere la noia, anche perché è quasi impossibile dormire per più di 10 minuti consecutivi. I giochini sullo schermo dopo un po’ stufano, non c’è nessuna voglia di studiare, guardare un altro film con lo schermo così vicino mi ammazza gli occhi. Bisogna resistere. Ho un alito terribile, vado in bagno a darmi una rinfrescata, cosa non facile considerando che la pressione dell’acqua è comprensibilmente bassissima. Le hostess ci danno il documento della dogana, che stupidamente vado a restituire compilato. Mi fanno notare che dovrò essere io a esporlo all’accettazione.
In un modo o nell’altro il viaggio si conclude quando in Italia sono le 20 e a Boston solo le due del pomeriggio. L’atterraggio è un po’ duro ma niente di che. Fino all’ultimo la hostess più carina, alta con un caschetto di capelli marroni, sta a fare l’oca con un palestrato che già da Roma avevo etichettato come un idiota. Lei mi sembra un po’ troia. L’equipaggio, gentile ed efficiente, è come sempre caratterizzato da qualche pettegolezzo o antipatia interna, abbastanza malcelati, tanto da farmi pensare che, anche a 15.000 metri di quota, tutto il mondo è paese.
A Boston posso finalmente muovermi, recupero il trolley (arricchito di nuove colorate etichette) e procedo verso l’accettazione. Un italiano trapiantato qui ci indirizza nella fila giusta. Parte un’attesa interminabile e snervante. Il caldo è a tratti insopportabile, anche se sembro l’unico a soffrirne davvero. Ci sono dei ventilatori sul soffitto troppo deboli e lontani tra loro, sembra una punizione per aver messo piede nel loro paese. Sono sempre più sudato e maleodorante ma non posso più tenermi addosso la giacca della tuta, me ne frego e vado avanti a maniche corte con la giacca annodata a vita e il leggero giubbotto in mano. Alcuni italiani mi guardano come un profugo e anch’io mi sento un po’ come un passeggero della Mayflower.
Nella noia dell’attesa prendo l’iniziativa e parlo con due tizi lombardi che non si dimostrano troppo loquaci. Il più anziano (non so in che rapporti fossero), mi dice che li attende un viaggio in macchina verso non ricordo dove, che non era la prima volta che vengono negli States e che lavorano in un azienda di macchine utensili che aveva collaborato con un istituto di Oristano. Rimane sorpreso dal fatto che io stia ancora studiando, chissà quanti anni mi da. Il compagno non proferisce parola, mi guarda come un bambino al cospetto del suo incubo peggiore, un terrone. In effetti il mio abbigliamento, il mio accento e il mio odore potrebbero rispettare in pieno le sue aspettative sul sardo tipo.
Rimango basito dallo scarso numero di sportelli aperti, che rendono la fila interminabile. Onestamente non mi sarei aspettato una situazione del genere, circa un’ora di fila lungo un serpentone infinito. Mi sembra una scena troppo familiare, tipicamente italiana. Comincio a pensare che sia davvero tutto voluto. Assisto poi a una scena poco simpatica con una signora italiana che, inseritasi nella fila sbagliata, viene trattata con molta sufficienza da due corpulente donne di colore, addette dell’aeroporto. Chiedono se tra i presenti c’è qualcuno che parla italiano. Sto per intervenire quando arriva l’addetto italiano di prima a “salvare” la signora. Mentre aspetto in fila parlo con un signore anziano che non sembra capire granché di inglese. Lo indirizzo nello sportello corretto e una signora di origini asiatiche, una delle responsabili, mi ringrazia per la collaborazione e mi dice di aiutarlo ancora nel caso ci fosse bisogno. Quando arriva il mio turno (avevo osservato attentamente tutta la procedura di lettura della retina e delle impronte) faccio tutto bene, ma mi rendo conto che l’inglese di tutti i giorni è un po’ più duro da digerire di quello usato da Bob Jenkins e Leigh Diffey nelle telecronache. Ho bisogno di più ripetizioni per capire cosa l’addetto cerca di dirmi. A un certo punto, tra le domande classiche, mi chiede quanti contanti sto portando con me. Gli rispondo “molti meno dei 10.000 dollari massimo concessi”. Appone il timbro sul passaporto (“è fatta coi documenti” mi dico) e mi saluta con un “have a nice day”. Mi ci vogliono parecchi secondi di riflessione per spiccicare un “you to”.
Una volta dentro l’aeroporto decido che è il caso di darsi una ripulita. Non posso lavarmi le ascelle, sarebbe un po’ imbarazzante. Mi fiondo in bagno, uso la provvidenziale salvietta umida dataci da Alitalia e con quella mi do una pulita, dopodiché mi metto l’antiodorante, scelgo una maglietta bianca, pensiono per sempre la rossa e sono pronto ad affrontare la prossima tappa, non proprio fresco come una rosa ma almeno non mi si sente da lontano. Mi sento rinato e sopravvissuto a una prova difficilissima, chissà poi quale.
Ora arriva il casino, si fa per dire. Devo rifare il check in e non so dove andare. Chiedo al banco informazioni, dove mi risponde un giovane di colore in giacca e cravatta che non capisce una cippa di quello che dico, e a ragione. Cerco di spiegarmi e con molta fatica, e un po’ di seccatura da parte sua, riesco a farmi dire dove devo andare. Tra scale e lunghissimi corridoi, con utili tappeti mobili (scena che ho rivisto in The Departed!) arrivo al Terminal. Nel tragitto ho una brutta sorpresa, provo la carta prepagata in un terminale ATM e non funziona. Allarmato ma non troppo chiamo casa e parlo con mia madre per almeno venti minuti. Ci eravamo tenuti in contatto per messaggio ma è bello e divertente parlare in italiano in mezzo a gente che non capisce niente…posso dire tutte le parolacce che voglio! Durante la chiamata provo un altro ATM e funziona! Prelevo 60 dollari che si sommano alla settantina che mi portavo dall’Italia.
Compro subito una bottiglietta d’acqua, (due dollari!), faccio un breve giro del terminal ma capisco subito che c’è poco da vedere, rassegnandomi a un’altra impossibile attesa. Indeciso sul da farsi, parlo con una carina e gentile signora che mi da alcune dritte. È troppo presto per il check in, quando sarà il momento non dovrò far altro che presentare i documenti e la prenotazione elettronica risolverà i miei problemi. Così faccio, presentandomi di nuovo alla sicurezza.
Fuso come non mai, resto fermo un po’ troppo a uno sportello, con l’addetta indispettita che mi dice “ID! ID!”. Realizzo che quell’ID sta per “identification”, quindi per documento. Maledico me che dormo a occhi aperti, ma anche loro che non sono capaci di dire mezza parola per esteso anche se ti vedono moribondo. Entro quindi nell’area duty free, dove ho una lunga e piacevole conversazione con una signora, titolare di un negozio di libri. Mi dice che è stata molto in Italia, dalle parti di Trieste. Non ha i libri sul motorsport che cercavo ma parliamo dell’Italia, di Berlusconi, delle differenze tra le lingue. Essere riuscito a sostenere una discussione lunga e non banale mi da fiducia.
Anche qui c’è comunque poco da vedere, anche se a pensarci bene un souvenir della città potevo prenderlo. Mi dirigo verso la mia uscita per Indianapolis. In mezzo ad americani nudi e crudi non sono spaesato, anche se sembrano intuire che non sono “uno di loro”. Vedo gente seguire il classico notiziario americano con partecipazione, sembra davvero di stare in un film. Una signora bionda e con gli occhiali ride alle parole di un bambino, nel notiziario per qualche motivo curioso. Si parla di un condannato a morte che potrebbe ricevere la grazia, tutti sembrano prestare attenzione, dev’essere un fatto di rilevanza nazionale. Di nuovo mi sorprende quanta gente usi l’aereo tutti i giorni. La maggior parte di coloro che attende il volo per Indy sono lavoratori che tornano a casa, come se stessero prendendo l’autobus. Degli aeroporti mi colpisce la pulizia e la “tecnologia”. Funziona tutto, i dispensatori di carta sono elettrici e fanno ruotare il rotolo appena avvicini le mani. Anche i rubinetti sono particolari. Quando tornerò a Fiumicino mi sembrerà di essere nel Medioevo.
È già tardi, le nove passate (ero arrivato alle due!) e l’aereo è in ritardo. “Perfetto” penso, “arriverò in albergo a un orario assurdo”. Sento un annuncio sul nostro volo, un cambio di uscita. Chiedo all’addetto, che conferma. Non resta che aspettare. Quando finalmente l’aereo compare, l’imbarco è rapido e mi ritrovo di nuovo da solo nei posti di fondo. L’aereo è più piccolo di quelli presi in Italia, un Embraer per spostamenti di medio-corto raggio. Il volo dura circa due ore, con un mal di pancia crescente. Ho anche fame però e prendo quello che ci viene offerto, tutta roba che al massimo fa crescere qualche brufolo ma non placa certo l’appetito. Le hostess si allarmano perché non vedono la mia cintura allacciata, lo è in realtà ma dalla loro posizione è difficile vedere. “E’ magia”, dico loro.
Finalmente si tocca terra. Mentre mi fiondo verso il recupero bagagli passo davanti alla March-Penske vincitrice di Indy nell’87, quasi senza degnarla di uno sguardo, “non è il momento” mi dico. Normalmente l’avrei ispezionata in ogni sua parte. Preso il bagaglio mi precipito fuori e chiamo un taxi con il sistema elettronico. Spingi un pulsantone rosso e dal parcheggio arriva una macchina. Quando dico al tassista dove devo andare, questi mi convince che sicuramente ci sarà una navetta che serve la zona, che potrei fare la tratta gratuitamente piuttosto che pagare lui 20 dollari. Io, stanco e confuso, pur sapendo che nessuna navetta serve il mio hotel, penso che magari lui si riferisca a quelle degli alberghi vicini, delle quali potrei comunque approfittare. Mi lascio convincere e lo ringrazio per l’aiuto. In realtà a lui non fregava niente dei miei soldi, voleva solo qualcuno che dovesse andare più lontano. Mi pento quasi subito della scelta fatta, è tardi e non ho voglia di aspettare shuttles. Giro l’aeroporto, chiedo in giro e trovo il fantomatico punto di approdo delle navette. Tutte però hanno sù scritto “employees only”. Il fatto che non capisca la scritta è un buon indicatore del mio stato psico-fisico. Chiedo a ogni autista che si ferma se serve la zona del mio hotel, loro ovviamente mi rispondono che non ci passano proprio. Sono infatti tutte navette del personale…chi mai abiterebbe in una zona di alberghi vicini all’aeroporto?!
Non si vedono altre navette, confusione e stanchezza, oltre alla certezza di essermi fatto prendere per il culo, cominciano a mandarmi fuori dai gangheri. Parlo brevemente con una coppia di anziani, che aspettano una navetta “vera” verso un hotel lontano in tutti i sensi dal mio. Li saluto e riguadagno, incazzato come non mai, la zona dei taxi, salendo sul primo che mi si para davanti. Qui la barriera linguistica appare insormontabile. Il tassista non è americano, gli dico il nome dell’hotel in cui devo andare, non lo conosce minimamente. “Andiamo bene”, penso. Gli indico la zona, gli dico l’indirizzo giusto, ma non capisce. Lì sono io a realizzare che la pronuncia è importante, che tu pensi di dire qualcosa bene ma che loro sono tutt’altro che flessibili. Dopo qualche chilometro ci capiamo finalmente, anche se l’hotel è molto più lontano delle due miglia scarse che Google Maps mi aveva prospettato. Quando vedo l’insegna, Econo Lodge, più tutti gli altri che avevo imparato a conoscere nel periodo della ricerca, mi dico che ce l’ho fatta, finalmente. Pago la corsa, 21 dollari più due di mancia, salutando il tassista. Nella reception, che mi sembra quasi un miraggio, mi accoglie un giovane di colore con gli occhiali. Anche qui la barriera linguistica si fa sentire, non riesco neanche a fargli capire il mio nome e non trova la prenotazione. Ho però la lucidità di fargli vedere per bene il voucher, che già gli avevo proposto all’inizio, prendo la chiave e mi dirigo verso la camera, senza aver più voglia di vedere niente e nessuno.
La stanza si trova al piano terra, il complesso mi appare come il più classico dei motel americani. È mezzanotte passata quando entro. La camera mi fa tutto sommato una buona impressione. Avevo letto commenti terribili sull’albergo e mi aspettavo il peggio. C’è un po’ odore di chiuso, ma il letto è pulito, la moquette in condizioni accettabili (chissà cosa tutto avrà visto), il bagno in ordine. C’è un televisore vecchio e enorme con telecomando, una scrivania con un vassoio e due bicchieri di carta, un telefono, una sorta di griglia con grucce per appendere i vestiti. Sul comodino campeggia la Bibbia, e qui mi sento davvero in America. Leggo l’informativa sulla porta, dice di non portare estranei in camera per nessun motivo e altre cose.
Il bagno non è male, è pulito, ci sono un sacco di asciugamani e la doccia mi sembra spartana ma utilizzabile. Il water ha il classico sciacquone americano, una levetta laterale. Si riempie d’acqua molto più in alto dei nostri, “pressione idrostatica permanente” penso. Certo quando caghi non dev’essere un bello spettacolo. Lo battezzo subito, dando sollievo alla mia pancia, ma è quasi tutta aria. Mi sorprende l’assenza di un frigo bar. Ho fame e tanta sete, ma per stasera dovrò resistere.
Alcune cose mi scocciano. La porta è durissima e difficile da chiudere. Riesco ad aprirla una volta, ma al secondo tentativo resta incastrata e non c’è modo di uscire. “Ci penserò domani a mente fresca” mi dico. Le finestre, per proteggersi dai furti immagino, sono fisse. Questo spiega in parte l’odore di chiuso. Niente di trascendentale, la mazzata però arriva subito dopo. Provo a caricare i miei dispositivi, il cellulare, il tablet, ma l’adattatore non funziona. Faccio tentativi di ogni tipo, uno fa addirittura saltare il salvavita del bagno. Non c’è verso, l’adattatore universale che mi dava tanta sicurezza è una fregatura. Mi incazzo di brutto e mi sento uno stronzo per non aver caricato per bene il telefono prima di partire. “Tanto ho l’adattatore” pensavo. Mi pento anche della lunghissima telefonata con mia madre a Boston, che mi è costata parecchia batteria. Avverto con un messaggio i miei del mio arrivo e, corredato il letto con il coprimaterasso che mi ero portato da casa, provo a dormire. Il letto è insolitamente comodo, un’altra sorpresa dato che in molti avevano sottolineato come “sarebbe stato meglio dormire in macchina”. Come spesso accade la stanchezza invita a dormire ma respinge il sonno, che so già non potrà essere troppo lungo, perchè domani dovrò alzarmi presto per prepararmi e arrivare in pista verso le otto e mezza. Dopo almeno 40 minuti di tentativi, riesco finalmente a dormire.
PRIMO GIORNO: CARB DAY
Mi sveglio dopo 3 o 4 ore. Non sono troppo stanco, solo un po’ incazzato per l’adattatore. Non sembro soffrire per niente del fuso orario, il recupero sorprende anche me. Alle prime luci dell’alba, saranno le sei, provo ad aprire la porta, invano. È ancora bloccata. Mi faccio la doccia, mi preparo e ci riprovo. Niente. La cosa inizia a diventare ridicola, un ingegnere che non capisce come aprire una porta. La tiro con tutte le forze, quasi mi stiro i muscoli delle mani nel tentativo di sbloccare la serratura. Niente. Solo la vergogna mi impedisce di chiamare la reception, ma lo sto per fare. Poi l’illuminazione. Do una spinta decisa alla porta, che scatta immediatamente chiudendosi in modo corretto. Sblocco la serratura, giro la maniglia e lei si apre naturalmente, senza sforzo. È una liberazione, ma mi sento un po’ stronzo. Se qualcuno dal Candlewood, l’hotel di fronte, stava guardando le mie acrobazie, si starà facendo grasse risate.
Esco finalmente, respirando la frizzante aria mattutina. Voglio fare colazione ma so che l’hotel non la serve più, per cui vado alla reception in cerca di delucidazioni. Non trovo nessuno, ma dalla vetrina vedo una tavola calda e, affamato e assetato, la raggiungo in breve. Alla reception dell’Econo Lodge mi sfugge però un particolare che noterò solo l’ultimo giorno. Non essendoci più il servizio colazione, gli ospiti hanno diritto a un 15% di sconto da Denny’s, verso cui sono diretto.
Entro nel locale, che appare tipicamente americano, come si vedono nei film. Mi viene in mente Scemo e più scemo. Un cartello dice di aspettare lì fino all’arrivo di una cameriera. Aspetto un po’, poi da italiano ignorante penso che forse è solo un formalismo che non segue nessuno. Non è così. Chiedo a una cameriera se posso avere un tavolo e lei mi ci conduce subito, sottoponendomi il menu. Lo leggo in lungo e in largo alla ricerca di una colazione “normale”, ma la mia normalità è diversa dalla loro: mi rassegno, mangerò carne e uova. Rispondo alla bell’e meglio alle domande della cameriera, alla quale confido la mia diffidenza verso quel tipo di colazione: “In Italia mangiamo diversamente” le dico, “tipo latte e corn flakes?” mi fa, “qualcosa del genere”. Nel frattempo mi porge un enorme bicchiere di succo d’arancia Minute Maid, gelato e squisito. Mi guardo attorno, abbottato di sonno ma finalmente pulito, contento, impaziente per la giornata che sta per cominciare e incuriosito da un ambiente così diverso.
Arriva la colazione. “Enjoy” mi dice la cameriera. La guardo un po’, poi la divoro. Il giudizio iniziale “strano”, si tramuta presto in “buono”. Sarà la fame, non so, ma penso di potermi adattare in fretta alla colazione americana. Le uova sono squisite, le migliori che abbia mai mangiato, di un colore giallo omogeneo, non sembrano neanche vere. Il mitico bacon è saporito e croccante come tutti lo immaginano, le salsicciotte ci stanno a meraviglia. Trangugio tutto, anche le due fette di pane simil tostato con una strana roba bianca e dolce sopra, che innaffio con una specie di sciroppo d’acero. Sul finire mi sento pieno, ma ripulisco il piatto. Mi alzo soddisfatto ma pesante, non so se potrò ripetere la performance l’indomani, di sicuro non mangerò nulla per molte ore.
Qui mi sorge un dubbio atroce, la mancia. La devo lasciare? Quanto devo lasciare? La cameriera mi da il conto al tavolo, io mi presento alla cassa dandogli 11 e passa dollari. Uno e mezzo in più di quanto pattuito. Lei mi guarda stralunata, “devo lasciare una mancia, no?” le dico, “si, ma è troppo” mi risponde. 15% mi sembrava il giusto, realizzerò poi che è proprio quanto avrei dovuto risparmiare come cliente dell’Econo Lodge.
Sistemata la colazione provo a chiamare un taxi, prima col telefono in camera, poi col mio, ma invano. Sembrava prestissimo ma comincia a farsi tardi. Vado alla reception dove mi accoglie una ragazza carina, che però ha la faccia di chi mangia qualche porcheria di troppo. È lei che mi chiama il taxi, che arriverà un quarto d’ora dopo. Scambio due battute con il personale. Si sincerano che tutto fosse in ordine, mi chiedono le solite cose, da dove vengo ecc. Tutto a posto, dico loro, ed è vero, sono contento anche se la storia dell’adattatore mi rode ancora. Arriva il taxi, una berlina gialla tipicamente americana guidata da una ragazzone di colore. È simpatico e chiacchieriamo per tutto il tragitto, che ancora una volta è più lungo di quanto mi aspettassi. Parliamo del mio viaggio, di quanto sia importante per me essere lì: “E’ un traguardo raggiunto” mi dice, e ha ragione.
Parliamo del posto, che a me sembra bellissimo. Le strade sono costeggiate da alberi, tratti verdi, giardini più o meno curati. A me piace, lui mi fa notare che siamo in periferia e non è niente di che, ci sono case fatiscenti e altri segnali di degrado. Ha ragione ma non mi sembra così male. Uno scoiattolo ci attraversa la strada e la cosa mi fa ridere, forse è il primo che vedo in vita mia e qui ti attraversano la strada come se niente fosse. Purtroppo lungo il tragitto ne vediamo molti altri meno fortunati.
Quando gli dico la mia destinazione mi verrebbe da dire Indianapolis, perché per me la città è sempre stata solo sinonimo di pista. Stando lì invece ti accorgi che è molto di più e probabilmente c’è un sacco di gente che del circuito e della gara se ne frega altamente. Devo quindi specificare meglio e dire “devo andare al Motor Speedway”. Guardando la loro tv percepisci però che l’evento è sentito e rappresenta comunque la manifestazione annuale più importante che si vive da queste parti. A livello nazionale la gara ha perso molta dell’attenzione che le era abituale, ma nello Stato e in particolare in citta è ancora “the big race”. Ci avviciniamo alla pista. Io non riesco a credere che di lì a poco vedrò il leggendario Indianapolis Motor Speedway. Arriviamo a un incrocio ed eccolo, vedo le immense tribune della curva 1 e sento chiaramente il rombo possente di motori girare in pista. La corsa è di 14 dollari, pago con un biglietto da 20 lasciando l’autista libero di prendersi la mancia, ormai sono confuso sul da farsi in questi casi. Lui, molto onestamente, mi da indietro tutto il resto che mi spetta. Mi da il suo biglietto da visita con la raccomandazione di richiamarlo nel pomeriggio, magari per fare una visita al centro.
Mi dirigo verso un semaforo dove sono raccolti numerosi tifosi, ben armati di borse frigo, birra, sandwich e tutto l’armamentario per le grandi occasioni. Probabilmente delle corse non gliene frega un bel niente e sono lì solo per il concerto, ma fanno colore e anche questo è il Carb Day, l’ultimo giorno di prove, che mi appresto a vivere. Finalmente varco i cancelli, passo sotto la grande insegna col simbolo della pista, mi sento come nel paese delle meraviglie. Fin da subito iniziano bancarelle di ogni tipo, con gadget che avevo visto solo su internet e cappellini di ogni pilota. “Sono in paradiso”, penso. Gli addetti convalidano il biglietto e controllano che non abbia appresso niente di vetro. Dopo di che mi salutano con un “have a nice day”, dandomi il programma del week end.
Mi guardo attorno meravigliato, è presto ma sento rombi provenire dalla pista e voglio vedere. Prendo la prima scala di accesso per le tribune e mi ritrovo in curva 1. Mi si apre un panorama che conosco a memoria ma che vedo in realtà per la prima volta. La Pagoda mi si staglia davanti, la torre delle posizioni, il traguardo, la torretta, le tribune imponenti, la corsia box, la sala stampa, la pista. Tutto è come lo avevo visto e immaginato.
Appena entrato sento Alex Zanardi parlare nell’altoparlante. Non riesco a credere che sia lì anche lui, anche se ci speravo. Sono arrivato appena in ritardo, saprò poi che era lì a ritirare una vecchia macchina e a far visita all’amico Jimmy Vasser. Se mi fossi presentato prima l’avrei incrociato di sicuro, ma chi poteva saperlo? Chiedo a due appassionati se fosse davvero lui, dico che è il mio mito, mio compatriota. Mi siedo e aspetto, ammirato per lo spettacolo. Vedo altre scale che portano più in alto e mi ricordo delle tribune superiori; è l’unica volta che potrò sedere in curva1 e voglio farlo nei posti migliori, salgo anch’io. La tribuna lentamente si riempie, da qui il panorama è ancora più esaltante, si vedono tre quarti di pista, anche il museo in lontananza.
Mi sono vestito leggero ma all’ombra il freddo è quasi pungente. Vicino a me c’è qualcuno vestito più pesante che batte i denti, altri in pantaloncini non mostrano il minimo segno di disagio. Inizialmente la cosa non è grave, col passare delle ore mi congelerò anche io. Come sempre gente di ogni tipo. Super appassionati armati di radio per ascoltare le conversazioni pilota-box, giovani, vecchi, americani e non. Semplici curiosi, c’è di tutto. Scatto foto all’impazzata mentre ascolto le Camaro che mi sfrecciano davanti con a bordo qualche vip da scorrazzare. Per un attimo mi fermo a pensare quanto avevo aspettato questo momento, quanto desideravo raggiungere la mia Mecca, l’emozione di essere in questo tempio. Le lacrime mi riempiono gli occhi.
Anche qui non manca una lunga attesa. Finalmente le macchine vengono portate ai box, lentamente preparate e poi, alle 11, si parte. Il momento dell’accensione dei motori è bellissimo, accompagnato da tutto il pubblico, così come emozionante è la bandiera verde. Mi vedo passare davanti tutto il serpentone. Le macchine sono tali e quali a come sono abituato a vederle, ma dal vivo i colori sono ancora più belli e intensi. Vedo i piloti muovere le mani nell’abitacolo, noto particolari mai visti. Mi sembra stranissimo essere nello stesso posto, a pochi metri, da persone che fino a ieri consideravo semi Dei. La velocità non mi impressiona particolarmente, quando ti passano sotto sono veloci ma non i missili che mi aspettavo. Se non li conoscessi sarebbe difficile anche per me distinguere i numeri, eppure mi aspettavo qualcosa di più. In lontananza le vetture appaiono molto più rapide, allontanandosi dalla vista sul rettilineo opposto con molto slancio. Neanche il rumore è assordante come lo aspettavo, tanto da farmi pensare che i tappi che mi ero portato non sono poi così necessari. E’ forte ma assolutamente sopportabile. Mi sorprende invece quanto corrano vicini, vediamo davvero manovre ravvicinate a velocità altissime. Alettoni che sfiorano le ruote come se fosse la cosa più normale del mondo. Lo vedo sempre in tv, ma dal vivo fa tutta un’altra impressione.
Scambio qualche battuta con altri spettatori, in particolare una signora di origine asiatica che mi dice di non conoscere nessuno. È la prima volta che viene ad assistere alla corsa. Faccio foto e ammiro le macchine passare per un’ora, poi la sessione finisce. È una liberazione, non perché lo spettacolo non mi sia piaciuto, ma perché stare fermo due ore all’ombra su quelle fredde panche metalliche mi ha congelato. La grande bevuta di succo d’arancia unita al freddo intenso mi spinge a cercare un bagno prima di ogni altra cosa. Sono tutti pieni ma ne becco uno rialzato completamente deserto. Piscio anche l’anima e la soddisfazione è immensa.
Il prossimo obiettivo è riscaldarsi, perché batto ancora i denti e da come mi guardano tutti devo avere un aspetto cadaverico. Incurante della visuale non ottimale, mi porto nella tribuna più battuta dal sole, sul traguardo, per assistere alla corsa delle IndyLights. Finalmente ho il sole che mi batte a picco, ma il freddo è tale che tengo addosso il mio giubbotto-pannello solare per parecchio tempo. Il sole che comincia a cuocermi la testa non mi preoccupa, tutto il tepore che posso ricavare è cosa buona e penserò dopo a comprarmi un cappellino. È fantastico essere così vicini alla Pagoda. La ammiro in tutta la sua maestosità, cosi come faccio con l’altro simbolo della pista, la torre delle posizioni, una sorta di obelisco attorno a cui tutta il nastro d’asfalto si snoda. Vedo da vicino anche la iarda di mattoni, la famosa Brickyard. Tutte cose che conosco a memoria ma che emozionano comunque. Tra il pubblico noto un gruppo di ragazze intente a tifare un loro amico pilota, parlo anche con due tizi di colore che si godono l’esperienza pur sapendo poco della corsa. Per la prima volta assisto all’inno americano dal vivo, fortemente applaudito da tutti. Poi è il momento del comando di accensione dei motori. Parte la corsa. Sono troppo in basso per godermi davvero la gara, ma il freddo mi fa fare questo e altro. Sacrifico la gara per il mio benessere, per una volta. La corsa è combattuta ma non troppo interessante. Le macchine in pista sono poche e anche dal vivo ci si accorge che guidare queste IndyLights non dev’essere poi così impegnativo. Il loro ruggito invece non è male.
La corsa va via senza particolari scossoni ma, improvvisamente, si crea un finale epico. Vedo la bandiera bianca dell’ultimo giro sventolare a pochi metri da me e ci alziamo tutti in piedi, seguendo la battaglia dal mega schermo. Tre macchine si presentano affiancate in curva 3, una cosa difficilissima a Indy. Rimangono così anche all’uscita di curva 4, ma sul traguardo il quarto si affianca e li beffa tutti. Un foto finish incredibile, proprio davanti a me, accompagnato dal colossale ruggito della tribuna. Miglior finale non poteva esserci. Non faccio foto ed è un bene, lo spettacolo andava vissuto senza distrazioni.
Dopo la premiazione è in programma la pit stop competition. Mi sposto verso curva 4, allontanandomi dal traguardo e portandomi in una zona d’ombra. Il casino è totale, tantissima gente, musica altissima, il falchetto delle Firestone che incita la folla e con un cannoncino portatile spara magliette dove il casino è maggiore. Lo speaker carica il pubblico inneggiando agli Indiana Pacers, che proprio in questi giorni si giocano l’accesso alla finale NBA. Ci sono anche le loro Cheerleaders.
Tutt’a un tratto vedo, incredibilmente, Alex Zanardi in compagnia di Chip Ganassi, dall’altra parte del rettilineo. Sono vicinissimi alla rete che separa i box dalla tribuna opposta. Con lucidità e determinazione inusitate, individuo in un lampo la strada per raggiungerli. Mi dirigo all’uscita, percorro il sottopassaggio e mi porto direttamente dietro di loro, davanti ad una immensa tribuna colma di gente. Mi fa sorridere l’agilità e la precisione con cui raggiungo la mia meta, sembro a mio agio come a casa.
Il caldo comincia a farsi sentire e infilo il giubbotto nello zaino. È pieno di gente che fa avanti indietro, la birra scorre a fiumi. Gran parte di questi è qui solo per una colossale bevuta e il concerto dei Poison, che comincerà subito dopo.
Io me ne frego della birra e del concerto, voglio vedere macchine, piloti, personaggi e…Zanardi. Da dietro la rete, ne seguo ogni passo. Parla con tutti. Noto tanti personaggi che sono abituato a vedere in tv. Da una parte mi sembra la cosa più normale del mondo, dall’ altra ho un sorriso ebete stampato in faccia, sono incapace di proferire parola. Vedo a pochi metri da me Scott Dixon e Dario Franchitti. Ci sono i meccanici dello scozzese, li conosco tutti. C’è Mike Hull, che parla con un sacco di gente davanti a me. Probabilmente mi vede da dietro i suoi occhiali scuri, chissà che pensa di questo pelato dalla testa scura che lo guarda incantato. Già perché intanto il sole comincia a fare i suoi effetti. Se all’inizio un po’ di abbronzatura poteva far piacere, la mia testa comincia a sembrare una lampadina. Se uniamo questo alle inevitabili occhiaie e i segni della stanchezza che mi porto in giro, non devo certo essere un bello spettacolo. Ma me ne frego, sono nel posto più bello della Terra a vivere un sogno iniziato molti anni fa.
Vedo Roger Penske, mio idolo assoluto, che scherza con Ganassi. Domenica saranno rivali come sempre. Zanardi parla con tutti, scherza con Andretti, Power, Franchitti, Hinchcliffe. Vorrei salutarlo, ma non voglio farmi notare troppo. Chiaramente un ossimoro, specie in un casino del genere. Quando sembra guardare dalla mia parte gli rivolgo un pollice verso l’alto, che ritiro ben presto, accorgendomi della mia stupidità. Lui non mi caga neanche di striscio. Ad un certo punto mi sembra di scorgere Rick Mears, un altro degli idoli che speravo di incontrare. È vestito tutto di giallo e sembra aver avuto un tracollo, ma d’altronde non lo vedo da un po’. Mi convinco che sia lui e lo faccio notare anche ad altri, solo dopo mi accorgerò che si trattava di un addetto della pista. Come posso aver preso un granchio del genere non me lo spiego…sarà stato il caldo.
Mi imbatto anche in personaggi particolari, come il falchetto della Firestone, che ora si aggira tra noi tifosi, Ci scambiamo un pugno amichevole e poco dopo do anche il cinque al sosia di Stig. Certo che per entrambi, con quel sole, la giornata non dev’essere stata facile. Mi pento amaramente di non aver fatto foto, solo dopo scoprirò di non averli immortalati. Mi passa davanti Ryan Briscoe in golf car con famiglia al seguito, li guardo andare via con un tizio seduto dietro che mi sorride, forse cogliendo il mio stupore.
La pit stop competition va avanti con Castroneves e la sua squadra che ne escono vincitori, ancora una volta. Helio raccoglie a sé i suoi uomini e all’improvviso scalano tutti la rete davanti a me. Il mio idolo di infanzia a un metro e mezzo di distanza! Gli scatto tre foto perfette e mi riesce solo di gridare “GO Helio!!!”. Parlo con un’addetta della pista. Mi dice “al posto giusto nel momento giusto”, parliamo di come Helio sia comunque un ragazzo coi piedi per terra, molto simpatico. “Anche Dario” le dico. Lei mi risponde che la moglie, Ashley Judd, aveva dei comportamenti da reginetta, ma lui è senz’altro un ragazzo a posto. Mi chiede da dove vengo e se è la prima volta che vado a Indy, poi ci lasciamo quando mi fa notare che Dario è lì vicino. Cerco di seguire Zanardi, ma scappa con Franchitti su un golf cart e non lo beccherò più per tutto il fine settimana, un gran peccato.
Mentre molti si recano al concerto in un altro punto della pista, io esploro le tante aree a noi accessibili. Visito tutti i negozi, ovviamente molto simili gli uni agli altri. Ci lascerei tutto il budget ma alla fine compro solo il programma ufficiale. Vedo tutto, cerco anche di salire sui piani rialzati ma mi fanno notare che senza pass non posso accedervi. Il posto è davvero grande e l’interno bellissimo.
Sembra un paese, con una piazza, un enorme sezione con tavoli e sedie, negozi tutt’attorno. Vedo anche gli stands delle squadre e adocchio alcune cose che mi porterò a casa i giorni seguenti. Limito gli acquisti in previsione della fiera della memorabilia in programma l’indomani, dove troverò di tutto di più, penso. Intanto la batteria della fotocamera comincia a esaurirsi e devo scegliere i soggetti con attenzione. Percorro tutto il fan village, con un sacco di attrazioni per tutti, ma penso che fare certi giochi da solo non avrebbe senso quindi non mi lascio prendere più di tanto. Vedo lo stand Chevrolet dove ammiro numerose Corvette, Camaro e la vettura di Hunter Reay, la prima volta che vedo un’IndyCar da vicinissimo. Davvero bella.
Altre vetture, stavolta d’epoca, erano in esposizione nell’area dei garages. Ne fotografo una con Stig dentro che mi saluta. Scoprirò poi che quelle vetture avevano girato in pista mentre io litigavo con la porta o facevo colazione.
Mi dirigo al museo, tappa fondamentale del mio viaggio. C’è un sacco di gente, tutti quelli che come me non sono lì per il concerto e magari visitano lo Speedway per la prima volta. Pagato l’ingresso, scopro che il museo si compone di due sale principali e una più piccola, dedicata a Parnelli Jones, l’eroe celebrato in questa edizione della corsa. Onestamente rimango un po’ deluso, il museo è grande ma mi aspettavo di più. Le macchine presenti sono le solite, quelle che sapevo ci sarebbero state. Speravo in un po’ di ricambio, specie sapendo che sotto di noi, nelle “segrete”, sono custodite tantissime altre vetture, che magari mi avrebbero interessato di più. Vengo preso da una specie di raptus del fotografo, senza godermi a pieno ciò che vedo. Fotografo di tutto perdendomi il meglio e la batteria esala l’ultimo respiro proprio prima che possa immortalare il Borg Warner Trophy, lo storico trofeo che raccoglie in basso rilievo il viso di tutti i vincitori. Il dolore è ancora più grande perché so che la coppa rimarrà in esposizione solo per oggi. Nel resto del week end sarà sballottata in giro in tutti i vari eventi. La guardo avidamente, cercando di stampare nella memoria tutti i suoi dettagli e le sue particolarità. Scatto due foto con il telefono, sapendo di non dover esagerare dato che non so quando lo potrò ricaricare. Comunico con casa mia solo attraverso sms, tenendo sempre il telefono spento per preservare la batteria.
Sono circa le 17.30, non mangio dalla mattina. Non ho fame, ma mi sembra di avere un calo di zuccheri. Probabilmente tutta la fatica si fa sentire in un colpo solo, perché d’un tratto voglio solo tornarmene a casa. Do un’ultima occhiata generale, anche se so che farò un’altra visita al museo, ed esco. Il sole è sempre più basso ma la mia testa lo ha visto anche troppo. Comincia seriamente a darmi fastidio. Decido quindi, finalmente, di comprarmi un cappellino. Lo faccio in un negozio esterno dove non posso neanche guardarmi, prendo il primo che mi sembra decente. Guadagno l’uscita velocemente, goccia di una marea di gente che lascia la pista in preda all’alcol. Nel sottopasso c’è come sempre un gran vociare, un gran casino, non capisco cosa urlano in coro. Pensavo di tornare a casa con lo stesso taxi della mattina, ma sono troppo stanco per chiamare e mi infilo nel primo che risponde al mio richiamo.
Il tassista si rivela subito poco simpatico, sembra fumato e passa tutto il tragitto scatarrando. Gli chiedo, senza troppa convinzione, se nei paraggi c’è un negozio di elettronica per comprare un nuovo adattatore. Lui vorrebbe portarmi ad un Kmart chissà dove. Lascio perdere, gli do quanto gli spetta e lo liquido. Entro in camera distrutto e assetato. Vado da Denny’s sperando che vendano bevande da portare via. La commessa mi guarda basita e mi rifila con fare scocciato un bicchierone che mi porto in camera. Lo scolo quasi tutto e mi metto a letto, alle sette di sera, in stato confusionale.
Foto Primo Giorno
La porta maledetta.
La colazione simbolo del viaggio.
Il mio primo incontro con lo Speedway. Quella soglia è un po’ come la tana del bianconiglio.
Veduta esterna della tribuna della curva 1. Benvenuti nella capitale mondiale del motorsport.
Il panorama mozzafiato che mi si presenta dal deck della curva 1. Tutto è come lo avevo immaginato.
Tutto è pronto per l’ultimo turno di prove.
Castroneves entra in pista, una delle poche foto venute bene.
Vista quasi frontale della Pagoda. Mi sono spostato nella tribuna centrale perché in curva 1 mi stavo congelando.
Zanardi parla con Power. Cercherò di salutarlo ma non ci sarà verso.
Castroneves e la sua squadra festeggiano la vittoria nella pit stop competition con la tradizionale scalata delle reti. Io sono proprio lì sotto.Stig mi saluta mentre fotografo un auto d’epoca che ha girato nella mattinata.
Due vetture mitiche: la Chaparral vincitrice nell’80 con Johnny Rutherford e la Wildcat con cui Gordon Johncock ha sconfitto Rick Mears nell’82.
Il Borg Warner Trophy
SECONDO GIORNO: DRIVERS MEETING E MEMORABILIA SHOW
Mi sveglio nel cuore della notte, annoiato e senza riuscire più a chiudere occhio. Guardo un po’ di televisione e uso il tablet per guardare le foto scattate il giorno prima. Così facendo ricarico anche la macchina fotografica, cosa che mi permetterà di usarla anche oggi, almeno per un po’. Faccio anche un giro su internet, dopo essermi fatto dare il giorno prima il codice di accesso, ma la linea è pessima. Inizia a farsi mattina e comincio la preparazione. Devo essere in pista presto, per non perdere la sessione di autografi. Purtroppo non andrà cosi. A colazione ho molta fame e scelgo un mix ancora più esplosivo del giorno precedente. Ci sono delle specie di fettine impanate, patate a scaglie e altre robe strane. Il tutto risulta piuttosto pesante.
Mi faccio chiamare dall’hotel lo stesso taxi del giorno prima, cosa che mi costa ancora più tempo. Il mio fidato tassista poi me ne fa perdere anche di più, non avendo il resto e dovendosi fermare in un distributore a cambiare soldi e comprare il pranzo. Distributore frequentato da personaggi che non sembravano troppo raccomandabili. Morale, arrivo in pista quando la sessione di autografi sta per finire. Non faccio in tempo a mettermi in fila che le linee vengono chiuse. Avrei voluto salutare Castroneves, fargli autografare il suo libro che mi porto appresso come inutile zavorra, ma non ci riesco.
Conosco un appassionato, un signore più grande di me, che ha un annuario del 2001 che vorrebbe farsi firmare. Gli autografi sono finiti ma mi dice di mostrare il libro a Helio, vedendolo lui lo firmerà. Ma il brasiliano è impegnato in un intervista e non si volterà più verso di noi, per cui niente autografo. Avrei voluto salutare Kanaan, dirgli che ero lì per vederlo vincere, ma niente da fare.
Almeno li vedo andare via tutti, mi passano davanti. Castroneves, Hunter Reay, Andretti. James Jakes dice che stava seguendo le qualifiche di Monaco. Mi verrebbe da dirgli “sei a Indianapolis, chissenefrega di Monaco”, ma evito. Bourdais fa una smorfia mentre va via. Saavedra sale sul suo mezzo e aspetta di poter andare. Sarà a un metro e mezzo di distanza, nessuno lo nota, quasi mi dispiace. A sessione di autografi finita Hinchcliffe intanto continua a firmare roba lanciatagli dai tifosi. Può sembrare una cazzata ma si conferma un grande. Insomma li vedo quasi tutti, fino a Ed Carpenter, il poleman, che mi ritrovo a mezzo metro. Ci guardiamo in faccia per qualche secondo, ma non riesco a dire niente. Non che fossi emozionato, non avevo niente da dire. Ero solo contento di essere lì. “Chissà se a Monaco uno spettatore qualunque potrebbe vedere le stesse cose”, mi chiedo. La libertà che ci viene lasciata, la disponibilità dei piloti, non smettono mai di sorprendermi. A parte in pista, si è liberi di andare praticamente ovunque ed esplorare in lungo e in largo questo posto magnifico.
Ho un problema però, un problema grosso. Già salendo sul taxi sentivo una certa pressione in pancia. La cosa si era aggravata nell’avvicinamento alla pista, perché per entrare all’interno del circuito ho dovuto percorrere un lunghissimo tratto a piedi. Per farla breve, mi sto cagando di brutto, una cosa terribile. Pago tutte insieme le due smisurate colazioni, col mio intestino che mentre ero a casa non aveva dato particolari segnali di malessere. Li da tutti ora, in modo allarmante. È però il momento del drivers meeting sul traguardo, l’evento principale della giornata. Decido di resistere e a fatica mi piazzo in un posto a media altezza nella tribuna cui davo le spalle ieri pomeriggio. Un‘esperienza agro dolce a causa del mio stato. Dalle tribune si levano voci di ogni tipo verso i piloti, anche quelli non presenti. Qualcuno inneggia a Briscoe, che un po’ imbarazzato deve salutare a più riprese. Come sempre Kanaan, Castroneves, Carpenter sono i più apprezzati. Davanti a me si siede un gruppetto di gnocche niente male, che già avevo notato alla sessione di autografi. Non mi sorprenderebbe se fossero delle specie di groupies, di certo è evidente che non sono troppo interessate al talento di guida. Il loro preferito sembra Marco Andretti, “quanto è carino” dice una di loro. C’è anche un grassone che cita rumorosamente i piloti, in particolare Bourdais, che chiama col soprannome SeaBass. Insomma, il solito colorito casino.
Tra i tanti “notabili” scorgo Max Papis, che da sotto il palco dà una specie di pizzicotto all’amico Franchitti. Mi sembra di vedere la sorella di Dan Wheldon, Holly e forse la moglie Susie. Ieri avevo visto anche la moglie di Dixon, la bellissima Emma. C’è l’inossidabile Bobby Unser, c’è ovviamente il direttore di gara, Beaux Barfield, che prima di prendere la parola sorseggia un tazzone di caffè e sembra una rock star. C’è Gian Paolo Dallara, che tanto avrei voluto salutare. C’è l’amministratore delegato, Mark Miles. Tutti i pezzi grossi insomma. La cerimonia va avanti tranquillamente, senza grossi momenti topici. Per fortuna c’è la mascotte del team Panther a tenerci svegli. Non sono mai stato un grande sostenitore di questi show ma era molto divertente. A volte tocca alzarsi, l’ultima cosa che vorrei fare in queste condizioni di precario equilibrio intestinale. Quando la cerimonia finisce, tutti lasciano la tribuna. Mi piacerebbe seguire Max Papis e scambiarci due parole, ma onestamente sto troppo male.
Vado più in fondo possibile nel lungo “corridoio” parallelo al rettilineo principale, cercando il bagno meno trafficato. C’è gente ovunque. Poi ne trovo uno un po’ più “isolato”, si fa per dire. Quasi tutti i bagni sono dei pisciatoi con in più qualche cesso con le porte. Mi fiondo in uno di questi, vincendo la mia resistenza a farla nei bagni pubblici, non posso davvero farne a meno. Mi lascio andare e finalmente mi svuoto. L’esperienza ha del tragicomico. Rimango in bagno almeno mezz’ora, durante la quale dimezzo un enorme rotolone della classica carta di bassa qualità. Non esco fino a quando non sono assolutamente certo di essere “in ordine”.
Finalmente mi rilasso e penso sia stata la decisione più giusta mai presa nella mia vita. Torno sulle tribune e mi godo la pista vuota. Poi è ora degli altri appuntamenti della giornata. Le sessioni di autografi con i piloti “storici” e la fiera della memorabilia. Ho una sete bestiale e acquisto una bottiglia d’acqua da mezzo litro che mi costa lo sproposito di 4 dollari! Di meno non si trova. La fila per gli autografi è così lunga che non si capisce dove inizi. Decido di usare diversamente il mio tempo, pensando ingenuamente di poter tornare verso la fine. Cerco la fantomatica fiera. Ero sempre stato convinto che si sarebbe tenuta all’aperto, per cui la cerco in tutti gli spazi più grandi. Chiedo ai vari addetti sparsi per tutta la pista, ma ognuno dà indicazioni diverse. Il tutto è piuttosto deludente e mi sarei aspettato molta più coordinazione e assistenza per gli spettatori. O forse gli organizzatori non credevano che si potesse arrivare a certi livelli di stupidità. Insomma, giro la pista in lungo e in largo, ma la fiera non si trova. Vado verso curva 4, faccio la cosa più utile della giornata raccogliendo una roba caduta a un membro dell’organizzazione, risparmiandogli una lunga camminata. Quasi fuori dalla pista chiedo agli ennesimi addetti. Un signore anziano mi indica la Pagoda e me ne parla come se non sapessi dove mi trovo. Gli dico che so tutto della Pagoda, voglio sapere esattamente dove si trova la fiera. Sulla via del ritorno becco Mark Miles, l’amministratore delegato, che sta salendo su un’auto probabilmente per andare alla parata in città. Penso di chiedere lumi anche a lui: “Dove cazzo è la fiera Mark?!”, ma desisto. Torno alla zona della Plaza e va a finire che la fiera era dentro degli uffici vetrati, che non lasciavano trasparire granché dall’esterno. Mi sento un perfetto idiota. Di certo ho bruciato ogni tipo di caloria, però il posto non è per niente ben segnalato.
La fiera è come me l’aspettavo, c’è di tutto. Non trovo quello che cerco di più però, il libro su Greg Moore. Ci sono magliette, gadget, foto, modellini in quantità industriale. Alla fine acquisto due annuari che avevo adocchiato su internet da anni e un modellino autografato di Montoya, da regalare a mio padre. La famigliola che mi vende i libri è molto simpatica, marito moglie e un ragazzino timido, che mi guarda con occhi sorpresi, non saprei dire se per l’importanza che do a due libri che magari avevano buttati a casa e a cui non dava nessun valore, o per il lungo viaggio che ho dovuto fare per essere qui. Il padre fa delle battute sicuramente divertenti, che però il mio inglese non mi permette di capire a pieno. Prima scherza sul prezzo, entrambi i libri costavano 10 dollari, poi paragona il mio modo di parlare agli abitanti del Mississippi. “Non sembro abbastanza italiano?” gli chiedo con un sorriso. Soddisfatto degli acquisti tento ingenuamente di mettermi in coda per gli autografi, ma mi viene fatto notare che le file sono chiuse e sono già iniziate quelle della nuova sessione, in cui ci sarà anche il grande Mario Andretti.
La fila è interminabile. Arrivato in fondo, faccio una delle più piacevoli conoscenze del viaggio. Incontro Jim, un signore della Florida con cui ho una lunghissima conversazione, che dura più di un’ora. Mi dice che sono decenni che viene a Indianapolis, segue tutte le gare che può. Mi racconta della sua esperienza nello Speedway, quando ha guidato delle vetture con motori di motociclette, dei suoi svariati incontri con Andretti e altri personaggi dei tempi eroici. Mi dice che un suo amico pochi giorni prima ha incontrato il grande Rick Mears in Florida. Gli ha detto che sarebbe venuto a Indy solo la domenica. Mi mangio le mani quando dice che Rick era alla sessione d’autografi proprio l’anno scorso.
Io gli racconto del mio viaggio, di cosa significhi per me essere lì. Parliamo di tutto e per me è una gioia avere finalmente qualcuno con cui conversare alla pari sul mio argomento preferito. Qualcuno che, come dimostrato, può anche insegnarmi qualcosa. A volte mi sembra quasi indispettito dal mio parlare troppo o dal fatto che lo interrompo. Cerco di limitarmi, ma penso capisca, se non capisce glielo spiego, che in Italia conversazioni del genere sono quasi impossibili. Parliamo anche di Zanardi, che come me ammira tantissimo. La discussione si estende anche ad altri appassionati, ma quando parlano tra americani mi è difficile stare al passo col discorso. Giudica comunque il mio inglese eccellente, il complimento che, a ogni longitudine, più mi inorgoglisce, anche se lo so essere una mezza verità. Nei discorsi non motoristici le cose non sono così semplici, anche se ho dimostrato di sapermela cavare. E la cosa mi da molta soddisfazione. Ci facciamo poi una grossa risata nel momento in cui un venditore di birra invita all’acquisto con la motivazione che, “la birra rende la fila più breve”. Sono però un po’ deluso quando veniamo informati che Mario Andretti ha dovuto lasciare il banco degli autografi per impegni già previsti. La fila praticamente si dimezza. Saluto quindi calorosamente Jim, che cerca autografi di piloti diversi da quelli che interessano me. Un addetto poi ci fa trasalire quando, scherzando, ci annuncia che il tempo è scaduto.
Quando finalmente mi trovo dinnanzi ai piloti, la faccia da ebete colpisce ancora. Li conosco quasi tutti, ma non riesco ad andare oltre un sentito “thank you”. Molti mi chiedono “how are you doing?”, che realizzo dopo (non che ci volesse tanto) significa più o meno, come andiamo? Certo se parlassero un po’ più piano e senza contrarre tutto sarebbe più facile. Per non fare brutta figura a volte, bloccato, non rispondo, facendone una peggiore. Per far capire la mia situazione dovrei camminare con una maglietta “non sono americano”, ma va bene lo stesso. Mi trovo al cospetto di Bill Simpson, al quale riesco a dire “è un onore”, ma è un po’ vecchio e non mi sta a sentire. Ci sono Robby McGhee, Eliseo Salazar, Billy Roe, Soldana e molti altri, non leggende, ma comunque meritevoli di rispetto e ammirazione per aver corso in questo posto. C’è anche Hiro Matsushita, al quale vorrei rispondere “thank you King”, ma non ho mai capito quanto il soprannome fosse ironico, per non rischiare problemi evito. La fila finisce con Jaques Lazier, Kenny Brack, Stefan Johansson e Derek Daly. Brack è il pilota che più tenevo a vedere, in altre circostanze avrei tante cose da dirgli, ma non spiccico parola e mi firma il cartoncino praticamente senza guardarmi in faccia. Ringrazio Johansson in italiano con un “grazie mille”, sapendo che per due anni ha corso alla Ferrari. Lui mi guarda strano, gli dico in inglese ”parli italiano, no?”, lui risponde nella nostra lingua: “pochissimo”. Rido. A Daly dico che mi ha insegnato un po’ d’inglese. Di fronte al suo “how?” rispondo, “con i tuoi commenti”. Mi dice “ah, buono a sapersi”.
Saluto e mi dirigo verso le tribune, dalle quali dovrei assistere ad un evento della Hot Wheels, contento per la splendida giornata, anche se speravo di cavarmela meglio con i piloti. Nell’attesa sfoglio i libri appena acquistati. Si sta benissimo, il cielo è stato coperto tutto il giorno, impedendo al sole di continuare l’opera di cottura portata avanti ieri. La temperatura è perfetta, si può camminare tranquillamente a maniche corte senza sciogliersi in un bagno di sudore. Vedo Mario Andretti, che si era assentato proprio per partecipare alla corsa delle Hot Wheels, che si rivela una noia mortale. Al termine dell’evento spero di incrociare Mario, di poterci scambiare due parole in italiano. Sarebbe il ricordo più prezioso del viaggio. Niente foto, la macchina si è esaurita da parecchio. Lo vedo impegnato in varie interviste che sembrano interminabili. Vado a farmi un giro senza vedere nulla di significativo e un quarto d’ora più tardi torno a cercarlo.
Non si trova, fino a quando lo vedo, a pochi passi da me, intento a firmare autografi. Stupidamente cerco nello zaino qualcosa da fargli firmare. Quando mi rialzo se ne sta andando sul suo motorino e non posso fermarlo. Era già stato fin troppo gentile a fermarsi con gli altri, più svegli di me. Giro un po’ nell’area dei garages, guardo i meccanici al lavoro su alcune macchine, ma di Mario non c’è traccia.
La pista comincia a svuotarsi e inizia a piovigginare. Me ne vado anch’io. Trovo subito un taxi, guidato da un ragazzo eritreo molto simpatico. Si dimostra subito disponibile. È l’ultimo giorno in cui posso trovare un adattatore, così gli chiedo di portarmi in qualche negozio. Mi conduce da Radioshack, dove mi dice di aver recentemente acquistato un caricatore da auto che però funziona quando gli pare. Le premesse non sono buone ma non m’interessa. Entro nel negozio e vengo assistito da una ragazza, a cui spiego la mia situazione relativamente all’adattatore. Ce ne sono di due tipi. Dopo mille elucubrazioni sulla forma della presa, sulla possibilità che il mio adattatore non funzioni per colpa delle prese vetuste dell’hotel, scelgo quello più semplice. Lo pago una decina di dollari, la ragazza non mi fa pagare le tasse. La testa bruciata, le occhiaie, l’inglese zoppicante, le incertezze sulla presa giusta devono averle fatto pena. Torno a casa, parlando con l’autista di quanto l’Italia abbia pesato sulla cultura del suo paese. Una volta giunti a destinazione, lo saluto caldamente.
Appena varcata la soglia provo l’adattatore e con mia somma gioia funziona! La giornata si trasforma in un trionfo. Sento che potrei restare in America per sempre. Per completare l’opera vado ad una stazione di servizio, dove già mi ero recato stamattina per prelevare dal bancomat. In America sono disseminati ovunque. Acquisto una tanica da un gallone di acqua, che in tre giorni non riuscirò a finire, più un gustosissimo sandwich. Ho appena appetito, ma lo mangio in pochi morsi perché è troppo buono. Nonostante la difficile esperienza coi bagni di Indianapolis, la colazione mi ha tenuto in forze per più di dieci ore! Mi sembra una giornata perfetta, quasi l’apice della mia vacanza. Penso di aver già vissuto tutto, non riesco a credere che quanto visto fin’ora sia solo il preludio di ciò che accadrà domenica. Mi ero quasi dimenticato che il giorno dopo ci sarebbe stata la gara! Guardo un po’ di tv ma mi addormento in fretta. Domani devo uscire di casa molto presto per evitare il traffico, che dopo le nove può diventare terribile.
Foto Secondo Giorno
I piloti si sistemano nella tribuna a loro dedicata sul rettilineo principale in attesa dell’inizio del drivers meeting.
Dopo il Drivers Meeting torno in tribuna per godermi lo Speedway vuoto in tutta la sua maestosità.
Mentre cammino tra i garages mi chiedo come farò a lasciare questo posto…
TERZO GIORNO: RACE DAY
Mi sveglio verso le 5. Chiamo subito a casa, dove sono sorpresi di sentirmi. Per due giorni avevamo comunicato solo tramite sms. La conversazione dura decine di minuti, ho così tante cose da raccontare! Poi inizio a prepararmi. Verso le 7.30 vado da Denny’s, dove faccio la stessa colazione con uova, bacon e salsicce del primo giorno. Il parcheggio dell’hotel è sicuramente più animato rispetto ai giorni scorsi e anche il locale è pieno di appassionati. Mentre torno verso la camera un taxi mi si accosta e l’autista mi chiede se ho bisogno di un passaggio. Gli chiedo se è disposto ad aspettare una mezz’oretta, lui acconsente. Non voglio ripetere l’esperienza del giorno prima, così cammino e saltello sul posto per 20 minuti, cercando di stimolare qualcosa nel mio intestino. Sembra tutto a posto però, così decido di partire, sperando di non avere brutte sorprese.
Come mi aspettavo, molti giardini sono stati adibiti dai proprietari a parcheggi a pagamento. In giro c’è un sacco di polizia per gestire il traffico, che però sembra ancora ordinato. Chiedo all’autista se è possibile fermarsi in qualche stazione di servizio. Ci fermiamo a un distributore, dove acquisto per meno di un dollaro un bottiglione d’acqua. Non voglio farmi fregare di nuovo 4 dollari al circuito. Il tassista si premura di sapere dov’è il mio posto in tribuna, così da lasciarmi nel punto d’accesso più vicino. Arriviamo a destinazione e con mia sorpresa il conto è di una quarantina di dollari. Non avevo mai pagato più di venti. Il tassametro era spento e il tassista mi spiega che per il “race day”, la tariffa è fissa. Ha ragione, pagherò lo stesso importo anche al ritorno. Anche lui ovviamente mi lascia il numero per chiamarlo al pomeriggio, cosa che al solito sarò troppo stanco per fare.
Scopro subito il bidone che mi ha rifilato. Mi ha infatti lasciato dalla parte opposta rispetto alla mia tribuna. Non è una cosa negativa però, dato che mi permette di andare in biglietteria e ritirare il cartoncino giallo che garantisce l’accesso alla garage area nel dopo gara. Ho qualche difficoltà a spiegare alla signora allo sportello la mia esigenza, ma in breve posso uscire trionfante col mio pass. Come sempre c’è la convalida del biglietto e gli addetti verificano che nessuno porti con sé oggetti di vetro. C’è molta più gente rispetto ai giorni precedenti, cosa che rende il tutto più lento, ma sono libero in breve. Mi prendo un mezzo spavento al bancomat quando il terminale mi da solo 4 delle 5 banconote da 20 che avevo chiesto. Faccio quasi per andare a chiedere aiuto quando spunta l’ultimo bigliettone. Tiro un sospiro di sollievo, ridendo insieme ai ragazzi in fila dopo di me.
È elettrizzante trovarsi dentro lo Speedway il giorno della gara. Si respira un’aria particolare e l’enorme folla amplifica tutto ciò. Comincio ad avvertire cosa significherà per me questa giornata e questa esperienza. Il sentimento di far parte di qualcosa di grande. 300.000 persone che accorrono nello stesso posto per assistere ad uno spettacolo che si ripete, rinnovandosi, uguale nello spirito da un secolo. I piloti dicono spesso che correre a Indy è prima di tutto un orgoglio e un privilegio. Penso che il tutto si possa estendere anche agli spettatori. Essere in questa cattedrale della velocità è per me un privilegio.
Entro dal sottopasso principale all’interno della pista, dove si muove un mare di folla. È presto, ma c’è già tantissima gente. Più tardi, stento a crederlo, sarà molta di più. Giro in lungo e in largo la zona dei garages, la Plaza, la zona intorno alla Pagoda. Tutto ormai mi è molto familiare. Sul rettilineo principale sono già iniziate tutte le manifestazioni. Vorrei poterle vedere, ma il mio biglietto vale solo per la curva 3. La gente è così tanta che in certi punti le direzioni di spostamento sono obbligatorie. Ci si inizia a disporre intorno alla Gasoline Alley per veder passare macchine, piloti e celebrità varie, anche se è ancora molto presto. Dietro la tower terrace osservo la banda musicale suonare le tipiche cornamuse. Dopo un po’ mi stufo e comincio lentamente a dirigermi verso la “mia” zona. Passo davanti agli stands delle squadre e osservo un po’ di mercanzia del team Penske. Parlo con un’inserviente e chiedo a che ora chiuderanno. “Non posso portarmi appresso gli acquisti tutto il giorno” le dico. Lei concorda, dicendomi che rimarranno aperti almeno fino a un’ora dopo la fine della corsa.
Continuo a camminare, vagando senza una meta precisa per far passare il tempo, tenendomi alla larga dal fiume di gente della Plaza. Percorro un prato, adibito solo per oggi a parcheggio, è poi a ritroso il rettilineo di ritorno dello stradale, la Hulman Boulevard. È ancora troppo presto per andare in tribuna, mancano almeno tre ore alla partenza. Vedo per la prima volta aperti gli ingressi per il campo da golf interno alla pista. Non ero mai stato su un prato del genere e non mi faccio scappare l’occasione. L’ambientazione è rilassante, da un certo punto di vista agli antipodi con una corsa automobilistica. Percorro prati, colline, aggiro laghetti dove soggiornano papere e vari animaletti. Continuo l’esplorazione di questo tratto per me inedito lasciando il campetto e percorrendo la parte interna del rettilineo opposto a quello dei box. Qui osservo la cultura delle corse americane in tutta la sua più pura ed esplicita essenza: borse frigo piene di birre, griglie con sopra la carne, sedie sdraio, asciugamani sull’erba, giochi di vario tipo. Un’autentica festa paesana a indispensabile corollario della corsa più sacra del panorama automobilistico. Molti di loro conoscono giusto i 3-4 piloti più famosi e non seguono minimamente il campionato. Sono solo qui per onorare una tradizione e passare una piacevole giornata in compagnia con i motori in sottofondo. Il clima di festa diventa ancora più palpabile quando arrivo allo Snake Pit, dove il tutto raggiunge l’apice. Una festa all’aperto sulle collinette interne alla curva 3, dove la birra scorre a fiumi, i palloni da football volano nell’aria e magari scoppia anche qualche rissa.
Percorro il sottopasso della Nord Chute e mi ritrovo fuori, alla ricerca della mia tribuna. Come in tutto il resto della pista, ci sono innumerevoli venditori di cibo tipicamente americano, carne cucinata in tutti i modi possibili e nessuna traccia di verdura! Mi incuriosisce in particolare la cosidetta Turkish Leg, un coscione preparato arrosto di un animale non meglio identificato, che ti viene venduta avvolta in un pezzo di carta. Da mangiare rigorosamente a morsi. Durante la giornata mi ritroverò più volte a schivare pezzi di questo ammasso di carne persi da affamati acquirenti. Normalmente mi piacerebbe provare un po’ di tutto, senza dubbio squisito, ma la mia colazione impegnerà il mio apparato digerente per molte ore ancora. Le bevande partono come sempre dai soliti 4 dollari, indipendentemente dal grado alcolico. Ci sono numerosi chioschi per affittare delle seggiole con cuscini. 10 dollari per tenere il sedere contro una superficie morbida, dopo la corsa vanno riconsegnati.
Arrivo finalmente alla tribuna, ancora semideserta. Non mi è difficile trovare il mio posto. Mi compiaccio subito della scelta, sapevo di aver preso degli ottimi posti ma la visuale va quasi oltre le mie aspettative. Si vede tutto quello che volevo. Scambio due battute con una signora arrivata prima di me: “Gran bei posti” le dico, “sicuri”. È sorpresa da questa mia affermazione. Se potesse si toccherebbe le palle. Non nego che una delle mie preoccupazioni erano i possibili detriti derivanti dagli incidenti. “Sono molti anni che prendiamo questi posti” mi dice. Mancano ancora due ore e mezza alla partenza e non mi sono portato niente da leggere. L’ennesima, lunghissima attesa di questo viaggio. Penso che gli organizzatori potrebbero rendere più interessante queste ore per chi non è sul traguardo. Succede tutto lì. Non che non immaginassi la cosa ma almeno non c’è caldo e questo rende il tutto più sopportabile. Passo le ore successive a chiedermi se sia il caso di procurarmi un sediolo con cuscino. La gran parte di chi arriva ne ha uno in affitto o di proprietà. Alla fine mi dico che ce li hanno soprattutto gli anziani, resisterò. Si rivelerà una buona scelta dato che non soffrirò nessun fastidio dalle panche metalliche, pur rimanendoci seduto almeno 5 ore. Sarà l’effetto della gara, chissà.
Pian piano le tribune si riempiono. In cielo passano numerosi aerei con messaggi pubblicitari. Si sono moltiplicati rispetto alle giornate precedenti. Osservo i giochi nello Snake Pit e dal mega schermo di fronte vedo le vetture che vengono portate in pista. L’emozione cresce. Le tribune sono sempre più piene. Non bisogna dimenticarsi che oltre alla corsa si festeggia il Memorial day. Gli amici americani me lo ricordano fin troppo bene, con un’interminabile parata di eroi dell’arma che ci tiene in piedi ad applaudire per almeno un quarto d’ora. Non sono mai stato un sostenitore della politica imperialista americana e spesso ho trovato ridicolo il loro “amore” per le forze armate. In questa situazione mi sento comunque in dovere di applaudire questi uomini e queste donne che, a torto o a ragione, sono sicuro hanno agito nel rispetto di un ideale vero. La bandiera verde si avvicina e le parate si susseguono. In precedenza erano sfilate Miss di ogni tipo. È ora la volta di diversi vincitori del passato, tra i quali Bobby Unser, Tom Sneva, Kenny Brack e l’onnipresente Parnelli Jones. La prima comparsata la fanno alla guida delle vetture con cui hanno vinto le loro edizioni, la seconda a bordo di alcune storiche pace car Corvette, tra cui la splendida Sting Ray.
In un attimo di relativa quiete, sento levarsi sempre più forte un applauso dalla tribuna a fianco alla mia. Le reti e la gente in piedi mi impediscono però di capire cosa succede. Poi vedo Lui, Rick Mears, che come se nulla fosse attraversa la tribuna sorridente, mentre incassa gli applausi di chi l’ha riconosciuto, recandosi sul piano rialzato degli spotter. Sarà lui infatti l’angelo custode all’orecchio di Castroneves, almeno per il lato Nord della pista. Quando lo vedo applaudo con forza e prima che sparisca gli scatto una foto. Jim aveva detto giusto, è venuto solo per la gara. Non ci avrò parlato, ma almeno i miei idoli li ho visti tutti. Potendo però sarei andato ad abbracciarlo.
Ormai ci siamo. I piloti vengono presentati al pubblico. Fila per fila salgono su un palco nel traguardo, raccogliendo il tributo della folla. Come ieri i più acclamati sono Castroneves, Kanaan e Carpenter. Franchitti riceve applausi ma anche qualche fischio, frutto del contestato ultimo giro dell’anno scorso. Dopo le tante canzoni in rispetto della tradizione, è il momento dell’inno. Tutti ci alziamo, gli americani si mettono la mano sul cuore. Con mia sorpresa, nessuno canta. È un momento solenne, che diventa euforico quando verso la fine la cantante, come al solito, lancia un acuto lunghissimo pronunciando la strofa “the land of the free”, apprezzato fragorosamente da tutti i 300.000. Io sorrido, emozionato e divertito. Dopo di che è la volta dell’inno ai caduti, suonato con un assolo di tromba e accompagnato dagli spari a salve dei cadetti.
Arriva poi il momento magico, il primo almeno. Jim Nabors canta “Back home again in Indiana”, di cui conosco ogni parola. Non ho il coraggio di cantarla, ma il vuoto è colmato dal resto dei presenti. Registro la performance di Nabors con la fotocamera e un po’ me ne pento, perché ho l’impressione di non prestare la dovuta attenzione. Con un po’ di ritardo mi accorgo infatti del librarsi in aria della tradizionale, enorme nuvola di palloncini colorati, che rimarranno sospesi per parecchi minuti prima di diradarsi. Mi aspettavo che vivere questi momenti mi avrebbe fatto venire i brividi, emozionato fino alle lacrime. Come per il resto degli eventi topici di questo viaggio invece, mi limito a sorridere, assaporando il momento e osservando le reazioni di chi mi sta attorno. Lo stesso accade per il più sacro dei momenti: il comando. Ne registro solo l’audio perché voglio cogliere tutto. Mary Hulman George attende il segnale e poi pronuncia le sei magiche parole: “Ladies and Gentlemen, Start your Engines!”.
Il silenzio dell’attesa si trasforma in un boato collettivo. “Finalmente si parte” mi dico. Le macchine cominciano a muoversi, insieme a un corteo di pace car e la biposto guidata da Mario Andretti, che scorrazza un fortunato passeggero. Faccio delle foto al serpentone. Alcuni piloti salutano, non posso non contraccambiare. Al secondo giro di riscaldamento Mario si sgancia dal gruppo e comincia a spingere. Ci passa davanti fortissimo, resto di sasso. Poi lo fermano ma sono certo che, fosse per lui, cercherebbe di correre anche con quella biposto! Al terzo giro il gruppo si presenta a file di tre. Quante volte avrò visto questa scena? Quante volte l’avrò immaginata? Scatto le ultime foto e metto a posto tutto. Il gruppo passa curva 4 e poi, bandiera verde!
Rimaniamo tutti in piedi per i primi due giri. La folla esulta quando l’idolo di casa, Ed Carpenter, si presenta al cospetto della curva 3 in testa. Lo stesso accade nelle altre curve. Dopo soli 3 giri, arriva però il primo incidente, JR Hildebrand che si è schiantato in curva 1. Con il mio occhio proverbiale, seppur il megaschermo non sia chiarissimo, lo riconosco prima di tutti gli astanti che, un po’ orbi o probabilmente poco abituati, hanno bisogno che sia lo speaker a informarli. Ogni bandiera gialla è un’occasione per osservare tutto l’ambiente. Non sono claustrofobico e non avverto nessun disagio, ma è la prima volta che mi ritrovo nella pancia di una folla così grande. Siamo tutti vicini, ma c’è un minimo di spazio vitale. Gli americani, come sempre, mi sorprendono per la cortesia, tanto da farmi pensare che sia un atteggiamento più formale che sincero. Appena ti arrecano, o pensano di arrecare, un minimo disturbo, ti chiedono scusa. Attorno a me ho un signore occhialuto, evidentemente grande appassionato dato l’armamentario radio che si porta dietro, accompagnato da un bambino che sembra già un tifoso esperto. Sulla destra ho tutta una famiglia, la madre sembra tifare per Will Power, il ragazzo ha una maglietta verde di Kanaan. Tony è senza dubbio il maggior catalizzatore di pubblico, come era noto e come mi è stato confermato dalla calorosissima accoglienza riservatagli durante la presentazione dei piloti. Nelle file più in basso non mancano personaggi stravaganti, vestiti in modo improbabile e palesemente sotto l’effetto dell’alcol. Per fortuna “ai piani alti” sta soprattutto gente realmente interessata alla gara.
Tutti in piedi, nuovamente, per la ripartenza. Dopo due giri Kanaan porta a termine una rimonta che lo ha visto recuperare almeno dieci posizioni e, proprio davanti a noi, prendere la testa della corsa. Il pubblico, io per primo, va in delirio, ma è solo l’inizio. Vedo che Josef Newgarden non va bene come mi aspettavo, perde terreno e a un certo punto, proprio davanti a noi, corregge una spettacolare sbandata. Esclamo qualcosa, l’uomo-radio a fianco si toglie le cuffie per sentire ciò che ho da dire. “Newgarden era tutto di traverso!” gli dico, “Si si ho visto” mi fa lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La corsa viene interrotta brevemente nei giri successivi. Ancora una volta avvisto il responsabile dell’interruzione con grande anticipo. Un incidente ci capita quasi davanti, Saavedra che colpisce il muro in curva 4, sparendo dietro gli edifici. Le bandiere gialle si concentrano nei primi 100 giri, l’ultima la fa uscire Sato verso metà gara, girandosi all’uscita di curva 2 quasi sotto i nostri occhi. Poi c’è un lunghissimo tratto di bandiera verde che arriverà quasi al finale.
Non è il tipo di gara che mi aspettavo. Credevo che col passare dei giri il gruppo si sarebbe sgranato e avremmo visto passarci davanti le vetture senza soluzione di continuità. Invece le prime 20-25 macchine rimangono attaccate in un serpentone lunghissimo. A parte qualche ritardatario quindi il gruppone si alterna a una pista quasi deserta. Meglio per lo spettacolo perché vediamo più sorpassi e la corsa è apertissima, però non nego che a volte concentrandoti sul mega schermo quasi ti dimentichi che ti stanno passando davanti. Sarà l’effetto dell’assuefazione da divano e tv, penso sorridendo. Come nelle prove certe manovre millimetriche mi lasciano di stucco, si sfiorano come se nulla fosse. Anche in gara le vetture mi appaiono “opportunamente” veloci, ma non straordinariamente veloci. Eppure entrano in curva a 370 all’ora. Chissà che pretendevo.
Gli amici americani cominciano a dare un perché alle varie borse frigo che si portano dietro. Tirano fuori sandwiches di ogni tipo e bevande varie. Probabilmente i 4 dollari pagati per un mezzo litro d’acqua in qualche edizione passata hanno insegnato qualcosa. Passano i giri, si susseguono le soste. A volte capire bene il gioco delle strategie è difficile, anche perché ogni tanto mi dimentico chi è già entrato e chi no, anche se lo speaker aiuta. A un certo punto ho una sensazione simile a quanto mi succede guardando la corsa da casa. È un evento che aspetto tutto l’anno, però non nego che verso metà gara mi ritrovo puntualmente a pensare: “certo che è lunga questa corsa”. Non oso chiamarla noia, diciamo che è una lontana parente. Incredibilmente anche qui, dal vivo, ho la stessa sensazione. Come sempre però, passa velocemente, e se i primi 110-120 giri possono sembrare lenti, gli ultimi 80 vanno via troppo in fretta. Quando ne mancano 40 o giù di lì infatti comincio a pensare: “Oh no, ci siamo, sta per finire tutto”. In parte però sono contento, la corsa è combattutissima e non vedo l’ora di assistere al gran finale, perché sarà uno spettacolo. Intanto il sole si è timidamente affacciato tra le nuvole, leggero ma sufficiente a infastidire la mia sensibile testa, che proteggo col cappellino.
Ormai faccio il conto alla rovescia: -20, -15, arriviamo a -10 dal termine. Sono contento, non è una corsa sui consumi, ognuno ha carburante per arrivare e sarà una battaglia all’ultimo sangue. Già da un po’ si sentiva l’eccitazione crescere, ma ora il circuito sta diventando una bolgia, il pubblico freme e anche chi è qui solo per una sbornia vuole conoscere il nome del nuovo campione. Poi tutto si ferma. Non succedeva da così tanto che ci sembra quasi strano. Graham Rahal perde la macchina in curva 2, lontano ma comunque davanti a noi, causando una bandiera gialla. Mancano una decina di giri, c’è tutto il tempo di ripartire. Anzi, questa bandiera gialla li farà avvicinare ancora di più, sarà un finale da ricordare. Faccio le ultime foto prima della ripartenza. Ne ho fatte un sacco durante la corsa, ma scoprirò che in molte c’è sempre qualche rompicoglioni un po’ bevuto che occupa l’obiettivo incitando maldestramente i suoi “pupilli”.
Mancano tre giri e ormai ci siamo. Hunter Reay si presenta davanti a noi al comando, dietro di lui l’idolo del pubblico, Tony Kanaan. Spero tanto che ce la faccia, non gliel’ho potuto dire ieri, ma voglio che vinca lui. Tutti in piedi, casino incredibile, si riparte. Tutti guardiamo il megaschermo, Kanaan passa in testa portandosi dietro il giovane Munoz. Dalle tribune si leva un boato, anzi due, perché subito dopo Franchitti colpisce il muro in curva 1, causando un’ultima, decisiva bandiera gialla. Sappiamo tutti cosa vuol dire: le posizioni sono congelate e non c’è tempo per provare a finire la corsa in bandiera verde. Kanaan ha vinto. Il pubblico è diviso tra la gioia per Kanaan e il dispiacere di non poter assistere fino alla fine allo spettacolo che si stava per compiere. L’unico contento sembro io, che festeggio come un ossesso e lascio partire un “Yeaaahh!”, che sorprende persino me. Sono a dir poco raggiante per Tony, quando ci passa davanti agito all’impazzata il cappellino, la folla lo acclama come un Re. Lo stesso accade all’ultimo giro, Tony e gli altri sfrecciano dietro la pace car per l’ultima volta, poi il traguardo.
Il boato è colossale. Lo festeggiamo ancora quando ci passa davanti nel giro d’onore, con tutti i piloti che lo affiancano per congratularsi. Vorrei fare una foto, ma preferisco godermi il momento e salutare Kanaan col cappellino, come tutti. Rimaniamo tutti lì a vederlo scendere dalla vettura e festeggiare. Si ride di gusto quando dice “finalmente metterò la mia brutta faccia sul trofeo”. Sono combattuto se rimanere in tribuna e aspettare che Tony faccia il giro di saluto sulla pace car scoperta o andare in fretta e furia verso la garage area, dove mi dovrò comunque dirigere, per vedere macchine e piloti lasciare la pista, prima che non ci sia più nessuno. L’entusiasmo per la corsa è ancora grande però e mi convince a rimanere. Ascolto le interviste e osservo lo svuotamento delle tribune e del prato. Una guerra nucleare avrebbe fatto meno danni, la quantità di mondezza sparsa in giro è impressionante. Agito ancora il cappellino verso Kanaan che ci saluta con partecipazione dalla Camaro decapottabile, faccio le ultime foto alla pista e al circondario da questa prospettiva per me inedita e scendo dalla tribuna dalle scale posteriori, che mi porteranno direttamente ai piedi degli spalti. Una volta giù devo fare il percorso inverso a quello tenuto per arrivare. Ho fretta e cavalco il mare di folla, schivando pezzi di pollo e lattine disseminate ovunque.
Sulla via del ritorno vedo scene di tutti i tipi, gli effetti dell’alcol si fanno sentire e nel sotto passo i tifosi fanno un casino infernale. Vanno via tutti, sono uno dei pochi che cerca di rientrare. Ad un certo punto si alza potentissimo un coro USA-USA-USA che, nonostante per i colori americani non sia stata poi questa gran giornata, evidentemente ci sta sempre bene. L’alcol mostra ancora i suoi effetti quando vedo una mezza rissa, con due energumeni che si scambiano parole sicuramente poco cortesi. Uno dei due ha certamente fatto apprezzamenti sulla ragazza dell’altro, con lei che tenta di fare da paciere. Arrivo a passo di record agli stands delle squadre, che temevo avessero già chiuso. Sono rosso in volto e sudato ma non mi importa, è il momento di fare i miei acquisti. Mi porto a casa la biografia di Rick Mears, che da tanto volevo acquistare, oltre a una maglietta nera del team Penske. Medito se provare anche una giacca ma desisto, un po’ incazzato perché qualcuno più furbo si è già fregato un bellissimo modellino di Castroneves che, essendo della macchina vecchia, costava solo 30 dollari invece dei 60 della nuova.
Mi reco quindi con le mie buste nella garage area. Come previsto, i piloti e i big se la sono già squagliata. Ci sono però parecchie macchine presidiate dai rispettivi meccanici, che aspettano il proprio turno per affrontare le verifiche tecniche. Possiamo girare dappertutto e avvicinarci alle vetture oltre ogni immaginazione. Mi ritrovo a 20 cm da quella di Castroneves. La osservo in ogni dettaglio, faccio diverse foto. Vorrei toccarla, probabilmente i meccanici non mi direbbero niente, dato che sto in parte pagando il loro stipendio con gli acquisti che ho appena fatto. Per decenza mi limito a guardare. Certo le vetture appaiono meno linde e splendide di come le avevo osservate per esempio venerdì. Hanno l’aspetto vissuto di chi si è appena fatto 800 chilometri, con moscerini attaccati e macchie di olio misto ad acqua. Osservo anche l’usura delle gomme, specie nella macchina di Andretti.
Ad un certo punto passa Vautier, molti si avvicinano per fare un autografo o una foto. Io gliene scatto una in lontananza ma non ho voglia di corrergli dietro. Una foto l’avrei invece fatta volentieri con Rick Rinaman, lo storico capo meccanico colonna portante del Team Penske. È però impegnato a vigilare sulle verifiche tecniche delle vetture di Power e Allmendinger, per cui non disturbo. Ad un certo punto compare la vettura vincitrice di Kanaan, portata verso le verifiche dai meccanici dopo aver completato tutte le cerimonie. Un applauso si leva spontaneo da tutti i presenti. Li seguo per un po’, poi comincio a stancarmi.
Onestamente non c’è più molto da vedere. Sono circa le 16:30 ed è troppo presto per tornare a casa anche se sono stanco. Mi aggiro come un fantasma tra la Pagoda, la Plaza e qualche negozio. Vado poi verso l’area del museo mentre comincia a piovere con una certa insistenza. Do un rapido sguardo alle varie Corvette in esposizione, un’ultima occhiata alla pista agli sgoccioli del race day e infine esco, come sempre dal sottopasso del museo, insieme a molti altri. Incredibilmente, sembra più difficile degli altri giorni trovare un taxi. C’è polizia ovunque. Percorro la strada parallela alla South Chute e ne avvisto due fermi in un viale secondario. Sono lì in attesa di clienti per cui salgo e me ne torno a casa. Sono un po’ stanco per conversare, anche se scambio comunque qualche battuta col tassista. Sono una quarantina di dollari anche al ritorno.
Entro finalmente in camera, mezzo stravolto. Decido però di chiudere in bellezza e, indossando la maglietta del Team Penske, vado da Denny’s a provare una specialità che mi incuriosisce fin dal primo giorno: la banana split. Mi si presenta un piattone con tre banane tagliate a metà, gelato alla fragola, cioccolato e panna. È naturalmente buonissima, però dopo un po’ la mangio più per dovere che altro. È davvero enorme e alla fine ne lascio un po’ nel piatto. Mentre faccio per andarmene noto che un signore davanti a me lascia dei soldi sul tavolo e, con colpevole ritardo, capisco. La mancia la devi lasciare lì, non alla cassa. Chissà quanto volte avrò visto la scena nei film americani, eppure non mi era minimamente saltato in mente. Lascio 1 dollaro, pago e me ne torno in camera a tracannarmi un litrozzo d’acqua. La generosa colazione dopo dieci ore mi aveva lasciato senza troppo appetito ma un po’ a corto di energie. La banana split colma la lacuna e non considero neanche l’idea di prendere qualcosa per cena. In tv danno la corsa Nascar di Charlotte, che guardo per un po’ disteso a letto. Il sonno però avanza inesorabile, a metà gara mi ritrovo mezzo addormentato. Spengo tutto e dormo per parecchie ore, tanto domani posso fare quello che mi pare.
Foto Terzo Giorno
It’s Race Day at Indianapolis!!!
Dal mio posto vedo fino all’uscita di curva 4. Lentamente le tribune si riempiono.
Parnelli Jones saluta il pubblico, calorosamente ricambiato.
Con il solito fare “a riflettori spenti”, il mito, Rick Mears (di spalle con il cappellino nero), si reca alla postazione degli spotter, applaudito da chi lo riconosce.
Mario Andretti ci lascia di stucco passando ad una velocità paurosa.
Il grande momento è arrivato. In fila per tre e pronti alla partenza!
Le battaglie abbondano in tutto il gruppo assatanato.
Riesco a cogliere questo spettacolare 3 wide con, dall’interno: Bourdais, Briscoe e Katherine Legge.
Tre giri al termine, curva 3, 4 e poi ci sarà la ripartenza decisiva. Kanaan segue come un’ ombra Hunter Reay.
Scene di devastazione. Quel che resta di curva 3. Lo Snake Pit ha lasciato il solito casino
La “verdona” di Hinchcliffe va a dormire.
Qui invece sono raccolte le vetture che devono ancora sostenere le verifiche tecniche.
La torre delle posizioni rimarrà accesa tutta la sera a ribadire la vittoria di Kanaan e la nuova media record.
Inizio la mia personale ispezione delle vetture.
Non c’è nessuno zoom, sono davvero a un passo dalla vettura di Castroneves. Al mio fianco, i meccanici aspettano il loro turno per le verifiche.
La vettura di Allmendiger è portata alle verifiche.
Rick Rinaman, sulla sinistra di spalle, attende di affrontare le verifiche tecniche per le vetture di Power e Allmendinger.
Ci fermiamo tutti ad applaudire il team vincitore.
La nuova grintosissima Sting Ray, fari accesi e V8 che ringhia.
Dopo una lunga giornata di “lavoro” indosso la maglietta del team Penske …e mi premio con la Banana split!
QUARTO GIORNO: MEMORIAL DAY
Mi sveglio abbastanza presto e impegno il tempo controllando i miei acquisti e facendomi un giro su internet col tablet. Poi mi preparo per la quarta giornata vissuta a Indy. Oggi è il Memorial Day, festa nazionale, per cui non mi aspetto di trovare chissà che in giro. Il programma della giornata è però ugualmente interessante. Tornerò in pista per fare un giro del circuito, andrò a fare visita alla sede della Dallara e nel pomeriggio dovrei fare un giro in città. Mi presento da Denny’s verso le nove e mezza, ordinando la solita, buonissima colazione a base di uova e bacon. Certo, otto uova in quattro giorni farebbero impallidire qualunque nutrizionista, ma non ci faccio troppo caso, specie considerando cosa ingurgita chi sta nei tavoli circostanti. Energumeni di estrazioni diverse che però mangiano in media due porzioni di quello che ho ordinato io. Molti parlano ancora della gara di ieri, probabilmente essendo festa hanno deciso di partire con calma passando la notte in città. Io mi gusto la colazione, osservando il comportamento di altri clienti, specie riguardo la solita mancia, che ormai sta diventando un’ossessione.
Lascio due dollari sul tavolo e mi avvio trionfante alla cassa, dove ho una sorpresa. Il titolare mi chiede se sto in quell’albergo laggiù. Poi mi dà lo scontrino con un 15% di sconto. Gli chiedo spiegazioni e mi dice che chi alloggia lì ha diritto alla riduzione. Mi chiedo se me l’abbiano fatto notare solo oggi che ho lasciato la mancia. Probabilmente però è solo una coincidenza. Dopo di che mi faccio chiamare un taxi, che dovrebbe portarmi alla sede della Dallara, nelle vicinanze dello Speedway. Ho un po’ di difficoltà a spiegarlo al tassista, che in più si dimostra un furbastro, trattenendo dai 20 dollari che gli consegno una mancia ben più larga di quanto gli avrei dato. Raggiungo la sede della Dallara, che però aprirà solo tra qualche ora, contrariamente a quanto scritto sul sito. Condivido la frustrazione con un’anziana coppia.
Decido allora di andare prima allo Speedway, una discreta camminata. Sul tragitto trovo la sede del team Fisher, ugualmente chiusa. Osservo l’interno dalle enormi pareti di vetro, poi proseguo. Certo che tutta la zona, lontano dal week end di gara, non appare certo florida. Classico panorama di periferia americana.
Entro nel circuito dall’ingresso principale in curva 1, il posto è quasi deserto, ogni tanto trovo degli spazzini, che poi sono ragazzini delle medie coinvolti in un progetto ecologico. Raccogliere tutte quelle lattine…non li invidio. Percorro la via parallela alla South Chute e osservo tutte le bancarelle chiuse. Arrivo finalmente all’ingresso nei pressi del museo e ho una sorpresa. Il cancello è chiuso, sarei dovuto passare dall’esterno. Medito un attimo se sia il caso di tornare indietro o trovare una via qui dentro. Poi realizzo che il cancello non è poi così insuperabile e riesco a scavalcarlo. Sorrido, pensando che sono sempre stato una frana in queste cose. Lo Speedway mi fa fare questo e altro. Al museo trovo una fila piuttosto lunga e disorganizzata. Siamo tutti lì per fare un giro di pista con l’autobus. Dopo un po’ di attesa sono fortunato a essere inserito nel primo gruppo. Salgo sul mezzo e trovo un posto in fondo, in mezzo a turisti di ogni tipo.
Partiamo dirigendoci verso curva 1. Nel tragitto troviamo il camion del team di Kanaan che sta lasciando il circuito, anche qui ci scappa l’applauso. Una volta in pista, mi sorprendo di quanto le curve siano sopraelevate, nonostante la pendenza sia di soli 9 gradi. È anche parecchio stretta. L’ho percorsa milioni di volte nei videogiochi e sembra proprio uguale. Osservo gli spalti, il muro con i segni delle gomme di qualcuno che ci è finito contro, i ragazzini che buttano giù le lattine. Le raccoglieranno dopo. Mentre ci dirigiamo verso curva 3 mi sorprendo ancora di quanto sembri stretta. Passiamo di fronte a dove ero seduto ieri. L’altoparlante racconta i classici aneddoti per turisti, nulla di nuovo. Poi arriviamo sul traguardo. È un emozione essere in pista nel posto sacro, la iarda di mattoni. Vorrei baciarla ma mi sentirei un po’ stupido. Vedo però che lo fanno tutti per farsi immortalare e a quel punto viene meno ogni freno inibitore e mi lancio in un bacio appassionato. Sono l’unico a farlo senza una macchina fotografica a puntarmi. È un momento significativo. La tocco, la osservo in ogni particolare. Vedo che si estende fin dentro la Pagoda e la Plaza. Osservo con reverenza la torre delle posizioni e la torretta dei commissari. Faccio poi diverse foto alla mitica curva 1. Sul finire della scampagnata un ragazzo di origini asiatiche mi chiede di fargli una foto sulla striscia di mattoni e davanti alla Pagoda. Acconsento e gli chiedo di restituirmi il favore.
Dopo di che tutti a bordo e di ritorno verso il museo, al quale abbiamo accesso grazie allo spillone consegnatoci in precedenza. Di nuovo vengo preso dal raptus del fotografo. Mi sembra più importante fotografare che osservare e cogliere lo spirito di tutto, poi mi do una calmata e mi impongo di leggere tutte le targhe che spiegano la storia di ciascun veicolo. Leggere velocemente e in inglese non è facile, ma la mia conoscenza della storia dello Speedway ne esce certamente rinvigorita. Continuo a fare foto, cogliendo particolari all’apparenza inutili ma che a un malato di corse come me possono interessare. Violando ogni regola, mi appoggio sul finestrino della poderosa stock car di Richard Petty, scattando alcune foto degli interni. È un colossale pezzo di ferro, non posso fargli niente. Continuo il mio giro osservando e fotografando di tutto. Rimango minuti ad ammirare i ritratti dei vincitori e delle personalità che hanno fatto la storia.
Osservo con grande attenzione tutta l’ala dedicata a Parnelli Jones, dove campeggia anche un grosso pick up da corse nel deserto. Passo poi molto tempo ad osservare la vettura vincitrice della prima edizione del 1911, la Marmon Wasp di Ray Harroun, insieme alla vincitrice del 2011, la Dallara-Honda del grande Dan Wheldon. La vettura dello sfortunato pilota inglese è quella che, scusandomi con il leggendario Harroun, raccoglie gran parte della mia attenzione. La osservo in ogni suo particolare. Rimango comunque deluso per l’assenza del Borg Warner Trophy, che ovviamente sarà in giro insieme a Kanaan. Dopo qualche ora penso di aver visto tutto e mi faccio un giro nei negozi del museo. Sono combattuto se comprare un poster che mi appare però insolitamente caro. Il giorno prima avevo comprato una moto per mio fratello, c’è ancora mia madre da sistemare. Non prendo niente e, rivolgendo un’ultima affezionata occhiata, saluto lo Speedway e mi dirigo verso la sede Dallara. Sono circa le due del pomeriggio e c’è un caldo quasi insolito, visto il meteo dei giorni scorsi.
Arrivo alla meta un po’ sfatto. Una delle inservienti parla italiano, anche se c’è poco da dire. Non rimango per niente impressionato dal posto. C’è qualche macchina in esposizione, souvenirs carissimi, simulatori non troppo in forma. Giro in lungo e in largo, poi dopo un’oretta decido di andarmene. Sotto il sole cocente, vado alla ricerca di un taxi, ma nelle vie attorno alla pista non ve n’è traccia. Inizio un po’ a preoccuparmi, perché tornare a piedi all’hotel sarebbe folle, per la distanza e perché non saprei esattamente dove andare. Mi ricordo di averne visto qualcuno nel parcheggio del museo. Mi reco di nuovo lì, anche perché ho bisogno di un bancomat. Arrivo di nuovo sudato da far schifo. Pensavo già di tornarmene a casa ma vedo un taxi e chiedo all’autista: ”aspetti qualcuno?”, “aspettavo te” mi risponde. Si rivela molto simpatico. Parliamo a lungo, coinvolgendo nella conversazione due turisti canadesi che raccogliamo nel tragitto. Io voglio andare in centro, loro in albergo. Parliamo della corsa, di Schumacher, della delusione per Hinchcliffe che non è andato bene e di Tagliani che non combina mai niente.
Scendo nella via principale del centro, Meridian Street, salutando i canadesi e prendendo il biglietto da visita del tassista, che si chiama Gabriel e che ovviamente mi dice di chiamarlo quando vorrò tornare a casa. Passo davanti ad una gigantesca banca dalle pareti vetrate e poi la mia attenzione è rapita da un monumento enorme che sta al centro di una via circolare di colore rossastro. Una scalinata porta ai piedi di una specie di altissimo obelisco con delle statue ai lati, in onore del contributo in termini di vite umane dato dallo Stato dell’Indiana in occasione delle storiche guerre combattute dal paese. Gli scatto diverse foto, anche a grande distanza per poterlo prendere in tutta la sua altezza. Ai lati della strada è parcheggiato un calesse trainato da un cavallo bianco.
In giro non c’è tanta gente, mi sarei aspettato più movimento per una festa così importante, ma anche gli altri posti che ho visitato non erano poi così affollati. Mi aggiro nei dintorni di Meridian Street, leggendo targhe su targhe di numerosi monumenti. La gran parte sono stati eretti a ricordo dei sacrifici fatti dallo Stato in occasione della Guerra Civile e a celebrazione del Governatore di allòra, un tale Oliver Morton. Attraverso una grande piazza, con una bella fontana al centro. Una coppia passeggia con la loro bambina. Sul lato della piazza ci sono diverse panchine coperte, in fila. Su alcune riposano dei barboni, cosa che mi fa un po’ tornare alla realtà rispetto al paese incantato che mi sembrava di aver visto fino a quel momento. Inizio ad avere fame incredibilmente, è il segno che forse il mio corpo si sta abituando alla colazione americana. Attraverso strade su strade, locali su locali. In un sottopassaggio noto il classico tombino dal quale fuoriesce vapore, quanto volte li avrò visti nei film. Noto anche il famoso Lucas Oil Stadium, la casa degli Indianapolis Colts, l’attrazione sportiva più importante della città.
Quando ormai mi sento un po’ sperduto, allontanatomi un po’ troppo dal centro, noto un’insegna familiare, la catena di fast food White Castle, portata alla mia attenzione da un film demenziale americano dove i protagonisti sognano per tutto il tempo di andare a mangiare degli hamburgers. Con tutti i locali che ho visto, decido di consumare lì la mia merenda. Non c’è un cane, nessuno mangia alle 5 del pomeriggio sembra. Devo addirittura attirare l’attenzione del personale, che è tutto concentrato nella parte non visibile della cucina. Ne emerge un ragazzo che stancamente mi fa un riassunto dei menu. Alla fine nei vari tabelloni scorgo un piatto di quattro mini hamburger e patatine che sembrano squisiti. Aspetto qualche istante e mi si presenta davanti un sacchetto con 4 cosi morbidi con dentro dei pezzi di quella che, se non l’avessi letto, difficilmente direi sia carne, insieme ad un pezzo di verdura non meglio identificata, forse cetriolo. I due sono divisi da un quadrato giallo che secondo loro è formaggio. Ho fame e trangugio tutto, patatine e bicchierone di Coca-Cola compresi. Non dico che facessero totalmente schifo, ma di certo Harold e Kumar, i protagonisti di quel film, avevano ben altre aspettative…e così io. Prima di andare faccio un salto in bagno. Vengo pervaso da un odore che è un miscuglio di tutti i peggiori fetori di origine organica che si possano immaginare. Mi lavo le mani con un intruglio marronastro che dovrebbe essere sapone, mi asciugo le mani con della specie di carta, con la quale apro la porta. Non voglio toccare nulla di quel tugurio.
Appena metto il becco fuori dalla porta, comincia a piovere, sempre più forte. Sono ovviamente sprovvisto di ombrello e mi dico che, se riesco a trovare un taxi in mezzo a questo deserto, me ne torno dritto a casa. Riguadagno a passo veloce la via dalla quale ero arrivato e ad un incrocio vedo due taxi. Mi fiondo sul primo, di colore verde, iniziando la solita discussione col tassista, che ovviamente non capisce e/o conosce la via del mio albergo. Come quasi sempre, faccio lo spelling per permettergli di usare il navigatore. Smette quasi subito di piovere, non sono neanche le sei e comincio a pentirmi della scelta. Sto tornando a casa troppo presto, ero stanco ma c’era ancora molto da vedere. Sono anche pentito di non aver comprato qualcosa in più al museo della Speedway. Mi dico che probabilmente troverò quello che cerco domani all’aeroporto. Entro in camera un po’ sconsolato, perché la giornata non è andata come speravo, perché pensavo di rimanere in giro più a lungo, invece di ritrovarmi alle sei in camera e senza niente da fare. In verità lo sconforto è anche dovuto alla consapevolezza che ormai la mia vacanza è agli sgoccioli e al ritorno mi aspetta pure un esame. “C’è ancora un giorno, anzi due”, mi dico per consolarmi.
Comincio a pensare ai bagagli e nel frattempo accendo la tv. Giro qualche canale e poi becco, a sorpresa, la diretta del banchetto di premiazione della 500 miglia. Mi distendo sul letto e la seguo tutta. Passo due ore piacevoli, con i piloti che mi fanno ridere tantissimo, tra frecciatine e prese in giro al naso di Kanaan. Il vincitore poi è protagonista di un lungo, divertente e a tratti commovente discorso. Ancora una volta mi sento coinvolto in qualcosa di grande, sento di cogliere appieno tutti i significati e i retroscena di questa corsa. Lo show televisivo mi restituisce il buon umore. Continuo a preparare i bagagli, rendendomi conto che far stare tutto nel trolley non sarà semplice. Era già piuttosto pieno all’andata ma tra libri, regali e altro sarà un’impresa chiuderlo. Il volo è previsto per le 9:30, per cui svegliandomi in anticipo avrò il tempo domani per sistemare tutto a dovere.
Foto Quarto Giorno
La sede del team Hartman-Fisher, vicino allo Speedway e attaccato alla sede Dallara. Non c’era un cane.
Il muro di curva 1. Probabilmente uno dei segni lasciati dalla botta di Franchitti.
La leggendaria curva 1.
Foto rasoterra della mitica Brickyard.
Una delle storiche Ford GT40 che hanno interrotto il predominio Ferrari a Le Mans negli anni ’60.
La poderosa Pontiac STP di Richard Petty con lo storico numero 43.
Il manichino di Danica Patrick presidia la Panoz-Honda guidata al 4° posto dall’americana nel 2005.
La Dallara-Honda vincitrice nel 2011 col compianto Dan Wheldon.
La Marmon di Ray Harroun, vincitore della prima edizione. Notare il primo, rivoluzionario, specchietto retrovisore.
La Lotus-Ford guidata dal grandissimo Jim Clark nell’edizione del 1964.
Il mitico stock block Menard di metà anni ’90, esposto nella sede della Dallara
Non so quanto potrebbe essere utile contro i ladri ma è bellissima.
SI TORNA A CASA
Come previsto mi sveglio molto presto, cominciando subito a litigare con le valigie. Mi preparo e poi metto a posto la stanza, cercando di farla tornare come l’avevo trovata e stando attento a non lasciare niente sparso nell’enorme letto matrimoniale. L’ordine non è sicuramente stato una caratteristica della mia permanenza in albergo. Raccolgo tutto però e, tra biancheria infilata nelle scarpe, numerosi tentativi di disposizione, equilibratura dei carichi tra zaino e valigia, riesco a infilare tutto nei bagagli. Il trolley però ha un peso davvero proibitivo, mi sorprende che la cerniera possa sopportare tanta pressione. Vado alla reception per chiedere un taxi per l’ultima volta. Trovo la solita ragazza paffuta. Mi aveva detto che forse non ci sarebbe stata questa mattina, invece è lì e ne sono contento, dato che sembra la più pratica in questo tipo di operazioni. “20 minuti” mi dice. Torno in camera e ricontrollo tutto per la 80° volta. Guardo con cura la stanza, il bagno. Ho fatto tante foto, ma voglio conservarne un ricordo chiaro. Arriva il taxi, per la prima volta guidato da un signore bianco. Riconsegno la chiave alla reception ringraziando i presenti per il supporto durante la mia permanenza.
Il tassista si rivela molto simpatico e parliamo per tutto il viaggio. Mi conferma che c’è gente in città che magari non è mai andata alla corsa. Parliamo di come la 500 miglia non sia più l’enorme evento di una volta. Mi fa ridere quando mi racconta di come tutti fossero preoccupati, qualche anno fa, sulle possibilità della città di gestire un evento come il Superbowl: “Si sono dimenticati che ogni anno la Indy500 faceva 500.000 spettatori”. Si dice poi rammaricato per la dipartita della F1 dallo Speedway, per i taxi significava affari garantiti. “La Moto GP”, mi dice, “non è la stessa cosa”. Mi faccio lasciare al terminal della Delta, il vettore che copre le tratte americane del mio viaggio. Lo saluto con una promessa: ”tornerò presto”. Una volta al terminal parlo con una signora di colore che è lì per aiutare i passeggeri col check in. Dopo un attimo di incomprensione le faccio capire quale sarà il mio programma, cioè il cambio di aeroporto a New York, completando rapidamente i documenti. Come mi aspettavo e come è ovvio dovrò ripetere il tutto al JFK.
Rimango a lungo a girare per i negozi dell’aeroporto. Mi fiondo subito su quello affiliato allo Speedway, mi guardo intorno e acquisto il famigerato poster e una cartolina. Nel frattempo parlo con il titolare, che mi racconta come ieri, alla stessa ora, con sorpresa ha riconosciuto tra i suoi clienti Max Papis. “Peccato non sia rimasto un giro in più” dico. Saluto anche lui, dandogli appuntamento ad un futuro spero non troppo lontano, continuando a girare per negozi di abbigliamento sportivo, libri ecc. Poi decido che è ora della colazione. Non sono andato da Denny’s perché “oggi voglio fare una colazione europea”, mi ero detto. Vado quindi in un chiosco di Starbucks, dove parlo con due commesse che non hanno troppa voglia di stare a capire quello che dico. Ordino un caffè e una ciambella. Pago 5 dollari per un fondo di bicchiere di un liquido scuro e insapore e una specie di cosa salata con un buco in mezzo. Impallidisco quando dandomi il tutto mi rifilano anche una vaschetta di Philadelphia. “E che ci dovrei fare con questo?!” mi dico. Lo spalmo sulla “ciambella”, consumando la colazione più triste e improbabile della storia e rimpiangendo le uova e il bacon di Denny’s, che erano disponibili anche nei bar dell’aeroporto peraltro. Ma io volevo la colazione europea, quindi…
Finita la colazione bidone mi presento al metal detector, dove cerco di aiutare il personale a rintracciare una signora che si è persa qualcosa. Giro poi per negozi nel duty free, senza trovare niente di interessante. Per il ritorno non ho Francesco a scegliermi i posti migliori, dovrò sperare nella sorte. Sono sorpreso e divertito quando sento il mio nome all’altoparlante. Gli americani sono incapaci di legare il suono “gio”. Ne deriva un Giovanni Satta un po’ sbilenco…Francesco (il mio secondo nome), non sapevano nemmeno chi fosse. Vado allo sportello dove mi viene integrata la carta d’imbarco con il posto sull’aereo. Ennesima noiosa attesa e poi finalmente saliamo a bordo. Finisco a fianco di una ragazza con un cerchietto rosso tra gli occhi. È sicuramente indiana. Ci salutiamo, poi lei legge per tutto il tragitto delle riviste. Il viaggio è più breve rispetto all’andata da Boston. Rimango sempre sorpreso dal numero di campi da baseball che si possono notare dall’aereo. Nell’avvicinamento a New York la loro densità cresce notevolmente, stessa cosa per quelli di football, calcio, basket e golf. Vedo un porto infinito e una costa particolare, che non invita troppo al bagno. Noto un’infinità di ponti. Per me ognuno di questi potrebbe essere quello di Brooklyn, o di Verrazzano, ma sono solo “piccoli” ponti di periferia.
Dopo numerose manovre di allineamento atterriamo al La Guardia. Con disappunto noto che il tempo non è bello come a Indianapolis, c’è caldo e pioviggina. L’aeroporto mi appare piccolo ma curato. Raggiungo in breve la zona dei bagagli, recupero la refurtiva e inizio a informarmi su come arrivare a Times Square, la mia meta designata. Inizialmente vorrei prendere un taxi, poi scopro che per una quindicina di dollari ci sono autobus che con cadenza regolare portano ai punti nevralgici del centro città. Decido per questa soluzione, convinto da un’opportunisticamente simpatica signora di origine latina. Ancora una volta non posso non osservare come i lavori per certi versi meno altolocati siano quasi totalmente appannaggio di immigrati o esponenti delle varie minoranze etniche. Nella lunga attesa dell’autobus, mi porto avanti col lavoro cercando di prelevare dagli ATM del La Guardia. Con disappunto scopro che non accettano la mia carta, cosa che mi mette un po’ in allarme. Ho alcune decine di dollari ma potrebbero non essere sufficienti per una corsa in taxi fino al JFK.
Finalmente arriva l’autobus da cui emerge un energumeno, anche lui ispanico, che ci chiede la nostra destinazione e poi va a sedersi su un gradino a consumare il suo pranzo, in effetti è già mezzogiorno passato. Ha l’aria provata, durante il tragitto capirò il perché. Certo che col senno di poi mi fa un po’ incazzare. Quando chiede la mia destinazione gli ripeto Manhattan, Times Square e lui dice qualcosa che alle mie orecchie appare come un “Porto Porti”…io annuisco, affidandomi a lui. In realtà lui intendeva Port Authority. Capirlo allora non avrebbe minimamente cambiato le cose, ma infastidisce questo rimanere barricati sulla loro pronuncia perfetta, nonostante siano coscienti delle difficoltà del povero interlocutore ignorante. Ci vorrà una vita a partire e un’eternità sarà passata quando usciremo, finalmente, dall’aeroporto. La nostra infatti era solo una delle numerose fermate interne, con l’autobus che raccoglie passeggeri da ogni terminal. La signora latina nel frattempo vende e controlla biglietti con l’efficienza e la rigidità di un kapò. La lunghissima attesa mi fa maledire la scelta dell’autobus, ma il taxi non mi avrebbe certo fatto risparmiare il traffico, anche se non avrei dovuto attendere i comodi di mezzo mondo. Sopra il conducente leggo un’insegna che recita: “le mance all’autista sono fortemente apprezzate”. ”Anche qui!” penso.
La periferia newyorkese non mi impressiona per niente. Mentre ci avviciniamo verso il centro tutto diventa più grande, più pulito e accattivante, anche se non mancano scorci particolari. Alcune vie, alcune piazzette, mi ricordano Sassari. Arriviamo finalmente a Port Authority e subito intravedo vie, luci e insegne familiari. Il clima però non collabora, come detto caldo e acqua la fanno da padrone. Inizialmente la pioggia è leggera, ma col passare del tempo si farà insopportabile. La mia priorità iniziale è trovare un bancomat. Riesco a prelevare all’interno di un piccolo negozio con merce di ogni tipo, gestito da personaggi che non mi impressionano troppo positivamente. Camminare col trolley e lo zaino è una fatica immane. Mi sento quasi un carcerato con la palla al piede. La fame comincia a farsi sentire e nel mio peregrinare senza una metà trovo un chiosco e acquisto il più classico degli hot dog, su cui faccio mettere ketchup e mostarda. Entro in una stazione e in una panchina improvvisata mi avvento sul mio pranzo. L’hot dog sarebbe anche buono, ma la mostarda rovina tutto. È troppo piccante. Con una sensazione di incendio in atto che dura per circa mezz’ora, mi aggiro per la stazione, dove compro il regalo per mia madre. Due foulards nel negozio di una signora ispanica. Torno poi in strada e comincio la mia esplorazione.
Vedo in lontananza l’Empire State Building da una parte e le luci di Times Square dall’altra. Posso raggiungerli entrambi ma opto per la seconda meta, che mi appare più interessante e accessibile con la zavorra che mi porto dietro. Tutto è come lo immaginavo, o almeno come lo ricordavo dalle immagini viste qua e là. Megaschermi pubblicitari giganti, intere pareti di edifici adibite a cartelloni con qualche marchio stampato sopra. La cosa più impressionante è la gente. Un fiume di turisti, solo turisti. Hanno facce di tutti i generi, ogni tipo di cultura sembra rappresentata. Becco anche i classici ebrei con le treccine. Scopro l’esistenza di una Little Brazil, vedo un ingresso della metropolitana nella 42° strada che poi ritroverò in un episodio di CSI. Negozi giganteschi delle marche più prestigiose di vestiario, gioielli e chi più ne ha più ne metta.
Tutto è grande, tutto è illuminato e fatto per impressionare…eppure non sono così preso. Sarà il caldo, sarà la pioggia che non accenna a diminuire, sarà il trolley che mi affligge, ma New York non mi affascina come pensavo. Non ci vedo nulla di straordinario in questo casino colossale. Cammino a passo incredibilmente spedito, nonostante il peso e l’acqua. Ho addosso gli stessi pantaloni beige del primo giorno a Indy, che con l’acqua non sono il massimo. Supero pozzanghere di ogni dimensione. Le strade non sono curate e lisce come ci si aspetterebbe nella più grande città del mondo.
Vago senza una meta, sospinto dalla furia crescente. L’acqua si mischia al sudore. Cerco di scattare qualche foto, dovendo ogni volta cercare riparo dalla pioggia per non bagnare la fotocamera. Riesco a immortalare anche il mitico studio del David Letterman Show, uno dei pochi momenti lieti della gita odierna. Ad un certo punto mi fermano due tipi di colore, che sembrano appena usciti da uno squallido video hip hop. Mi chiedono da dove vengo, come mi chiamo. Vogliono rifilarmi un loro cd. Inizialmente penso me lo vogliano regalare, “vorranno pubblicità” penso. Poi capisco che chiedono qualcosa in cambio. Personalmente il loro cd è l’ultima cosa che voglio in questo momento. In tasca ho un dollaro, glielo porgo proprio per levarmeli dai coglioni. Loro mi rispondono con sentito e, forse, giustificato sdegno, pronunciando parole poco comprensibili. “Nessuno vi aveva chiesto il vostro inutile cd” penso. Li mando a cagare e li mollo lì a sbraitare un po’, continuando il mio peregrinare per le vie di New York. Alla fine arrivo ad un enorme spiazzo, con un grosso monumento al centro. Gli faccio qualche foto senza prestare troppa attenzione, piove sempre più forte e mi riparo sotto degli alberi. Mi rendo presto conto di aver raggiunto il lato ovest di Central Park. “Almeno qualcosa di caratteristico l’ho visto”, mi dico.
Riposo qualche minuto, poi riprendo la marcia, nella speranza di vedere qualcosa di interessante ma con la sempre più concreta prospettiva di prendere un taxi e andare all’aeroporto. Piove sempre di più, vorrei raggiungere la stazione a Port Authority, da cui parte un altro autobus verso il JFK, ma mi sono allontanato troppo. Scoprirò di aver percorso oltre due chilometri, con zaino in spalla e trolley in mano. Uno sforzo disumano, alimentato dalle energie dell’hot dog, che mi ha incenerito l’esofago ma mi sostiene per diverse ore. In un gioco di parallele e incroci, mi illudo di poter riguadagnare la via perduta ma alla fine, stanco, bagnato, sudato e soprattutto incazzato, alzo bandiera bianca e mi convinco a montare sul primo taxi disponibile. Ne fermo uno, che però si rifiuta di accompagnarmi all’aeroporto. Col secondo sono più fortunato, metto il trolley nel portabagagli e partiamo. Il tassametro è spento, cosa che mi allarma. Chiedo spiegazioni e il tassista mi dice che la corsa per il JFK è a tariffa fissa, una sessantina di dollari più mancia. Mi specifica bene quest’ultimo punto, spiegandomi che il viaggio durerà almeno un’ora e che nel frattempo lui avrebbe potuto caricare molti clienti se fosse rimasto a Manhattan. La cosa mi fa un po’ sorridere, considerando la mole di taxi in giro per le strade.
Intavoliamo una conversazione a intermittenza. Le nostre due lingue, il suo inglese e il mio, non vanno troppo d’accordo, però bene o male ci capiamo, se no fa lo stesso. È un immigrato del sud est asiatico, vive in America da qualche decina d’anni ormai. Mi dice che nel suo paese lavorava fin da ragazzo, che in America ha fatto molti lavori e infine il tassista. Mi parla della città, dei quartieri, del Bronx dove difficilmente accetta chiamate. Vive nel Queens e mi indica il posto, quando ci passiamo davanti. Come altri, mi parla con apprensione dell’assistenza sanitaria e mi chiede come funziona da noi. Mi racconta dei figli, che vanno al college, di come è dura mandare tutto avanti col costo della vita di New York. Ad un’uscita è segnalato il ponte di Verrazzano, che non vedrò mai. Passiamo sopra un corso d’acqua, gli chiedo se si tratta dell’Hudson, ma pare sia solo una specie di affluente. Non posso evitare di chiedermi quanto sarà grande allora il principale. Come nel tragitto dal La Guardia, la periferia newyorkese non mi impressiona per niente. Non è troppo diversa da quella che può essere Viale Marconi a Cagliari.
Fuori si scatena il nubifragio. Il taxi prosegue rapido, sembra cavalcare le onde. L’amico ha chiaramente fretta e lo capisco, gli ci vorrà davvero un’altra ora per tornare indietro. Sono circa le 4 ma il traffico in certi punti è piuttosto fitto. Finalmente arriviamo, mi faccio portare direttamente al terminal dell’Alitalia e in generale delle compagnie europee. Quanto il posto sia immenso lo percepisci solo dagli innumerevoli svincoli che portano all’aeroporto, perché il terminal non ha nulla di diverso da quello di Boston. Alla fine pago una settantina di dollari, salutando il tassista con un “Buon ritorno”.
Sono circa le 16:30, l’aereo parte tra 5 ore, forse l’attesa più snervante di tutto il viaggio. I check in inizieranno tra due ore e non c’è molto da fare. Mi giro tutto il terminal, che è su due piani, con i ristoranti in quello superiore. Comincio ad avvertire un po’ di pesantezza all’addome, ma niente di allarmante. Mi trovo una panchina, dove mi adagio per un bel po’ facendo finta di studiare. A fianco a me una signora americana, che deve partire per Vienna, aspetta con ansia il marito. Il loro check in chiuderà tra pochissimo, arriva appena in tempo.
Mi ritrovo vicino ad una numerosa famiglia di origine sud est asiatica. Fanno un casino infernale e mi sorprende che i grandi lascino i bambini soli per un lungo lasso di tempo. Poi finalmente si aprono i check in, voglio liberarmi al più presto del trolley. Dopo parecchi giorni ho nuovamente davanti qualcuno che parla italiano. Una “sportellista” discute animatamente con la responsabile, che assomiglia a una puttana d’alto borgo un po’ in là con gli anni. Il check in è molto rapido, mollo il trolley nei nastri trasportatori e torno alla solita panchina. Vicino a me siedono tre tipi sospetti di origine latina. Sembrano i membri di qualche gang di Miami. Prima di passare al metal detector decido per un azzardo. Ho un po’ di fame e voglio far fruttare fino all’ultimo l’esperienza americana. Giro vari ristoranti, fermandomi poi in uno che si spaccia per italiano. Guardando i piatti dovrei fargli causa per pubblicità ingannevole. Dopo una lunga discussione con gli addetti, dove metto in mostra la mia ignoranza lessico-culinaria, ordino un trancio di pizza Made in Usa che sembra un buon mix tra gusto e leggerezza. Fin dal primo morso mi accorgo del tragico errore. La pizza contiene anche aglio. Sembra una tavola, sta dritta da sola. Il sapore non è male ma l’aglio rovina tutto. Sedute al tavolo vicino al mio stanno delle ragazzine di una qualche squadra sportiva.
Completato il pasto, mi lavo i denti come meglio posso e mi reco al metal detector, passato il quale mi aspetta l’ultima parte di attesa al duty free. Come sempre tanti negozi tutti uguali. Li giro uno per uno e faccio l’ultimo acquisto del viaggio, la classica boccia con effetto nevicata sulle principali attrazioni della città. Comincio a capire che la pizza non è stata una grande idea, passo l’ultima oretta a chiedermi se sia il caso di andare in bagno, ma decido di resistere. Mi siedo nell’area della mia uscita, dove sento discorsi in italiano che avrei preferito non ascoltare. Provo una sorta di repulsione per i miei conterranei, che come prevedibile sono anche parecchio rumorosi, tanto che quando le loro voci coprono un annuncio incrocio lo sguardo con una signora americana, altrettanto infastidita, alla quale dico: “parlano troppo rumorosamente”. Lei annuisce.
Prima dell’imbarco un giovane addetto dell’aeroporto mi sottopone un questionario da compilare su un tablet. Oltre a essere pieno di domande inutili, è pure lunghissimo. Quando finalmente lo finisco mi mostro stravolto, facendo finta di lamentarmi. Lui ride con la collega e mi dice: ”non ti avevo accennato che era noiosissimo?”. Seguo alla tv la finale di conference NBA tra Miami Heat e Indiana Pacers. Mi sento coinvolto, potendo festeggerei ad ogni canestro dei miei “concittadini”, ma cerco di darmi un contegno. M’imbarco guardando gli ultimi scampoli di primo tempo. Trovo il mio posto occupato da un ragazzo che parla con un signore, mi dispiace disturbarli ma i biglietti parlano chiaro. Il signore è molto simpatico, è un professore americano di lettere con parenti in Toscana. Gli racconto del mio viaggio e tutta la trafila. Io parlo in inglese, lui in italiano. Ci capiamo abbastanza, non saprei dire chi è più bravo. Viaggia con la moglie, che siede dietro di noi, la figlia e il fidanzato, che stanno in un’altra zona. Certo non lo invidio: non bevo da parecchio e nonostante mi sia lavato i denti il mio alito all’aglio dev’essere letale.
Parliamo ancora un po’, poi prende un sonnifero per cercare di dormire. Mi sento un idiota quando lo vedo sorseggiare una bottiglia d’acqua. Credevo non fossero ammesse a bordo. Lui mi dice che, se acquistata nel duty free, si può portare tranquillamente. Finalmente capisco in toto il senso di quest’area, mi ci sono voluti solo 5 viaggi. La discussione mi ha almeno in parte distratto dalla mia situazione intestinale, che sembra aggravarsi di minuto in minuto. Avrei bisogno di andare in bagno e svuotarmi, ma non sono sicuro che il piccolo wc dell’aereo possa sopportare un carico del genere. Stoicamente, resisto. Ci viene servita la cena, che mangio nonostante l’intestino in disordine. Dato che è già notte e che viaggiamo verso il sole, la luce tornerà presto per cui a maggior ragione vengono spente le luci e chiusi i finestrini. Fino a quel momento avevo cercato di fare qualche esercizio per l’esame, ma ora qualunque attività mi viene preclusa. È tardi e sono sveglio da oltre 20 ore, ma non ho sonno e comunque non potrei permettermi di rilassarmi troppo, considerata la pressione nel mio colon.
Non ho ne la voglia, ne la forza di guardare film o giocare con lo schermo interattivo. Chiudo gli occhi per qualche minuto, ma non c’è modo di dormire. Anche il mio amico, nonostante sonnifero e mascherina, ha i suoi problemi a riposare decentemente. Non so come, ma arrivo al vedere il nuovo giorno, anche se mancano ancora diverse ore all’atterraggio. Riesco finalmente a guardare un film, Argo, che mi interessa. Vengo però bloccato dalla colazione e altri contrattempi, per cui non riuscirò a finirlo. Intanto il sonnifero sembra aver fatto effetto, dato che il signore al mio fianco non accenna a svegliarsi. Nelle ultime ore è un continuo via vai di gente verso il bagno, io non ho il coraggio.
Il viaggio è stato così lungo da rendermi contento che il fuso orario ci spedisca sei ore più vicino alla nuova notte di quanto il corpo sia convinto. Sorvolata di nuovo tanta tanta Francia e il Mediterraneo, finalmente atterriamo a Roma. Raccolgo le mie cose, saluto il simpatico signore e mi reco alla navetta che ci porterà al terminal. Lì ho due priorità: arrivare alla mia uscita e trovare un bagno. La seconda è più pressante della prima. Penso di non essere mai stato così male per la pancia in vita mia. Non riesco a credere di aver resistito così a lungo. Rallento solo davanti ad un negozio ufficiale Ferrari dove è esposta la F1 del ’96. La osservo per qualche secondo, poi riprendo la mia marcia sofferente. Arrivo nei pressi dell’uscita, ma non la trovo. È solo una svista, dopo qualche avanti-indietro la raggiungo. Cerco un bagno isolato, perché mi servirà un po’ di privacy. Sono tutti strapieni però. Alla fine vinco ogni riserva e mi infilo nel primo che trovo libero. Con sorpresa e un po’ di disperazione, non riesco a fare niente. Quando vado a lavarmi le mani e non trovo ne carta ne sapone, mi sento nel medioevo, per fortuna ne ho un po’ nello zaino.
Torno nella zona di attesa, dopo essere passato in un’edicola per leggiucchiare Autosprint. In lontananza assisto a un litigio in romanesco tra un cliente e i titolari. Ancora una volta mi chiedo come possiamo avere lo stesso passaporto. Finalmente inizia l’imbarco. Mi ritrovo seduto nel primissimo posto, proprio dietro la cabina di pilotaggio. A fianco a me sta una bella ragazza bionda, che legge la biografia di Amanda Knox, in inglese. “L’avrà comprata in America” penso. Abbandono subito ogni tentativo di instaurare una conversazione. Sono semplicemente troppo stanco, tanto che più volte rischio di addormentarmi. Il decollo è ritardato da qualche contrattempo con la stiva. “Ce l’hanno tutti con la mia pancia” penso divertito e preoccupato allo stesso tempo. Il viaggio è comunque molto breve. Giunto a Cagliari vivo quella che sembra l’ultima, non troppo inattesa sorpresa. Non ci sono i miei bagagli. Sto lì almeno un quarto d’ora, aspetto che li scarichino tutti. Quando comincio a ricordarne perfettamente la sequenza è evidente che il mio trolley non c’è. Sto per andare a fare reclamo quando appare una signora a farci notare che i bagagli dei voli internazionali sono in un’altra zona, alla dogana. Tiro un sospiro di sollievo quando vedo il mio trolley che porto via in fretta, dopo aver seccamente risposto “No” alla classica domanda: “ha qualcosa da dichiarare alla dogana?”.
Giro tutto l’aeroporto in cerca di un’indicazione sull’area di sosta dei pullman, ma niente. Chiedo informazioni sui biglietti, tutti parlano di uno sportello automatico al piano terra, che a me pare invisibile. Chiedo al centro informazioni, dove mi dicono che il biglietto costa 4 euro. Sapendo la lunghezza del percorso, guardo l’addetto con una faccia tra lo sdegno e l’odio, ma faccio il biglietto e aspetto, ancora, il pullman. Dopo almeno 20 minuti, il mezzo compare e presto si riempie di turisti spagnoli e nordici. Con ancora la testa in “modalità Usa”, mi faccio scappare un “sorry” quando sono d’intralcio a una coppia di olandesi. Una volta arrivato in Piazza Matteotti, io e la mia pancia pronta a esplodere schiviamo tassisti tesserati e non, dirigendoci verso la fermata del 5, l’ultimo mezzo di una giornata infinita. Sono quasi 30 ore che sono sveglio ormai.
Arrivo a casa, con l’unica ambizione di infilarmi in bagno. Saluto brevemente i presenti, poi mi fiondo sul wc a dare sollievo ad almeno 10 ore di sofferenze. Dopo di che tra bagagli da disfare e biancheria da lavare posso finalmente guardare indietro, triste perché tutto è finito ma felice di aver portato a compimento la prima grande avventura della mia vita.
Foto New York e Ritorno a Casa
Direi la redazione del New York Times.
Lo studio del famoso David Letterman Show.L’enorme piazza che dà su Central Park.