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Simon Pagenaud

Nome: Simon Pagenaud

Data e luogo di nascita: 18 maggio 1984, Poitiers (Francia)

Nazionalità: Francese

Ruolo: Pilota

L’Alain Prost dell’IndyCar, così è stato soprannominato Simon Pagenaud. Se fosse solo una questione di titoli conquistati, l’appellativo spetterebbe di diritto a Sebastien Bourdais, ma l’attitudine meticolosa, riflessiva ed equilibrata, oltre alla capacità di tirar fuori il meglio da ogni situazione ormai ampiamente dimostrata dall’attuale pilota del team Penske, ricordano un po’ la straordinaria efficacia del “Professore” originale.

Simon Pagenaud nasce a Poitiers il 18 maggio 1984 in una famiglia benestante ma senza eccessi. Suo padre dirige infatti la catena di supermercati di famiglia mentre la madre, dopo una carriera da ballerina, insegna danza e fa anche da coreografa. Fin da piccolo Simon esprime un vivace interesse per le 4 ruote, che porta all’acquisto del suo primo go kart a 7 anni e all’esordio agonistico a 10. A differenza di molti altri campioni, in pista Simon non è però seguito passo passo dal padre, dovendo preoccuparsi personalmente della preparazione del kart, principale occupazione di ogni dopo scuola. Il duro lavoro è però ripagato da numerose vittorie sulla scena nazionale, che portano nel 2001 al debutto in monoposto nella F.Campus transalpina, dove Simon mette a segno 6 poles, 4 vittorie e altri 8 podi distribuiti su 17 gare, che gli valgono il secondo posto finale. Il 2002 vede poi l’esordio in F.Renault, dove coglie 1 vittoria e due poles, che unite a numerosi piazzamenti gli garantiscono il titolo di miglior esordiente e il terzo posto finale alle spalle dell’esperto Premat e del campione in carica Salignon.

Il 2003 è all’insegna della stabilità per Pagenaud, che evita il salto di categoria rimanendo con il team ASM, con cui partecipa al campionato francese, a due corse di quello tedesco e alla Eurocup. I risultati migliori arrivano proprio nella serie continentale, dove Simon porta a casa una vittoria (ad Assen davanti a un giovanissimo Lewis Hamilton) e il terzo posto finale in un parco partenti molto competitivo che vede prevalere Esteban Guerrieri. La stagione successiva segna il terzo anno in F.Renault 2000 per il francese, che continua nelle serie transalpina e continentale, questa volta con il Graff Racing. In patria arrivano tre vittorie e il terzo posto finale, con il compagno di squadra Patrick Pilet che conquista con margine il titolo. In Eurocup due vittorie non sono invece sufficienti a contenere il dominio di Scott Speed. Dopo tre anni di buona esperienza nella serie cadetta Pagenaud decide così per il salto in World Series, passando al team Saulnier al fianco di Ryo Fukuda. Per entrambi, alle prese con vetture lente e poco affidabili, la stagione sarà un tormento, con Pagenaud che porta a casa un podio e il 16° posto finale, mentre il giapponese è addirittura 20°.

Angosciato dai soliti problemi di budget, per il 2006 Simon fa la scelta che gli spalanca le porte del professionismo, spostando la sua carriera in America dove, consigliato dal connazionale Bourdais, si accasa al team Walker per correre in F.Atlantic. Il piano è molto semplice: la vittoria del campionato frutta un premio di 2 milioni di dollari e la concreta possibilità di effettuare il salto in ChampCar, per cui Simon sa di avere una sola possibilità per proseguire la sua carriera. Non vincere il titolo significherebbe abbandonare l’automobilismo di alto livello e tornare a lavorare nell’impresa di famiglia. Il francese si adatta benissimo alle Swift del campionato americano, impostando una campagna basata sulla consistenza nei piani alti della classifica. Ne viene fuori una sfida appassionante con l’astro nascente Graham Rahal, che mette insieme ben 5 vittorie su 12 appuntamenti, portando il confronto all’ultima corsa di Road America, dove Pagenaud arriva in testa alla classifica ma è subito eliminato in un incolpevole contatto. Anche le speranze di Rahal vanno però in fumo per un problema elettrico che consegna la vittoria finale al francese con 16 punti di vantaggio, frutto di un solo successo parziale ma ben 9 arrivi in top 5. La vittoria del titolo garantisce quindi a Simon il tanto sudato bonus di due milioni di dollari, che permette al suo team manager Derrick Walker di schierare per il 2007 un’altra delle nuove Panoz della serie ChampCar per il francese, che va ad affiancare il confermato Will Power, già avversario di Simon in World Series.

Campione Atlantic 2006. crash.net
Campione Atlantic 2006. crash.net

Arriva quindi il tanto atteso debutto nella categoria maggiore, che nel 2007 apre i battenti nel cittadino di Las Vegas. Nonostante un contrattempo in prova con Paul Tracy e vari problemi, Simon piazza la sua vettura in terza fila, non lontano dal più esperto Power, che conquista la pole. Dopo aver perso qualche posizione nelle prime fasi, mette poi in mostra un buon ritmo, issandosi fino alla seconda piazza grazie alle strategie, prima che un problema al motore gli neghi un probabile arrivo in top 5. A Long Beach le cose  non vanno molto diversamente: un’eccellente terza piazza in qualifica è seguita da una corsa di costante marcatura sul compagno Power, ai margini della top 5, prima che un problema al cambio costringa il francese a finire nelle gomme e perdere numerosi giri. Nella corsa successiva di Houston le disavventure proseguono, con problemi tecnici in prova e una foratura rimediata al primo giro, ma viene fuori comunque un buon quinto posto, frutta di una strategia azzeccata, un gran ritmo e qualche sorpasso. Dopo aver preceduto Power per la prima volta nelle qualifiche di Portland, la gara si mette subito in salita alla prima curva per una manovra azzardata di Dan Clarke, fruttando solo un ottavo posto. A Cleveland arriva la prima fila, al fianco di Bourdais, e in gara il campione in carica se la deve vedere con entrambe le vetture del team Australia. Il terzetto prende il largo sul gruppo, ma Pagenaud non può approfittare dei problemi incontrati dai rivali a causa di una bandiera gialla uscita al momento sbagliato. Un’ulteriore posizione persa a vantaggio di Wilson lo relega poi al quinto posto finale. I due piloti del team Australia continuano a viaggiare in tandem anche nell’appuntamento successivo di Mont Tremblant, dove entrambi spengono il motore in partenza per poi prodursi in una bella rimonta, con Pagenaud che conduce brevemente durante un acquazzone che stravolge la corsa. Alla fine il francese si piazza al quarto posto proprio dietro a Power.

La corsa successiva ripropone un copione praticamente uguale, seppur in uno scenario differente. Sul cittadino di Toronto infatti Simon rimane subito attardato da un contatto con Tagliani, che lo costringe ad adottare una strategia alternativa. Questa e il solito scroscio di pioggia che stravolge la gara conducono il francese brevemente al comando e poi definitivamente in quarta posizione, mentre Power va a vincere. La trasferta canadese si chiude quindi nell’aeroporto di Edmonton, dove arriva un altro quarto posto, stavolta meno movimentato, che porta Simon al quinto posto in classifica, staccato di 51 punti da Bourdais e di 30 da Doornbos, che guida la classifica dei rookies. Alcuni contatti nel gruppo a San Jose e Road America interrompono però la striscia positiva, che non riprende neanche nella prima tappa della trasferta europea a Zolder, dove Simon è in corsa per il podio quando un problema alla radio gli fa mancare l’ultima sosta collettiva, costringendolo a una strategia fallimentare. Una gara di posizione ad Assen lo vede invece controllare un aggressivo Bourdais fino al traguardo per chiudere sesto. Senza radio, una corsa ragionata conduce poi a un discreto quinto posto a Surfers Paradise, mentre nell’ultimo appuntamento di Mexico City sopravvive a un contatto con il muro in partenza per evitare una vettura ferma e veleggia tranquillamente verso un quarto posto, quando in una ripartenza nel finale è superato da Tracy e Servia, dovendosi accontentare di un’altra sesta piazza. Il francese chiude quindi all’ottavo posto una stagione positiva ma priva di acuti, piazzandosi al terzo posto nella graduatoria dei rookies a 36 punti da Doornbos e 12 da Rahal.

Simon in azione a Road America. Tom Haapanen, motosport.com
Simon in azione a Road America. Tom Haapanen, motosport.com

L’anno nuovo porta la riunificazione, o annessione, della ChampCar con la IRL/IndyCar, fatto di per sé positivo, se non fosse che il team Walker, già in sofferenza nella seconda metà del 2007, chiude definitivamente il proprio programma a ruote scoperte. Pagenaud resta quindi senza un volante, non trovando un posto neanche per l’ultimo saluto della ex CART sulle strade di Long Beach. Dietro le quinte però qualcosa si muove: Gil De Ferran decide infatti di tornare dietro al volante, schierando in prima persona una Acura ARX LMP2 nel campionato American Le Mans, ed è alla ricerca di una spalla. Dopo aver già notato le qualità di Pagenaud nelle stagioni precedenti, un colloquio con Derrick Walker e Rob Edwards lo convince definitivamente a ingaggiare il francese. Il duo franco-brasiliano debutta così al quarto appuntamento di Tooele, in Utah, dove il due volte campione CART strappa il secondo tempo in prova ma poi esce di pista, cosa che lo costringe a prendere il via dall’ultimo posto. Una bella rimonta vede però i due finire sul podio all’esordio.

Il campionato prosegue quindi tra prove competitive ma sfortunate, per via di contatti con il traffico e problemi tecnici, oltre al grave incidente in pit lane di Mid Ohio, dove Simon è in lotta per la vittoria quando viene fatto ripartire con il bocchettone ancora attaccato, causando un incendio che procura gravi ustioni a un meccanico. Una possibile vittoria di classe sfuma poi a Mosport quando l’Audi di testa taglia il traguardo con un secondo d’anticipo sulla bandiera a scacchi, forzando un altro giro che è fatale a De Ferran, a secco con la vittoria ormai in vista. Un buon terzo posto a Detroit nelle ultime gare è migliorato poi da un eccellente seconda piazza di classe a Laguna Seca, dove al termine di un lungo e spettacolare duello, Simon si arrende in volata a Tony Kanaan per 5 centesimi.

A giugno il francese fa anche il suo debutto alla 24 ore di Le Mans, sostituendo l’infortunato Ortelli sulla Courage del team Oreca.

Al debutto sulla Acura in Utah. Larry Kuivila, motorsport.com
Al debutto sulla Acura in Utah. Larry Kuivila, motorsport.com

Pur con un occhio sempre sulle ruote scoperte, per il 2009 Simon rimane al team De Ferran, che fa il salto di qualità passando insieme alla Acura alla categoria LMP1, in cui la casa giapponese schiera la nuova  ARX-02. Nonostante una strepitosa pole dell’ospite Scott Dixon, a Sebring la vettura paga il deficit di potenza con Audi e Peugeot, rimanendo poi attardata da diversi difetti di gioventù. In una griglia sicuramente meno competitiva delle passate stagioni per via delle defezioni di Penske, Audi e Andretti-Green, il resto del campionato è dominato dalle Acura dei team De Ferran e Highcroft. Dopo aver centrato un’altra pole a St. Pete, il duo franco-brasiliano vede la sua gara rovinata da una bandiera gialla e problemi elettrici, ma il potenziale non tarda a tradursi in risultati. A Long Beach l’ennesima pole è seguita da una tremenda battaglia con la coppia Sharp-Brabham, che però incorre in una penalità, lasciando campo libero per la prima vittoria del team, cui segue un dominio totale in Utah a un anno dall’esordio. Per Pagenaud il successo è ancora più dolce, in quanto segue la vittoria alla 1000 km di Spa con il team Peugeot, corsa affrontata in preparazione della 24 ore di Le Mans che Simon disputa con il team privato di Henri Pescarolo, ritirandosi nella notte per via di un brutto incidente di Benoit Treluyer. Tornato in America, la sequenza di successi prosegue a Lime Rock, dove un altro tesissimo duello con il team Highcroft è risolto da una foratura per la Acura rivale, che aveva preso il comando cambiando solo due gomme all’ultima sosta.

A 12 mesi dal tremendo incendio in pit lane del 2008, Mid Ohio segna poi un altro dominio e il quarto successo consecutivo, cui seguono due secondi posti a Road America e Mosport, dove i venti punti sfumano per una bandiera gialla sfortunata e una continua perdita di olio dal cambio. Nonostante il pesantissimo zero di Sebring, a Road Atlanta il team De Ferran può ancora sperare nel titolo, ma la vettura del pilota/proprietario brasiliano nel corso delle 10 ore va incontro ad un incredibile serie di sfortune. Mentre incalza le Peugeot al terzo posto, il due volte campione CART viene infatti centrato dalla Lola di Jon Field, perdendo 16 giri per le riparazioni. Tornata in pista, sul bagnato la vettura finisce poi contro le gomme con Dixon alla guida e infine Pagenaud rimane a lungo attardato da vari problemi tecnici. Senza più velleità di campionato, Laguna Seca segna comunque un emozionante finale di stagione, non solo perchè si tratta dell’ultima corsa del team e del suo proprietario, ma anche perchè la gara si decide nelle ultime battute, con De Ferran che in crisi coi consumi gestisce il vantaggio costruito da Simon nelle prime fasi, precedendo Fernandez in volata per centrare il quinto successo stagionale. La squadra chiude così al secondo posto una stagione in cui Pagenaud ha dato ulteriore prova di essere un pilota affidabile ed estremamente veloce, avendo fatto segnare pole position e tornata più rapida in buona parte degli appuntamenti.

Seconda vittoria dell'anno in Utah. Richard Sloop, motorsport.com
Seconda vittoria dell’anno in Utah. Richard Sloop, motorsport.com

Con l’uscita di scena del team De Ferran, per il 2010 Pagenaud trova spazio tra le file dei campioni in carica della Highcroft, dove fa coppia con David Brabham nella nuova classe prototipi che, tramite un certo fattore di equivalenza, mette insieme LMP1 ed LMP2, con le prime avvantaggiate nei circuiti veloci e le seconde più a loro agio nelle piste tortuose. La prova di apertura di Sebring è amara, considerando che i due, coadiuvati da Marino Franchitti, chiudono quinti dopo aver visto evaporare un vantaggio di 5 giri per problemi elettrici alla Acura P2. Long Beach segna comunque l’immediato riscatto, con il francese che a 3 giri dal termine subisce l’attacco della Aston Martin P1 di Fernandez, che però va largo nel misto all’ultimo giro, consegnando la prima vittoria stagionale al duo Highcroft, che replica subito a Laguna Seca, dove Simon parte ultimo e in pista porta la sua Acura fino al secondo posto, prima di prendere il comando dopo le soste. E’ poi tripletta in Utah dopo un’altra battaglia con le P1, nettamente più veloci nel lunghissimo rettilineo d’arrivo ma staccate dopo le soste, al punto che il francese chiude in prima posizione nonostante un 720° negli ultimi giri.

Una foratura nel finale a Lime Rock interrompe la sequenza di vittorie ma non i podi, che aumentano nell’appuntamento successivo a Mid Ohio, dove Simon battaglia nel finale con la Mazda di Dyson, chiudendo a poco più di mezzo secondo. La coppia franco-australiana è poi terza a Road America dietro ai rivali per il titolo del team Cytosport, battuti in volata dalla Lola LMP1 del team Dryson, ma vittoriosi al penultimo round di Mosport, dove Pagenaud recupera da un avvio difficile ma non può puntare al successo per via di una bandiera rossa nel finale. Il team Highcroft si presenta quindi a Road Atlanta con un rassicurante vantaggio di 16 punti, che diventano 20 dopo il dominio nella classe LMP2 (P1 e P2 corrono per classifiche separate solo a Sebring e Road Atlanta) che consegna a Pagenaud e Brabham il titolo ALMS 2010.

In fuga a Sebring. Eric GIlbert, motorsport.com
In fuga a Sebring. Eric GIlbert, motorsport.com
In equipaggio con Bourdais e Lamy, Simon vince nuovamente la 1000 km di Spa, ma nonostante la pole siglata dal 4 volte campione ChampCar, la loro 24 ore di Le Mans dura solo un'ora a causa della rottura del motore. Eric Gilbert, motorsport.com
In equipaggio con Bourdais e Lamy, Simon vince nuovamente la 1000 km di Spa su Peugeot, ma nonostante la pole siglata dal 4 volte campione ChampCar, la loro 24 ore di Le Mans dura solo un’ora a causa della rottura del motore. Eric Gilbert, motorsport.com

Dopo le brevi collaborazioni degli anni precedenti, nel 2011 Simon ha nell’impegno con la Peugeot il programma principale della stagione. La casa francese lo ingaggia infatti per tutte le corse in cui è previsto l’impiego di tre vetture, oltre che come uomo di riserva. La prima uscita in gara di Simon è però proprio contro la Peugeot, a Sebring. Il francese è infatti richiamato dalla Highcroft per portare al debutto la nuova Acura LMP1 e alla fine di 12 ore stranamente prive di problemi, il francese è bravo a negare alla casa del Leone una doppietta, contenendo Montagny per il secondo posto. Solo ottavo nella 1000 km di Spa, il trio Bourdais-Lamy-Pagenaud è invece protagonista di un entusiasmante duello con l’unica Audi superstite alla 24 ore di Le Mans, dando vita ad una battaglia giocata sia sullo scontro diretto che sulla strategia, complicata dalla pioggia e dalle diverse caratteristiche delle due vetture. Una corsa dal ritmo infernale si decide quindi solo negli ultimi minuti, quando la Peugeot rimanda Simon in pista senza cambio gomme per guadagnare la testa. L’azzardo però non riesce e al termine di una corsa perfetta negli ultimi giri il francese vede comunque Lotterer allontanarsi e andare a vincere per 13 secondi, che dopo 24 ore sanno decisamente di beffa. Va meglio nell’impegno successivo, la 6 ore di Silverstone, dove Simon fa coppia con Bourdais per sostituire l’infortunato Davidson, cogliendo la pole position e andando a vincere al termine di un altro tesissimo confronto con le Audi. L’ultimo appuntamento, la Petit Le Mans, vede invece il trio Bourdais-Davidson-Pagenaud partire in pole ma concludere anzitempo la corsa con problemi al cambio.

La gara più importante per il futuro di Pagenaud non si svolge però con i prototipi. Pur avendo giurato a Gil De Ferran di aver messo da parte le ambizioni nel mondo delle monoposto, dopo l’assaggio del 2007 l’obiettivo di Simon è sempre l’IndyCar, che nell’aprile del 2011 gli concede un’occasione inattesa. Un infortunio alla mano nel caos della prima corsa costringe infatti Ana Beatriz a dare forfait per la gara di Barber, per la quale il team Dreyer&Reinbold a sorpresa chiama proprio Pagenaud. A fare da sponsor al francese è Will Power, che tramite la sua ragazza Liz, PR del team D&R, consiglia l’ex compagno di squadra a Dennis Reinbold. Il consiglio è di quelli buoni, perchè nonostante una partenza nelle retrovie il francese ha un buon passo, è bravo a tenersi fuori dai guai e anzi riesce a recuperare nelle ripartenze su due file, issandosi fino all’ottava posizione finale in scia a Castroneves. Soddisfatto della prestazione, quando Justin Wilson si fa male durante le prove a Mid Ohio Dennis Reinbold non ha esitazioni nel richiamare Simon che, reduce da un test con il team Schmidt, senza prove piazza la vettura in nona fila. L’iniziale rimonta è però frenata da un’escursione in curva 1, prima che le soste e una buona ripartenza lo facciano risalire fino a un deludente 13° posto. Deludente perchè, a detta dello stesso Pagenaud, la macchina era da top 5. Qualche settimana più tardi il francese ha poi una terza occasione per mettersi in mostra quando problemi di visto impediscono a Simona De Silvestro di correre a Sonoma. Il fine settimana è però piuttosto incolore. Qualificatosi 22°, perde un giro nella fase centrale tentando una strategia alternativa e alla fine si classifica in 15° piazza.

Nonostante le ultime due uscite non proprio brillanti, soprattutto a causa della scarsissima preparazione dettata dalle circostanze, la bella prestazione di Barber, unita all’ottimo test di Mid Ohio e al supporto della Honda, estimatrice di Simon dai tempi dell’ALMS, convincono Sam Schmidt a mettere il francese su una delle nuove DW12 per il 2012. Nella squadra americana Pagenaud ritrova anche Ben Bretzman, ingegnere di pista conosciuto ai tempi del team Highcroft, con il quale costruirà una saldissima intesa.

Secondo a Le Mans. crash.net
Secondo per un soffio a Le Mans. crash.net
A Barber al posto di Ana Beatriz. Dan Helrigel, indycar.com
A Barber al posto di Ana Beatriz. Dan Helrigel, indycar.com

Approdato finalmente nella tanto desiderata IndyCar, la stagione 2012 parte con un buon sesto posto a St. Pete, dove Simon rimonta dalla 16° casella in griglia nonostante un’ala danneggiata, arrendendosi solo nel finale a un bel sorpasso di Briscoe. Un’altra solida prova lo vede poi terminare quinto a Barber in scia a Rahal e Castroneves, ma è a Long Beach che mette il paddock in allarme. Partito 4°, su una strategia di tre soste il francese supera infatti uno a uno gli avversari in risparmio di etanolo, arrivando a meno di mezzo secondo da Power, che chiude vittorioso precedendo l’ex compagno di squadra, al primo podio stagionale. La serie di risultati che porta Pagenaud al terzo posto in classifica si interrompe però a San Paolo, dove parte dalle retrovie, è coinvolto in vari contatti e alla fine chiude fuori dalla top ten. L’esordio alla Indy500 poi è indolore ma anche incolore. L’ex campione ALMS si tiene infatti fuori dai guai per tutto il mese, ma il team Schmidt non riesce mai a trovare il bandolo dalla matassa tecnica, non permettendo al suo pilota di andare oltre un deludente 16° posto.

I punti ricominciano comunque ad arrivare a Detroit, dove Simon chiude un podio tutto Honda dietro il dominatore Dixon e Franchitti, che lo beffa all’ultima ripartenza. Dopo le difficoltà di Indianapolis, il Texas vede poi una bella risposta, con un solido sesto posto conquistato al termine di una gara difficile per via del basso carico e dell’alto degrado delle gomme. Gli alti e bassi sugli ovali proseguono poi con una corsa problematica a Milwuakee, cui segue la bella rimonta dell’Iowa, dove Simon parte ultimo, perde un giro nelle prime fasi ma poi recupera, risalendo a suon di sorpassi fino al quinto posto finale. Toronto è invece un’occasione sprecata a causa della strategia, che nel finale costringe il francese a un rabbocco, e di una discutibile penalità per blocking su Newgarden, che lo estromette dalla top ten. Non va meglio a Edmonton, dove è centrato da Kimball all’ultimo giro al termine di una corsa incolore, ma il riscatto arriva a Mid Ohio con un terzo posto strappato a Bourdais dopo l’ultima sosta. Una corsa tranquilla, ripartenze a parte, a Sonoma frutta un altro piazzamento in top ten, cui segue un altro terzo posto a Baltimora, dove Simon guida il gruppo nella fase centrale ma cede la testa ad Hunter-Reay durante le soste ed è poi beffato da Briscoe nelle ultime concitate ripartenze. Una prova solida nella chiusura stagionale a Fontana è infine rovinata da problemi di surriscaldamento che lo costringono fuori dai primi 10. Simon chiude così al quinto posto una stagione d’esordio estremamente positiva, in cui il francese ha ampiamente convinto, mancando solo l’appuntamento con la vittoria.

Miglior corsa stagionale a Long Beach. LAT Photo USA, indycar.com
Miglior corsa stagionale a Long Beach. LAT Photo USA, indycar.com

Con una stagione d’esperienza alle spalle, nel 2013 da Pagenaud si aspettano vittorie e possibilmente un ruolo attivo nella lotta per il titolo. Ci crede anche Sam Schmidt, che raddoppia gli sforzi schierando una seconda vettura per il campione IndyLights Tristan Vautier. A sorpresa nelle prime prove è proprio il più giovane dei due francesi a mettersi in mostra con delle qualifiche eccellenti e grande grinta. Quella di St. Pete è invece una falsa partenza per Simon, che si qualifica male ed è messo fuori gara da uno scarico rotto. La forma sul giro secco non cambia nelle corse successive di Barber, Long Beach e San Paolo, dove però la strategia e un buon passo fruttano tre piazzamenti in top ten. Indianapolis vede poi un discreto miglioramento rispetto all’esordio del 2012, con una rimonta dalla 7° fila fino all’ottavo posto finale. Lontano dai risultati attesi, Simon riesce comunque a limitare i danni portando sempre a casa punti per la classifica. Alcune modifiche dopo una gara 1 deludente a Detroit danno poi una scossa alla stagione. Dalla terza fila Simon si porta infatti subito in terza piazza e su gomme dure nel tratto centrale di gara impone un ritmo impossibile per tutti, prendendo definitivamente al comando dopo l’ultima sosta per conquistare il primo successo in IndyCar. Le due corse difficili di Texas e Milwaukee sono poi seguite da due solidi sesti posti in Iowa e Pocono, a riprova di una consistenza team-pilota ancora tutta da verificare sugli ovali.

Le cose dovrebbero migliorare nel doppio appuntamento di Toronto, ma problemi ai freni relegano il francese all’ottavo posto in gara 1, mentre la seconda frazione è subito compromessa da un problema al rifornimento che gli costa un giro. Con 6 corse ancora da disputare, Simon naviga così a oltre 100 punti dal capo classifica Castroneves, ma il bel secondo posto di Mid Ohio dietro un Kimball veloce come in poche altre occasioni, inaugura una sequenza di 4 arrivi in top 5. Tenersi fuori dai guai nelle innumerevoli ripartenze di Sonoma frutta un quinto posto e ancora meglio va a Baltimora, dove gli incidenti sotto la bandiera verde si sprecano e Simon, unico a tenere vagamente il passo di Dixon e Power, è bravo a farsi largo a ruotate nella confusione finale, cogliendo il secondo successo stagionale davanti a Newgarden e Bourdais. Un assetto votato a stint lunghi lo penalizza un po’ nelle tante bandiere gialle di gara 1 a Houston, dove perde e guadagna posizioni chiudendo infine quarto. E’ poi sesto nella seconda frazione, risultato che lo estromette dalla corsa al titolo per via dei 55 punti da recuperare sul leader Dixon. Problemi di assetto e poi di motore rovinano l’ultima prova di Fontana, che non toglie però a Simon la soddisfazione di chiudere terzo in campionato e migliore dei non top teams.

Secondo successo stagionale a Baltimora. Bret Kelley, indycar.com
Secondo successo stagionale a Baltimora. Bret Kelley, indycar.com

Nulla cambia nel programma #77 per il 2014, mentre dall’altra parte del box Tristan Vautier lascia spazio al russo Mikhail Aleshin, già avversario di Simon ai tempi della World Series. Affermatosi come potenziale pretendente al titolo, il francese è chiamato a confermare il suo modo di correre aggressivo e intelligente, cominciando però a mettere a segno punti pesanti anche sugli ovali. La nuova stagione nelle prime corse si avvia sullo stesso solco tracciato a fine 2013. Simon centra infatti una serie di buoni piazzamenti che lo vede recuperare  fino al quinto posto a St. Pete, risultato che replica nel secondo appuntamento di Long Beach, dove è bravo a rimontare dopo aver perso un giro quando Power lo spinge contro le gomme, episodio che innesca una certa animosità tra i due, amici ed ex compagni di squadra. Ancora a stretto contatto in Alabama, sul bagnato Simon è bravo a recuperare da un errore iniziale, chiudendo al quarto posto davanti all’australiano anche grazie alla velocità dei meccanici in pit lane. Partito in seconda fila, nel successivo Indy Gp il francese si installa subito in seconda piazza ed è poi bravo nel finale a distanziare Hunter-Reay in una gara giocata sui consumi, conquistando il primo successo stagionale. Neanche il casco di Ayrton Senna, suo idolo di infanzia, gli porta però molta fortuna nella 500 miglia, dove parte in seconda fila e perde un giro nelle fasi centrali, per poi risalire fino al 12° posto finale. Un raro errore mentre lotta, guarda caso, con Power, lo spedisce poi contro il muro in gara 1 a Detroit, dove porta comunque un po’ di punti a casa, chiudendo sesto nella seconda frazione. La successiva trasferta texana comincia poi con una bella prova costantemente in top 5 a Fort Worth, che frutta un quarto posto, seguito dal doppio appuntamento di Houston, dove Simon parte in pole in gara 1 ma è attardato da problemi ai freni e poi messo KO da un contatto con la vettura incidentata di Dixon. Risolti i problemi in gara 2 invece non ha rivali, vincendo un duro confronto con Castroneves e staccando il gruppo a ogni ripartenza per conquistare il secondo successo stagionale, che lo porta a 59 punti dal capo classifica Power.

Un discreto sesto posto, unito ai problemi dell’australiano, permettono a Simon di accorciare ulteriormente le distanze a Pocono, mentre in Iowa i problemi delle Penske gli permettono di contenere i danni provocati da una bandiera gialla sfortunata e un ultimo stint problematico. In gara 1 a Toronto una buona strategia gli permette poi di recuperare fino al quarto posto da un contatto con Filippi e relativo testacoda al primo giro, mentre la seconda frazione è subito compromessa da problemi elettrici. Due piazzamenti nella parte bassa della top ten a Mid Ohio e Milwaukee fanno però precipitare Simon a 92 punti da Power, ma dopo aver tribolato non poco durante le prove, un insperato terzo posto a Sonoma, unito ai problemi dell’australiano lasciano una remotissima speranza di titolo a Fontana, che come le altre 500 miglia assegna punteggio doppio. Gravi problemi d’assetto lo escludono però subito dalla lotta, costringendolo a chiudere in fondo al gruppo e quinto in classifica generale alle spalle di Dixon e Montoya, meno competitivi durante la stagione ma premiati dall’assurda regola dei punti doppi.

Davanti a tutti a Houston. Chris Owens, indycar.com
Davanti a tutti a Houston. Chris Owens, indycar.com

Nel mirino dei top teams da due stagioni, nel 2015 Simon lascia il team Schmidt accasandosi non da Ganassi, come supposto l’anno prima, o da Andretti, come il rapporto con la Honda farebbe pensare, ma bensì da Roger Penske, che per la prima volta decide di schierare ben 4 macchine. Nella stagione d’esordio degli aerokits Simon prende quindi i comandi della Dallara-Chevrolet numero 22, ponendo fine a un felicissimo rapporto con la Honda ma non con Ben Bretzman, che lo segue nella nuova avventura. Il trio di stelle è poi completato dallo stratega Kyle Moyer, in arrivo dal team Andretti. Dopo gli egregi risultati con una piccola realtà come Schmidt, Pagenaud alla Penske è subito atteso tra i principali protagonisti, ma la stagione viene invece azzoppata da varie sfortune, oltre che dallo scarso affiatamento tra grandi individualità che devono però imparare a lavorare insieme.

A St. Pete Simon conquista la prima fila al fianco di Power in un poker Penske, ma in gara si dimostra meno incisivo dei compagni, arrivando quinto dopo aver rovinato l’ala anteriore in un contatto con Rahal. Un piazzamento in top 10 nel bagnatissimo GP di Louisiana sfuma invece nel finale quando Hunter-Reay lo spinge sull’erba, innescando un contatto che coinvolge anche Bourdais. Una prestazione positiva ma non esaltante frutta poi un quarto posto a Long Beach, seguito da una nona piazza in Alabama per via di una strategia errata. Segue quindi l’Indy GP, dove una sosta lenta e un guasto al cambio gli negano un probabile podio. Maggio si conclude poi con la Indy500, in cui Simon può per la prima volta puntare al successo. Per tre quarti di gara è infatti autore della prestazione migliore dell’anno, alternandosi in testa alla corsa con Dixon e Kanaan. Un’ala danneggiata nel finale gli costa però una sosta supplementare, relegandolo al 10° posto. Nel convulso fine settimana di Detroit meteo, bandiere gialle e strategia concorrono sia al terzo posto in una gara 1 accorciata per via dei fulmini, che al serbatoio vuoto nel finale della seconda frazione. Non va meglio in Texas, dove chiude staccato, retrocedendo nel gruppo in crisi d’assetto dopo aver battagliato in testa con Power per i primi 100 giri. Bandiere gialle e strategia cospirano poi ancora a Toronto, dove Simon parte in prima fila e battaglia a lungo con il solito Power, chiudendo però solo 11° non destreggiandosi molto bene nel traffico. La prima pole in IndyCar frutta invece un mediocre nono posto nel caos di Fontana, seguito da due corse opache a Milwaukee e Iowa che precedono il podio di Mid Ohio, dove il francese si accoda a Rahal e Wilson, tutti beneficiari di una bandiera gialla (per una volta) fortunata, contenendo l’altrimenti dominatore Dixon fino al traguardo. Simon è poi ancora protagonista nell’ultima 500 miglia stagionale a Pocono, dove parte in prima fila e comanda a lungo, rimanendo però intruppato nel traffico nel momento topico. Una prova incolore a Sonoma chiude quindi una stagione deludente, in cui più che la velocità pura sono un po’ di fortuna e anche di sfrontatezza a fare difetto a Pagenaud, talvolta inaspettatamente incerto nella battaglia con i compagni di squadra, con cui comunque instaura un’ottima collaborazione.

In azione a Sonoma. Richard Dowdy, indycar.com
In azione a Sonoma. Richard Dowdy, indycar.com

Incassata la fiducia di Roger Penske e Tim Cindric nonostante una difficile stagione d’esordio con il team, Simon si presenta al primo appuntamento del 2016 forte di una maniacale preparazione psico-fisica, oltre che di una squadra finalmente coesa e affiatata. I risultati del lavoro si vedono solo parzialmente però a St. Pete, dove il francese perde una corsa dominata subendo un bel sorpasso all’esterno da Montoya in ripartenza. Dopo un secondo posto senza possibilità di sorpasso nella processione di Phoenix, Long Beach da il primo forte segnale di come la musica sia cambiata rispetto al 2016. La corsa vive sul duello con Dixon, che Simon supera aggressivamente nelle prime fasi, tornando definitivamente davanti all’ultimo pit stop con un taglio della riga bianca di rientro in pista che fa polemica nonostante in molti, compreso Dixon, lo imitino. Con un occhio sulla strada e uno sugli specchietti il francese controlla comunque il 4 volte campione, conquistando il primo successo per Roger Penske. Nonostante un week end dominato, il bis in Alabama arriva invece al termine di un vivace scambio di ruotate con Rahal, che nel traffico spedisce il francese nella sabbia ma è poi costretto a cedere da un baffo a penzoloni. Non c’è invece discussione nel Gp di Indy, dove Simon è semplicemente fuori portata per tutti. Il francese si presenta quindi con un ampio margine di punti alla Indy500, segnalandosi come l’unica Penske con velleità di successo, fino a quando non rimane attardato da problemi di misfire.

La prima frazione del Dual in Detroit sembra poi restaurare il solito dominio, ma una sfortunata sequenza di bandiere gialle scombina la strategia, relegandolo fuori dalla top ten. In gara 2 si rivede invece Will Power, che supera abilmente il compagno in una ripartenza, precedendolo sul tragardo dopo aver raccolto il comando da Castroneves, beffato da una bandiera gialla. L’australiano mena le danze anche a Road America, dove Simon deve rinunciare alla battaglia a causa di problemi al propulsore nelle ultime fasi. Dopo un solido quarto posto in Iowa, a Toronto la solita bandiera gialla punisce paradossalmente le doti di risparmio di Dixon e del francese, che si ritrovano invischiati nel gruppo mentre Power va a vincere. Il capo classifica rimette però a posto le cose a Mid Ohio, avendo la meglio sul compagno/rivale al termine di uno spettacolare duello  che li vede scambiarsi ruotate per mezza pista. Uno strano incidente a Pocono tiene aperto il discorso titolo, ma in Texas Simon argina la rimota di Power, prendendosi non pochi rischi per recuperare un giro nel traffico per poi accontentarsi del quarto posto nella tesissima volata finale. L’incidente dell’australiano con Kimball rende fruttuosa anche la complicata corsa di Watkins Glen, permettendo a Pagenaud di presentarsi a Sonoma con 43 punti di vantaggio, un margine di relativa tranquillità, nonostante la minaccia dei punti doppi. Il francese non lascia comunque nulla al caso, dominando il week end in lungo e largo per cogliere la 5° vittoria stagionale e il primo titolo IndyCar in carriera.

Roger Penske si congratula con il campione. Chris Owens, indycar.com
Roger Penske si congratula con il campione. Chris Owens, indycar.com

Vincere è difficile, ripetersi di più e dopo il dominio nel 2016, con il numero 1 sul muso Pagenaud è atteso alla riconferma, in una stagione di transizione che vede il passaggio alla Honda del team Ganassi e l’arrivo di Newgarden alla Penske, in sostituzione di Montoya. A cambiare però sono anche i freni, che nelle prime gare fanno tribolare non poco il francese. Solo una bandiera gialla fortunata gli permette infatti di mettere una pezza a una brutta qualifica e arrivare secondo a St. Pete, alle spalle di un ben più veloce Bourdais. Un’altra partenza dalle retrovie a Long Beach, questa volta per una penalità, vede una gara di tutt’altro spessore, con una rimonta che si ferma al quinto posto per via di una foratura a metà gara. Mai veloce come Power e Newgarden, in Alabama Simon coglie invece un buon terzo posto al termine di una corsa regolare ma non esaltante. A lungo secondo dietro Power, nella solita processione di Phoenix il francese approfitta invece di una bandiere gialla fortunata per staccare il rivale e cogliere il primo successo su ovale, a coronamento di un inseguimento durato 5 anni. Un’altra corsa consistente lo vede poi quarto nel GP di Indy, in cui sia Power che Dixon rosicchiano punti alla sua leadership in campionato, che perde in una Indy500 sfortunata per tutti i contendenti al titolo. A un Dual in Detroit agrodolce segue  l’appuntamento del Texas, dove Simon si installa a lungo alle spalle di Power, in un tandem Penske che si ricompone sul traguardo dopo l’incidente che elimina Sato e Dixon.

Attesa a un dominio totale dopo le prove, a Road America la Penske vive un brutto risveglio in gara, dove Dixon beffa i quattro alfieri del Capitano, con Pagenaud quarto al traguardo. Dopo un discreto settimo posto in Iowa, a Toronto si rivede il Pagenaud dominatore del 2016, almeno fino a quando una bandiera gialla sfortunata non lo spedisce nel gruppo, relegandolo al quinto posto finale. Mai veloce come Newgarden e Power, si piazza poi al quarto posto sia a Mid Ohio che a Pocono. La lotta per il titolo, che vede Dixon e i quattro piloti Penske racchiusi in 42 punti, perde Power a St. Louis, dove l’australiano esce di scena già al primo giro. Pagenaud invece bracca Newgarden fino all’ultimo pit stop, quando i suoi meccanici lo spediscono al comando. Date le difficoltà di sorpasso il francese sembrerebbe avere la corsa in tasca, ma nel finale Newgarden trova un pertugio insperato in curva 1, spostando letteralmente Pagenaud, che evita il contatto col muro ma è costretto a lasciar passare anche Dixon, chiudendo terzo e imbufalito al traguardo. Ingannato dalle previsioni che promettono pioggia, Simon toppa poi l’assetto a Watkins Glen, chiudendo solo nono. Peggio però va a Newgarden, che centrando goffamente il muro in uscita dalla pit lane mantiene il discorso titolo aperto fino a Sonoma, dove si presenta con 3 punti su Dixon, 22 su Castroneves e 34 su Pagenaud, che grazie ai doppi punti può ancora sperare. Partito terzo, il francese si imbarca in una coraggiosa strategia su 4 soste che però paga, rispedendolo davanti a Newgarden dopo l’ultima sosta e permettendogli di conquistare il secondo successo stagionale. La piazza d’onore consegna comunque un meritato titolo all’americano mentre Simon cede onorevolmente lo scettro di campione, piazzandosi secondo a soli 13 punti.

Prima vittoria su ovale a Phoenix. Chris Owens, indycar.com
Prima vittoria su ovale a Phoenix. Chris Owens, indycar.com

L’arrivo del nuovo aerokit a bassa deportanza nel 2018 rendono ottimista Pagenaud, sicuro di poter beneficiare del suo stile pulito. I test invernali lasciano però qualche dubbio sulla forma del francese, quasi sempre più lento dei compagni e raramente in evidenza. I sospetti diventano presto certezze a St. Pete, dove a una qualifica rovinata dalla pioggia segue una gara scialba che si chiude fuori dalla top ten. Non va meglio a Phoenix, dove Simon parte in prima fila, non riuscendo però a riemergere dalla pancia del gruppo dopo una prima sosta problematica. Che la stagione sia in salita lo si capisce ancor di più a Long Beach, dove un promettente terzo posto in qualifica è vanificato da una tamponata di Rahal alla prima curva. Una litigata post gara con il doppiato Gabby Chaves, reo di averlo tenuto dietro per metà gara, è il manifesto di un’altra prova mediocre a Barber, cui segue un altro disastro al primo giro al Gp di Indy, dove Simon è incolpevolmente spedito nella sabbia da Jordan King.

Dopo essersi visto soffiare la pole da Ed Carpenter, è poi protagonista di una Indy500 vissuta nei piani alti, ma senza il guizzo per inserirsi nel discorso vittoria, che va invece al compagno Power, con Pagenaud solo sesto. Dopo la buona velocità mostrata a Long Beach, il doppio appuntamento di Detroit scorre via senza alcun sussulto, alle prese con un passo gara mediocre. Nonostante alcuni problemi di gomme nelle prime fasi, in Texas arriva finalmente una boccata d’aria. Simon conduce infatti a lungo le prime fasi e nel finale, pur non potendo competere con Dixon, rintuzza per venti giri i veementi attacchi di Rossi, portando a casa il primo podio dell’anno. A Road America ritornano però le difficoltà in qualifica, che costringono il francese a prendere il via dal 13° posto. Nonostante un buon passo gara, il traffico e l’assenza di bandiere gialle non permettono una efficace rimonta, che si ferma al 7° posto dopo aver piegato nel finale la resistenza di Jones e Pigot. Dopo un altro discreto piazzamento in top ten in Iowa, a Toronto si rivede un Pagenaud degno delle due stagioni precedenti, terzo in qualifica e bravo a sfruttare le difficoltà dei principali rivali per portare a casa un secondo posto al termine di un duro confronto con Robert Wickens.

A Mid Ohio va però in scena una replica di quanto visto a Road America. A un imbarazzante 17° piazza di qualifica segue infatti una lenta rimonta che si chiude all’8° posto finale. Dopo la bella prova del Texas, il ritorno sul veloce ovale di Pocono frutta però solo uno scialbo ottavo posto, cui segue invece una prova ben più vivace a St. Louis, dove pur non potendo contrastare il vincitore Power, Simon porta chiude quarto in scia al capo classifica Dixon. Una settimana più tardi le qualifiche di Portland segnano però il punto più basso della stagione, con un 22° posto in qualifica che solo grazie ad una fortunata strategia si trasforma in una buona 6° piazza sul traguardo. Il terreno amico dell’ultima prova a Sonoma vede invece una qualifica decente (8°) fruttare un quarto posto finale, buono per una sesta posizione in classifica, ben lontano dai compagni Power e Newgarden che, pur non esenti da errori, molto meglio del francese si sono adattati al nuovo aerokit, portando a casa 3 vittorie a testa. Incassata la conferma da parte di Roger Penske, si spera di vedere nel 2019 un Pagenaud nuovamente sicuro dei propri mezzi e in pace con una vettura con cui lui e il suo ingegnere Ben Bretzman hanno faticato a ragionare per l’intera stagione.

Buon quarto posto a Gateway. indycar.com, Chris Owens
Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L GPV
2007 ChampCar Walker 15 Aussie Vineyeard 14 7 232 0 0 6 10 0 19 3 0
2011 IndyCar D&R/HVM 24   3 32 52 0 0 0 1 0 0 0 nd
2012 IndyCar Schmidt 77 HP 15 5 387 0 4 6 9 0 63 3 nd
2013 IndyCar Schmidt 77 HP 19 3 508 2 3 5 13 0 39 3 1
2014 IndyCar Schmidt 77 Oculus 18 5 565 2 3 8 12 1 59 4 2
2015 IndyCar Penske 22 Avaya 16 11 384 0 2 4 9 1 132 6 0
2016 IndyCar Penske 22 Menard’s 16 1 659 5 8 10 12 8 406 12 0
2017 IndyCar Penske 1 Menard’s 17 2 629 2 6 13 15 1 187 6 2
2018 IndyCar Penske 22 Menard’s 17 6 492 0 2 4 14 0 31 4 0
Carriera         135   3908 11 28 56 95 11 936 41  
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
2007 0 0 0 0
2011 0 0 0 0
2012 0 0 0 0
2013 Detroit 2 Baltimore 0 2 0 2
2014 Indy GP Houston 2 1 1 0 2
2015 0 0 0 0
2016 Long Beach Barber Indy GP Mid Ohio Sonoma 4 1 0 5
2017 Phoenix Sonoma 1 0 1 2
2018 0 0 0 0
Totale 6 4 1 11
Quote 54,5% 36,4% 9,1% 1

Simon Pagenaud

Immagine di copertina: LAT Photographic, autoweek.com

Kenny Brack

Nome: Kenny Brack

Data e luogo di nascita:  21 marzo 1966, Arkiva (Svezia)

Nazionalità: Svedese

Ruolo: Pilota

Kenny Brack è un pilota dall’adattabilità sorprendente. Dopo essersi costruito una buona reputazione in Europa, nel 1997 è stato buttato nella mischia degli ovali americani senza alcuna esperienza. Un anno dopo era già campione, due aveva fatto sua la Indy 500. Non pago, è passato nella CART, facendo vedere che le antiche doti di “stradalista” non erano scomparse, anche se gli ovali a quel punto erano diventati il suo terreno di conquista. Un pilota intelligente, equilibrato, capace di controllare un temperamento aggressivo e lasciare che la corsa gli venisse incontro. Forse è per questo che ha capito gli ovali fin da subito.

Kenny cresce in un paese di 40 anime, Glava, e come spesso accade ai piloti scandinavi fa le sue prime esperienze sul ghiaccio, col padre che già a sei anni lo porta a guidare sui laghi ghiacciati. Il rally sarebbe ovviamente la disciplina ideale per dare sfogo alla passione per le corse, ma dopo varie scorribande e poche gare col kart, fresco di patente si reca con macchina e rimorchio a Snetterton per acquistare una vecchia Van Diemen appartenente a David Hunt, fratello del campione del mondo James. Armato di tanta passione e pochissimi soldi, Kenny è un pilota a tutto tondo, nel senso che guida, fa da meccanico e anche da manager, cercando disperatamente qualche sponsor disposto a supportare un ragazzino che sogna di correre in macchina. Un aiuto finalmente arriva da un’azienda produttrice di patatine, che gli appioppa scatole e scatole di prodotto finito da rivendere. Facendo il giro di metà degli autogrill della Svezia, Kenny porta a casa le 1500 sterline che gli servono per dare un primo impulso alla sua carriera. Per tre anni è impegnato nella F.Ford svedese, che riesce a fare sua al terzo tentativo, per poi concentrarsi sulla più competitiva serie britannica nel 1987, avventura affrontata usando il vecchio van per trasportare l’auto anche come dormitorio nei week end di gara. Nonostante le risorse siano ridotte all’osso riesce comunque a mettersi in mostra, guadagnandosi un’offerta di Ralph Firman per un impegno ufficiale.

Per il 1988 Kenny si è però gia accordato per gareggiare nella F.3 svedese e dopo un inizio stentato la seconda parte lo vede vincere una corsa e portare a casa altri podi. L’anno successivo fa solo tre corse nella serie di casa, vincendole tutte, concentrando gli sforzi sul campionato britannico, che è però affrontato ancora una volta con pochi mezzi e, conseguentemente, minori risultati. Per il 1990 Kenny decide di fare un passo indietro, partecipando alla F. Open Lotus, in cui si scontra con piloti del calibro di Barrichello, Sospiri, De Ferran e Coulthard. Il brasiliano conquista il titolo davanti al forlivese mentre Kenny, più concentrato a chiudere il budget che sulla guida, è 8° e lontano dal compagno Michael Johansson, facendo peggio l’anno successivo, quando finisce 9° nella serie vinta da Pedro Lamy. Contrariato dalla mancanza cronica di risorse e dalla pochezza di risultati, per il 1992 Kenny abbandona la strada delle monoposto concentrandosi su un campionato più a portata delle sue tasche, la neo nata Clio Cup Scandinava. Brack domina, conquistando 9 corse su 10 che gli fruttano dei buoni premi in denaro, la considerazione della Renault e un invito all’appuntamento della serie sulle strade di Monaco, dove arriva col suo van scalcinato conquistando la pole e chiudendo al terzo posto dopo aver guadagnato e perso più volte il comando sul bagnato.

Il 1993 è l’anno del ritorno alle monoposto, questa volta in America nella Formula Barber Saab, serie propedeutica che paga cospicui premi e un assegno di 100.000 $ al campione, da investire in IndyLights. Dopo aver cominciato quasi per scherzo, i premi di ogni vittoria finanziano l’avanti e indietro sull’Atlantico, che frutta a Kenny il titolo. Una stagione di IndyLights costa circa 1 milione di dollari e Kenny, appoggiato dalla Renault, decide di tornare in Europa per tentare la carta F.3000. Dopo aver convinto Skip Barber a consegnargli il premio di 100.000$ pur non continuando in IndyLights, Kenny si accorda con il team Madgwick per il 1994. Nel frattempo la stessa Renault gli procura un test con la Williams campione del mondo al Paul Ricard. Nonostante l’asfalto bagnato Kenny si comporta bene, facendo ancora contenta la casa francese nella Clio Cup Europa, dove conquista due successi su quattro partecipazioni.

Il 1994 però è un altro anno no, la squadra non ingrana e per Kenny arrivano solo due piazzamenti nei punti, un buon terzo posto a Spa sul bagnato e un sesto nell’appuntamento successivo all’Estoril, per un totale di 5 punti che gli valgono l’11° posto finale. Il suo compagno Mikke Van Hool non riesce a portare a casa nessuno punto. Nel 1995 Kenny rimane al team Madgwick e con un anno di esperienza alle spalle le cose cominciano a girare: la vittoria all’ultimo appuntamento di Magny Cours, altri due podi e 5 arrivi in top5  su 8 corse gli garantiscono il terzo posto in campionato (primo dei motorizzati Judd) dietro i piloti del team SuperNova, il dominatore Sospiri e Ricardo Rosset. Ed è proprio la squadra inglese che offre a Kenny finalmente una concreta possibilità di puntare al titolo nel 1996. Il campionato, per la prima volta corso in regime di monomarca Lola-Judd, si rivela subito un affare privato tra Kenny e Jorg Muller. I due il più delle volte monopolizzano infatti i primi due gradini del podio, lottando gomito a gomito fino all’ultimo appuntamento di Hockenheim, dove il tedesco si presenta con tre punti di vantaggio sul rivale. In una sfida in cui chi vince porta a casa il titolo, il duello si trasforma in scontro quando a vetture appaiate un scarto improvviso di Kenny porta al contatto, costringendo Muller al ritiro. Brack invece prosegue, tagliando per primo il traguardo nonostante la bandiera nera impostagli dai commissari. La squalifica è inevitabile e il titolo va a Jorg Muller.

Ultimo anno di F.3000. flickr.com
Ultimo anno di F.3000. flickr.com

L’amara chiusura di una stagione esaltante si somma alla rottura dei ponti con la Formula 1. Dopo alcuni contatti con McLaren e Benetton per un ruolo da collaudatore con poche speranze di correre, Kenny sigla un accordo con Tom Walkinshaw, che nel ’96 sembra intenzionato ad acquistare la Ligier, per poi ripiegare sulla Footwork. Dopo alcune prove con il motore Yamaha Kenny capisce però che la vettura non ha futuro, riuscendo dopo varie dispute a interrompere la relazione con il manager inglese.

Più interessato alla possibilità di vincere che alla categoria in sé, Kenny accantona i sogni sulla F1, cominciando a pensare a un ritorno negli States. Inizia così a frequentare i paddock di CART e IRL con la speranza di procurarsi almeno un test, ma con scarsi risultati. Quando però Davy Jones si fa male a Orlando, il team Galles decide di dare a Kenny una possibilità, pur chiarendo di essere alla ricerca di un pilota esperto. Il test va però così bene da far vacillare Rick Galles, che alla fine ingaggia lo svedese pagandogli anche un discreto ingaggio. All’esordio sugli ovali Kenny riesce a mettersi in mostra in diverse occasioni, come al debutto a Phoenix, dove parte nono, risale gradualmente il gruppo e a metà gara conduce agevolmente la corsa davanti a Stewart e Guthrie quando perde il controllo in curva 3 terminando contro il muro. Un mese di maggio terrificante a causa dell’inesperienza sua e dell’ingegnere sui super speedway, è coronato da una immediata uscita di scena a Indianapolis. Qualificatosi all’esterno della quinta fila, Kenny si aggancia infatti con Affonso Giaffone e Stephan Gregoire prima della bandiera verde.

Nonostante un delirante sistema di qualifica che prevede tre giri lanciati e un pit stop per cambio gomme, lo svedese si qualifica in terza piazza nell’appuntamento successivo in Texas, dove si mantiene stabilmente in top 5 fino a quando il motore non lo abbandona ad un quarto di gara. Alle prese con un’auto sovrasterzante, naviga costantemente tra la decima e la quinta posizione a Pikes Peak prima di finire a muro con il traguardo ormai in vista. Partito nelle retrovie, a Charlotte perde subito un giro ma migliora sosta dopo sosta, tenendosi fuori dai guai e portando a casa un buon quinto posto. Nonostante un incidente in prova, piazza poi la sua G-Force in prima fila a Loudon e dopo aver spento il motore durante una sosta recupera fino a condurre la corsa, ma nel finale non ha la velocità per giocarsi la vittoria, chiudendo ancora quinto. Vittoria che potrebbe però arrivare a Las Vegas, dove Kenny recupera dal centro gruppo e conduce la corsa a metà distanza quando un semiasse lo costringe alla resa. In sei gare (4 in meno dei piloti impegnati full time) lo svedese mette quindi insieme due arrivi in top 5 che gli valgono il 19° posto finale.

Vittoria nella pit stop competition di Indianapolis contro Eddie Cheever. autochannel.com
Vittoria nella pit stop competition di Indianapolis contro Eddie Cheever. autochannel.com

Kenny non ha programmi certi per il 1998, fino a quando non riceve una chiamata inaspettata. E’ AJ Foyt che, intenzionato a confermare Billy Boat, cerca un sostituto per Davey Hamilton. Quando dall’altro capo del telefono sente la leggenda texana, Brack quasi non crede alle sue orecchie e dopo una breve contrattazione acconsente ad accasarsi al team di Foyt, accettando anche una discreta decurtazione di ingaggio rispetto a quanto percepito da Rick Galles.

L’inizio però non è dei migliori: problemi tecnici rallentano infatti una prova positiva ma non spettacolare al debutto col team a Orlando, mentre a Phoenix un duello tesissimo con Boat per il podio sfuma per un contatto evitabile con il doppiato Mike Groff. A Indy Kenny parte in prima fila e prende il comando dopo i ritiri di Ray e Stewart. E’ quindi terzo attorno a metà gara quando rimane a secco nel giro di rientro, cosa che gli costa due giri e manda su tutte le furie Foyt che, in una scena passata agli annali, sbatte malamente un computer sul tavolo del telemetrista, maledicendo la tecnologia. Il team si rifà comunque in Texas, dove Boat porta a casa la vittoria con Kenny che chiude terzo, tutt’altro che soddisfatto. Lo svedese accusa infatti platealmente la vettura di non essere in grado di vincere contrariando Foyt, che però una volta a casa fa personalmente tutte le verifiche del caso, realizzando la non totale apertura dell’acceleratore. L’episodio segna un punto di svolta nel rapporto tra i due, nonostante le corse successive non siano propriamente positive. Un testacoda al primo giro a Loudon e un decimo posto dopo lunghissima sosta nelle prime fasi a Dover lasciano infatti Kenny al sesto posto in classifica a oltre 70 punti da Scott Sharp, ma dall’appuntamento successivo di Charlotte le cose cambiano radicalmente. Kenny approfitta infatti dei ritiri del campione ’96 e Stewart e nonostante problemi in diverse soste guida la corsa più a lungo di tutti, riprendendo definitivamente il comando a 20 giri dal termine dopo un infuocato duello con Ward nel traffico. Arriva così la prima vittoria in IRL e come spesso accade ai campioni, una volta rotto il ghiaccio i successi arrivano a ripetizione. A Pikes Peak dopo l’incidente dello stesso Ward la corsa si trasforma in un duello strategico tra i team Menard e Foyt, con Kenny che conduce le ultime fasi e a differenza di Buhl e Stewart riesce a tagliare il traguardo senza rabbocco, conquistando il secondo successo consecutivo che lo porta a un solo punto da uno Sharp in difficoltà.

Ad Atlanta è poi protagonista di una prova perfetta, che lo vede mettere costantemente pressione al leader di turno, salvo poi avventarsi su Hamilton e Ward negli ultimi giri, andando a conquistare un altro successo e il comando del campionato con 23 punti su Hamilton e 25 su Stewart. La sequenza di vittorie si ferma al penultimo appuntamento in Texas, ma a Kenny basta tenersi fuori dai guai per allungare in classifica considerando i problemi di Hamilton e i ritiri di Stewart e Sharp. Lo svedese si presenta quindi all’epilogo di Las Vegas con 31 punti di vantaggio sul pilota dell’Idaho e 41 sul campione in carica. Problemi al motore, sia in prova che in gara, mettono in allarme il team Foyt, ma l’apprensione dura poco. Stewart soffre infatti dello stesso contrattempo ed Hamilton, mai competitivo, è coinvolto in un incidente a metà gara. Le tre vittorie consecutive e qualche piazzamento in più dei rivali garantiscono quindi a Kenny il titolo IRL 1998.

Una 500 miglia sfortunata. Callahan, autochannel.com
Una 500 miglia sfortunata. Callahan, autochannel.com

Campione a sorpresa, nel 1999 la difesa del titolo non inizia però bene per Kenny, che nel primo appuntamento di Orlando naviga ai margini della top ten fino a metà gara, quando finisce a muro non potendo evitare Gualter Salles, che rallenta improvvisamente con il motore rotto. Incredibilmente a Phoenix succede l’opposto: Kenny recupera dal fondo ma in una ripartenza manca una cambiata e viene tamponato da Boesel, innescando un incidente che fa fuori anche Steve Knapp. Dopo l’annullamento della corsa di Charlotte per un incidente che costa la vita a tre spettatori, la IRL si sposta a Indianapolis, dove Kenny parte in terza fila, prende il comando dopo un quarto di gara e sembra aver la corsa in pugno quando i principali rivali abbandonano uno dopo l’altro. Memore del disastro del ’98 però Foyt decide di giocare prudente con i consumi, lasciando l’azzardo a Robby Gordon, che non rabboccando durante l’ultima neutralizzazione prende il comando. Liberatosi a fatica di Ward, negli ultimi 14 giri Kenny porta il suo distacco da 4 secondi a circa 1, quando in vista della bandiera bianca Gordon rimane a secco lasciandogli il comando. A Kenny non resta quindi che completare il 200° giro per conquistare il successo più importante della sua carriera, il quinto a Indy per AJ Foyt tra abitacolo e muretto.

Passata la sbornia del Brickyard, il campionato prosegue però a rilento. Come a fine ’98 infatti le alte temperature del Texas giocano brutti scherzi alle gomme Goodyear, che presentano un consumo anomalo costringendo Brack a collezionare pit stop e chiudere fuori dai primi dieci. Dopo un poco entusiasmante settimo posto a Pikes Peak, Atlanta segna poi una parziale inversione di tendenza. Kenny parte dalle retrovie ma recupera fino alle prime posizioni, dovendosi però arrendere nel finale a Sharp e Robby Unser. Un altro terzo posto a Dover lo mantiene poi in corsa per il titolo, ma dopo la vittoria del ’98 Pikes Peak si dimostra ancora amara per lo svedese, che termina solo 10° mentre Greg Ray bissa il successo di giugno e sembra prendere lo slancio decisivo. A Las Vegas però il pilota di John Menard si tocca con Dismore e poi è tradito dal motore, mentre Kenny perde un bel duello con Schmidt ma chiude comunque secondo, presentandosi all’ultimo appuntamento in Texas con 15 punti da recuperare. Dopo l’incidente di Goodyear i due contendenti si alternano al comando fino a tre quarti di gara, quando Brack è costretto ad una lunghissima sosta per un problema alla sospensione posteriore destra che consegna il titolo a un meritevole Ray. Lo svedese chiude comunque al secondo posto una stagione condizionata da incidenti e problemi di gomme ma comunque resa indimenticabile dal successo alla Indy500.

Con SuperTex in victory lane. indycar.com
Con SuperTex in victory lane. indycar.com

Conquistato tutto in IRL, Kenny lascia malinconicamente AJ Foyt, consapevole che il passo successivo della sua carriera non può che essere la CART. Accetta quindi l’offerta di Bobby Rahal, che lo sceglie per guidare la Reynard Ford sponsorizzata Shell al posto di Bryan Herta. Alle prese con una macchina molto più potente e sofisticata, lo svedese non fa una piega, mettendosi subito in mostra nella prova di apertura di Homestead, dove guida il gruppo prima di ritirarsi per problemi al motore. Un incidente con Kanaan pone fine ad un solido ritorno sui cittadini a Long Beach, ma la successiva sequenza di ovali lo vede costantemente protagonista. Solo il motore spento all’ultima sosta gli nega un possibile successo già nel terzo appuntamento di Rio, dove guida a lungo la corsa dopo aver piegato la resistenza di Tracy e Fernandez. Un buon quinto posto a Motegi precede poi il primo podio a Nazareth davanti a Montoya, cui segue un buon quarto posto a Milwaukee.

Il campione IRL rispetta quindi in pieno le aspettative, inserendosi subito tra i migliori sugli ovali, ma il momento positivo si arresta a Detroit, dove finisce contro il muro dopo pochi giri. Nonostante un errore in partenza che complica la vita a diversi avversari, Kenny conquista quindi un discreto 6° posto a Portland, mettendo a segno una bella rimonta nell’appuntamento successivo di Cleveland, dove centra un eccellente secondo posto partendo dalla 7° fila. Un errore mentre battaglia con Tagliani per la top 5 lo relega poi solo in decima posizione a Toronto, ma torna subito protagonista a  Michigan, almeno finché Fittipaldi non decide di spremerlo contro il muro, innescando un contatto che per puro miracolo non fa decollare la Reynard dello svedese.

Brack si segnala tra i più veloci anche sull’ovale corto di Chicago, ma perde il contatto coi primi facendo spegnere il motore durante una sosta e alla fine è solo quarto. Un altro piazzamento in top 5 arriva poi a Mid Ohio, al termine di un lungo confronto per il podio con Fittipaldi e il compagno Papis, per poi tornare sul podio a Road America al termine di una corsa dalla selezione durissima. La lunga sequenza di piazzamenti mantiene Kenny pienamente in corsa per il titolo, con 23 punti da recuperare su Andretti. Fatto salvo il quinto posto di Laguna Seca però, nelle corse successive lo svedese va incontro a una flessione che ha il suo punto più basso a Houston, dove si ritira dopo essere rimasto incolpevolmente coinvolto in un contatto multiplo.

Si presenta quindi al penultimo appuntamento di Surfers Paradise al settimo posto in classifica, staccato di 35 punti da De Ferran e con poche speranze di lottare per il titolo dopo essersi qualificato in sesta fila. La gara è però tra le più bizzarre della storia della serie. Tutti i contendenti al titolo sono infatti coinvolti in incidenti e Kenny, su una strategia alternativa data la posizione di partenza non favorevole, nelle ultime fasi si ritrova in terza posizione dietro Fernandez, sulla stessa tattica e in grave crisi di consumi, e il combattivo Alex Barron. Dopo aver visto l’americano fermarsi tristemente col motore in fumo, all’ultimo giro di una corsa accorciata per il superamento del limite delle due ora Kenny mette pressione al messicano, accontentandosi comunque di un secondo posto vitale in chiave titolo. Lo svedese arriva infatti a Fontana  staccato di 19 punti da De Ferran e in gara è tra i più veloci, ma a metà distanza è costretto ad abbandonare la compagnia col motore in fumo.

Sfortunato ma velocissimo al debutto a Homestead. Peter Burke
Sfortunato ma velocissimo al debutto a Homestead. Peter Burke

Nonostante la vittoria gli sfugga in più di un’occasione, per Kenny si tratta comunque di una stagione d’esordio aldilà delle aspettative. Lo svedese è quindi nel novero dei favoriti per il 2001, stagione in cui il team Rahal prosegue con il motore Ford, passando però al telaio Lola, in grande crescita e più a suo agio sugli ovali rispetto alla Reynard tradizionale. Continua anche il rapporto con l’esperto ingegnere Don Halliday, che a inizio stagione da i suoi frutti anche su stradali e cittadini.

Nella prova di apertura a Monterrey, Kenny conquista la pole davanti a Da Matta, controllando le prime fasi prima che un problema elettronico e una successiva escursione lo releghino al quinto posto finale. Lo svedese si ripropone tra i protagonisti a Long Beach, dove nelle prime fasi incalza il polesitter Castroneves, dovendo però ritirararsi dopo le prime soste per un problema alla frizione. La vittoria sembra avvicinarsi ancora di più nell’appuntamento successivo di Nazareth, dove Kenny da spettacolo nel traffico e comanda a lungo la corsa, mettendo pressione al rookie Dixon fino al traguardo. A Motegi finalmente si rompe un digiuno che va avanti da due anni. Kenny è l’unico a tenere il passo dei piloti Honda, riuscendo addirittura ad allungare tutti gli stints grazie al miglior consumo del motore Ford, cosa che gli permette di evitare l’ultimo rifornimento e portare a casa il primo successo in CART. Si presenta così a Milwaukee da capoclassifica, posizione che consolida sopravvivendo al primo giro a un improbabile assalto di Castroneves e battendo Andretti in un lungo duello per la vittoria.

Dopo di che il calendario si concentra su stradali e cittadini, segnando il ritorno delle Penske. Detroit va a Castroneves, con Kenny in difficoltà e nono alla fine. Dopo un 11° posto nella bagnatissima Portland, lo svedese è poi protagonista di una bella prova in rimonta a Cleveland, chiudendo sesto, mentre a Toronto è messo fuori causa dal motore dopo aver lottato con le Penske nelle prime fasi. Si presenta comunque ancora da capo classifica alla Michigan500, gara totalmente dominata dalle Lola ma che incredibilmente vede le vetture del team Rahal entrare in contatto ed eliminarsi nelle fasi finali, lasciando la vittoria alla Reynard di Carpentier, senza che gli altri contendenti al titolo, De Ferran, Castroneves e Andretti, riescano ad approfittarne. Il riscatto arriva subito a Chicago, dove Kenny vince beffando ancora i piloti Honda con una guida aggressiva e i minori consumi.

Mid Ohio segna però un’altra battuta d’arresto a causa di un errore di Papis che conduce al secondo disastro interno al team Rahal, mentre le Penske colgono una doppietta, con Castroneves che passa a condurre la serie. Non va meglio a Road America, dove Kenny conquista la pole ma la gara è stravolta dalla pioggia torrenziale, portando a diverse strategie. Quella del team Rahal non si dimostra vincente, relegando lo svedese al 13° posto, cui segue un ottava piazza nelle strade di Vancouver, in cui Brack si produce in un altro scambio di ruotate con Castroneves al primo giro. La costanza di risultati premia però De Ferran, che si presenta al comando della serie nella trasferta europea del campionato, disputata in condizioni climatiche ed emotive difficili dopo i fatti dell’11 settembre. Al Lausitzring Kenny comanda le prime fasi prima di essere spedito in testacoda da un contatto con il rookie Junqueira. Sopravvissuto al contrattempo, lo svedese è poi superato dalle veloci Reynard Honda del team Nunn, afflitte però da maggiori consumi. Kanaan e Zanardi sono infatti costretti a un rabbocco nel finale, lasciando il comando a Brack, che potrebbe forse finire la corsa senza ulteriori soste. La bandiera a scacchi arriva però in anticipo per il tremendo incidente del bolognese, che interrompe la corsa regalando al team Rahal una doppietta.

Kenny è quindi nuovamente al comando della classifica, scambiandosi più volte la testa della corsa con De Ferran nel successivo appuntamento di Rockingham, che si conclude con uno spettacolare duello tra i due. Il brasiliano conduce le ultime fasi, ma un’incomprensione con il doppiato Papis apre la porta per il sorpasso di Brack a due giri dalla fine. La corsa sembrerebbe chiusa, ma De Ferran all’ultimo giro trova lo spunto per affiancare lo svedese, finalizzando la manovra con un fantastico sorpasso esterno all’ultima curva. Kenny è battuto, ma una volta sceso dalla vettura va molto sportivamente a congratularsi per la splendida manovra del rivale. Lo svedese conserva un piccolo margine in classifica, ma dopo Rockingham l’inerzia sembra tutta dalla parte del campione in carica, che fa punteggio pieno sulle strade di Houston (Kenny è solo settimo) e chiude virtualmente la questione a Laguna Seca, dove Kenny è costretto al ritiro da un contatto con Gugelmin.

Un buon quinto posto a Surfers Paradise non basta quindi allo svedese per negare al brasiliano il secondo titolo CART. La stagione ha poi un finale inglorioso a Fontana, dove Brack finisce a muro dopo pochi giri, mantenendo comunque la seconda piazza in classifica e chiudendo con più vittorie di tutti, 4.

Lausitzring. crash.net
Successo stagionale numero 4 al Lausitzring. crash.net

Nonostante un finale di stagione non entusiasmante, Kenny si è comunque affermato come uno dei top drivers della categoria, uno dei pochi a poter garantire a un buon team una campagna per il titolo. La pensa così anche Chip Ganassi, che mette sotto contratto lo svedese nel finale del 2001, convinto di aver trovato in Brack il nuovo pilota dominante, l’erede di Zanardi e Montoya. Kenny prende quindi i comandi della vettura numero 12, seguita da Julian Robertson, facendo coppia con Junqueira, reduce da una buona stagione d’esordio.

Nell’inverno l’accoppiata Brack-Ganassi fa paura, specie dopo la defezione del team Penske, ma già dalle prime gare si capisce che qualcosa non funziona. Incidenti e problemi tecnici condizionano l’inizio stagione, in cui Kenny non mette però in mostra il potenziale tanto atteso. Il primo spiraglio positivo si intravede al 5° appuntamento di Laguna Seca, dove Kenny manca d’un soffio la pole, chiudendo terzo dopo aver a lungo battagliato con Christian Fittipaldi. A Portland lo svedese deve ancora arrendersi a Da Matta in prova ma in gara mette in mostra una grinta da leone, strappando il comando al brasiliano alla prima curva e controllando la gara fino alla seconda sosta, quando la squadra vanifica tutto rispedendolo in pista con una ruota mal fissata.

La pressione per i risultati che non arrivano sale, ed è forse questa che gioca un brutto scherzo a Kenny nell’appuntamento successivo di Chicago, dove lo svedese tenta di risolvere una brutta qualifica lanciandosi in un 5 wide alla prima curva che rovina la sua gara e quella di un incolpevole Vasser. L’altalena prosegue a Toronto con un buon secondo posto dietro l’intoccabile Da Matta, cui segue una solida quarta piazza a Cleveland. Dopo un altro incolpevole ritiro al primo giro a Vancouver e un anonimo 6° posto a Mid Ohio, una discreta prova a Road America si conclude nella sabbia in un avventato sorpasso a Paul Tracy. Non va meglio a Montreal, dove Kenny è ancora incolpevolmente fuori alla prima curva, mentre Denver frutta solo un settimo posto che stona, considerando che Junqueira e Dixon, che si è unito al team a Milwaukee, colgono una doppietta.

A Rockingham però si rivede il Brack Oval Master. Lo svedese centra infatti la pole e domina la corsa fino all’ultima sosta collettiva, quando un problema alla posteriore sinistra lo fa precipitare nel gruppo, relegandolo all’ottavo posto finale. Alla bella ma sfortunata prova inglese segue poi una Miami incolore, mentre Surfers Paradise frutta un quarto posto nel caos scatenato da pioggia e incidenti. Un altro ritiro per problemi tecnici a Fontana precede infine la prova conclusiva di Mexico City, che regala finalmente un sorriso. Dopo aver gravitato ai margini del podio, un’ultima sosta velocissima spedisce Kenny al comando. Rintuzzato un attacco di Da Matta in ripartenza, lo svedese costruisce poi un buon margine negli ultimi giri, conquistando la prima vittoria su stradale dai tempi della F.3000.

Buon podio a Laguna Seca. racebyrace.com
Buon podio a Laguna Seca. racebyrace.com
Una Indy500 poco entusiasmante si chiude all'11° posto. indycar.com
Una Indy500 poco entusiasmante si chiude all’11° posto. indycar.com

Nonostante l’intenzione di Chip Ganassi di approdare definitivamente in IRL, categoria di cui Kenny è stato uno dei principali protagonisti, le parti decidono di prendere strade separate per il 2003. Ganassi conferma Dixon e ingaggia Scheckter mentre Brack ritorna alla corte di Bobby Rahal, che schiera una Dallara-Honda nella stessa IRL. Lo svedese riprende quindi la collaborazione con il fidato ingegnere Don Halliday, ma le prestazioni non saranno all’altezza di quanto fatto vedere nel biennio 2000-2001, a causa dell’inesperienza del team nella categoria, aggravata dallo schierare una sola vettura, oltre che dal deficit di potenza pagato dalla Honda rispetto a Toyota e, nella seconda parte della stagione, Chevrolet. La prima corsa di Homestead non è positiva, con Brack che si qualifica in mezzo al gruppo e naviga ai margini della top ten per chiudere 11°. Va un po’ meglio a Phoenix, dove Kenny si mantiene attorno alla top 5 nelle prime fasi, finisce in fondo al gruppo con una strategia sfalsata e nel finale riesce a riconquistare il quinto posto beneficiando del brutto incidente che coinvolge Andretti e De Ferran. Il miglioramento prosegue a Motegi, con Kenny che combatte da subito nelle prime posizioni, si porta brevemente al comando e dopo aver perso e riguadagnato posizioni durante le soste, beneficia di vari ritiri e ha la meglio su Giaffone proprio prima dell’ultima neutralizzazione, che gli consegna il secondo posto dietro Scott Sharp. Una seconda fila a Indy non ha invece seguito in gara, a causa di una sosta lenta, un innocuo testacoda in regime di bandiera gialla e problemi alla trasmissione.

Una corsa convincente in Texas conduce ad un buon quarto posto, seguito da una striscia di quattro  piazzamenti ai margini della top 5, che confermano la consistenza della squadra, cui manca però il guizzo per inserirsi nella lotta al vertice. Un incidente per cedimento meccanico a Michigan, problemi elettrici a St. Louis, dove parte in prima fila, e una perdita d’olio con relativo principio di incendio in Kentucky, interrompono però la serie di risultati utili. Punti pesanti arrivano invece a Nazareth, dove lo svedese chiude quinto recuperando dopo una sosta lenta a inizio gara. A Chicago un’altra buona prova vissuta a ridosso delle prime posizioni si chiude invece con un incidente a metà gara, forse per un cedimento meccanico. La prima fila di Fontana farebbe poi ben sperare per un buon finale di stagione, ma un problema al bocchettone di rifornimento costringe lo svedese a rimanere in pit lane per 12 giri.

Giro da prima fila a Fontana. indycar.com
Giro da prima fila a Fontana. indycar.com

Si arriva così all’epilogo in Texas, in cui Kenny parte in quarta fila e lotta a ridosso del gruppo di testa nelle prime fasi. Una strategia alternativa lo lascia però attardato, rispedendolo nelle posizioni di vertice dopo l’ultima neutralizzazione, grazie anche ai guai incontrati da Hornish, Kanaan e Castroneves. A 13 giri dal termine lo svedese si trova in quarta piazza e in piena lotta per il podio, quando nel tentativo di seguire aggressivamente la scia di Dixon, in seconda posizione, percorrendo il rettilieno di ritorno si avvicina troppo alla vettura di Scheckter, che protegge le spalle al neozelandese. L’anteriore destra di Brack si aggancia con la posteriore sinistra del sudafricano, causando il decollo della Dallara, che punta verso l’alto impattando con il fondo contro le reti di contenimento esterne. L’impatto è devastante, tanto da strappare via dal telaio tutti gli elementi esterni, compresi cambio e motore. Gli accelerometri a bordo vettura misurano una decelerazione di 214g. Rimane integra solo la cellula di sopravvivenza, che impazzita rimbalza sull’asfalto ruotando su se stessa innumerevoli volte, prima di arrestarsi tra le curve tre e quattro. Incosciente, Kenny viene rapidamente estratto dalla vettura e trasportato all’ospedale di Dallas, dove gli vengono riscontrate fratture a entrambe le caviglie, allo sterno e varie costole, al femore destro, oltre a tre vertebre lombari. L’infortunio alla schiena si dimostra particolarmente critico, avendo comportato lo stiramento e l’uscita dalla sede dei nervi. Dopo alcune lunghe e complesse operazioni, Kenny è autorizzato a tornare a Indianapolis dove può cominciare il percorso di riabilitazione, complicato da una pericolosa embolia polmonare che lo costringe nuovamente in terapia intensiva. Complessivamente lo svedese passa 3 mesi in ospedale, in cui perde 25 kg di peso per l’inattività.

A marzo la nuova stagione IRL è ormai alle porte e Bobby Rahal sceglie Buddy Rice in sostituzione dell’ancora convalescente Brack. La grinta del giovane americano, unita al telaio Panoz e al nuovo, dominante motore Honda 3 litri, sbaragliano la concorrenza a Indianapolis, conquistando altre due vittorie nel corso della stagione. Ancora sulle stampelle, a giungo Kenny si sente pronto per infilarsi nell’abitacolo della Panoz, arrivando a pochi decimi dal record della pista di Richmond. Quello della Virginia è però anche uno degli ovali più impegnativi fisicamente, tanto che lo svedese è costretto a farsi estrarre dalla vettura dopo pochi giri. Si preferisce quindi rimandare un eventuale rientro, dando a Kenny il tempo di continuare la riabilitazione.

A Parigi per la Race of Champions 2004. IMP, motorsport.com
A Parigi per la Race of Champions 2004. IMP, motorsport.com

All’inizio del 2005 il team Rahal annuncia un programma di tre vetture, ma al fianco dei confermati Rice e Meira la squadra decide di schierare Danica Patrick. L’occasione di tornare in IRL per Brack arriva comunque a maggio, quando viene richiamato per sostituire proprio Buddy Rice, che durante le prove della Indy500 si infortuna alla schiena in un brutto incidente in curva 2. Kenny non prende parte al primo fine settimana di qualifiche, ma riesce comunque a entrare in griglia, facendo segnare i quattro giri più veloci dell’intero schieramento. Partito in ottava fila, la sua progressiva rimonta termina però a metà gara, quando un problema allo sterzo lo costringe al ritiro. Il ritorno, seppur passato un po’ sotto traccia per via del ciclone Patrick, frutta a Kenny una marea di complimenti e attestati di stima. Non smuove però in lui la voglia di tornare a correre a tempo pieno, tanto da indurlo a rifiutare un’offerta del team Newman Haas per il 2006.

Pronti per il comando alla Indy500. Michael Voorhees, indycar.com
Pronti per il comando alla Indy500. Michael Voorhees, indycar.com

Abbandonata la carriera professionistica, Kenny si dedica al mondo degli affari avviando, tra le varie attività, un programma di supporto a giovani talenti scandinavi. Diventa così il manager di diversi piloti, tra cui Marcus Ericsson, che segue dai kart fino alla Formula 1. Tra i finanziatori dei suoi progetti c’è Andreas Eriksson, titolare della scuderia Olsberg MSE, che dopo lunghe insistenze lo convince nel 2010 a guidare la sua Ford Fiesta Rallycross all’X Games XV, in cui Kenny porta a casa l’oro dopo una serrata battaglia con Travis Pastrana. Oltre ad altri rally su asfalto e sterrato, lo svedese non disdegna anche qualche uscita nelle corse storiche, tra cui Goodwood, dove vince nel 2011 in coppia con l’amico/rivale Tom Kristensen ed è poi protagonista nel 2013 di una memorabile qualifica sul bagnato, al volante di una Ford GT40 del ’65 divisa con Adrian Newey. Dopo aver guidato una McLaren F1 GTR coda lunga al Festival of Speed 2014, viene ingaggiato dalla casa inglese come collaudatore ufficiale, stabilendo nel 2017 il record del Nurburgring e della salita di Goodwood alla guida di una McLaren P1 LM.

Verso l'oro agli X Games 2010. Jeff Gross, gettyimages; zimbio.com
Verso l’oro agli X Games 2010. Jeff Gross, gettyimages; zimbio.com
A Goodwood 2017 sulla McLaren P1. fastestlaps.com
A Goodwood 2017 sulla McLaren P1. fastestlaps.com
Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L
1997 IRL Galles 4 Monsoon 6 20 139 0 0 2 2 0 39 3
1998 IRL Foyt 14 Powerteam 11 1 332 3 4 5 8 0 145 5
1999 IRL Foyt 14 Powerteam 10 2 256 1 4 4 6 0 252 4
2000 CART Rahal 8 Shell 20 4 135 0 4 9 13 0 151 7
2001 CART Rahal 8 Shell 20 2 163 4 6 8 12 6 621 10
2002 CART Ganassi 12 Target 19 7 114 1 3 6 10 1 268 7
2002 IRL Ganassi 22 Target 1 42 19 0 0 0 0 0 0 0
2003 IRL/IndyCar Rahal 15 Argent 16 9 342 0 1 5 8 0 23 5
2005 IRL/IndyCar Rahal 15 Argent 1 34 10 0 0 0 0 0 0 0
Carriera         104   1510 9 22 39 59 7 1499 41
Vincitore Stradali Cittadini Ovali Totale
1997 0 0 0 0
1998 Charlotte Pikes Peak Atlanta 0 0 3 3
1999 Indianapolis 0 0 1 1
2000 0 0 0 0
2001 Motegi Milwaukee Chicago Lausitzring 0 0 4 4
2002 Mexico City 1 0 0 1
2003 0 0 0 0
2005 0 0 0 0
Totale 1 0 8 9
Quote 11,1% 0,0% 88,9% 100,0%

Kenny Brack

Foto di copertina: champcar.com

Tomas Scheckter

Nome: Tomas Scheckter

Data e luogo di nascita: 21 settembre 1980, Montecarlo (Principato di Monaco)

Nazionalità: Sudafricana

Ruolo: Pilota

Tomas Scheckter divide con Paul Tracy e Juan Pablo Montoya la palma di pilota più aggressivo e spettacolare della storia IndyCar recente. Nei suoi anni americani il sudafricano ha collezionato troppi incidenti e poche vittorie, ma il suo stile arrembante e spettacolare, frutto di un raro mix tra coraggio e sensibilità, gli ha permesso di mettere a segno manovre incredibili, nobilitando spesso vetture che nessun altro avrebbe portato a certi livelli.

Come spesso accade agli ex campioni, Jody Scheckter non amava riempire la casa di trofei e cimeli degli anni ruggenti. Tomas non è quindi cresciuto nel culto della figura sportiva del padre, maturando invece il proprio interesse per le corse nelle avventure kartistiche vissute insieme ai cugini. È la madre che, paradossalmente, gli da il sostegno più grande per iniziare la sua carriera nei kart, affidandone la formazione a Keith Fourie, pilota sudafricano che indirizza nei primi tempi la carriera del giovane Tomas. Il lavoro da in breve i suoi frutti, portando dopo alcuni anni alla conquista del titolo nazionale di kart nel 1995. L’anno successivo arriva quindi il debutto in monoposto, su una Formula Vee, esperienza che nel 1997 porta al passaggio in F.Ford sudafricana, dove Tomas centra due vittorie. Arriva quindi il momento di trasferirsi in Europa, per partecipare alla F. Vauxhall Junior inglese. Antonio Pizzonia domina la stagione, mettendosi dietro Richard Lyons e Scheckter, che porta a casa una vittoria e una pole. Nel 1999 Thomas passa quindi in Formula Opel Euroseries, dove domina letteralmente conquistando 7 poles e 8 vittorie. L’anno trionfale si completa con una sortita nella F. Open Nissan, dominata in quel ‘99 da Fernando Alonso. All’ultimo appuntamento di Valencia Thomas centra la pole per entrambe le manche, aggiudicandosi gara 1 e chiudendo dietro al futuro campione del mondo nella seconda frazione.

Nel 2000 il sudafricano prosegue la sua scalata alla F1 passando alla F.3 inglese con il team Stewart, dove fa coppia con Narain Karthikeyan. Il sudafricano centra 2 vittorie (Oulton Park e Donington), due poles e 7 podi complessivi. È ancora battuto da un incontenibile Pizzonia ma riesce a mettersi dietro gli altri futuri piloti di F1 in griglia: Sato, lo stesso Karthikeyan, Bruni e Kiesa. Oltre all’impegnativo programma nella serie inglese Thomas partecipa anche a 4 prove del campionato di F.3000 per il team Mclaren Junior, portando a casa un secondo posto a Hockenheim sul bagnato. Durante la stagione prende poi parte a tre importanti appuntamenti nel calendario di F.3: è terzo al Marlboro Masters di Zandvoort, sesto al celebre GP di Macao e settimo nel successivo appuntamento in Korea. È al via poi di due prove del campionato italiano di F.3000, portando a casa un podio. I risultati positivi gli fruttano l’interesse del team Jaguar, ancora strettamente connesso con Jackie Stewart, che ingaggia Scheckter come collaudatore. Il rapporto non va però molto lontano. Nell’aprile dell’anno successivo infatti fa scalpore la convocazione in tribunale del pilota, beccato con una prostituta, cosa che convince la Jaguar a terminare il rapporto. Nonostante qualche sporadica apparizione nella F.3000 Internazionale e Italiana, l’impegno di Scheckter nel 2001 si concentra sulla World Series by Nissan, dove coglie 8 poles, 4 vittorie e 11 podi complessivi, chiudendo però il campionato ancora al secondo posto, stavolta alle spalle di Franck Montagny, che vince 8 volte. Il licenziamento dalla Jaguar non oscura comunque l’ennesima buona stagione del sudafricano: Tomas stringe infatti un accordo con il team Arrows, che lo lascia libero di correre in IRL nel 2002, con la garanzia di un posto da titolare nel 2003.

F.3 Masters di Zandvoort con il team Stewart. klaus-ewald.de
F.3 Masters di Zandvoort con il team Stewart. klaus-ewald.de
F.3000 nel 1999. crash.net
F.3000 nel 2000. crash.net
Tester per la Jaguar. motorsport.com; Mark Gledhill
Tester per la Jaguar. motorsport.com; Mark Gledhill

I contatti tra la TWR e il team Cheever portano nel gennaio 2002 a un test a Las Vegas, in cui Tomas dimostra di adattarsi immediatamente agli ovali, come conferma nelle prove successive a Fontana, dove è il più veloce. Nonostante le pressioni dell’ambiente per mettere in macchina l’astro nascente Buddy Rice, Cheever assegna il posto a Scheckter, che debutta in IRL a Homestead. Il fine settimana è un buon antipasto della stagione: Tomas va forte, centrando il terzo posto in qualifica, ma in gara poco dopo la bandiera verde spedisce contro il muro proprio patron Cheever. Persi due giri per le riparazioni del caso Tomas si dimostra poi velocissimo, aumentando i rimpianti per il grande risultato sfumato. Porta comunque a casa un sesto posto, confermando il potenziale velocistico a Phoenix, dove viaggia in zona podio fino alla rottura del motore. Finisce male anche a Fontana, dove conduce diverse fasi di gara, fino a quando un problema tecnico lo costringe a rallentare nel gruppo, dove viene centrato da Hideki Noda. Sarà la sfortuna, sarà l’irruenza, ma il copione rimane lo stesso per buona parte della stagione. Sempre competitivo, Tomas finisce contro il muro anche a Nazareth dopo aver forzato eccessivamente un sorpasso su Jaques Lazier. A Indianapolis parte in terza fila e dopo aver ingaggiato uno spettacolare duello con Hornish domina la gara. Conduce per 85 giri, tenendo un passo insostenibile fino al 172° passaggio, quando si stampa contro il muro della curva 4 durante una fase di doppiaggio. Mostra lo stesso stile dominante in Texas, dove parte in pole, ma questa volta è tradito dalla frizione a 40 giri dalla bandiera a scacchi. Problemi d’assetto non gli permettono di brillare a Pikes Peak, dove chiude staccato di due giri, ma si ripresenta in gran forma due settimane dopo a Richmond. Partito solo 18°, in breve si porta infatti in top ten, insidia la leadership di De Ferran negli ultimi giri, ma un doppiaggio sbagliato lo retrocede al quarto posto finale, che rappresenta incredibilmente il primo arrivo a pieni giri della stagione.

La potenza del motore Nissan si fa nuovamente sentire sul miglio e mezzo del Kansas, dove Scheckter centra la seconda pole stagionale, piega Hornish nonostante un consumo anomalo delle gomme e sembra avere la vittoria in pugno quando una probabile foratura lo spedisce contro il muro a 10 giri dalla bandiera a scacchi. Non va meglio a Nashville, dove insegue ancora Hornish per la testa della corsa fino al 170° giro, quando finisce contro il muro in un azzardato doppiaggio all’esterno su un poco collaborativo Cheever…che ormai medita di appiedare Tomas per fare largo a Buddy Rice. In Michigan quindi il team si presenta con tre vetture, con Scheckter che deve cedere al giovane americano la sua abituale crew di meccanici. Il sudafricano però non si scompone, guidando un tris Cheever-Nissan in qualifica e dominando la corsa. Le cose si complicano nel finale, quando un pit stop lento in bandiera verde e una neutralizzazione causata proprio da Cheever spediscono Tomas nelle retrovie, da cui però rinviene imperiosamente per riprendere la testa a 6 giri dal termine e conquistare il primo successo in IRL. La vittoria arriva però troppo tardi per salvare la stagione: in Kentucky infatti Scheckter anticipa la partenza e perde un giro per scontare la penalità. Riesce poi a riportarsi in contatto con il gruppo di testa, ma finisce ancora contro il muro dopo aver accusato un eccessivo consumo delle gomme posteriori. E’ l’ultima goccia: Tomas vive da spettatore le ultime 4 gare della stagione, paradossalmente non per imposizione del team ma per sua scelta, stanco del clima di tensione all’interno della squadra, accusata di mettere in campo un auto non sicura.

Trionfo a Michigan. indycar.com
Trionfo a Michigan. indycar.com

Chiusa una porta si apre un portone. La velocità del sudafricano non è infatti passata inosservata a Chip Ganassi, che in vista dello sbarco definitivo in IRL nel 2003 decide di ingaggiare Scheckter al fianco del confermato Scott Dixon. La mossa incontra la ferma opposizione di Cheever e Tom Walkinshaw, che in seguito alla dipartita del team Arrows non può però più rispettare la promessa di un posto in F1,

L’inizio di stagione non è facile per Scheckter, che a Homestead naviga in zona podio prima di retrocedere ai margini della top ten per problemi di gomme, mentre il compagno Dixon coglie il primo successo stagionale. In piena lotta per la vittoria nell’appuntamento successivo a Phoenix, il tentativo di superare all’esterno Giaffone in ripartenza conduce a un contatto ruota a ruota e la Panoz Target contro il muro. Il copione si ripete per certi versi a Motegi, dove Tomas conduce all’approssimarsi dell’ultima sosta. Un avventuroso sorpasso all’esterno in curva 4 nel tentativo di riprendere il comando dalle mani di Kanaan lo spedisce però ancora contro il muro. Il primo risultato utile del 2003 arriva così a Indy, dove Scheckter risale dalla quarta fila, comandando la corsa più a lungo di tutti. Dopo aver perso il comando durante i pit stop, una ripartenza lenta lo vede però retrocedere al quarto posto dietro le Penske e Kanaan, che lo precedono fino al traguardo. In Texas la sfortuna riprende ad affliggere il sudafricano, che parte in pole, domina resistendo agli assalti degli inseguitori, ma un errore della squadra durante il rifornimento causa un incendio ai box e conseguente penalità. Un cedimento meccanico pone poi fine alla corsa con l’ennesimo incidente. Il momento frustrante prosegue quindi a Pikes Peak, dove Tomas rimonta dal centro gruppo fino a comandare la corsa, ma la cavalcata si arresta per un incolpevole contatto con Giaffone in pit lane che gli costa un giro. Un’altra bella rimonta a Richmond termina in breve con un maldestro testacoda in ripartenza che porta a un contatto con Unser e due giri persi per le riparazioni. In Kansas poi Tomas battaglia per le prime posizioni fino alla prima sosta, quando rimane attardato da guai elettrici e un errore strategico mentre a Nashville recupera fino alla top 5 dopo una penalità iniziale, ma rimane intruppato nel traffico degli ultimi giri e chiude solo decimo.

Un anno dopo la prima vittoria, a Michigan Scheckter parte in prima fila e combatte nel gruppo di testa per tutta la gara, non avendo però lo spunto nel finale per contendersi la vittoria con Barron e Hornish, che lo precedono sul traguardo. Nonostante un errore di posizionamento durante una sosta lo spedisca nelle retrovie, chiude poi quarto a St. Louis grazie a una grande ripartenza nel finale. Un evitabile contatto con Kanaan, che gli rallenta davanti frenato dal traffico, porta però all’ennesimo incidente a Nazareth, facendo sfumare un sicuro podio. A lungo in testa a Chicago, perde terreno dopo l’ultima sosta e negli ultimi giri non riesce a inserirsi nell’incredibile volata a tre tra Hornish, Dixon e Herta, chiudendo quinto. Un copione simile va poi in scena anche a Fontana, dove Tomas guadagna in breve il comando e guida agevolmente il gruppo. In una corsa stranamente priva di neutralizzazioni, perde però il treno per la vittoria a causa di una sosta lenta e alla fine è solo quinto. Lasciato libero da Chip Ganassi, che non esercita l’opzione per il 2004, Scheckter trova in breve l’accordo con il team Panther per sostituire Sam Hornish. Affronta così l’ultima gara con l’obiettivo di aiutare il compagno Scott Dixon a portare a casa il campionato. A pochi giri dalla fine, il contatto tra Kanaan e Castroneves mette in cassaforte il titolo per il neozelandese, con Scheckter che gli copre le spalle nonostante l’intensa pressione di Brack. Quando però lo svedese diventa troppo aggressivo nel seguire la scia di Dixon, la sua Dallara si aggancia con la Panoz del sudafricano, impattando violentemente contro le reti. Scheckter se la cava senza un graffio mentre lo sfortunato Brack ne ricava numerose fratture, che lo costringono a saltare l’intera stagione 2004. Il sudafricano chiude quindi al 7° posto una stagione positiva dal punto di vista delle prestazioni ma pessima come risultati, ricca di errori evitabili e numerose sfortune.  Pochi giorni dopo l’incidente di Brack in Texas, l’IRL è scossa da una notizia ancora più tragica quando Tony Renna, alla prima uscita con il team Ganassi proprio sulla vettura di Scheckter, perde la vita in un test a Indianapolis dopo essere a sua volta finito nelle reti, probabilmente a causa di una foratura.

Fianco a fianco con Dixon a Michigan. indycar.com
Fianco a fianco con Dixon a Michigan. indycar.com

La nuova avventura con il team Panther si apre a Homestead in una gara dall’andamento già visto: Scheckter naviga stabilmente a ridosso dei primi, conduce la corsa nelle ultime battute ma dopo l’ultima sosta non ha lo spunto per impensierire le Penske, terminando quinto dietro Wheldon e Takagi. Una corsa consistente lo vede poi occupare a lungo il terzo posto a Phoenix dietro Kanaan e Dixon, quando nel rallentare per l’incidente di Buhl viene travolto da Franchitti, che non si avvede dello sventolare delle bandiere gialle. Dopo un’infruttuosa trasferta in Giappone, anche Indianapolis non regala particolari soddisfazioni, fatta eccezione per un incredibile sorpasso multiplo in cui il sudafricano supera di slancio 6 macchine in curva 3. Le corse successive proseguono sulla medesima lunghezza d’onda: un contatto ruota a ruota con Dixon porta al ritiro in Texas, mentre una grintosa prova e un possibile podio a Richmond svaniscono in un incolpevole incidente a catena. Il team Panther schiera l’unica vettura Chevrolet realmente competitiva anche in Kansas, dove Scheckter battaglia in testa alla corsa con i piloti Honda, salvo poi perdere tre giri dopo essere rimasto senza metanolo per un errore di calcolo.

Una buona rimonta a Nashville è invece rovinata da un errore in ripartenza e un successivo incidente, mentre problemi al cambio gli costano il ritiro nelle prime fasi a Milwuakee. Partito in fondo al gruppo per aver sostituito il motore, nell’appuntamento successivo a Michigan Tomas si porta in breve nelle prime posizioni, ma un incolpevole contatto con Takagi in pit lane gli costa tre giri. Il momento nero prosegue quindi in Kentucky, dove il sudafricano conduce a metà gara prima di strappare il bocchettone di rifornimento e ritrovarsi in fiamme a causa di un problema alla frizione.  Un altro podio certo sfuma poi a Pikes Peak per la rottura di un semiasse, che precede la corsa scialba di Nazareth e gli incidenti di Chicago e Fontana, dove Tomas è coinvolto suo malgrado nei guai di Jaques Lazier e Tomas Enge . L’ultimo appuntamento del Texas sembra finalmente poter dare luce a una stagione terribile, ma dopo aver lottato a lungo per la testa, il sudafricano è costretto al ritiro da problemi al motore. Un 2004 tragicomico si chiude quindi incredibilmente con un misero 19° posto in classifica, rappresentativo dell’inconsistenza di risultati, ma non certo del potenziale mostrato in quasi tutti gli appuntamenti.

All'esterno di Takagi a Chicago. indycar.com
All’esterno di Takagi a Chicago. indycar.com

Nonostante la penuria di risultati, per il 2005 Scheckter strappa la riconferma al team Panther, che gli affianca Tomas Enge, già compagno di team ai tempi della F.3000. Per buona parte dell’anno i due sono gli unici a portare in pista il motore Chevrolet, che nella prova di apertura di Homestead aiuta Scheckter a conquistare la pole e battagliare a lungo nelle posizioni di vertice. La fortuna però è sempre quella e il sudafricano è costretto al ritiro da un pasticcio di Matsuura, che in una ripartenza fa fuori un terzo della griglia. Una macchina sempre più sovrasterzante conduce a una strisciata sul muro nell’appuntamento successivo di Phoenix, mentre sul cittadino di St. Pete una prova grintosa termina mestamente contro le gomme quando il podio è ormai in vista. Una delusione ben peggiore arriva però a Motegi, dove Tomas prende il comando dopo l’ultima sosta, si difende strenuamente dagli attacchi di Kanaan e Wheldon, ma in un finale giocato sui consumi rimane a secco di metanolo a due giri dalla bandiera a scacchi. Dopo una Indy500 finita contro il muro a causa di un errore di Danica Patrick, il Texas pone fine a un digiuno quasi grottesco. Tomas parte in pole, comanda buona parte della corsa e nel finale contiene il mago delle volate Hornish per conquistare il secondo successo in carriera. Il momento positivo prosegue quindi a Richmond, dove parte dal fondo e si tiene fuori dai guai fino al quarto posto finale. Anche in Kansas Scheckter è tra i più veloci e battaglia per tutta la corsa con le migliori Honda, ma perde il treno di testa dopo l’ultima sosta e alla fine deve accontentarsi del quinto posto. Un’altra pole position fa ben sperare a Nashville, ma dopo aver gravitato per tutta la gara intorno alla top5, il ritiro sopraggiunge per problemi di pressione olio. La scelta di cambiare gomme all’ultimo pit stop si rivela invece decisiva a Milwaukee, dove Tomas segue nel traffico Sam Hornish e fa fuori nel finale le vetture del team Andretti per conquistare il terzo posto in scia allo stesso Hornish e Franchitti.

La solita prova ispirata lo vede poi recuperare da una penalità a Michigan e chiudere al terzo posto dietro Wheldon e un imbattibile Herta, mentre problemi di iniezione gli costano il ritiro in Kentucky, cui seguono due corse problematiche a Pikes Peak e Sonoma. Incisivo come sempre sugli ovali veloci, a Chicago combatte davanti al gruppo per tutta la corsa ma nel finale non riesce a rompere la formazione delle Penske, che insieme al vincitore Wheldon lo precedono sul traguardo. Subito fuori a Watkins Glen per il cedimento di una sospensione, nell’ultimo appuntamento di Fontana Tomas parte in prima fila, guida la corsa più a lungo di tutti ma rimane attardato da un pit stop lento e nel finale, nonostante l’aiuto di alcune bandiere gialle, non ha la velocità per inserirsi nel discorso vittoria, chiudendo mestamente al settimo posto. La stagione termina quindi con una decima piazza in classifica che pur rappresentando un netto miglioramento rispetto al 2004, ancora una volta risulta deludente, considerando il gran potenziale mostrato in buona parte del campionato.

Davanti a Hornish in Texas. Shawn Payne; indycar.com
Davanti a Hornish in Texas. Shawn Payne; indycar.com

Per la nuova stagione il team Panther, abbandonato dalla Pennzoil, è costretto a ridurre l’impegno a una vettura, non potendo più sostenere il robusto ingaggio di Scheckter. Nonostante i risultati latitino, la personalità e la guida spettacolare rendono il sudafricano uno dei piloti più popolari di una IRL in grave crisi di partecipanti, convincendo Tony George a schierare una vettura per Tomas nel team Vision, al fianco di Ed Carpenter. Al primo appuntamento di Homestead proprio l’americano è coinvolto nell’incidente che costa la vita a Paul Dana. Frastornato,  Scheckter riesce a portare a casa la macchina in nona posizione, conquistando il miglior piazzamento del team fino a quel momento. Ancora meglio va a St. Pete, dove nelle ultime battute occupa la quarta piazza finché un contatto ruota a ruota con Rice non pone fine alla corsa di entrambi. Una buona prova a Motegi è rovinata da un errore di calcolo che lo lascia in pista senza metanolo, mentre una promettente Indy 500 finisce contro la testa del muretto box quando Tomas, in quel momento quinto, perde il controllo in curva 4 dopo essere sceso troppo al di sotto della linea bianca. Partito nel gruppo, a Watkins Glen è poi il primo a montare le gomme da bagnato, guidando a lungo la corsa prima che un contatto con Franchitti e le slicks sull’umido nel finale lo releghino al decimo posto. Alle prese con un’auto sovrasterzante e il weight jacker rotto, chiude ancora decimo in Texas.

Una lunga battaglia dietro il gruppo di testa frutta invece un buon settimo posto a Richmond, bissato due settimane dopo in Kansas, mentre un semiasse rotto nega un possibile piazzamento in top 5 a Nashville. Sette giorni dopo a Milwaukee va poi in scena una replica di quanto visto nel 2005, con Tomas che recupera un giro e con gomme nuove nell’ultimo stint si fa largo tra le vetture del team Andretti, portando a casa uno splendido podio dietro Kanaan e Hornish. Un’altra bella prestazione lo vede poi lottare nelle prime posizioni e chiudere quinto a Michigan, cui segue il settimo posto del Kentucky, dove ancora una volta si arrende solo a Meira nella lotta dietro i top teams. Rallentato da problemi a una spalla e guai alla vettura, parte dal fondo a Sonoma, dove la sua rimonta è frenata prima da una foratura e poi da un guasto ai freni. La stagione si chiude infine a Chicago con un decimo posto, che è anche il piazzamento finale del sudafricano in classifica.

Sull'erba per passare Danica Patrick a Watkins Glen. Steve Snoddy, indycar.com
Sull’erba per passare Danica Patrick a Watkins Glen. Steve Snoddy, indycar.com

Una seconda stagione incoraggiante e il numero di partecipanti ancora terribilmente basso convince Tony George a proseguire con il team Vision, che nel 2007 si rinforza tecnicamente e oltre ai confermati Carpenter e Scheckter schiera una terza vettura per A.J. Foyt IV. A Homestead la stagione parte bene, con Carpenter che coglie un ottimo sesto posto, mettendosi dietro Scheckter, che chiude ottavo. Una prova consistente produce poi un buon sesto posto per il sudafricano nelle strade di St. Petersburg, cui segue un altro piazzamento in top ten a Motegi, dove chiude nono. Ancora meglio va in Kansas, dove è battuto dalle imprendibili vetture di Ganassi, Franchitti e Castroneves ma si mette dietro Hornish in una corsa in cui anche i top team faticano a trovare un set up competitivo. Partito in terza fila, Tomas è poi molto competitivo a Indianapolis, dove risale fino al terzo posto a metà gara, salvo perdere un giro dopo aver rovinato l’ala anteriore toccando maldestramente Hornish. Tornato a pieni giri, recupera fino alla top ten e nel convulso finale riesce a portare la vettura al settimo posto finale, che è anche la posizione che occupa in classifica generale. La sequenza di risultati utili si arresta però a Milwaukee, dove Tomas è prima attardato da problemi alla frizione ed è poi messo fuori gara da un semiasse, mentre una prova molto promettente in Texas è rovinata da un contatto con Andretti che lo spedisce in testacoda sul traguardo, generando il successivo lancio dei guanti verso l’americano. Un possibile gran risultato in Iowa, considerando l’alto numero di ritiri, sfuma invece subito al primo giro quando il sudafricano è travolto dalla vettura fuori controllo di Wheldon.

A Richmond Tomas viaggia agevolmente in top 5 a metà gara, salvo precipitare al decimo posto dopo la penultima sosta ai box. Bloccato nel traffico, durante l’ultima neutralizzazione effettua un cambio gomme che negli ultimi giri gli consente di risalire il gruppo e artigliare un’altra settima piazza. Dopo un week end incolore a Watkins Glen e un poco entusiasmante 11° posto a Nashville, Buddy Rice gli soffia poi l’ottava piazza all’ultimo giro a Mid Ohio. In forma come sempre a Michigan, il sudafricano conduce alcuni giri e lotta in testa alla gara con Wheldon e Franchitti, quando a 60 giri dal termine i due si agganciano nel rettilineo di ritorno, innescando un incidente a catena che mette fuori corsa anche Scheckter, che si rifà però parzialmente nell’appuntamento successivo in Kentucky, dove gravita a lungo in zona podio e termina quinto alle spalle del compagno Foyt, che a sorpresa centra il podio. Una prova tranquilla lo vede poi terminare ottavo a Sonoma, primo dei non top team, mentre un piazzamento in top 5 a Detroit gli è negato da una tamponata di Castroneves che rischia di sfociare in scontro nel dopo gara. Problemi tecnici portano infine a un rapido ritiro a Chicago, cosa che permette a Buddy Rice di superarlo di 3 punti per il nono posto in classifica. Il sudafricano chiude quindi 10° come nel 2006, mancando l’appuntamento col podio ma mostrando maggiore costanza di rendimento in una griglia più competitiva  rispetto alla stagione precedente.

Pit stop in Kentucky. Steve Snoddy, indycar.com
Pit stop in Kentucky. Steve Snoddy, indycar.com

Con l’annessione della ChampCar il numero di macchine in griglia sale notevolmente, cosa che spinge al ridimensionamento del team Vision, che torna a due vetture per Carpenter e Foyt. Scheckter deve quindi guardarsi attorno, riuscendo ad assicurarsi un programma ridotto ma dall’alto potenziale con Jay Penske, che dopo aver schierato con successo una vettura a Indianapolis per Ryan Briscoe, per il 2008 si impegna in un programma di 6 gare con Tomas. La prima è Kansas, dove il sudafricano si qualifica in seconda fila e battaglia inizialmente con Dixon e Wheldon, prima di precipitare in coda al gruppo a causa di un contrattempo in pit lane innescato da Marty Roth. La sua rimonta fino alla top ten finisce poi quando un errore di Viso lo spedisce in testacoda, distruggendo una sospensione. Partito in quarta fila, a Indianapolis Tomas si porta in breve in quarta piazza, gravitando nelle prime posizioni fino a tre quarti di gara, quando un semiasse si rompe in pit lane mentre è in terza posizione. Un’altra corsa promettente in Texas si interrompe dopo soli 50 giri quando il rookie Moraes lo stringe contro il muro in una ripartenza. Mai competitivo, si ritira intorno a metà gara a Sonoma con un semiasse rotto, replicando poi a Detroit, dove è protagonista di un brutto incidente nelle prove. Un altro problema tecnico a Chicago chiude poi mestamente una stagione che, ancora una volta, prometteva tutt’altri risultati, specialmente a Indianapolis, corsa che rimarrà una dei maggiori rimpianti della carriera del sudafricano, al pari dell’edizione 2002.

In qualifica a Indianapolis. Shawn Payne, indycar.com
In qualifica a Indianapolis. Shawn Payne, indycar.com

Gli sforzi per mettere in piedi un programma full time si rivelano vani e nel 2009 Scheckter fa il suo debutto in campionato direttamente a Indianapolis, dove corre con la seconda vettura del team Coyne. Qualificatosi 26°, dopo qualche giro è già 16° ed è in quelle posizioni che gravita per tutta la corsa, prima di issarsi fino all’11° posto dopo l’ultima partenza, per poi concludere una posizione più indietro. Nel resto della stagione il sudafricano si divide tra le vetture #23 e #43 del team Dreyer&Reinbold. Partito 10°, è quinto al termine del primo giro di Milwaukee ma retrocede lentamente fuori dalla top ten, chiudendo alla fine in 13° piazza. Il copione si ripete poi in Texas, mentre l’ovale corto dell’Iowa vede un arrembante Scheckter risalire al primo giro dal 16° al nono posto e poi, anche grazie al gioco delle strategie, stazionare a lungo in zona podio, prima di vincere il duello con il compagno Conway per il sesto posto finale. Torna quindi in macchina a Toronto, dove parte nelle retrovie ma nel finale è in lizza per il settimo posto, quando nel tentativo di passare Moraes viene tamponato da Tagliani, che spedisce tutti e tre contro le gomme. A Edmonton invece la corsa finisce dopo pochi giri per un problema alle sospensioni, così come la settimana successiva in Kentucky. Di riposo a Mid Ohio e Sonoma, Tomas torna in azione a Chicago dove va in scena una corsa di gruppo infernale. Partito 14°, a metà gara arriva in zona podio, ma rimane attardato dopo l’ultima sosta e nel mucchio selvaggio finale riesce a portare a casa un buon ottavo posto. Un altro buon piazzamento in top ten a Motegi è invece negato da problemi al cambio, mentre nell’ultima corsa di Homestead, affrontata in condizione di caldo estremo, porta a casa una buona nona piazza che gli vale il 20° posto finale in classifica.

In lotta con Graham Rahal in Iowa. Steve Snoddy, indycar.com
In lotta con Graham Rahal in Iowa. Steve Snoddy, indycar.com

Se nel 2009 Tomas riesce comunque a disputare quasi tutta la seconda metà stagione, il 2010 lo vede al via di soli 6 appuntamenti, 4 con il team Dreyer&Reinbold (Indy più altri tre in sostituzione di Mike Conway) e due con il team Conquest. A Indy si qualifica 20°, è 10° dopo due ripartenze e fino all’ultima sosta naviga tranquillamente in top 5. Nel finale la corsa si gioca però sui consumi e una strategia sbagliata lo relega al 15° posto. In Texas il sudafricano battaglia poi lungamente ai margini della top 10, prima che un errore di posizionamento in pit lane lo spedisca in fondo. Risalito in zona top ten, durante le soste perde il contatto con il gruppo e alla fine chiude 13°. Dodici mesi dopo, Toronto vede un altro scontro con Tagliani per un posto nei primi dieci, ma questa volta è Tomas a franare sul canadese, rovinando la corsa di entrambi. Un giro perso per sostituire l’ala anteriore  cancella poi le speranze di un buon risultato a Edmonton. Alla prima uscita con il team Conquest, è subito fuori a Chicago tamponato da Lloyd, mentre in Kentucky chiude 14° una gara non entusiasmante.

Indiianapolis. openwheel33.com
Indiianapolis. openwheel33.com

Nel 2011 Tomas trova l’accordo con il team KV per disputare la Indy500. 21° in qualifica, a ogni ripartenza guadagna posizioni portandosi in breve in top ten. Fa addirittura meglio a tre quarti di gara, quando si ritrova in fondo al gruppo ma nel giro di due ripartenze ravvicinate si porta incredibilmente in quarta piazza, dovendo però cedere ad alcune vetture più veloci. Nel finale ingaggia poi una bella lotta con Andretti e la Patrick, che precede sul traguardo chiudendo ottavo. Resta quindi fermo fino a Loudon, quando il team Dreyer&Reinbold lo richiama per sostituire l’infortunato Justin Wilson. Mentre altri si girano traditi dalle gomme fredde, dalla 18° piazza di partenza in due restarts risale fino al terzo posto, ma come a Indy deve poi progressivamente lasciare strada a vetture più veloci. A metà gara è comunque in lizza per un posto in top ten quando un incontro troppo ravvicinato con Andretti e Kanaan conduce tutti e tre contro il muro. Poca fortuna ci sarà poi nel ritorno con il team KV a Baltimora.

Reduce dalla vittoria di Ed Carpenter in Kentucky, Sarah Fisher schiera una seconda vettura per Tomas nell’ultimo appuntamento di Las Vegas. Partito 21°, il sudafricano recupera alcune posizioni nei primi giri, rimanendo poi coinvolto nel catastrofico incidente a catena dell’11° giro, da cui esce fortunatamente indenne. Sceso dalla vettura, Tomas si avvicina alla macchina di Wheldon per sincerarsi delle sue condizioni e quello che vede, insieme alle suppliche del padre Jody (mai entusiasta dell’avventura americana del figlio), lo convincono a porre la parola fine sulle corse USA.

Ottavo nella sua ultima Indy500. indyfireandice.com
Ottavo nella sua ultima Indy500. indyfireandice.com

Negli anni successivi ci saranno alcune voci su una possibile partecipazione alla 500 miglia di Indianapolis che però non troveranno mai conferma. Dopo aver lasciato l’IndyCar, Tomas si è trasferito in Inghilterra lavorando nell’impresa agricola condotta dal padre.

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L
2002 IRL Cheever 52 Red Bull 12 14 210 1 1 2 3 3 443 5
2003 IRL/IndyCar Ganassi 10 Target 16 7 356 0 1 5 10 2 491 8
2004 IRL/IndyCar Panther 4 Pennzoil 16 19 230 0 0 1 1 0 32 3
2005 IRL/IndyCar Panther 4 Pennzoil 17 9 390 1 3 6 8 3 365 8
2006 IRL/IndyCar Vision 2 Rock&Republic 14 10 298 0 1 2 9 0 20 4
2007 IRL/IndyCar Vision 2 Rock&Republic 17 10 357 0 0 2 9 0 2 1
2008 IRL/IndyCar Dragon 12 Symantec 6 31 66 0 0 0 0 0 0 0
2009 IRL/IndyCar D&R 23  MonaVie 11 20 195 0 0 0 3 0 10 2
2010 IRL/IndyCar D&R 23 MonaVie  6 29 89 0 0 0 0 0 5 1
2011 IndyCar KV/D&R 07 Redline  3 32 52 0 0 0 1 0 0 0
Carriera         118 181 2243 2 6 18 44 8 1368 32

Piccolo saggio delle prodezze di Scheckter a gomme fredde.

Juan Pablo Montoya

Nome: Juan Pablo Montoya

Data e luogo di nascita: 20 settembre 1975, Bogotà (Colombia)

Nazionalità: Colombiana

Ruolo: Pilota

“I’m an hardcore racer”. È lo stesso Juan Pablo Montoya a trovare le parole più giuste per sintetizzare il suo modo di essere, che ha dettato il percorso della sua carriera. Negli ultimi decenni forse nessun pilota nel panorama internazionale ha infatti rappresentato come il colombiano la voglia di correre, competere e vincere indipendentemente dal campionato o dal tipo di vettura. Che si trattasse di formula 1, champ cars, stock cars, ITC, Daytona Prototype o Late model su sterrato, il colombiano ha sempre corso alla sua maniera: aggressivo, spettacolare, quasi sempre vincente. Il palmares di Montoya è tra i più variegati e prestigiosi tra i piloti in attività, ma forse ancora più dei successi sono il suo straordinario controllo della vettura e i suoi sorpassi spettacolari ad aver lasciato davvero il segno, nel cuore dei tifosi e negli ultimi vent’anni di storia dell’automobilismo.

Juan Pablo Montoya nasce a Bogotà, Colombia, il 20 settembre 1975. Suo padre Pablo, architetto con una grande passione per le corse e trascorsi in varie competizioni amatoriali, trasmette la passione dei motori a tutta la famiglia, tanto che non solo Juan Pablo ma anche il fratello Federico e le sorelle Katalina e Liliana infilano prima o poi il casco per competere in pista col kart, piccole vetture o nel caso di Federico fino alla F.3. A ciò si somma l’influenza dello zio Diego, pilota CanAm e IMSA. Sulle gambe di Pablo, Montoya stringe per la prima volta un volante a 5 anni e da lì il debutto in kart è una naturale conseguenza. Supportato dal padre, che sarà una figura guida in tutta la sua carriera nonostante non pochi conflitti, Juan Pablo comincia a sviluppare il suo stile, facendo subito vedere una velocità innata e una inesauribile voglia di vincere. I successi in campo nazionale e continentale non si fanno attendere e portano alla partecipazione al campionato mondiale junior nel ’90, in cui Juan Pablo fa la conoscenza di un coetaneo brasiliano che incrocierà ancora lungo la sua carriera, Helio Castroneves. Il colombiano arriva fino alla finale, ma la sua bella rimonta è interrotta da un clamoroso incidente che lo vede centrare un avversario fermo in pista e uscire indenne da un gran volo. Dopo un altro anno in kart, nel 1992 i Montoya decidono di passare alle auto, optando per il più famoso corso di guida del continente, la Skip Barber Racing School di Sonoma. Tra gli istruttori c’è anche Vic Elford, leggendario pilota sport, che in Montoya riconosce subito un potenziale da campione del mondo, oltre che il suo miglior allievo di sempre. Tornato in Colombia Juan Pablo partecipa in numerose corse dei vari campionati nazionali, vincendo con regolarità in diversi tipi di auto, da F. Renault a vetture turismo. Nel ’93 stravince infatti il campionato National Swift Championship, corso su Golf GTI, e l’anno successivo torna negli States per partecipare al campionato Barber Saab, in cui si mette spesso in luce, mostrando una velocità quasi ineguagliabile. La barriera linguistica però si fa sentire, impedendo talvolta al colombiano di comprendere a pieno le procedure, in particolare per quanto riguarda le ripartenze, tipiche delle corse USA. Tra prestazioni superbe ed errori pacchiani, Juan Pablo porta a casa due corse ma manca il titolo, che va al connazionale Diego Guzman, con cui si accende una forte rivalità alimentata dai media colombiani. Occasionalmente Montoya si sposta anche al sud, partecipando in svariate corse in Messico, in cui fa della preziosa esperienza alla guida di vetture diversissime, prototipi e Formula N, una sorta di Formula 3 made in Mexico, con cui centra tre vittorie su quattro appuntamenti.

Cresciuto nel mito di Roberto Guerrero e Ayrton Senna, le ambizioni di Juan Pablo sono però ormai tutte spostate sulla scalata alla Formula 1, cosa che obbliga al trasferimento in Europa. Tramite il comune amico Peter Argetsinger, i Montoya entrano in contatto con il team Paul Stewart, che avendo però i sedili di F.3 già occupati da Ralph Firman e Helio Castroneves, propongono a Juan Pablo una stagione di acclimatamento in F. Vauxhall al fianco del veloce Jonny Kane, già vincente in F.Ford e in alcune corse invernali fuori campionato. Entrambi debuttanti nella serie ma alla guida di macchine vincenti, nelle prime corse Kane e Montoya faticano  a rispettare le attese in un campionato che inizialmente è comandato da Martin O’Connell. Il nord irlandese, già conoscitore di tutte le piste, è però il primo a rimettere il team in carreggiata, cominciando una lunga rimonta che alla fine gli consegna il titolo. Montoya ci mette un po’ di più a capire la F. Vauxhall e le corse inglesi, ma dopo la prima vittoria al settimo appuntamento di Donington diventa una presenza fissa sul podio, portando a casa tre poles e altre due affermazioni che alla fine gli valgono il terzo posto in campionato, a 21 punti da Kane e 4 da O’Connell.

La crescita messa in mostra dopo Donington convince Juan Pablo a passare in F.3 per il 1996. Il team Paul Stewart decide però di tenere Firman e da contratto promuove Jonny Kane, costringendo il colombiano a trovare collocazione al team Fortec, con cui a inizio ’95 aveva avuto la prima presa di contatto con la vettura. Il team, alle prese con un motore Mitsubishi sorprendentemente efficace a inizio stagione ma via via superato dai migliori Mugen Honda, vive un buon avvio, con Guy Smith che centra la vittoria al primo appuntamento davanti a Montoya, che mette insieme diversi giri veloci e arriva al successo ancora a Donington, dopo soli quattro appuntamenti. Come nel ’95, il campionato di Montoya è però un continuo alternarsi di prodezze ed errori dovuti ad un’aggressività incontrollata. Fino a metà stagione il colombiano è il più credibile inseguitore di Firman, che domina la stagione, ma nonostante una pole, quattro giri veloci e un’altra dominante affermazione sul velocissimo circuito di Thruxton, alla fine del campionato è “solo” quinto, seppur davanti al compagno Smith. A Zandvoort per il Marlboro Masters Montoya centra un quarto posto, mentre maggior rammarico ci sarà a Macao, dove il colombiano dà spettacolo ma è frenato da problemi in partenza in entrambe le frazioni. Anche la singola uscita nell’ITC, al posto dell’infortunato Magnussen, non regala gioie particolari, anche se Montoya si prende la soddisfazione di mettersi dietro in qualifica altre tre Mercedes, oltre a fare la conoscenza di Dario Franchitti, con cui scambia una lunga serie di sportellate al primo giro della seconda frazione. Come a fine ’95, Montoya ritiene comunque di aver mostrato abbastanza in F.3 per poter pianificare il passo successivo, la F.3000 internazionale.

F.3 inglese con il Team Fortec nel '96. colombiamotorfans.com
F.3 inglese con il Team Fortec nel ’96. colombiamotorfans.com

 

ITC a Silverstone. motorsportretro.com
ITC a Silverstone. motorsportretro.com

 

Nonostante i buoni rapporti con David Sears, patron del team Super Nova e suo estimatore fin dai tempi della Barber Saab, Montoya è contattato da Helmut Marko, titolare del team campione in carica con Jorg Muller. La trattativa avviene esclusivamente per via telefonica, con il manager austriaco impressionato dalla velocità mostrata da Montoya in F.3, ma anche incerto sul suo atteggiamento e la sua condotta. Le paure non tardano a rivelarsi fondate, perché alla prima corsa di Silverstone Montoya domina sul bagnato davanti a Zonta, ma vola fuori pista dopo un periodo di pace car. Un errore di deconcentrazione che Marko imputa alla scarsissima forma fisica del colombiano. Un dominio totale sul difficile e sconosciuto cittadino di Pau, risolleva una settimana più tardi le quotazioni di Montoya, la cui stagione sarà però ancora una volta un continuo alternarsi di alti e bassi. A Helsinki un’altra pole stratosferica conduce infatti a una brutta partenza e un incidente dopo pochi giri, seguito dal giro più veloce dopo le riparazioni e un altro incidente, stavolta definitivo. Dopo due corse travagliate a Hockenheim e Pergusa, Montoya torna quindi alla vittoria a Zeltweg dopo una tesissima battaglia con Zonta, che lo incalza fin quasi sotto il traguardo. Con tre corse da disputare i due sono separati da 3,5 punti, ma una bandiera nera a Spa per aver ostacolato il gruppo con l’ala anteriore a penzoloni gli fa perdere ancora terreno dal brasiliano, che vincendo al Mugello si assicura il titolo. Montoya, terzo con uno scarico rotto, chiude comunque la stagione in bellezza con la vittoria nell’ultimo appuntamento di Jerez, che segna anche la fine del rapporto con Marko, prossimo al ritiro dalla categoria, che pur apprezzando la strepitosa velocità naturale di Montoya, non finirà mai di rimproverargli la testardaggine riguardo la sua forma fisica, oltre all’incapacità di gestire la gara e i cali di concentrazione. Il difficile rapporto tra i due nel finale di stagione porta alla situazione paradossale che vede David Sears, titolare della vettura di Zonta, diventare il manager di Montoya, ovvero del rivale per il titolo. L’accordo con Sears è cruciale, perché oltre a offrire un’altra grande occasione per il titolo ’98, apre le porte al ruolo di tester in Williams, conquistato alla grande in una prova comparativa con Minassian, Ayari e Max Wilson.

F.3000 con RSM Marko, 1997. Sutton, motorsport.com
F.3000 con RSM Marko, 1997. Sutton, motorsport.com

 

Per il 1998 Montoya si accasa quindi al team SuperNova, dove recita ovviamente il ruolo di grande favorito ma con un antagonista forse inatteso, Nick Heidfeld, campione della F.3 tedesca, che al debutto con il Junior Team McLaren mette in mostra velocità e maturità da veterano. La stagione verte essenzialmente sul loro duello, con il colombiano che dopo errori e problemi vari mette finalmente a frutto tre pole consecutive centrando la vittoria nel terzo appuntamento di Barcellona, nonostante un incontro troppo ravvicinato con lo stesso Heidfeld, che gli va addosso e si gira in un tentativo di sorpasso. La seconda vittoria stagionale arriva poi subito a Silverstone, al termine di un dominio totale che precede il week end nero di Monaco. In prova Montoya fa un giro buono per la prima fila, ma i due migliori tempi gli vengono cancellati per ostruzionismo verso i rivali. Partito settimo, il colombiano infila uno dopo l’altro i suoi avversari fino al terzo posto, quando uno stop and go per aver tagliato la chicane lo fa retrocedere al sesto posto. Rientrato in pista, recupera quindi nuovamente fino al quarto posto, ma rovina l’ala anteriore contro il cambio di Davies e nel tentativo di difendere gli ultimi punti ostacola ancora il gruppo, finendo per eliminare il compagno di squadra Gareth Rees e tagliare il traguardo sesto, su tre ruote. La vittoria di Heidfeld mantiene molto aperto il campionato, ma Montoya riesce a cancellare il ricordo di Montecarlo centrando il secondo successo consecutivo a Pau, dove doppia tutti anche a causa di un ingorgo a metà gara che rallenta parte del gruppo. Dopo un bel secondo posto a Zeltweg al termine di una grande battaglia con Watt e Minassian, si presenta quindi a Hockenheim con 8 punti di vantaggio su Heidfeld, che però dimezza il distacco vincendo in casa con il colombiano terzo. Lo stesso risultato si ripete a Budapest, dove il tedesco vince dalla pole nonostante una furiosa polemica post qualifiche che vede Montoya accusarlo di ostruzionismo. Il colombiano si rifà con la pole nell’appuntamento successivo a Spa, ma alcuni problemi al cambio lo costringono a lasciare spazio a Rodriguez, che precede lui e Heidfeld sul traguardo. I duellanti arrivano così a Pergusa separati da un solo punto e Montoya si vede togliere la pole per non aver rispettato le bandiere gialle. Al via Heidfeld prende quindi il comando e dopo pochi giri guardando gli specchietti vede il rivale in testacoda. Rilassato, il tedesco ha il campionato in tasca, ma finisce per commettere lo stesso errore e cedere il comando a Montoya. Negli ultimi giri i due si ritrovano così ancora gomito a gomito quando un estremo tentativo di Heidfeld all’ultima chicane si risolve in un contatto ruota ruota che spedisce la Lola West in testacoda. I due riescono a proseguire chiudendo nell’ordine, con Montoya che vincendo si presenta all’ultimo appuntamento del Nurburgring con tre punti di vantaggio. Quello che dovrebbe essere un duello da urlo è però rovinato dalla penalità per benzina irregolare comminata al team West. Infrazione che pur non regalando particolari vantaggi non può non essere sanzionata dalla federazione. In una gara complicata dalla pioggia nell’ultima parte, Heidfeld rimonta dal fondo fino al nono posto, mentre Montoya chiude comodamente sul gradino più basso del podio per conquistare il primo importante titolo della carriera.

Supernova, 1998
Supernova, 1998

 

Il colombiano, presenza fissa nei test Williams e ormai veloce quanto o più dei titolari, si aspetterebbe la promozione diretta in Formula 1, ma Frank Williams e Patrick Head hanno altre idee. Ingaggiato Zanardi, i due giudicano Montoya ancora troppo immaturo, dentro ma soprattutto fuori dalla pista, per reggere lo stress e l’attenzione mediatica tipica di un impegno nella massima serie. Decidono quindi di ingaggiare Ralf Schumacher, impedendo anche alla Jordan di portare al debutto il colombiano. Facendo valere il contratto firmato l’anno precedente, Williams decide quindi di far proseguire la maturazione del suo pilota in CART. A Barcellona, durante il primo test di Zanardi con il team infatti, Morris Nunn e Chip Ganassi vedono Montoya in azione, rimanendo impressionati dal controllo di macchina del neo campione di F.3000. Si raggiunge quindi l’accordo per un contratto triennale, annunciato durante l’ultimo fine settimana CART a Fontana.

Montoya si ritrova quindi nel 1999 a guidare la vettura campione in carica, con tutte le aspettative del caso, alimentate da dei test invernali positivi. Per il primo anno in realtà l’obiettivo è vincere qualche gara e conquistare il titolo di rookie of the year, ma dopo le prime corse è evidente come le ambizioni possano essere molto maggiori. Per nulla intimidito dalla velocità, Montoya è protagonista di un debutto complicato a Homestead, dove porta a casa un decimo posto dopo aver dato spettacolo per tutta la gara, alle prese con una vettura fortemente sovrasterzante. Già a Motegi l’ambiente CART prende però coscienza dei due lati del pilota Montoya. In prova il colombiano è protagonista di un diverbio con Michael Andretti, che sfocia presto in incidente. L’americano, con il serbatoio pieno, in curva 3 chiude la porta (di proposito o meno) in faccia a Montoya, alle prese con una simulazione di qualifica. I due percorrono così il rettilineo successivo affiancati, con il colombiano che per tutta risposta stringe via via contro il muro il rivale all’approssimarsi di curva 1. Quando l’americano tenta finalmente di impostare la curva il contatto è inevitabile e le due vetture finiscono violentemente contro le barriere. Scesi dai rispettivi rottami i due vanno vicini allo scontro, ma ancora peggio va tra i rispettivi titolari, con Carl Haas che infuriato lancia il suo caratteristico sigaro contro Chip Ganassi. Strigliato dai commissari e dalla squadra, in gara Montoya dà invece il meglio, rimontando da centro gruppo per poi tentare l’assalto alla vetta con una spettacolare manovra all’esterno su Adrian Fernandez, interrotta solo da una bandiera gialla. Un errore di calcolo del muretto gli costa però ogni speranza di lottare per la vittoria, facendolo chiudere 13°.

Che Mo Nunn fosse un grande ingegnere era cosa nota a tutti, che fosse anche profetico lo si è scoperto nel week end successivo, quando Montoya centra il suo primo successo a Long Beach, esattamente come previsto in inverno dall’ingegnere inglese. Il colombiano parte infatti quarto e dopo essersi sbarazzato di Herta e Franchitti ha solo un ostacolo davanti a se, Kanaan, che però scivola sull’asfalto sgretolato e finisce contro le gomme, regalando il comando al colombiano. Nazareth, tra gli ovali corti più difficili e reso ancora più critico dalla configurazione aerodinamica a basso carico imposta nel ’99, è il successivo teatro per le prodezze di Montoya. Il colombiano da infatti spettacolo, centrando la pole e lottando a lungo con Castroneves, che però è frenato da problemi ai box. Una volta liberatosi del brasiliano per Montoya la seconda vittoria consecutiva arriva in scioltezza, così come la terza due settimane più tardi a Rio, dove prende abilmente il comando alla prima curva con una gran staccata su Christian Fittipaldi, per poi controllare Franchitti per tutta la gara. Un’altra pole a St. Louis è rovinata da un errore strategico, ma ancora una volta Montoya vale il prezzo del biglietto, guidando perennemente in sovrasterzo all’uscita di curva 2 e mettendo a segno diversi sorpassi da brividi. Il copione si ripete a Milwaukee, dove il colombiano comanda a lungo la corsa davanti al compagno Vasser, ma entrambi sono costretti a una sosta supplementare per problemi di consumo, terminando ai margini della top ten. La strategia è ancora coinvolta a Portland, dove Juan parte dalla pole, sopravvive a un testacoda in ripartenza e precede Franchitti sul traguardo, non potendo però lottare con De Ferran, che vince nonostante una sosta in più negli ultimi giri. I due si scambiano poi le posizioni a Cleveland, dove Montoya parte ancora in pole, supera un periodo di difficoltà nella transizione tra bagnato e asciutto e dopo un sorpasso di forza sul brasiliano si invola verso il quarto successo stagionale.

Dopo 9 corse il colombiano guida quindi la classifica con 25 punti di vantaggio su De Ferran, ma nelle corse successive tutto rischia di andare in fumo. Dopo un doppio sorpasso spettacolare ai danni di Michael Andretti, Juan Pablo domina a Road America ma a metà gara accusa problemi al cambio, che lo costringono alla resa a pochi giri dalla fine dopo una lunga resistenza su Fittipaldi. Peggio va a Toronto, dove il colombiano si qualifica male, subisce una dubbia penalità per infrazione in pit lane e si ritira poi in un contatto evitabile con Jourdain. Un bel secondo posto in volata nella sua prima 500 miglia a Michigan rimette un po’ a posto le cose, ma l’ennesimo errore strategico costa caro a Detroit. Montoya parte infatti dalla pole e domina, ma un’incomprensione via radio lo lascia in pista durante una bandiera gialla, sfruttata dagli avversari per rifornire. Risultato: Montoya è costretto a fermarsi in bandiera verde, finendo in mezzo al gruppo, dove si tocca con Moreno e poi è centrato in regime di pace car da Castroneves, tradito da un’altra incomprensione radio nella procedura di ripartenza. Con le vittorie di Toronto e Detroit, Franchitti passa così a condurre il campionato con cinque punti sul colombiano, che però rimette a posto le cose nelle corse successive. A Mid Ohio una qualifica mediocre lo vede infatti superare gli avversari al primo pit stop e recuperare in pista ben 16” al duo Tracy-Franchitti. Se lo scozzese è però costretto ai box da una foratura, Tracy non può arrestare la furia di Montoya, che gli strappa il primato con una formidabile staccata all’esterno, prendendo poi il largo dopo il secondo pit stop. Gli sfidanti si ritrovano ai ferri corti anche nel nuovo ovale di Chicago, dove un lungo botta e risposta con Franchitti vede prevalere il colombiano. Lo scozzese, bloccato negli ultimi giri dietro alcuni doppiati, esce malamente sconfitto anche dalla battaglia successiva a Vancouver. In un circuito cittadino reso ancora più infido dalla pioggia, il pilota del team Green rimonta infatti fino a raggiungere il colombiano, partito in pole, ma un attacco sciagurato lo spedisce contro il muro mentre Montoya, indenne, conquista altri 22 punti fondamentali.

Dopo Laguna Seca, dove Franchitti si ritira per incidente e Montoya chiude solo ottavo un fine settimana reso tragico dalla scomparsa di Gonzalo Rodriguez, amico e avversario in F.3000, con tre gare da disputare e 28 punti di vantaggio il campionato sembrerebbe chiuso, ma nelle due corse successive succede di tutto. A Houston Montoya domina, mentre Franchitti è frenato da problemi di gomme. Prima delle soste però Castroneves va a sbattere in una stretta curva a sinistra e Montoya, non avvisato dell’ostruzione via radio, lo centra in pieno, buttando al vento una vittoria da KO. Franchitti invece rimonta e alla fine chiude secondo dietro il compagno Tracy. Tre settimane più tardi a Surfers Paradise lo scozzese non ha bisogno di aiuti e domina tutto il fine settimana mentre Montoya, in difficoltà in prova ma molto aggressivo in gara, dopo aver brevemente messo pressione al rivale perde posizioni in una sosta e lottando con Fernandez sbaglia completamente una frenata finendo nelle gomme. Un errore banale ma che permette a Franchitti, all’inseguimento per tutta la stagione, di presentarsi all’ultimo appuntamento di Fontana con 9 punti di vantaggio. Quello decisivo è però un duello a distanza, perché lo scozzese è subito spedito in fondo al gruppo da problemi durante le soste, quando i meccanici lo rimandano in pista con una ruota mal fissata che lo costringe a rifermarsi immediatamente, perdendo due giri. Montoya controlla quindi la situazione e quando negli ultimi giri il bluff del team Green non paga e Franchitti è costretto ad uno splash and go, al colombiano basta un quarto posto per laurearsi campione, chiudendo il campionato con gli stessi punti del rivale, ma 4 vittorie in più (7-3). Il campionato sportivamente parlando si chiude forse nel modo più giusto, con la vittoria del pilota in assoluto più veloce, ma dopo la bandiera a scacchi ci sarà poco da festeggiare, quando i piloti vengono informati della scomparsa di Greg Moore, protagonista di un terribile incidente in curva 2 al nono giro.

Spettacolare vittoria in rimonta a Mid Ohio. Peter Burke, champcar.com
Spettacolare vittoria in rimonta a Mid Ohio. Peter Burke, champcar.com

 

Per il 2000 Ganassi decide a sorpresa di abbandonare il pacchetto tecnico vincente negli ultimi quattro anni, accettando la cospicua offerta Toyota, ormai competitiva con Honda e Ford, e adottando il telaio Lola, molto efficace nel ’99 nelle mani di Castroneves e subito approvato da Montoya in un test a fine stagione. La prima corsa di Homestead vede il campione in carica riprendere da dove aveva lasciato, assumendo subito il comando al via con sorpasso all’esterno su De Ferran e cavalcata solitaria, fino alla rottura del motore. Dopo un week end di Long Beach incolore, che vede Montoya sempre dietro Vasser e con vari problemi tecnici in gara, a Rio il colombiano pressa a lungo il rookie Tagliani per la vetta, ma ancora una volta è messo fuori gioco da problemi tecnici. Anche Motegi vede un sostanziale dominio di entrambe le vetture del team Ganassi, ma se Vasser è attardato dai soliti problemi, Montoya è costretto a una sosta supplementare quando un cavo del turbo si disconnette, non facendolo andare oltre il settimo posto finale. Il colombiano domina anche nelle prime battute dell’appuntamento successivo a Nazareth, ma prima una sosta lenta e poi un incidente nel gruppo lo obbligano a una rimonta dal fondo, che lo vede sfruttare magistralmente ogni ripartenza per superare due/tre vetture per volta, fino al quarto posto finale. Il giorno dopo il team Ganassi è poi impegnato alla 500 miglia di Indianapolis, evento di cui Montoya sa poco ed eviterebbe volentieri per concentrarsi sui problemi del pacchetto Lola Toyota. La decisione di Chip Ganassi di superare il muro CART-IRL è però di quelle storiche, dando vita all’atteso confronto tra i campioni delle due categorie. Montoya, velocissimo per tutto il mese di prove, manca la pole, che va al campione IRL Greg Ray. In gara, dopo una prima intromissione di Robby Gordon, i due si danno poi battaglia, superandosi più volte prima che Ray finisca in sottosterzo contro il muro della curva 2. Una volta contenuto un breve assalto di Buddy Lazier, il resto della corsa fila via senza intoppi per Montoya, che trionfa superbamente supportato dal team di Chip Ganassi, che in victory lane definisce il colombiano “il miglior pilota del mondo al momento”.

L’ebbrezza da vittoria di Indy prosegue la domenica successiva a Milwaukee, dove Montoya mette in scena un dominio simile, piegando Michael Andretti per conquistare la prima storica vittoria della Toyota in CART. Detroit potrebbe poi regalare il tris, ma problemi al cambio pongono fine a una corsa dominata. La corsa successiva a Portland, primo stradale permanente della stagione, mette però in mostra i limiti della Lola, con Montoya che si barcamena in zona top ten prima di abbandonare per problemi meccanici. Una bella rimonta a Cleveland dopo il solito caos della prima curva non va invece oltre il sesto posto finale per un errore strategico. Un contatto con Franchitti al primo giro pone poi subito fine alla corsa di Toronto, cui segue la Michigan 500, dove il colombiano si mantiene a lungo in zona vittoria e negli ultimi giri si fa largo nel gruppo prendendo margine. Non riesce però a liberarsi di Michael Andretti, che con una Lola analoga gli contende il primato fino al traguardo, dove è il doppiato Marques a decidere la contesa concedendo la scia a Montoya, che conquista così la seconda 500 miglia in carriera. Il duello tra i due si ripropone una settimana dopo a Chicago, ma ancora una volta il colombiano deve abbandonare per problemi tecnici. Dopo un fine settimana difficile a Mid Ohio, Road America ripropone il copione del ’99: in difficoltà nelle prove, Montoya prende prepotentemente il comando dopo la prima sosta e va in fuga, prima che il cambio lo costringa mestamente al ritiro. Un possibile podio a Vancouver sfuma in circostanze simili, portando al fine settimana di Laguna Seca, dove il colombiano è il solo a tenere a vista le Penske, dovendo però accontentarsi del sesto posto dopo un’ultima sosta lenta. A St. Louis è invece lui per una volta ad approfittare dei problemi altrui, nello specifico di Andretti, per raccogliere il comando nelle ultime fasi e centrare il terzo successo stagionale, che sommato al secondo posto di Houston dietro un Vasser in gran forma, lasciano aperto qualche spiraglio in chiave campionato.

Le speranze cessano però subito nel penultimo appuntamento di Surfers Paradise, dove il colombiano centra una gran pole position davanti a De Ferran, con il quale si aggancia però maldestramente alla prima curva. Il colombiano affronta così l’ultima corsa di Fontana senza particolari ambizioni se non centrare l’ipotetica triple crown delle 500 miglia, ma dopo essere rimasto a lungo in testa il motore cede per l’ennesima volta con il traguardo ormai in vista. Il ritiro di Fontana determina così il nono posto finale in classifica, assolutamente non rappresentativo della velocità mostrata dal colombiano per buona parte della stagione. La corsa californiana chiude anche la parentesi CART nella carriera di Montoya: nell’estate 2000 il colombiano riceve infatti una breve telefonata da Frank Williams, spesso entusiasta spettatore dei successi americani del suo pupillo, per sondare la possibilità di un ruolo da titolare nel 2001 al posto di Jenson Button. Montoya ha pochi dubbi e in breve viene annunciato il suo passaggio per la stagione successiva alla Williams, nonostante il contratto di tre anni con Chip Ganassi.

Memorabile duello a Michigan con Andretti. indycar.com
Memorabile duello a Michigan con Andretti. indycar.com

 

Il giorno dopo il trionfo. indycar.com
Il giorno dopo il trionfo. indycar.com

 

Nell’autunno 2000 il colombiano torna quindi alla guida di una F1, trovando una vettura ben più avanzata di quella guidata nel ’98. Un enorme passo avanti arriva poi con le gomme Michelin, che nel 2001 lancia la sfida alla Bridgestone, monofornitore nelle due stagioni precedenti dopo il ritiro della Goodyear. Dopo dei test invernali discreti, Montoya si presenta però a Melbourne ancora non troppo convinto del metodo di lavoro impostato col team. La prima corsa lo vede così qualificarsi in mezzo al gruppo, a un secondo dal compagno Ralf Schumacher. Dopo aver perso molto tempo per via di un’escursione alla prima curva e un contatto con Eddie Irvine, il colombiano rimonta stabilmente, arrivando fino al terzo posto durante la fase dei pit stop, prima che la rottura del motore lo costringa al ritiro. Nel secondo appuntamento in Malesia il sesto posto in qualifica è vanificato da un problema in griglia che lo obbliga a partire dal fondo, prima di insabbiarsi preda del nubifragio. In Brasile comincia poi finalmente a vedersi il vero Montoya: quarto in griglia, con uno scatto fulmineo il colombiano si porta subito alle spalle di Michael Schumacher, che poi infila magistralmente con una staccata a ruote fumanti, per prendere per la prima volta il comando di un gran premio. Con una vettura più pesante per via della singola sosta preventivata, Montoya tiene a bada un aggressivo Schumacher nelle prime fasi e appare ampiamente in controllo della corsa, quando un errore in frenata del doppiato Verstappen  lo mette fuori gara. Imola segna un piccolo passo indietro, con Ralf Schumacher che trionfa mentre Montoya lotta ai margini della zona punti con Trulli, che riesce a superare con un fantastico sorpasso all’esterno, prima che la vettura lo lasci ancora una volta a piedi. A Barcellona una grande partenza riscatta una brutta qualifica, dando il via a una gara molto consistente, che grazie anche ad alcuni ritiri vede il colombiano centrare un secondo posto alle spalle di Michael Schumacher, principale beneficiario del ritiro di Mika Hakkinen all’ultimo giro. Il duello con il tedesco si rinnova poi in Austria, dove Montoya batte per la prima volta Ralf in qualifica, prendendo subito il comando della gara. Le difficoltà delle gomme Michelin lasciano però presto il colombiano in balìa delle Ferrari, dalle quali si difende in tutti i modi, fino a finire nella sabbia nel tentativo di rispondere a un attacco all’esterno di Schumacher, a sua volta costretto fuori pista. Tornato in gara ai limiti della zona punti, Montoya è poi costretto ad abbandonare da altri problemi tecnici.

Dichiarazioni bellicose non trovano poi riscontro negli appuntamenti successivi di Monaco e Montreal, dove il colombiano si qualifica male ed è presto autore di due errori evitabili nei primi giri, mentre Ralf Schumacher porta a casa la vittoria in Canada. Il successivo Gp d’Europa segna finalmente un’inversione di tendenza. Montoya è ancora battuto in qualifica da Ralf, ma in gara porta a termine una prova consistente, conquistando un altro secondo posto, mentre un’altra buona gara in Francia è chiusa in anticipo per i soliti problemi tecnici. A Silverstone il colombiano è quindi autore di una bella partenza, portandosi al secondo posto dopo un bel sorpasso su Schumacher, per poi concludere buon 4° dopo aver battagliato con il compagno di squadra e Barrichello. Proprio in casa di Ralf, a Hockenheim, Montoya centra poi la prima pole position in F1, dominando la corsa fino alla prima sosta, quando un problema nel rifornimento lo relega al quarto posto, prima che il ritiro sopraggiunga per rottura del motore. Dopo un difficile fine settimana in Ungheria, concluso fuori dai punti, a Spa Montoya da il meglio di sé, centrando un gran pole position sulla pista che va asciugandosi. Il motore spento in griglia lo costringe però a prendere il via dal fondo, da cui parte una bella rimonta, presto interrotta dal solito problema al motore. Arriva quindi Monza, funestata dai fatti dell’11 settembre e dall’incidente di Alex Zanardi. Montoya conquista la terza pole stagionale e dopo aver ceduto inizialmente il comando a Barrichello, sfrutta le difficoltà ai box del brasiliano per tornare davanti e involarsi verso il primo successo in carriera. Il momento di forma prosegue poi a Indy, dove il colombiano rileva il comando da Schumacher con uno spettacolare sorpasso alla prima curva, prima di dire addio ai sogni di gloria per l’ennesima rottura del motore. L’ultimo appuntamento stagionale lo vede infine conquistare la prima fila a Suzuka, pista mai vista prima, e piazzarsi buon secondo dietro Michael Schumacher. Il colombiano chiude quindi il campionato al sesto posto con 31 punti (18 meno di Ralf Schumacher), bottino deludente considerate le potenziali vittorie di San Paolo, Hockenheim e Indianapolis.

Dopo il sorpasso, Montoya contiene il ritorno di Schumacher a Interlagos. f1network.net
Dopo il sorpasso, Montoya contiene il ritorno di Schumacher a Interlagos. f1network.net

 

Il sorpasso di Interlagos e lo scoppiettante finale di stagione elevano Montoya al ruolo di principale sfidante di Schumacher per la stagione 2002 e a Melbourne il mondiale parte bene. Sopravvissuto al disastro della prima curva, nonostante la Ferrari sia imprendibile Montoya approfitta alla grande di una ripartenza per soffiare il comando a Schumacher con una bella staccata all’esterno. Il tedesco non fa però troppa opposizione, consapevole di avere un ritmo nettamente superiore. I due danno vita a un bel duello ma alla fine il campione in carica torna davanti con un abile incrocio di traiettorie, con Montoya che porta a casa il secondo posto controllando Raikkonen. In Malesia poi la sfida si ripropone, con i duellanti in prima fila. Il tedesco dalla pole ha un avvio stentato e Montoya riesce ad affiancare all’esterno la Ferrari, che frenando sul cordolo della prima curva va in sottosterzo e carambola sulla Williams. In quello che sembrerebbe un normale contatto di gara, il tedesco perde l’ala anteriore e Montoya rimane attardato nel gruppo, ma incredibilmente i commissari puniscono il colombiano, la cui rimonta è interrotta da un drive through. Scontata la penalità Montoya riesce poi comunque a raggiungere il secondo posto dietro il compagno Ralf Schumacher. Interlagos segna la terza tappa del duello, ma questa volta i ruoli sono invertiti. Montoya parte a rilento dalla pole e nonostante una strenua difesa deve accodarsi a Schumacher. Il tentativo di riprendersi la posizione alla staccata successiva finisce poi con una chiusura secca del tedesco e l’ala anteriore della Williams distrutta. Mentre Schumacher si invola verso il successo, contrastato poco efficacemente da Ralf, Montoya rimonta, segna il giro veloce ma non va oltre il quinto posto. L’appuntamento seguente di Imola risveglia poi l’ambiente dalla parvenza di equilibrio tra i top teams. La Ferrari domina infatti in maniera imbarazzante e Montoya porta a casa un discreto quarto posto, ben staccato da Ralf. Un po’ meglio va a Barcellona dove il colombiano, lontanissimo dal campione del mondo, chiude secondo approfittando dei problemi di Barrichello e dell’errore del compagno di squadra. Dopo un terzo posto dietro le Ferrari al termine di un lungo duello con Ralf in Austria, a Montecarlo Montoya stacca tutti di 4 decimi, centrando una pole position strepitosa che apre una sequenza di 5 partenze al palo consecutive. La gara non va altrettanto bene, a causa di un avvio lento che lo vede cedere il comando a Coulthard, prima che il motore lo abbandoni a metà distanza. Non va meglio in Canada, dove Montoya deve prima cedere il comando a un Barrichello più leggero e dopo la prima sosta farsi largo nel gruppo con uno spettacolare sorpasso a tre su Raikkonen e Ralf. Nelle ultime fasi il colombiano si lancia poi all’inseguimento della Ferrari di testa, prima che il motore ceda ancora una volta. È invece un incidente con Coulthard in un estremo tentativo di difesa a rovinare una GP d’Europa poco entusiasmante.

A Silverstone si rivede però il miglior Montoya, capace di strappare una pole strepitosa all’ultimo secondo e lottare ruota a ruota con Schumacher nelle prime fasi umide, prima che la pioggia si faccia più intensa, a tutto vantaggio della Ferrari e delle più efficaci Bridgestone. Nel finale il colombiano ingaggia poi un duello infuocato con la seconda Rossa di Barrichello, dovendo però infine accontentarsi del terzo posto. Un copione simile, stavolta sull’asciutto, si ripete poi a Magny-Cours, dove nei primi giri si assiste a un entusiasmante triello Montoya-Schumacher-Raikkonen. Il colombiano rimane in testa per metà gara, ritrovandosi però dietro a Schumacher e alle McLaren dopo l’ultima sosta, dovendosi quindi accontentare del quarto posto. Una brutta partenza a Hockenheim lo vede invece perdere il contatto con i primi dietro a Kimi Raikkonen, con il quale ingaggia uno spettacolare duello per la quarta posizione che vede i due battagliare per metà circuito, prima che la Williams abbia finalmente la meglio. Approfittando dei problemi di Barrichello e Ralf, il colombiano chiude comunque al secondo posto, per poi giungere solo 11° al termine di un difficile fine settimana in Ungheria. Va meglio a Spa, dove Montoya termina terzo controllando Coulthard nel finale, mentre la settima pole position stagionale (tante quante Michael Schumacher) non porta buoni frutti a Monza, dove il colombiano prima è ostacolato dal compagno di squadra e poi deve cedere il passo alle Ferrari, prima di ritirarsi per problemi alle sospensioni. La crescente rivalità tra i piloti Williams esplode poi a Indianapolis, dove Montoya parte male e al secondo giro stacca tardissimo nel tentativo di superare Ralf all’esterno della prima curva. Lo stesso fa però il tedesco, che però perde il posteriore innescando una collisione che manda su tutte le furie Patrick Head. Ralf è costretto al ritiro mentre Montoya recupera fino al quarto posto. La stagione si chiude quindi con un’altra quarta piazza a Suzuka al termine di un week end mediocre, risultato sufficiente a garantire al colombiano il terzo posto in classifica, seppur staccato di quasi 100 punti da Michael Schumacher e 27 da Barrichello.

A livello personale il 2002 rimane comunque un anno memorabile per Montoya, che a fine ottobre sposa Connie Freydell, studentessa colombiana conosciuta negli Stati Uniti, che negli anni successivi gli darà tre figli: Sebastian (2003), Paulina (2007) e Manuela (2010).

Montoya precede Schumacher e Raikkonen nelle prime fasi del GP di Francia. f1-facts.com
Montoya precede Schumacher e Raikkonen nelle prime fasi del GP di Francia. f1-facts.com

 

Il 2003 non si apre sotto i migliori auspici per la Williams, che nei test fatica a trovare il miglior bilanciamento per la sua FW25. È anche la stagione del nuovo punteggio, del parco chiuso e delle qualifiche con giro singolo e pieno di benzina, un format che molti credono si adatti a meraviglia a Montoya, ma che invece il colombiano non riuscirà sempre a sfruttare a pieno, amando maggiormente l’approccio progressivo permesso dai 12 giri cronometrati del precedente sistema. Nonostante tutto in Australia Montoya rischia di vincere. Partito terzo dietro le Ferrari, inizialmente il colombiano tiene il passo, sfruttando poi la confusione creata dall’incidente di Barrichello per prendere il comando e guidare la corsa più a lungo di tutti. Raikkonen e Schumacher però sono più veloci e riescono a sopravanzarlo durante le soste, ma quando il primo incorre in una penalità e il secondo è costretto a una sosta per rimuovere una paratia a penzoloni, Montoya riprende il comando e veleggia verso la vittoria quando negli ultimi giri finisce stupidamente in testacoda alla prima curva, lasciando la posizione a Coulthard che incredulo va a vincere, mentre il colombiano chiude secondo incalzato da Raikkonen e Schumacher. Segue poi una sequenza di corse sfortunate: in Malesia perde 3 giri dopo essere stato tamponato da Pizzonia in partenza; in Brasile sul bagnato da spettacolo nelle prime fasi ma è tra i tanti che vanno in aquaplaning nella Curva do Sol; a Imola è inizialmente quarto ma chiude solo ottavo a causa di problemi durante le soste. Arriva quindi il gran premio di Spagna, in cui la Williams appare inguidabile nelle prove ma che frutta comunque a Montoya un quinto posto, dopo alcuni bei sorpassi su Button e Ralf Schumacher. Le cose cominciano a cambiare però nel’appuntamento successivo di Zeltweg, che segna finalmente il ritorno alla competitività. Nelle prime fasi il colombiano incalza infatti Schumacher e passa a condurre quando il tedesco è frenato da un principio d’incendio durante la prima sosta. Quando poi si prospetta un bel duello per la vetta, il motore BMW esplode, costando un altro ritiro. A Montecarlo la Williams si dimostra però ancora in gran forma, centrando la pole con Ralf Schumacher e il terzo posto in griglia con Montoya. Al via il colombiano brucia Raikkonen e mette sotto pressione il compagno, che semina durante le soste per prendere il comando. Una volta in testa poi deve solo gestire il vantaggio sul finlandese, non senza apprensione quando negli ultimi giri la squadra si accorge del bassissimo livello dell’olio, che però basta per vedere il traguardo. Al successo di Monaco segue il terzo posto di Montreal, dove Montoya parte secondo dietro Ralf ma si complica la vita andando in testacoda al secondo giro. La rimonta nel finale si risolve poi in un trenino che vede Michael Schumacher precedere Ralf, Montoya e Alonso, senza che nessuno riesca anche solo a tentare una manovra di sorpasso.

Al Nurburgring, dopo una brutta partenza e un errata scelta delle gomme, Montoya recupera mettendo a segno uno spettacolare sorpasso all’esterno su Schumacher, che insieme al ritiro di Raikkonen gli vale il secondo posto dietro Ralf. Il medesimo risultato nel successivo GP di Francia segna poi un episodio cruciale nel rapporto tra il colombiano e la squadra. Montoya parte infatti secondo al fianco di Ralf e dopo aver subito nel primo stint, recupera prepotentemente sul compagno dopo il primo pit stop, prendendosi non pochi rischi nel traffico. Non riuscendo a impostare una manovra in pista, decide allora di fermarsi un giro prima di quanto concordato, così da avere due giri di vantaggio su Ralf a gomme fresche. Il tedesco però intuisce tutto e si ferma a sua volta un giro prima del previsto, riuscendo a rientrare in pista appena davanti a Montoya per centrare il secondo successo consecutivo. Il colombiano si convince che sia stata la squadra a istruire Ralf sulla tattica da adottare, accusando privatamente la Williams di favoritismo e provocando una gran discussione che di fatto segna la fine del rapporto con la squadra inglese. Poco dopo infatti Montoya si accorda con Ron Dennis per passare alla McLaren a partire dal 2005, ovvero alla scadenza del contratto con la Williams. Nonostante ciò le corse successive vanno bene, lanciando ancora di più Montoya in chiave titolo. A Silverstone il colombiano parte settimo e all’uscita della pace car perde ulteriori posizioni nell’aspettare il completamento della sosta di Ralf Schumacher. Alla ripartenza è però abile a seguire Barrichello, che con una Ferrari in gran forma mette su una rimonta spettacolare, aprendo la strada anche al colombiano. I due inanellano una lunga serie di sorpassi, ma poi Montoya perde il contatto scivolando sull’olio lasciato da Pizzonia. Lo stesso errore commesso da Kimi Raikkonen poco più tardi gli consegna però il secondo posto finale. A Hockenheim arriva finalmente la prima pole della stagione, che conduce a una facile vittoria quando Ralf, Barrichello e Raikkonen sono eliminati in un incidente alla prima curva. Segue quindi un deludente terzo posto in Ungheria. Dopo una partenza difficile sul lato sporco della pista, Montoya come gli altri rimane intruppato dietro la Jaguar di Webber, che permette ad Alonso di prendere il largo e involarsi verso la prima vittoria in carriera. Altro tempo perso in alcune battaglie con Schumacher e Trulli gli impediscono poi di lottare con Raikkonen per il secondo posto, ma è un suo errore a mettere a repentaglio il terzo gradino del podio, quando un solitario testacoda permette a Ralf di mettergli pressione fino alla bandiera a scacchi.

La lunga sequenza di risultati positivi permette comunque a Montoya di presentarsi al terzultimo appuntamento di Monza con un solo punto da recuperare su Michael Schumacher, ancora al vertice della classifica nonostante alcune corse difficili. Prima dell’appuntamento brianzolo però la Ferrari riesce a ottenere che le dimensioni degli pneumatici siano verificate sia prima che dopo la corsa, obbligando la Michelin ad alterare una costruzione giudicata regolare dalla FIA nelle due stagioni precedenti. Con ciò il divario tra Williams e Ferrari di fatto si azzera nelle ultime tre corse e a Monza Montoya e Schumacher danno vita a un duello epico. Un piccolo errore alla variante Ascari costa al colombiano la pole, svantaggio che Montoya tenta di compensare al primo giro attaccando all’esterno il tedesco alla Roggia, senza però riuscire a completare la manovra. Inizia quindi un elastico che vede Schumacher prendere il largo nei primi giri e Montoya avvicinarsi pericolosamente prima del secondo turno di soste, dove il sorpasso non riesce. Il colombiano continua poi a mettere pressione al rivale, ma nel finale l’interferenza di Frentzen e di una Jordan apre il divario tra i due, ponendo di fatto fine alla contesa. Montoya si presenta quindi a Indy con tre punti da recuperare. Partire dal lato sporco della pista lo obbliga subito a una rimonta di cui fa subito le spese Barrichello, che nel tentativo di resistere a un attacco all’esterno in curva 1 costringe Montoya quasi oltre il cordolo, portando a un contatto che manda in testacoda la Ferrari. Con la pioggia che fa capolino sullo Speedway il colombiano risale quindi in zona podio, fino a quando la direzione gara non decide di punirlo per il contatto con Barrichello. La penalità arriva però nel momento in cui la Williams decide di effettuare il cambio gomme, cosa che costringe Montoya a effettuare il drive through, fare un altro giro con le slick sul bagnato e fermarsi per montare le gomme da pioggia. Tutta la procedura costa al colombiano un giro, che unito ad altri inconvenienti lo fa terminare al sesto posto. Il risultato, sommato alla contemporanea vittoria di Schumacher, lo estromette dalla lotta per il titolo. Senza più velleità di successo finale, Montoya conquista poi la prima fila in Giappone proprio al fianco di Barrichello, che supera abilmente al primo giro in condizioni di umido. Sembrerebbe prospettarsi la terza vittoria stagionale, ma in realtà la sua gara dura pochi minuti a causa di un problema al cambio che lo mette presto fuori gioco. Montoya chiude quindi il campionato al terzo posto, a undici punti da Schumacher e nove da Raikkonen.

Montoya precede Ralf Schumacher in Ungheria. autosport.com
Montoya precede Ralf Schumacher in Ungheria. autosport.com

 

La bella battaglia a 3 dell’ultima stagione fa sperare in un campionato molto aperto per il 2004, con la Williams che si presenta ai nastri di partenza con una vettura innovativa, caratterizzata dal cosidetto muso a “tricheco”. Purtroppo le speranze vengono presto disattese al primo GP in Australia, dove le Ferrari fanno piazza pulita dei rivali. In qualifica Montoya riesce a piazzare la Williams al terzo posto, ma dopo una breve escursione alla prima curva e alcuni sorpassi grintosi riesce a portare a casa solo un sesto posto alle spalle di Ralf Schumacher, superato al secondo giro con una rischiosissima staccata alla curva 3, che però gli torna davanti durante i pit stops. Va meglio in Malesia, dove Montoya parte in seconda fila, segna il giro più veloce e come in un remake di Monza 2003 mette pressione a Schumacher per buona parte della gara, prima di perdere tempo prezioso dietro alcuni doppiati. In Bahrein il colombiano va poi vicinissimo alla pole, ma sia lui che il compagno perdono tempo prezioso nell’ultimo settore, lasciando la prima fila alle Ferrari, dominatrici il giorno seguente. Per Montoya si prospetta un comunque positivo terzo posto, ma la sua gara termina a pochi giri dal traguardo per problemi al cambio. Il podio arriva invece a Imola al termine di una corsa solitaria che offre tutte le sue emozioni al primo giro. Partito in seconda fila, Montoya viene chiuso brutalmente da Schumacher all’ingresso della Villeneuve, per poi essere accompagnato sull’erba in un ambizioso tentativo all’esterno al tornante della Tosa. In conferenza stampa il colombiano non manca di rimarcare l’episodio e quando il tedesco dice di non aver visto la Williams al suo fianco, Montoya lo fulmina con un “devi essere stupido o cieco per non avermi visto ma…sono le corse” che scatena l’ilarità della sala stampa. Il duello tra i due potrebbe proseguire a Barcellona, dove Schumacher parte in pole davanti al colombiano, che però è autore di una brutta partenza, prima di ritirarsi per problemi ai freni.

Le scintille proseguono invece a Montecarlo. Montoya parte solo nono ma è autore di un buon avvio, che lo vede superare abilmente Barrichello alla St. Devote alla ripartenza dopo l’incidente di Coulthard e Fisichella. Rientrato in pista dopo il primo pit stop, il colombiano si ritrova però dietro alla Jordan di Heidfeld, che lo rallenta per diversi giri prima che il pilota della Williams trovi il varco giusto al Mirabeau. Questo e una diversa strategia rispetto al leader Schumacher fanno finire Montoya indietro di un giro, quando la pace car torna in pista per l’incidente di Alonso. Già troppo vicini in svariate occasioni, i due finiscono per entrare in contatto sotto il tunnel, quando il tedesco decide di scaldare i freni inchiodando in mezzo alla curva e in piena traiettoria. La Ferrari carambola contro il muro danneggiando irrimediabilmente le sospensioni mentre Montoya riesce a proseguire chiudendo al quarto posto, primo dei doppiati. A 12 mesi dalla doppieta del 2003, il Nurburgring non porta poi bene alla Williams, che vede i suoi piloti entrare in contatto alla prima curva nella confusione del gruppo. Ralf si ritira mentre Montoya riesce a proseguire per concludere ottavo. Le vetture inglesi ritornano poi competitive nell’appuntamento successivo a Montreal, dove Ralf Schumacher parte in pole e tiene testa per tutta la corsa al fratello Michael mentre Montoya, meno efficace per tutto il fine settimana (per la prima volta in stagione), chiude solo quinto. Entrambi vengono però presto squalificati per irregolarità delle prese d’aria dei freni. Le cose vanno addirittura peggio a Indianapolis: Montoya è costretto a partire dai box quando la sua vettura rimane bloccata in griglia, mentre un cedimento meccanico spedisce Ralf Schumacher contro il muro dell’ovale, costringendolo a una lunga riabilitazione. La bella rimonta del colombiano è poi vanificata da una tardiva squalifica per irregolarità nel cambio di vettura. Il ritorno in Europa non migliora troppo la situazione: a Magny-Cours Montoya è velocissimo in prova, ma un brutto incidente nelle libere gli provoca un gran dolore al collo. Partito sesto, termina poi solo ottavo dopo un testacoda nelle prime fasi. A Silverstone una corsa abbastanza tranquilla lo vede invece concludere al quinto posto tra Button e Fisichella, mentre Gené sull’altra Williams arriva fuori dai primi 10.

A Hockenheim l’ennesima prima fila illude, ma una brutta partenza conduce a una corsa di rimonta che si conclude con un altro quinto posto. Il copione opposto va invece in scena a Budapest: dopo una brutta qualifica, addirittura dietro il nuovo compagno Pizzonia, Montoya azzecca una buona partenza, chiudendo al quarto posto senza però insidiare Alonso, ne tantomeno le imprendibili Ferrari. Spa ragala finalmente una corsa movimentata, anche se dal finale insoddisfacente. Partito solo 11° dopo una qualifica bagnata, Montoya è abile a evitare il maxi incidente all’Eau Rouge, installandosi al quinto posto alle spalle di Schumacher, che alla ripartenza fatica a mandare le gomme in temperatura. Difficoltà che il colombiano sfrutta egregiamente, confezionando uno spettacolare sorpasso all’esterno alla nuova Bus stop. La Ferrari è però superiore e il tedesco riesce a sopravanzare la Williams durante i pit stops. Montoya ha comunque l’occasione di salire sul podio replicando la precedente manovra sulla Renault di Trulli, che in un episodio analogo a quanto accaduto a Indy 2003, costringe Montoya quasi oltre il cordolo interno. Le vetture entrano in contatto e l’italiano è costretto al ritiro, ma questa volta i commissari non si sentono in dovere di emettere sanzioni. Sarà poi una foratura negli ultimi giri a negargli un possibile podio e costringerlo al ritiro. È quindi il turno di Monza, dove Montoya parte in prima fila facendo segnare nelle pre qualifiche la più alta media di sempre su un singolo giro. La gara inizia in condizioni di bagnato e nelle prime fasi il colombiano battaglia con Button e Alonso, mentre le Ferrari sono in difficoltà. Con il progressivo asciugarsi della pista le Rosse tornano però alla carica e alla fine Montoya deve accontentarsi di un deludente quinto posto dietro anche alle BAR, a causa di un problema di strumentazione che durante l’ultimo pit stop porta il team a immettere molto più carburante del necessario. Segue un anonimo GP di Cina in cui il colombiano chiude quinto subendo il ritmo del rientrante Ralf Schumacher, che centra poi un bel secondo posto alle spalle del fratello nel successivo GP del Giappone. Montoya, partito indietro a causa delle difficili condizioni meteo di fine qualifica, tenta la rimonta impegnandosi in numerosi duelli, portando però a casa solo un settimo posto. Il successivo Gp del Brasile chiude poi la stagione e anche l’avventura del colombiano alla Williams. Partito in prima fila su un asfalto umido, all’inizio Montoya fatica a tenere il passo dei diretti di rivali, ma tutto cambia dopo il primo cambio gomme, effettuato insieme a Kimi Raikkonen. I due percorrono affiancati la pit lane e sono vicinissimi al rientro in pista, quando con una gran staccata a gomme fredde Montoya sfila all’esterno il finlandese prendendo il comando. I due procedono a stretto contatto per il resto della distanza, battagliando nel traffico con la pioggia pronta a fare nuovamente capolino sul tracciato brasiliano. Montoya resiste però a ogni pressione, chiudendo in bellezza una stagione deludente date le aspettative della vigilia. Il colombiano termina infatti il campionato al quinto posto, a 90 punti da Michael Schumacher, campione per la settima volta.

Spettacolare sorpasso su Schumacher alla Bus Stop. motorsport.com - LAT Images
Spettacolare sorpasso su Schumacher alla Bus Stop. motorsport.com – LAT Images

 

Quando Montoya prova per la prima volta la McLaren nell’autunno 2004, scopre una macchina diversa dalle attese. Nervosa e sottosterzante, la vettura di Woking non si adatta molto bene alle qualità del colombiano. Lo stesso carattere si ripresenta nella nuova MP/4-20, progettata secondo le nuove regole sportive che bandiscono il cambio gomme se non in caso di foratura. Per quanto scorbutica, la nuova McLaren è però una macchina vincente, come Kimi Raikkonen dimostrerà dopo i primi gran premi di rodaggio. A Montoya servirà invece più tempo. La stagione parte ancora in Australia ed è un avvio lento per il team inglese, che vede Raikkonen partire dal fondo e chiudere 8° mentre Montoya prende il via dalla nona casella e porta a casa un sesto posto senza infamia e senza lode. Un’altra gara tranquilla conduce poi a un buon quarto posto in Malesia dopo una brutta qualifica. La svolta della stagione (se non del biennio) arriva però nelle settimane successive, e non dalla pista: durante una partita di tennis (ma molti parlano di una scorribanda in motocross), Montoya si frattura la scapola sinistra, incidente che lo costringe a saltare i GP di Bahrein e San Marino. Al suo posto corrono i tester De la Rosa e Wurz, che offrono prestazioni analoghe a quanto mostrato dal colombiano nelle prime due uscite. Ancora piuttosto dolorante, Montoya torna a Barcellona, dove chiude mestamente all’ottavo posto mentre Kimi Raikkonen, dopo le avvisaglie di Imola, centra un successo dominante. Si va quindi a Montecarlo, dove la stagione prende una piega ancora più paradossale quando Montoya è penalizzato e costretto a partire dal fondo per aver causato un rallentamento a catena, che nelle libere provoca un incidente multiplo tra Villeneuve, Ralf Schumacher e Coulthard. Mentre Raikkonen centra un altro successo, il colombiano mette in atto una buona rimonta portando a casa il quinto posto. Il successivo Gp d’Europa è invece rovinato da un contatto in partenza con Webber che lascia attardato Montoya, solo settimo al traguardo.

Le cose cominciano a cambiare, almeno in termini di competitività, nell’appuntamento successivo in Canada, dove il colombiano appare per la prima volta più veloce di Raikkonen. Dopo aver messo sotto pressione le Renault, Montoya infatti approfitta dei problemi di Fisichella e dell’errore di Alonso per prendere il comando, seguito da vicino dal compango. La prima vittoria dell’anno sembra in vista, ma proprio prima dell’ultimo pit stop l’incidente di Button porta in pista la pace car, senza che il team possa richiamare in tempo Montoya per la sosta. Il colombiano è quindi costretto a completare un altro passaggio dietro la safety car mentre Raikkonen entra subito ai box, ereditando poi il comando. Le cose vanno invece di mal in peggio per Montoya, che lascia la pit lane non rispettando il semaforo rosso, infrazione che gli costa la squalifica dal gran premio. Dopo il fiasco di Indianapolis, che vede i team Michelin disertare la corsa, la F1 torna in Europa per il GP di Francia, dove Montoya parte in mezzo al gruppo e giunge fino in zona podio quando si ritira per problemi al cambio, dovendo prima sopportare il sorpasso ai box di Raikkonen, partito più indietro e con un maggior carico di carburante. A Silverstone però si torna finalmente a vedere un Montoya in forma vittoria. Da un discreto terzo posto in griglia, il colombiano è autore di uno splendido avvio che lo vede sopravanzare Button e affiancare all’esterno Alonso, superato poi all’ingresso della curva Maggots. Mentre Raikkonen recupera ancora una volta dal fondo, davanti Montoya tiene a bada lo spagnolo, portando a casa il primo successo stagionale. È ancora sul podio, ma un gradino più in basso, nell’appuntamento successivo a Hockenheim, dove il colombiano compromette le sue speranze di vittoria con un testacoda in qualifica all’ultima curva, mentre lotta per la pole con Raikkonen. Errore poi aggravato dal ritiro del finlandese, che consegna la vittoria al rivale Alonso. Partito in prima fila, in Ungheria Montoya supera Schumacher durante i pit stop e sembra avviato verso una facile vittoria quando la rottura del semiasse lo estromette dalla competizione, con il sospetto che il guasto sia addebitabile al contatto con un apparecchio di raffreddamento durante il giro di uscita dai box. I punti persi aumentano poi in Turchia, dove il colombiano è comodamente secondo dietro Raikkonen quando è colpito nel posteriore dal doppiato Monteiro, che lo accusa di avergli tagliato la strada in frenata, compromettendo l’aerodinamica della sua Jordan. A due giri dal traguardo Montoya finisce quindi nella via di fuga, trovandosi a dover contenere Alonso, che lo supera alla curva 8 quando la McLaren va dritta a causa dei danni al diffusore. Con Raikkonen ancora attardato dalla rottura del motore in prova, i due si scontrano ancora a Monza, dove Montoya parte dalla pole e stacca progressivamente lo spagnolo, che però rinviene nel finale quando la delaminazione di uno pneumatico costringe il colombiano a rallentare, senza però negargli il secondo successo stagionale. Gli alti e bassi proseguono poi a Spa, dove Montoya centra la pole e comanda le prime fasi bagnate davanti a Raikkonen, ancora in corsa per il mondiale, che passa davanti durante le soste. Per il colombiano il secondo posto sembra in cassaforte, ma un avventato tentativo di sdoppiaggio da parte di Pizzonia termina con la Williams e la McLaren ferme nella via di fuga della curva Fagnes, a 4 giri dal traguardo. Il riscatto arriva quindi a Interlagos, dove in un remake del 2004 Montoya e Raikkonen si liberano del polesitter Alonso, ingaggiando un duello ravvicinato in cui il colombiano riesce a precedere il compagno sul traguardo e centrare il terzo successo stagionale. Come da copione la corsa successiva però va malissimo. Con le qualifiche influenzate dal maltempo, a Suzuka i big partono dal fondo e Montoya è in piena rimonta quando nella curva che immette sul rettilineo d’arrivo è spedito contro il muro da Villeneuve, che viene penalizzato. Con il campionato costruttori ancora aperto, in Cina la McLaren cerca la doppietta ma Alonso non fa sconti, precedendo con sicurezza Raikkonen e Montoya, che non vede il traguardo dopo aver centrato il tombino scoperto di un cordolo. Si chiude quindi malamente una stagione contraddittoria, subito rovinata dall’infortunio e non aiutata da numerosi errori e sfortune, sportive e tecniche. Nonostante le tre vittorie non sorprende quindi il quarto posto in classifica generale, a 73 punti da Alonso, 52 da Raikkonen e alle spalle anche della tutt’altro che irresistibile Ferrari di Schumacher.

Variante Ascari. ecestaticos.com
Variante Ascari. ecestaticos.com

 

Il 2006, caratterizzato dal ripristino dei cambi gomme e dal passaggio ai motori V8, promette spettacolo con l’atteso ritorno della Ferrari e le conferme di Renault e McLaren. Le prime due rispetterano le attese, mentre la McLaren vivrà una stagione deludente, alle prese con una MP/4 21 solo occasionalmente in grado di lottare per la vittoria. Da Montoya si attende una prova di orgoglio, dopo essere stato sonoramente battuto dal compagno per la prima volta in carriera. Il campionato parte in Bahrein e rispetta i pronostici. Alonso e Schumacher si giocano la vittoria mentre Raikkonen parte ultimo e raggiunge il podio, superando anche Montoya, che chiude solo quinto dovendosi arrendere per due volte a Jenson Button. Sopravvissuto all’incidente del primo giro che esclude il compagno di squadra, il colombiano è poi quarto in Malesia, ma la stagione comincia a prendere una brutta piega in Australia, dove Montoya va in testacoda nel giro di ricognizione ed è salvato solo dalla ripetizione della procedura di partenza. Al restart perde poi il contatto da Alonso e Raikkonen nel traffico e si ritira dopo un’uscita all’ultima curva mentre bracca Ralf Schumacher. Dopo i disastri antipodali si rivede poi un Montoya solido a Imola, pista mai amata, dove il colombiano è più efficace di Raikkonen per tutto il fine settimana e centra un bel terzo posto, seppur staccato da Alonso e Schumacher. Seguono due brutti ritiri: un motore rotto al Nurburgring a mettere fine a una prova sotto tono e un evitabilissimo testacoda a Barcellona in un’altra prova insulsa. Un po’ di luce si vede quindi a Montecarlo, dove Montoya si qualifica quarto e pur non tenendo il ritmo di Raikkonen, che contende il comando ad Alonso, giunge secondo approfittando dei ritiri del compagno e di Webber. Sono però le ultime buone notizie per il colombiano, perchè dopo un sesto posto a Silverstone senza infamia e senza lode, in Canada si qualifica male e dopo aver abilmente superato Schumacher si imbatte in Rosberg, che prima salta l’ultima chicane per evitare il sorpasso e poi in un estremo tentativo di resistenza all’esterno si tocca con il colombiano, finendo nelle barriere. Montoya riesce invece a proseguire, ma pochi giri più tardi finisce a sua volta contro il muro dei campioni, che pone fine alla sua gara. Una settimana più tardi a Indianapolis una qualifica mediocre lo vede poi tamponare, tra tutti, proprio Raikkonen alla prima curva, a causa di un rallentamento improvviso delle vetture davanti. Il contatto genera un maxi incidente che fa fuori sette vetture. Ron Dennis probabilmente valuta ormai da tempo l’accantonamento di Montoya, ma l’assist perfetto gli arriva proprio dal colombiano, che inizia a guardarsi attorno per la prossima stagione, prendendo contatto soprattutto con la Red Bull. Durante la trasferta americana Montoya sente però Chip Ganassi, che casualmente sta cercando un pilota per il suo programma #42 in Nascar. Il colombiano, che tre anni prima aveva guidato la stock car di Jeff Gordon in un evento promozionale a Indianapolis, non disdegna la possibilità. Consapevole che difficilmente nelle stagioni successive si troverà nelle condizioni di lottare per il titolo, decide di sparigliare le carte, compiendo una mossa storica verso un campionato all’opposto della F1 ma ugualmente ricco e dall’enorme seguito, almeno negli Stati Uniti.  Montoya e Ganassi annunciano così la loro collaborazione una settimana dopo il Gp degli USA, sorprendendo la McLaren, che reagisce alla notizia togliendo il volante al colombiano per il resto della stagione.

Con Barrichello a Silverstone. f1fanatic.co.uk
Con Barrichello a Silverstone. f1fanatic.co.uk

 

Dopo una iniziale resistenza dovuta agli obblighi contrattuali, McLaren e Mercedes lasciano libero Montoya di debuttare nelle stock cars già nel 2006. Per Montoya il team Ganassi prepara il classico percorsco ABC, ovvero Arca, Busch Series e poi Cup, la serie regina del mondo Nascar. Il debutto arriva il 6 ottobre a Talladega, dove Montoya sperimenta per la prima volta il bump drafting e prende confidenza con la corsa di gruppo e le ripartenze in stile Nascar. La prima presa di contatto è buona, terminando con un terzo posto che convince il team a passare subito alla Busch. Al debutto a Memphis Montoya conquista una quarta fila in griglia e nonostante varie vicissitudini, compresi contatti e testacoda, si mostra competitivo portando a casa un undicesimo posto finale. Prestazioni contrastanti arrivano negli appuntamenti successivi, fino al fatidico debutto in Cup nell’ultimo appuntamento stagionale di Homestead, già sede della prima corsa CART nel ’99, seppur in un’altra configurazione. Partito 29°, il colombiano tiene il ritmo ed è protagonista di una buona prova tra i primi venti, ma un piccolo diverbio con Ryan Newman porta alla ritorsione del pilota dell’Indiana, che negli ultimi giri spedisce Montoya contro il muro della curva 2. L’impatto è violento e scatena un incendio clamoroso, non impedendo comunque al colombiano di lasciare la vettura indenne. Già dalle prime prese di contatto la squadra fa però anche conoscenza con il carattere difficile dell’ex F1, che forse orgogliosamente da poco peso ai tentativi da aiuto di Casey Mears, in partenza per il team Hendrick, che a Homestead guida per l’ultima volta la vettura Texaco #42 (Montoya corre con una vettura simile ma con numero 30). Col tempo Montoya imparerà ad apprezzare l’aiuto di colleghi come Martin, Stewart e Harvick, con cui non mancheranno comunque gli scontri, fino ad offrirsi di aiutare il suo ex compagno Raikkonen quando il finlandese saggerà le stock car nel 2011.

Debutto in Cup
Debutto in Cup. Kurt Dahlstrom, motorsport.com

 

Il finale del 2006 da quindi a Montoya un’idea sull’avventura in cui si è andato a cacciare e che per il 2007 prevede un doppio impegno in Cup e Busch Series. Il primo appuntamento del nuovo anno si tiene sì a Daytona, ma non su una stock car. Come parte del team Ganassi Montoya è infatti invitato a partecipare alla 24 ore di Daytona al fianco di Scott Pruett e Salvador Duran, che al termine di una dura battaglia piegano gli equipaggi dei team Samax e SunTrust/Taylor. Le aspettative sulla stagione Nascar di Montoya sono alle stelle, ma realisticamente team e pilota si rassegnano ad una annata di alti e bassi. Nella sua prima Daytona 500 Montoya fa il compitino, ma trova scarsissima collaborazione dai nuovi colleghi nel gioco delle scie, non riuscendo quindi a inserirsi nelle posizioni che contano e portando a casa un 19° posto finale dopo aver perso un giro ai box. È presto chiaro che le Dodge del team Ganassi non sono particolarmente competitive, tanto che sia Montoya che i compagni Sorenson e Stremme faticano a mettere insieme prestazioni degne di nota. Nella prima parte della stagione il colombiano riesce però a mettersi in mostra ad Atlanta, dove gravita a lungo intorno al podio e coglie un positivo quinto posto. Una prestazione simile si ripete poche settimane dopo in Texas, dove arriva ottavo non prima di aver inavvertitamente colpito Tony Stewart, che finisce in testacoda coinvolgendo anche Jimmie Johnson. Atlanta lo vede terminare all’ottavo posto anche in Busch Series, categoria in cui fa scalpore qualche settimana prima nella prova stradale di Mexico City, dove da spettacolo inanellando sorpassi nel gruppo. Solo quello per la vittoria è fuori posto, con una staccata al limite con cui fa fuori il compagno Pruett senza particolari sensi di colpa. In Cup il resto della stagione continua tra corse nel gruppo e contatti fino a Sonoma, dove il colombiano rimonta da una bella qualifica, dando spettacolo nel gruppo nonostante un’altra toccata maldestra su Kurt Busch. È però un azzardo strategico a metterlo in corsa per la vittoria, quando il team decide di lasciarlo fuori nelle ultime fasi a giocarsi la vittoria con Harvick e McMurray, con cui inscena un tesissimo duello fino al sorpasso decisivo in curva 1, cui segue una marcia singhiozzante fino al traguardo per conquistare il primo storico successo nella serie maggiore della Nascar. Di ritorno sugli ovali le cose ricominciano però a farsi difficili e continuano i battibecchi con i colleghi, in particolare Harvick, con cui Montoya si scontra in varie occasioni. I due battagliano anche a Indianapolis, dove Juan parte in prima fila, è competitivo per tutta la gara e nel finale approfitta dei problemi dell’americano per chiudere secondo dietro Tony Stewart. Due settimane più tardi però i nodi vengono al pettine a Watkins Glen, dove Montoya gravita a lungo attorno alla top 5 ma viene tamponato da Truex in una ripartenza, finendo per franare proprio su Harvick, col quale si accende un focoso dibattito in pista. La stagione va avanti senza particolari sussulti fino ad altri due piazzamenti su alcuni dei tracciati più difficili e caratteristici: un decimo posto al Monster Mile di Dover e un ottavo sul mezzo miglio di Martinsville, a riprova dei progressi fatti nella gestione del traffico. In assenza di altri rookie di peso (il rivale principale è David Ragan, alla guida di una ben più competitiva Ford del team Roush), il 20° posto finale, davanti ai compagni di squadra, è comunque sufficiente a Montoya per laurearsi rookie of the year. L’avventura in Busch dura invece solo mezza stagione, prima che il colombiano abbandoni tutto non considerandola strettamente necessaria per il suo apprendimento.

Vittoria a Sonoma. Jeff Gross, gettyimages.com
Vittoria a Sonoma. Jeff Gross, gettyimages.com

 

Alle prese con un Late Model a Eldora, dietro invito di Tony Stewart. Chris Graythen, gettyimages.com
Alle prese con un Late Model a Eldora, dietro invito di Tony Stewart. Chris Graythen, gettyimages.com

 

Con una stagione stock car alle spalle si potrebbe pensare a una nuovo anno in crescendo, ma in realtà il 2008 di Montoya è deludente, alle prese con una Dodge Ganassi davvero poco competitiva. A poco serve anche l’avvicendamento di crew chief, che vede Brian Pattie subentrare a Donnie Wingo. In realtà la stagione inizia bene, con una replica della vittoria alla 24 ore di Daytona, questa volta in equipaggio con Pruett, Rojas e il vecchio rivale Franchitti, ora compagno in Nascar alla guida della vettura #41. Nelle stock car però le cose non decollano e a parte due buoni piazzamenti a Sonoma e Watkins Glen, sugli ovali l’unica soddisfazione è un secondo posto nella prima corsa di Talladega, chiusa in bandiera gialla. Ne scaturisce un 25° posto finale, davanti a Sorenson, ma è una magra consolazione. Peggio va a Franchitti, mai competitivo, che si infortuna a Talladega ed è costretto ad abbandonare quando il programma #41 termina i fondi.

Seconda vittoria alla 24 ore di Daytona. Eric Gilbert, motorsport,com
Seconda vittoria alla 24 ore di Daytona. Eric Gilbert, motorsport,com

 

Il 2009 vede grosse novità, con la crisi economica che porta alla fusione tra i team Ganassi e Earnhardt. Ne scaturisce un team a due punte, con Montoya a condurre la vettura 42, sponsorizzata dalla Target, e Martin Truex Jr. sulla #1 Bass Pro. La novità più importante del sodalizio e però la Chevrolet Impala portata in dote dal team Earnhardt. Chiusa al secondo posto in volata la 24 ore di Daytona alle spalle della più potente Riley-Porsche di David Donuhue, Montoya si butta sul campionato Nascar e dopo alcune prove il cambio di passo comincia ad apprezzarsi. Il colombiano mette infatti insieme 12 top ten nelle prime 26 gare, qualificandosi come ottavo per la Chase for the Cup, i playoff per determinare il campione. Tra i piazzamenti non figura però quello più importante, Indianapolis, dove il colombiano domina la corsa, prima di ricevere una penalità per un eccesso di velocità in pit lane quasi impercettibile. Finito in mezzo al gruppo, la vettura non si dimostra altrettanto efficace nel traffico, terminando tristemente la giornata in 11° piazza. All’inizio della Chase Montoya sembra seriamente in corsa per il titolo, combattendo alla grande nella prima gara di Loudon con Mark Martin, prima di chiudere terzo dietro anche a Danny Hamlin. Il gran momento di forma prosegue negli appuntamenti successivi, dove il colombiano coglie due solidi quarti posti a Dover e in Kansas, seguiti da un gran terzo posto a Fontana, dove battaglia a lungo con Jimmie Johnson e termina terzo in volata dietro Jeff Gordon. Si presenta quindi a Charlotte al terzo posto in classifica, ma la sua gara è rovinata da un contatto con Martin e una successiva foratura. Si riprende però a Martinsville, dove conduce nelle prime fasi, rimane in zona vittoria per tutta la gara e chiude terzo dietro Hamlin e il solito Johnson. Il colombiano affronta quindi le ultime quattro gare dalla quinta posizione in classifica, ma la rincorsa al titolo si esaurisce a Talladega, dove arriva un 19° posto, e in Texas, dove un incidente con Carl Edwards pone fine ai giochi. Un solido ottavo posto a Phoenix conduce poi a un battibecco con Tony Stewart a Homestead a chiudere malamente una stagione comunque eccellente, in cui Montoya dimostra che nello giuste condizioni è ormai un pilota stock car di buon livello.

Vittoria sfiorata a Indianapolis. brosher.com
Vittoria sfiorata a Indianapolis. brosher.com

 

Nel 2010 da un punto di vista velocistico Montoya e Ganassi dimostrano che le prestazioni viste nel 2009 non sono state un caso, ma mancherà ancora una volta il guizzo finale per portare a casa risultati grossi. Quello che non manca a Jamie McMurray, di ritorno al team Ganassi dopo 4 anni al team Roush. Dopo una 24 ore di Daytona sfortunata, il ritorno sull’ovale della Florida vede un Montoya molto competitivo nella 500 miglia. Il colombiano si perde però nella confusione degli ultimi giri mentre McMurray, invisibile per tutta la gara, viene fuori al momento giusto beffando in volata Dale Earnhardt Jr. e avviando in modo scoppiettante la nuova collaborazione con il team EGR. Montoya chiude invece decimo ed è solo 37° due settimane dopo a Las Vegas, dove si ritira dopo un contatto proprio con il nuovo compagno di squadra. Le cose migliorano presto con il terzo posto di Atlanta, dove rimane tra i protagonisti per tutta la corsa e nel finale insegue a pochi decimi il leader Kurt Busch, quando Edwards decide di mandare per aria Keselowski causando la neutralizzazione della corsa. Alla decisiva ripartenza poi il colombiano rimane sorpreso dal restart un po’ anticipato di Busch, chiudendo terzo beffato anche da Kenseth. Nelle corse seguenti alterna quindi sequenze di ottimi piazzamenti a gare sottotono, portando a casa 6 top ten fino a Indianapolis, che a distanza di 12 mesi rimane amara. Il colombiano domina infatti in maniera similare al 2009, ma nelle ultime battute un errore strategico si rivela decisivo. La scelta cade infatti sul cambio di tutte e quattro le gomme, contro le due di alcuni avversari. Il colombiano si ritrova così nel traffico ed è coinvolto in un incidente negli ultimi giri, mentre il solito McMurray sceglie la tattica corretta, viene fuori al momento giusto e dopo la Daytona 500 porta a casa anche la Brickyard 400. La tanto sospirata vittoria per Montoya arriva comunque due settimane dopo a Watkins Glen, dove il colombiano è protagonista di un entusiasmante duello con Marcos Ambrose, che gli contende a lungo la testa ma alla fine chiude terzo dietro anche a Kurt Busch. Nelle corse successive Montoya conquista poi 4 piazzamenti di fila, non sufficienti però ad aggiudicarsi un posto nella Chase for the Cup. Le ultime gare non offrono particolari sussulti, eccezion fatta per un terzo posto a Talladega, mentre McMurray riesce a centrare il terzo successo stagionale, trionfando a Charlotte. Per Montoya la stagione si chiude con un 17° posto in classifica, 1 vittoria, 14 piazzamenti in top ten e la frustrazione per la mancanza di una vittoria su ovale spesso a un passo, oltre che per i successi di McMurray, meno costante ma in grado di trarre il massimo negli appuntamenti più importanti.

Vittoria a Watkins Glen. Chris Trotman, gettyimages.com
Vittoria a Watkins Glen. Chris Trotman, gettyimages.com

 

Dopo due anni positivi sul profilo delle prestazioni, problemi economici e difficili ristrutturazioni interne comprometteno la competitività della squadra, portando a un triennio di scarsi risultati. Dopo un altro secondo posto alla 24 ore di Daytona, Montoya è protagonista di una buona Daytona 500, che però lo vede perdere il supporto di McMurray in una gara che favorisce i “tandem”. Senza la giusta collaborazione il colombiano non riesce a inserirsi nella volata finale e chiude 6°, cui si aggiungono nelle prime corse un bel terzo posto a Las Vegas dietro Edwards e Stewart e un quarto a Martinsville. Nel resto della stagione l’ex F1 fatica però a mostrarsi competitivo, raccogliendo solo alcuni sporadici piazzamenti, con poca fortuna anche negli stradali. Non va meglio a McMurray, che non va oltre un quarto posto a Indy e la 27° piazza finale, contro la 21° di Montoya. Il 2012 è addirittura catastrofico per il team, che vede i suoi piloti chiudere al 21° e 22° posto in classifica con 4 arrivi in top ten complessivi. Solo la Daytona 500 passa agli annali, ma per un incredibile incidente in regime di pace car in cui la vettura di Montoya finisce ad alta velocità contro un camioncino asciuga pista, causando un enorme incendio che richiede alcune decine di minuti per essere domato. L’episodio, causato ovviamente da un cedimento meccanico, sarà per anni motivo di ilarità tra i tifosi Nascar meno tolleranti con l’invasione straniera cominciata con l’arrivo del colombiano e della Toyota. Il 2013 finalmente da un po’ di speranza, aprendosi con il terzo successo personale alla 24 ore di Daytona in equipaggio con Pruett, Rojas e Charlie Kimball. In Nascar, pur non migliorando in classifica finale, Montoya porta a casa 7 piazzamenti in top ten, chiude alle spalle di Stewart a Dover (nonostante una polemica con Johnson per una ripartenza controversa) e soprattutto va vicinissimo al successo a Richmond, dove conduce negli ultimi giri incalzato da Harvick, quando una bandiera gialla rimette tutto in discussione. La sosta per gomme fresche lo spedisce quindi nel traffico, dove Montoya non trova il corridoio giusto, dovendosi ancora una volta accontentare, questa volta di un quarto posto. Un altro bel podio arriva poi a Bristol, al termine di una rimonta da una penalità nelle prime fasi. Il colombiano chiude quindi il campionato al 21° posto, un po’ staccato da McMurray, la cui stagione ugualmente modesta è però impreziosita da un liberatorio successo a Talladega. A metà stagione intanto il team Ganassi informa Montoya dell’intenzione di lasciarlo libero al termine del contratto. Stanco di lottare nelle retrovie e desideroso di ricominciare a vincere, il colombiano inizialmente considera un passaggio al team Forniture Row, reduce da una brillante stagione con Kurt Busch, per poi guardare nuovamente alle ruote scoperte, snobbate per anni e tornate improvvisamente tra i suoi interessi. In particolare Montoya contatta Roger Penske, che si dice subito interessato a schierare stabilmente la vettura #2 guidata saltuariamente da AJ Allmendinger. Anche Michael Andretti si fa vivo per sondare la disponibilità dell’ex rivale, ma Montoya punta esclusivamente alla vettura del Capitano, che nel settembre 2013 annuncia un accordo triennale in IndyCar.

Vittoria sfiorata a Richmond. cupscene.com, Todd Warshaw/Getty Images
Vittoria sfiorata a Richmond. cupscene.com, Todd Warshaw/Getty Images

 

Fin dai primi test il ritorno alle monoposto si dimostra difficile, soprattutto a causa delle enormi differenze negli spazi di frenata e nell’aderenza in curva garantita dalle ali. Sugli ovali invece il colombiano si dimostra subito abbastanza a suo agio, soprattutto nelle piste più veloci. Le prove pre campionato sullo stradale di Barber illudono tifosi e addetti ai lavori, ma al primo appuntamento di St. Pete il risveglio è traumatico. Montoya, che mai aveva provato la mescola Firestone morbida, si qualifica nelle retrovie e in gara subisce sorpassi un po’ da tutti, portando la vettura al traguardo al 15° posto. Il secondo appuntamento va in scena a Long Beach e nonostante una qualifica non entusiasmante il colombiano attua una paziente progressione in gara, ingaggia una spettacolare battaglia con Munoz ed è poi bravo a evitare il disastro innescato da Hunter-Reay, chiudendo la corsa al quarto posto dietro il giovane connazionale. Il terreno amico di Barber, unito alla pioggia che cade copiosa, gli permettono nella corsa successiva di dare sfogo alla sua sensibilità e abilità nel sorpasso. Partito a centro gruppo il colombiano si porta in breve tra i primi, inanellando una spettacolare sequenza di sorpassi all’esterno nell’ultima curva. Potrebbe giocarsi la vittoria, ma in una chicane veloce la reazione a una sbandata improvvisa di Dixon scompone la sua Dallara, che finisce nella sabbia perdendo un giro. Dopo una rimonta spettacolare nelle prime fasi del GP di Indy, problemi tecnici e un contatto maldestro con Rahal lo relegano al 15° posto. Segue la Indy500, che per metà gara lo vede risparmiare carburante nel tentativo di completare la distanza con una sosta in meno dei rivali. Una penalità per eccesso di velocità in pit lane rovina però la strategia, costringendolo a una rimonta che nel finale non va oltre il quinto posto, frenato da un insufficiente adattamento della vettura alle condizioni della pista. Il dual in Detroit non regala particolari soddisfazioni, evidenziando ancora un passo gara non ottimale sui cittadini, mentre il super speedway del Texas lo vede beffare sulla distanza Dixon e Kanaan per cogliere un ottimo terzo posto. Segue un fortunoso secondo posto nella prima corsa di Houston, propiziato da un azzardo strategico premiato dai tanti incidenti nel finale. È invece settimo nella seconda gara, non riuscendo a prevalere nelle ultime battute su un coriaceo Jack Hawksworth. Il ritorno al successo arriva come prevedibile in una 500 miglia, a Pocono, dove nel finale Montoya sale in cattedra, supera abilmente i compagni di squadra e si invola verso il primo successo su ovale da St. Louis 2000. Una buona prova in Iowa è invece rovinata da un contatto incolpevole con Carpenter, che lo spedisce a muro. Male va anche a Toronto dove il colombiano, mai competitivo, colleziona due incidenti, mentre Mid Ohio porta solo un 11°. Un bel podio a Milwaukee, dove Juan Pablo vince un lungo duello con Kanaan dovendosi però accontentare del secondo posto dietro Power, apre poi un buon finale di stagione. Sonoma vede infatti progressi sugli stradali permanenti, con un quinto posto frutto di diversi sorpassi, cui segue la quarta piazza di Fontana, dove Juan comanda le prime fasi ma è frenato dalla rottura del weight jacker, che gli impedisce ogni regolazione di assetto dall’abitacolo. Il colombiano chiude quindi la sua prima stagione al quarto posto in classifica, risultato  per certi versi falsato dal punteggio doppio attribuito nelle 500 miglia, che maschera le notevoli difficoltà incontrate su stradali e cittadini. Durante l’estate il team Penske schiera una vettura per Montoya anche nelle corse Nascar di Michigan e Indianapolis, dove il colombiano non va oltre un 18° e un 23° posto.

Terzo successo in una 500 miglia a Pocono. f1fanatic.com
Terzo successo in una 500 miglia a Pocono. f1fanatic.com

 

Con una stagione di acclimatamento alle spalle, per il 2015 Montoya è atteso, stavolta a buon diritto, tra i principali candidati al titolo, pur rimanendo delle riserve sul suo adattamento alle gomme “rosse”. I dubbi sembrano dissipati a St. Pete, dove il colombiano bracca Power, lo supera (complice un problema a una gomma) durante l’ultimo turno di soste e resiste ad un ultimo disperato attacco per cogliere il primo successo stagionale. Dopo prove difficili la pioggia fa cancellare le qualifiche sul nuovo stradale di New Orleans, garantendo a Montoya la partenza al palo. Nelle prime battute il colombiano conduce sul bagnato, ma presto la pioggia e una sconcertante sequenza di incidenti trasformano la competizione in una farsa, dalla quale l’ex F1 esce con un quarto posto. È poi terzo a Long Beach, bravo a tenere dietro una muta di avversari ma incapace di contrastare Dixon e Castroneves per la vittoria. Una brutta qualifica e qualche contatto di troppo in gara portano solo a un 14° posto a Barber, cui segue il podio dell’Indy GP al termine di una prova solida. Arriva quindi la Indy 500, che inizia malissimo per il colombiano, partito nelle retrovie e tamponato da Simona De Silvestro durante una neutralizzazione. Quando la bandiera verde sventola Montoya si ritrova ultimo, ma inizia lentamente a scalare la classifica, giungendo ai pieni alti quando la gara entra nella fase decisiva. All’ultima ripartenza il tutto si risolve in una sfida finale con Power e Dixon, che Montoya supera mettendo addirittura due ruote sull’erba. Tra sorpassi e controsorpassi, a 5 giri dalla fine il colombiano si ritrova terzo, ma dopo un clamoroso sovrasterzo in curva 2 trova lo slancio giusto per passare in tre curve prima Dixon e poi Power. L’australiano lo bracca fin sotto il traguardo, ma quando Montoya esce per l’ultima volta dalla curva 4 sa che nessuno può più riprenderlo, lasciandosi andare a delle urla selvagge via radio. Per il colombiano arriva quindi il secondo successo al Brickyard, che in virtù dei doppi punti lo lancia ancora di più in chiave titolo.

Due gare positive ma sfortunate sulle strade umide di Detroit portano solo due decimi posti, ma data l’inconsistenza dei principali rivali, Montoya imposta le corse successive sulla costanza, massimizzando il risultato senza correre rischi eccessivi. In Texas il team Ganassi centra una doppietta, ma a Fontana e Milwuakee Montoya guadagna punti preziosi su Dixon con altri due quarti posti. Anche un incidente per cedimento meccanico in Iowa è poi alleviato da una sorte simile per il rivale, che perde punti anche a Toronto. A Mid Ohio Juan è in difficoltà fin dalle prove, ma una bandiera gialla a metà gara rovina la gara del dominatore Dixon, spedendo il colombiano in avanscoperta. Un testacoda sospetto di Karam, compagno di Dixon, ribalta però la situazione, regalando un quarto posto al neozelandese e rispedendo Montoya fuori dalla top ten. L’ultima 500 miglia di Pocono, funestata dalla scomparsa di Justin Wilson, vede Montoya venire fuori al momento giusto e contendere la vittoria nel finale, congelato dalla rottura del motore di Chaves. Il colombiano porta comunque a casa un terzo posto, che sommato al ritiro di Rahal e al nono posto di Dixon lo fanno arrivare all’ultimo appuntamento con 34 punti sull’americano e 47 sul neozelandese. Sonoma, come Indianapolis, regala però punteggio doppio, rendendo possibili anche clamorosi capovolgimenti di fronte. Montoya si qualifica davanti ai rivali, occupando inizialmente il quarto posto davanti a Dixon, in furiosa rimonta nei primi giri. Tutto cambia però a metà gara, quando una bandiera gialla sfortunata spedisce i primi in fondo al gruppo, con Power e Montoya a seguire Dixon. La situazione sarebbe ancora gestibile, ma uno sfortunato contatto tra compagni di squadra danneggia l’ala anteriore del colombiano, costringendolo a un’ulteriore sosta. Mentre Dixon prosegue fino a raggiungere il comando e conquistare i punti bonus disponibili, Montoya rimonta fino al settimo posto, sufficiente solo a pareggiare i punti del neozelandese, che vincendo a Sonoma raggiunge quota tre successi contro i due del colombiano. Dopo aver condotto il campionato fin da St. Pete, Montoya si vede quindi soffiare il titolo all’ultima corsa. Titolo che sarebbe stato suo per 8 punti senza l’insensata, ma da tutti accettata, regola dei punti doppi.

Duello con Power a Indianapolis. Racer.com
Duello con Power a Indianapolis. Racer.com

 

A fine stagione Montoya prova la Porsche 919 LMP1. motorsport.com Porsche AG
A fine stagione Montoya prova la Porsche 919 LMP1. motorsport.com Porsche AG

 

Determinato a fare giustizia di un titolo perso più per le regole cervellotiche che per i valori espressi in pista, Montoya si presenta a St. Pete in gran forma, soffiando il comando a Pagenaud con un gran sorpasso all’esterno per centrare il secondo successo consecutivo nelle strade della Florida, nonostante uno sterzo che negli ultimi giri diventa sempre più ingestibile. Una foratura a inizio gara lo esclude però subito dalla lotta a Phoenix, dove chiude nono, mentre in una replica della corsa 2015 termina 4° a Long Beach. Partito dalle retrovie a Barber, è poi bravo a risalire fino al quinto posto senza l’aiuto di bandiere gialle, concludendo poi ottavo nel GP di Indy a causa di un’infrazione in pit lane. Dopo prove promettenti la Indy500 lo vede però primo dei ritirati, quando perde il controllo della vettura in curva 2, abbandonando prima di metà gara. È la svolta della stagione per Montoya, che da qui in poi fatica a mettere insieme un fine settimana privo di intoppi. Dopo un buon terzo posto in gara 1 a Detroit, al termine di un duro confronto con Power e Pagenaud, gara 2 lo vede infatti rovinare l’ala anteriore contro Dixon e poi impattare contro il muro in un improvviso sovrasterzo di potenza. Delle qualifiche mediocri non lo fanno andare oltre un sudato 7° posto a Road America, seguito da un ritiro con motore in fumo in Iowa e uno sfortunato 20° posto a Toronto, dove il colombiano sbatte violentemente nelle prove, sopravvive a una tamponata a Newgarden, infila una grandiosa serie di sorpassi ma rimane poi imbottigliato incolpevolmente dietro la vettura incidentata di Hawksworth, perdendo un giro. La stessa velocità non si nota però nelle quattro corse successive, che portano altrettanti piazzamenti attorno alla top ten e precedono la convincente prova di Sonoma, dove Montoya torna a qualificarsi nei piani alti della classifica, terminando la corsa al terzo posto dietro Pagenaud e Rahal.

Vittoria nella prova d'apertura a St.Pete. gmauthority.com
Vittoria nella prova d’apertura a St.Pete. gmauthority.com

 

Una stagione positiva all’inizio con un imprevedibile flessione dopo Indy, vede quindi il colombiano piazzarsi all’8° posto in classifica. Questo, unito a un contratto in scadenza e all’arrivo non più procrastinabile di Josef Newgarden, non lasciano scelta a Roger Penske e Tim Cindric, che per il 2017 possono offrire a Montoya solo un programma part time incentrato sul mese di maggio, con la prospettiva di un impegno a tempo pieno nel 2018 nel nuovo programma IMSA. In assenza di sedili potenzialmente vincenti, il colombiano accetta il programma a lungo termine prospettatogli da Penske e a dicembre partecipa per la prima volta alla Corsa dei Campioni, svolta in casa a Miami, dove si laurea immediatamente campione nel concorso individuale, battendo in finale Tom Kristensen. Dopo aver svolto diversi test nei primi mesi del 2017, si presenta in forma per il Gp di Indy, dove in contrapposizione a quanto osservato negli anni precedenti, si qualifica bene ma non è altrettanto efficace nella gara, che chiude 10°. Seguono due settimane sofferte di prove a Indy per la Penske, con il pacchetto Chevy in difficoltà rispetto alla Honda. Stando fuori dai guai il colombiano riesce comunque a portare a termine una buona gara, chiudendo al sesto posto. Nei mesi successivi è poi scelto come tester, al fianco di Oriol Servia, per portare al debutto la nuova aerodinamica unica che la serie adotterà dal 2018. In agosto arriva infine l’annuncio del suo impegno in IMSA nel 2018 con la Penske, alla guida della Acura DPi al fianco del due volte campione Dane Cameron.

Campione dei campioni 2016. automoto,it
Campione dei campioni 2016. automoto,it

 

Indy 2017. Scott R LePage, Lat Images, motorsport.com
Indy 2017. Scott R LePage, Lat Images, motorsport.com

 

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L GPV
1999 CART Ganassi 4 Target 20 1 212 7 9 10 13 7 954 15 6
2000 CART Ganassi 1 Target 20 9 126 3 4 5 9 7 819 11 nd
2000 IRL Ganassi 9 Target 1 25 54 1 1 1 1 0 167 1 nd
2014 IndyCar Penske 2 PPG 18 4 586 1 4 8 9 1 167 6 2
2015 IndyCar Penske 2 Verizon 16 2 556 2 5 9 13 2 145 8 1
2016 IndyCar Penske 2 Verizon 16 8 433 1 3 5 10 123 5 0
2017 IndyCar Penske 22 Fitzgerald 2 24 93 0 0 0 2 0 1 1 0
          93   2060 15 26 38 57 17 2376 47  
LL: Numero di giri condotti in testa

L: Numero di gare condotte in testa

GPV: Giri più veloci

Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1999 Long Beach Nazareth Rio Cleveland Chicago Vancouver Mid Ohio 2 2 3 7
2000 Indy500  Milwaukee Michigan St. Louis 0 0 4 4
2014 Pocono 0 0 1 1
2015 St. Pete Indy500 0 1 1 2
2016 St. Pete 0 1 0 1
2017 0 0 0 0
Totale 2 4 9 15
Quote 13,3% 26,7% 60,0% 100,0%

JP Montoya

Foto di copertina: Peter Burke, champcar.com – 1999

Paul Tracy

Nome: Paul Anthony Tracy

Data e luogo di nascita: 17 dicembre 1968, Scarborough (Ontario, Canada)

Nazionalità: Canadese

Ruolo: Pilota, Giornalista

In una recente intervista a tre condotta da Robin Miller, il protagonista della nostra storia ha detto: “Ho sempre corso con le parole di mio padre nelle orecchie <<se non riesci a vincere, cerca almeno di essere spettacolare!>>. E così Paul Tracy ha impostato la sua carriera: senza calcoli, sempre all’attacco. Per vent’anni è stato il pilota che valeva sempre il prezzo del biglietto, alternando sorpassi straordinari a errori incredibili. “The thrill from West Hill” aveva la rara capacità di potersi far amare e odiare nella stessa gara. Sudditanza e timore reverenziale sono parole che non hanno mai fatto parte del suo vocabolario. Che si trattasse di discutere con Roger Penske, spintonarsi con Barry Green o litigare con Michael Andretti, Paul Tracy ha sempre fatto le cose a modo suo, diventando un personaggio assolutamente imprescindibile nel panorama CART/ChampCar.

Paul Tracy nasce il 17 dicembre 1968 a Scarborough, nei pressi di Toronto. Fin da piccolo frequenta le piste di kart del circondario, mettendosi in luce nei campionati regionali e classificandosi sesto nel mondiale kart del 1984. L’anno dopo fa il salto nelle monoposto, correndo in Formula Ford in cui conquista il titolo nazionale, diventando il più giovane vincitore di sempre, all’età di 16 anni. Nel 1986 passa in Formula 2000, cogliendo una vittoria a Sanair, per poi debuttare a fine stagione nel campionato CanAm, in cui vince l’ultima corsa sul circuito di Mosport al volante di una Fresbee-Chevrolet, diventando il più giovane vincitore di sempre nella categoria, all’età di 17 anni. Di quell’esperienza Tracy dirà: ”Fino ad allora avevo guidato una F.Ford 2000 con 150 cavalli di potenza. Mi trovai nella prima sessione di prove a Mosport, sul bagnato, con circa 600 cavalli da domare. Andò tutto a meraviglia, ma forse quella fu una cosa che non avrei dovuto fare…eppure mi buttai nella mischia e vinsi. Fu così che molti si accorsero di me”.

Nel 1988 passa in IndyLights con il team Hemelgarn, vincendo all’esordio a Phoenix. Ritiri e vari piazzamenti gli valgono il nono posto in campionato. L’anno dopo la famiglia Tracy decide per un team a conduzione famigliare, scelta disastrosa da un punto di vista finanziario e di risultati. Paul si era comunque fatto notare nelle stagioni precedenti e nel 1990 passa al Brian Stewart Racing. Con un mezzo all’altezza domina la scena, conquistando 7 pole positions, 9 vittorie e il titolo. I risultati ottenuti non bastano però a garantirgli nel ’91 un posto in pianta stabile in IndyCar. Dopo alcuni test effettuati col team Truesport, il padre di Tracy chiede un’ipoteca sulla casa per pagare la vettura di Dale Coyne a Long Beach, convinto che basterà una sola uscita al suo rampollo per mettersi in luce. Paul ottiene un ottimo 13° tempo in qualifica, ma la corsa finisce amaramente dopo pochi giri a causa di un guasto. Lo sconforto pervade il muretto del team Coyne, ma in pochi minuti la carriera di Tracy cambia per sempre.

Roger Penske, il più importante proprietario di team del nord America, ha infatti notato le doti del giovane canadese e gli offre un contratto da collaudatore, con la possibilità di disputare alcune corse e la speranza di subentrare, prima o poi, a uno dei piloti titolari. La Penske, a differenza di quasi tutte le altre squadre, costruisce i propri telai e cura lo sviluppo dei motori, cosa che necessita di numerose giornate di test. Tracy sale quindi in macchina con regolarità, conoscendo la vettura e facendo esperienza. A Michigan poi, arriva la grande occasione. Roger Penske decide di schierare per la Marlboro 500 una terza macchina per Tracy, un PC-19 dell’anno precedente decorata con i colori Mobil. Il canadese si qualifica in mezzo al gruppo ma termina la sua gara contro il muro della curva 4 dopo pochi giri. L’incidente è piuttosto violento e Tracy riporta anche una frattura alla gamba destra. Nello stesso anno Paul partecipa anche alle corse di Nazareth, dove raccoglie un settimo posto, e Laguna Seca, dove si ritira.

Il 1992 dovrebbe essere un’altra stagione di test e qualche gara, ma a Indianapolis le cose cambiano. Rick Mears, pilota titolare del team, nelle prove sbatte violentemente contro il muro della curva 2 a causa di una perdita dai radiatori, riportando la frattura del polso destro. Il pilota americano meditava già da tempo il ritiro e, pur ufficializzando la sua decisione solo alla fine del ’92, in quella stagione correrà solo altre cinque gare, tra cui Indianapolis e Michigan. Nelle altre corse viene sostituito da Paul Tracy, che fino a quel momento aveva corso solo a Phoenix, cogliendo un buon quarto posto.

La seconda uscita stagionale del canadese è prevista proprio per la Indy500, dove porta in pista la vettura guidata da Mears nel ’91. Dopo aver gravitato per metà gara nella top ten, la corsa finisce contro il muro della curva 1 a causa della rottura del motore. La domenica successiva a Detroit, al volante per la prima volta in corsa di una vettura decorata con i colori Marlboro,  Tracy si impone all’attenzione generale. Dopo aver preceduto Fittipaldi in prova, il canadese è infatti protagonista nel finale di gara di un esaltante duello, il primo di una lunga serie, con Michael Andretti per la testa della corsa. I due si scambiano diverse ruotate, avvantaggiando Bobby Rahal, che li passa entrambi e va a vincere. Tracy, ripassato da Andretti, non arriva però alla bandiera a scacchi a causa di un guasto alla sua Penske-Chevrolet.

Mears ritorna per le tre corse successive, constatando che gli stradali sono troppo impegnativi per le precarie condizioni del suo polso. L’americano correrà solo a Michigan per l’ultima 500 miglia della carriera. A Toronto, nel terreno di casa, è quindi nuovamente la volta di Tracy al volante della Penske numero 4. In Canada e nelle corse successive Paul si conferma velocissimo in prova, mettendo alle strette Fittipaldi, che però ha quasi sempre la meglio in gara, in virtù di assetti più competitivi. Tracy è ancora troppo irruento e poco dedito alla messa a punto, nonostante i libri degli assetti siano aperti per entrambi i piloti. Sarà Rick Mears, dopo aver espresso un lapidario “too soon too fast”, che negli anni seguenti lavorerà con alterne fortune sulla sua gestione tecnica e strategica, cercando di instillare nel canadese l’approccio per certi versi paziente e attendista necessario per vincere in IndyCar, in particolar modo sugli ovali. Tracy tende infatti a sprecare numerose opportunità per eccesso di foga, un’attitudine che ne caratterizzerà tutta la carriera. In quel ’92 i risultati arrivano quindi a corrente alternata, con numerosi ritiri per errori e guasti della vettura. Il canadese riesce comunque a conquistare la pole a Road America, un secondo posto a Mid Ohio, alle spalle di Fittipaldi, oltre alla terza piazza di Nazareth.

La corsa più positiva dell’anno è però Michigan. Al volante di una Penske ufficiale ma coi colori Mobil, Tracy lotta per la vittoria senza alcun timore reverenziale. Per tutta la gara tiene alto il nome della Penske, surclassando Mears e Fittipaldi e lottando per la testa con gli Andretti e Scott Goodyear. Sarà poi quest’ultimo ad avere la meglio, vendicando il secondo posto di Indianapolis. Tracy raccoglie comunque un grandioso secondo posto, dovendo però incassare nel dopo gara la sfuriata di Al Unser Jr, che lo accusa di aver ripetutamente cambiato traiettoria in pieno rettilineo. Una manovra difensiva pericolosa in super speedway velocissimi come Michigan e Indianapolis.

Laguna Seca. pinterest.com; David Jewkes
Laguna Seca. pinterest.com; David Jewkes

 

Nonostante lo scetticismo generale e il test a sorpresa di Ayrton Senna, Roger Penske conferma Tracy per il 1993 nell’abitacolo più ambito dell’IndyCar. La nuova stagione si presenta in modo molto diverso dal passato. Michael Andretti va in Formula 1 lasciando il posto a Nigel Mansell, che fin da subito si impone come pretendente al titolo. Bobby Rahal, campione in carica, sceglie di correre con un telaio autocostruito, ma dovrà fare dietrofront a metà stagione per scarsi risultati mentre Al Unser Jr. e il team Galles non sono in grado di lottare per il titolo. Il campionato si sviluppa quindi sul duello tra Mansell e le due Penske di Tracy e Fittipaldi, con Boesel che punta sulla costanza per rimanere attaccato al treno di testa.

La stagione si apre a Surfers Paradise, dove Mansell coglie la pole e vince in modo rocambolesco, con Tracy fuori dai giochi dopo pochi giri con un semiasse ko, dopo aver sopravanzato l’inglese nelle prime battute. Nell’appuntamento successivo a Phoenix, con Mansell out per un bruttissimo incidente in prova, Tracy domina compiendo spettacolari sorpassi all’esterno. Quando però Roger Penske chiede al canadese di non prendere rischi eccessivi dato il cospicuo vantaggio (2 giri) sugli inseguitori, Tracy perde il ritmo e va a muro per un errore nel doppiaggio di Vasser. A Long Beach si ripete il copione visto in Australia, con Mansell in pole passato subito dalle Penske. Tracy prende il comando ma una foratura lo costringe subito a cambiare strategia. Approfittando di problemi ai principali avversari e attuando una furiosa rimonta, il canadese però recupera conquistando la sua prima vittoria in IndyCar, a 25 anni.

La corsa ha un antefatto tragicomico. Dopo essersi attirato le ire del team per l’incidente a Phoenix, Paul si reca in California con l’amico pilota Mark Smith. In una corsa di kart particolarmente combattuta i due entrano in contatto, cosa che porta al decollo i rispettivi mezzi. Entrambi lamentano numerose escoriazioni e si presentano sul circuito cittadino piuttosto malconci. Alcune ferite di Tracy arrivano fino all’osso, impressionando gli astanti. Il canadese riesce comunque a tenere nascosta la cosa a patron Roger, trionfando la domenica e facendosi perdonare per la stupidaggine commessa a Phoenix.

A Indianapolis la Penske si presenta determinata a cancellare il disastro del ’92, ma in qualifica Tracy e Fittipaldi non vanno oltre la terza fila, divisi da Mansell. In gara Tracy colpisce il muro della curva 3 in un duello con Scott Brayton, mentre Fittipaldi trionfa avendo la meglio negli ultimi giri su Luyendyk e Mansell. La stagione del canadese prosegue tra alti e bassi. A Milwaukee comanda la gara, ma è coinvolto suo malgrado nel contatto tra Luyendyk e Fernandez. A Detroit passa Mansell in partenza e prende la testa dopo la penalità di Fittipaldi, ma termina solo nono per una strategia sbagliata.  Portland lo vede poi impegnato in un lungo confronto con Mansell e Fittipaldi, che però lo precedono sul traguardo in una corsa caratterizzata delle mutevoli condizioni climatiche.

Cleveland segna quindi la prima pole dell’anno davanti a Fittipaldi, Mansell e alla Penske privata di Johansson, a testimonianza del grande momento di forma delle vetture del Capitano. In gara Mansell passa a condurre nelle prime fasi, ma è Tracy poco dopo a prendere il largo e andare a vincere, mentre dietro Fittipaldi e l’inglese battagliano a lungo per la piazza d’onore. Nell’appuntamento successivo di Toronto Fittipaldi nega poi al canadese la pole in casa, ma è ancora Tracy a dominare la seconda metà gara, cogliendo la terza vittoria stagionale che sembrerebbe lanciarlo come principale sfidante di Mansell. Dopo il ritiro in Canada però, l’inglese e il team Newman Haas si rilanciano prepotentemente con una perentoria vittoria nella Michigan500, dove le Penske navigano nelle retrovie.

Il duello riprende nella corsa successiva sull’ovale corto di Loudon, che si risolve in una lunga ed avvincente battaglia tra Mansell e le Penske. Con Fittipaldi poco lontano, nel finale Mansell e Tracy percorrono diversi giri a stretto contatto, spesso affiancati, con i doppiati che impongono le traiettorie. A tre giri dal termine Mansell trova però lo spunto decisivo, resistendo agli attacchi finali del canadese, che chiude secondo. La sfida tra i due prosegue quindi a Road America, dove però Tracy mette subito le cose in chiaro, conquistando la pole e conducendo la corsa in ogni fase, precedendo Mansell sul traguardo. Di nuovo in casa a Vancouver, Tracy parte dalla seconda fila ma in breve si libera alla grande di Rahal e Goodyear per prendere la testa. Un altro problema tecnico gli nega però una vittoria fondamentale in chiave titolo. Mansell infatti si piazza quinto davanti a Fittipaldi e comanda con margine la classifica.

Potrebbe vincere il titolo già nella corsa successiva a Mid Ohio, dove parte in pole davanti a Tracy che però lo sfila all’esterno alla prima curva. Le vetture si toccano e Mansell ne ricava un danno alla sospensione che gli fa perdere due giri. Tracy prosegue indisturbato, scavando un enorme divario rispetto a  Fittipaldi per mettersi al riparo da eventuali ordini di scuderia. La foga ancora una volta gli gioca però un brutto scherzo, perchè a metà gara un’incomprensione nel doppiaggio di Pruett lo spedisce dritto contro le gomme. Per Tracy è la fine delle speranze di titolo. Mansell domina infatti a Nazareth, aggiudicandosi la PPG Cup con una prova d’anticipo. La stagione di Tracy termina con un terzo posto nell’ovale della Pennsylvania, seguito da una schiacciante vittoria a Laguna Seca.

Il canadese chiude quindi con cinque vittorie, come Nigel Mansell, tutte ottenute su circuiti stradali e cittadini. All’appello mancano le due vittorie gettate al vento a Phoenix e Mid Ohio e i punti persi a Milwaukee, Surfers Paradise e Vancouver, che avrebbero sicuramente permesso a Tracy di lottare fino alla fine con Mansell e, forse, vincere il titolo.

Davanti a tutti a Vancouver.
Davanti a tutti a Vancouver.

 

Nel 1994 il panorama IndyCar cambia ancora. Dietro pressione della Marlboro, Roger Penske amplia la sua operazione, schierando tre vetture: due per i confermati Fittipaldi e Tracy più una terza per Al Unser Jr. . Michael Andretti torna in IndyCar dopo la deludente esperienza F1, alla guida della Reynard-Ford del team Ganassi e in IndyCar si affacciano prepotentemente anche i volti nuovi di Robby Gordon e Jacques Villeneuve. La Penske ha però un asso nella manica, la nuova PC-23 dotata del motore Ilmor, versione aggiornata del propulsore Chevrolet. In uno scenario che si annuncia altamente competitivo, Tracy è considerato tra i principali candidati al titolo, pur restando dubbi sulla sua tenuta mentale, considerando i tanti punti persi per errori gratuiti nella stagione precedente.

A Surfers Paradise il canadese da subito materiale ai suoi critici, perdendo diversi giri dopo un contatto con le barriere al primo passaggio, con la pista resta viscida dalla pioggia. Le corse successive non vanno meglio, pregiudicando le speranze di titolo. A Phoenix Tracy parte in pole e domina la corsa, fino a quando non rimane coinvolto nel maxi incidente tra Matsushita, Fabi e Villeneuve.  Long Beach vede un dominio Penske con Tracy in pole, ma a metà gara la sua vettura accusa problemi ai freni che inducono due testacoda e infine il ritiro. Arriva quindi Indianapolis, dove la PC-23 è accoppiata a un motore Mercedes ad aste e bilancieri appositamente studiato per la 500 miglia. L’accelerazione garantita dal motore tedesco è spaventosa e in gara le vetture bianco rosse fanno il vuoto, con Unser e Fittipaldi che fanno il bello e il cattivo tempo. Tracy è invece azzoppato da un violento incidente nelle prove che lo condiziona per tutto il mese di maggio. In gara non brilla e alla fine problemi al motore lo costringono al ritiro.

A Milwaukee è poi terzo dietro Unser e Fittipaldi, completando un’incredibile tripletta Penske. Le cose cambiano finalmente a Detroit, dove Paul si fa perdonare un contatto con Unser vincendo la prima corsa dell’anno, la quarta per il team. E’ terzo negli appuntamenti seguenti di Portland e Cleveland, ma chiude solo al quinto posto a Toronto, dopo aver perso un giro per un contatto nelle prime fasi. Come l’anno precedente, poca fortuna ci sarà anche a Michigan.

A Mid Ohio si rivede il Tracy dominatore, ma anche stavolta qualcosa va storto. La corsa vive infatti sul duello tra Paul e Unser, con il canadese che conduce fin dal via, fino a quando un doppiaggio in fase di bandiere gialle non gli costa una penalità. In realtà il canadese è costretto a effettuare la manovra in quanto il doppiato che lo precedeva arriva lungo al tornante key hole. I commissari sono però molto fiscali nel giudicare l’episodio e tolgono a Tracy la prima posizione, con Unser che guida l’ennesima tripletta Penske davanti a Paul e Fittipaldi. Lo stesso ordine di arrivo si ripete a Loudon, mentre a Vancouver Tracy è costretto al ritiro da una toccata di Michael Andretti mentre i due lottano per il podio.

Il periodo chiaroscuro prosegue a Road America, dove Tracy parte al palo e domina fino alle battute finali, quando problemi tecnici lo costringono a cedere a Villeneuve e poi a ritirarsi. Intanto Roger Penske ha già comunicato ai suoi piloti l’intenzione di schierare due sole vetture nel ’95. Con Unser che, al termine di una stagione trionfale, conquista il titolo proprio a Road America, il secondo sedile sarà assegnato al pilota che si piazzerà alle sue spalle. Tracy vince in scioltezza le ultime due prove di Nazareth e Laguna Seca, ma la regolarità di Fittipaldi garantisce al brasiliano il posto d’onore in classifica e quindi il sedile in casa Penske per il 1995.

Nell’autunno del ’94 intanto Tracy viene invitato a provare la Benetton F1 in un test all’Estoril. Alla prima presa di contatto con una Formula 1 il canadese viaggia sui tempi dei compagni di Schumacher, ma il contratto propostogli da Flavio Briatore non gli garantisce niente di concreto. Paul finisce quindi per accettare l’offerta del team Newman Haas, andando ad affiancare Michael Andretti nella squadra ufficiale Lola-Ford.  Da un top team all’altro per il giovane canadese, che negli anni si è guadagnato i soprannomi di “The Thrill from West Hill” per il suo stile arrembante e spettacolare, ma anche “Wall Tracy”, per l’eccessiva tendenza all’incidente.

Indianapolis. 8w.forix.com; photo HG
Indianapolis. 8w.forix.com; photo HG

 

Il team Newman Haas nel 1995 sembra avere tutto per puntare all’accoppiata titolo-Indy500, con due piloti giovani, aggressivi ma ormai esperti. Dopo i tre anni alla Penske a scuola da Rick Mears, per Tracy la convivenza con Andretti viene vista come un esame di maturità. In realtà l’americano si dimostrerà il pilota più veloce del campionato ma, tra errori e contrattempi talvolta grotteschi, porterà a casa meno di Tracy, che coglie due vittorie ma non è mai realmente in lotta per il titolo.

La stagione, tanto per cambiare, parte con risultati contraddittori. A Miami Tracy finisce infatti subito contro il muro mentre naviga in zona podio. Si rifà però in Australia, dove coglie il successo approfittando dei problemi al cambio di Andretti. Un buon quarto posto a Phoenix gli permette di conservare la testa della classifica, ma a Long Beach gli incidenti ricominciano. Partito in prima fila, si ritira infatti dopo un evitabile contatto con De Ferran mentre lotta per il terzo posto.

A Nazareth la bella rimonta in pochi giri dal 15° al 7° posto viene invece vanificata da un contatto con Vasser, che lo manda a muro senza troppi complimenti. Indianapolis allunga poi la lista delle delusioni: senza aver mai trovato un assetto competitivo nonostante una buona qualifica, si ritira a metà gara col motore muto. La rivincita arriva come sempre a Milwaukee, dove rimonta da centro gruppo con spettacolari sorpassi multipli all’esterno, uscendo vincitore da un lungo duello con Al Unser Jr., risolto con un sorpasso tra i doppiati negli ultimi giri. Si susseguono poi gare contrastanti e sfortunate.

Dopo aver comandato le prime fasi, chiude ottavo a Detroit scavalcato da Unser e Andretti e frenato da una strategia sbagliata. A Portland è poi a lungo secondo dopo un bel sorpasso su Villeneuve, quando la macchina lo lascia a piedi. Nonostante un piede molto dolorante per un incidente in prova, Road America lo vede quindi emergere dal centro gruppo a suon di sorpassi, che gli valgono un eccellente secondo posto alle spalle dello stesso Villeneuve, Un maldestro attacco a Gugelmin nelle prime fasi di gara lo relega però all’ottavo posto a Toronto e poca gloria arriva anche da Cleveland e Michigan: in Ohio è Ribeiro a piegargli una sospensione in partenza mentre nella 500 miglia è la macchina a lasciarlo a piedi.

Grazie anche al ritiro di Andretti nelle ultime fasi, Mid Ohio vede quindi Tracy conquistare un secondo posto dietro Unser al termine di una corsa d’attacco. La stagione si chiude con un ritiro a Loudon, un piazzamento a Vancouver e il secondo posto a Laguna Seca dietro Gil De Ferran. Paul chiude così il campionato al sesto posto, otto punti dietro Andretti ma con una vittoria in più. Troppo poco per una squadra che ha messo in mostra il potenziale per vincere praticamente ogni gara. Roger Penske decide comunque di riprendere in squadra Tracy al posto di Emerson Fittipaldi, solo 11° in campionato, che continuerà però a correre con una Penske-Mercedes nel team di Carl Hogan. Tra i motivi del ritorno, la mancata qualificazione delle Penske a Indianapolis, onta che le doti di collaudatore di Tracy avrebbero forse aiutato a evitare.

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All’esterno di Herta e Johansson a Phoenix. racer.com; Marshall Pruett, 1995

 

Nel 1996 la Penske schiera quindi due Penske-Mercedes-Goodyear nel campionato IndyCar privo della Indy500, facente ora parte del calendario IRL. Sarà questa la prima stagione in cui, dopo le avvisaglie avute proprio a Indianapolis nel ’95, i telai costruiti a Poole(Inghilterra) si dimostreranno complessivamente inferiori a Reynard e Lola. I segnali di tale crisi non arrivano però nella prima corsa sul nuovo ovale di Homestead, dove Tracy conquista la pole e domina fino all’ultimo pit stop, quando è costretto al ritiro da problemi elettrici.

A Surfers Paradise è poi in corsa per un posto sul podio, salvo essere speronato a metà gara da Michael Andretti. Episodio che non migliora i rapporti già non idilliaci tra i due, non aiutati dai numerosi scontri che si avranno negli anni. Già alla vigilia di Long Beach Tracy si presenta infatti con indosso una maglietta che recita “Micheal Andretti’s school for the blind”, guidando insieme a Gugelmin e Robby Gordon una polemica contro le scorrettezze del rivale. In gara poi Tracy coglie un quarto posto, seguito dal quinto di Nazareth, dove Tracy segna la pole e domina fino a un pasticcio in pit lane che gli fa perdere un giro. Sopravvissuto al caos iniziale, la US500 frutta poi un deludente settimo posto, con la Penske che conferma la sua idiosincrasia per gli ovali molto veloci.

La vettura americana da invece il meglio di se a Milwaukee, dove però Unser e Tracy sono beffati da Andretti negli ultimi giri. Per il canadese la stagione va avanti tra piazzamenti poco entusiasmanti e incidenti. A Portland finisce la sua corsa contro le gomme nelle fasi iniziali, mentre è nono a Cleveland e quinto a Toronto. Un bruttissimo incidente nelle prove libere della Marlboro 500 a Michigan lo costringe poi a saltare anche l’appuntamento di Mid Ohio. Torna a Road America, dove un contatto con Parker Johnstone all’ultimo giro termina con la Reynard dell’americano capovolta nella sabbia di curva uno. Una stagione pessima finisce  quindi con i ritiri di Vancouver e Laguna Seca. Roger Penske decide comunque di dare ancora fiducia a Tracy e conferma Al Unser Jr, che ha lottato per il titolo nei due anni precedenti pur non avendo conquistato vittorie nel  ’96.

Milwaukee; champcar.com; Peter Burke, 1996
Milwaukee; champcar.com; Peter Burke, 1996

 

Nel 1997 la Penske sceglie di proseguire con il suo telaio, il motore Mercedes e le gomme Goodyear, che in questa stagione iniziano a soffrire in modo palmare la concorrenza della Firestone, limitando le prestazioni dei piloti di punta nella fase culminante del campionato. Il 1997 per Tracy si apre con un secondo posto a Homestead dietro Andretti, frutto di una bellissima rimonta dalle ultime posizioni dopo una qualifica difficile. A Surfers Paradise il week end vive poi sul confronto Tracy-Zanardi: l’italiano si aggiudica per un soffio la pole, ma in gara è Tracy a comandare le operazioni fino al difficile doppiaggio di Meier. Quando Zanardi tenta infatti di riprendere il comando i due si scambiano ruotate. Tracy ne ricava una sospensione piegata mentre il bolognese prosegue e arriva quarto.

Una settimana più tardi a Long Beach Zanardi vince mentre Tracy sopravvive a un contatto con Moore, cogliendo un deludente settimo posto. Dopo il disastro del ’96, l’ovale di casa di Nazareth vede poi Tracy e la Penske tornare finalmente alla vittoria. Il canadese parte in pole e conduce la gara difendendosi in ogni modo dagli attacchi di Andretti, attardato da una foratura e poi di nuovo alla carica nel finale. Una bandiera gialla negli ultimi giri spegne però le speranze dell’americano, con Tracy che torna alla vittoria dopo un anno e mezzo. Il canadese fa poi il bis a Rio de Janeiro in una corsa molto movimentata, che lo vede sopravvivere a un contatto con Moreno e un testacoda in curva 4. Superato Moore per il secondo posto, negli ultimi giri Paul mette poi sotto pressione un Bobby Rahal in crisi coi consumi, prendendo il comando nelle ultime miglia quando il motore Ford rimane a secco.

A St. Louis arriva il tris: in lotta nelle prime posizioni per tutta la gara, Paul riesce a risparmiare più metanolo degli avversari e negli ultimi giri attacca con successo Unser, Vasser, De Ferran, Zanardi e infine Carpentier, che Tracy passa a due giri dal termine complice un doppiato, con le ruote nello sporco e conseguente nuvola di polvere. Per il canadese e la Penske è la terza vittoria di fila, che vale un’ampia leadership in classifica. Milwaukee chiude il ciclo degli ovali corti, con Tracy che conquista un’impressionante pole position abbassando il record della pista. Dopo aver battagliato con Moore nelle prime battute però, il capo classifica non riesce a riportarsi nelle prime posizioni dopo l’ultima sosta, chiudendo quinto dietro alcune vetture che riescono a evitare il rifornimento finale.

Dopo questa lunga sequenza favorevole, per Tracy le cose iniziano a girare storte con l’inizio delle gare su stradali e cittadini. A Detroit non prende neanche il via per il riacutizzarsi di un problema alla schiena risalente all’incidente in Michigan dell’agosto precedente. Torna nell’appuntamento successivo di Portland, dove soffre sul bagnato con le poco competitive Goodyear, andando in testacoda nel finale dopo aver tentato un anticipato passaggio alle gomme da asciutto. Una prestazione generosa a Cleveland frutta un discreto settimo posto, seguito dal disastro di Toronto, dove chiude solo 10°. Frustrato dallo scarso rendimento del pacchetto Penske-Goodyear, Paul si lascia andare con la stampa locale a qualche critica di troppo al telaio, cosa che non passerà inosservata alla dirigenza del team.

Neanche il ritorno agli ovali riesce a invertire la tendenza per il canadese, che a Michigan taglia il traguardo in quinta posizione grazie ai numerosi ritiri, mentre Alex Zanardi vincendo si porta in testa al campionato dopo aver chiuso un divario che, dopo Milwaukee, ammontava a 27 punti. Per Tracy le residue speranze di titolo vanno in fumo poco dopo la bandiera verde delle tre corse successive. A Mid Ohio, Road America e Vancouver infatti il canadese si qualifica nelle retrovie, rimediando tre sospensioni piegate in sequenza, compreso l’incolpevole capottone del Wisconsin. Laguna Seca regala l’ennesimo ritiro, questa volta per problemi al motore e la stagione si chiude malamente a Fontana, con un brutto incidente nei primi giri.

Per Tracy alla fine arriva un quinto posto in classifica a 74 punti da Zanardi, risultato estremamente deludente considerando la sequenza di tre vittorie consecutive ottenute nelle prime corse. Sul finire di stagione la Penske svolge un test segreto sul piccolo circuito di Gingerman, in Michigan, in cui Tracy prova in lungo e in largo la Penske, per poi passare a una Reynard del team Rahal con motore Mercedes e gomme Firestone. In breve il canadese migliora di diversi decimi il tempo ottenuto con la Penske-Goodyear, che rimedia circa un secondo alla fine delle prove. Non ci dovrebbero essere dubbi sulle scelte tecniche per il futuro, ma qualche settimana più tardi per Tracy arriva una doccia gelata. Convocato inaspettatamente a Detroit, nonostante i tre anni di contratto rimanenti al canadese viene comunicato il licenziamento, per aver più volte criticato pubblicamente la vettura del team.

Grande vittoria a St. Louis. champcar.com, Peter Burke
Grande vittoria a St. Louis. champcar.com, Peter Burke

 

A Tracy non rimane che cercare in fretta un altro sedile per il ’98: la prima telefonata è per Jerry Forsythe, che ha però appena confermato Patrick Carpentier sulla seconda vettura del team. Paul telefona quindi a Barry Green, per mesi alla ricerca di un pilota americano che soddisfi lo sponsor Kool. L’affare si conclude in breve e per il 1998 Tracy avrà finalmente a disposizione il tanto sospirato pacchetto Reynard-Honda-Firestone.

L’arrivo di Tracy non è però l’unica novità nel team Green. La squadra infatti schiera una seconda vettura per Dario Franchitti, promettente scozzese più volte messosi in evidenza nel ’97, pur non riuscendo a portare a casa risultati concreti. Sulla carta dovrebbero esserci tutti gli ingredienti per puntare in alto: un top driver come Tracy supportato da un giovane veloce come Franchitti, la vettura più efficace e un organico tecnico di prim’ordine. Invece a Homestead le cose stentano a decollare, entrambi i piloti si qualificano nelle retrovie risalendo lentamente il gruppo, con Tracy che vanifica tutto strisciando il muro nel tentativo di resistere a un indiavolato Greg Moore. Dopo aver perso un giro nelle prime fasi, Paul si rifà però a Motegi, con una bella rimonta che lo porta al quinto posto, beffato dallo stesso Moore all’ultimo giro.

Sulle strade di Long Beach il meccanismo si inceppa di nuovo: mentre Franchitti porta a casa un bel secondo posto, Tracy parte in mezzo al gruppo e nelle prime fasi si aggancia con Fittipaldi, volando nelle gomme. Dopo un solido quinto posto a Nazareth, i disastri però cominciano a succedersi con allarmante frequenza. La bella prova di Rio termina contro il muro dopo un contatto causato da De Ferran e non va meglio a St.Louis, dove Franchitti va in testacoda al primo giro, innescando una reazione a catena che coinvolge anche Tracy. Milwaukee da invece qualche segnale di speranza, almeno da un punto di vista velocistico. Il canadese domina infatti la fase centrale, chiudendo solo settimo per un problema durante l’ultima sosta. La spirale negativa riprende però nelle tre corse successive: a Detroit arriva un settimo posto dopo aver rovinato la corsa di Fittipaldi con un impossibile attacco, che gli costa un periodo di probation. A Portland un brutto incidente nelle libere con Jourdain è seguito da un incolpevole ritiro alla prima curva, mentre a Cleveland una bella partenza e conseguente seconda piazza sono rovinati da un evitabilissimo contatto in pit lane con Unser, per il quale rimedia uno stop and go.

Mai veloce come Franchitti, dominatore della corsa, un possibile quinto posto sfuma invece a Toronto quando Paul rimane bloccato proprio dietro lo scozzese, che butta al vento una vittoria certa andando in testacoda in curva 1. Michigan rivede un Tracy protagonista, in grado di condurre in testa 22 tornate ma non di inserirsi nella lotta per la vittoria finale, a causa di un pit stop imprevisto nel finale. Nonostante una qualifica disastrosa (21°), un buona strategia e una corsa consistente fruttano un quinto posto a Mid Ohio, seguito da un sesto posto a Road America, frutto di una rimonta dalla ottava fila. Autore di una qualifica decente (7°) a Vancouver, è relegato in ottava piazza da un evitabile contatto con Kanaan che gli costa uno stop and go. Desolatamente 18° in qualifica, risale fino a un altro ottavo posto a Laguna Seca, che precede il disastro di Houston, dove il team Green domina la corsa sul bagnato, fino a quando un troppo ottimistico attacco di Tracy porta a un contatto con Franchitti, che però riesce a proseguire e vincere. Tornato in pit lane con una sospensione piegata, Paul arriva brevemente alle mani con Barry Green, che a ragione lo incolpa del contatto. Una serie di colpi proibiti con Michael Andretti rovina un possibile podio in Australia, precedendo l’amaro finale di Fontana, dove Paul è in testa alla corsa negli ultimi giri ma, nel tentativo di sorprendere gli inseguitori e andare in fuga, è troppo aggressivo in ripartenza, perdendo il posteriore e impattando contro il muro interno della curva 2.

Il grottesco incidente è la degna conclusione di una stagione balorda, che vede il canadese piazzarsi solo in tredicesima piazza e a secco di vittorie, mentre Franchitti minaccia fino all’ultimo la piazza d’onore di Vasser e può vantare ben tre vittorie parziali.

St.Louis. gettyimages.com; Jamie Squire/Allsport, 1998
St.Louis. gettyimages.com; Jamie Squire/Allsport, 1998

 

Il contatto con Andretti a Surfers Paradise porta in dote per il 1999 una sospensione dalla prima gara di Homestead, dove Tracy è sostituito da Raul Boesel, che si ritira al primo giro. Nonostante la gara in meno il ’99 è un anno cruciale per il canadese, che oltre a conoscere meglio macchina e squadra si ritrova a lavorare con Tony Cicale, storico ingegnere di Jacques Villeneuve e degli Andretti, che con Paul ricomincia quel percorso di crescita professionale interrotto con l’addio alla Penske e Rick Mears. Gli incidenti e le polemiche non mancheranno, Paul finisce a muro sia a St. Louis che a Chicago dopo essersi toccato rispettivamente con Franchitti e Andretti, ma migliora sostanzialmente in qualifica e soprattutto vede la bandiera a scacchi con costanza e nelle zone alte della classifica.

Dopo un difficile inizio stagione illuminato da un terzo posto a Nazareth (nonostante un testacoda), la vittoria di strategia di Milwaukee riscatta il disastro di St. Louis, aprendo una sequenza di 8 arrivi a punti che vede Paul completare le doppiette del team Green  a Toronto e Detroit e finire secondo a Mid Ohio dietro Montoya. La striscia positiva si interrompe malamente a Chicago, cui segue un altro ritiro sotto l’acqua a Vancouver, dove il canadese lotta con Montoya per la vittoria, ma dopo un testacoda finisce contro il muro per il cedimento di una sospensione. Il doppio zero spegne le ridotte speranze di lottare per il titolo con Montoya e Franchitti, ma non scoraggia troppo Tracy, che tra i piazzamenti di Laguna Seca e Surfers Paradise (dove è attardato da una penalità per partenza anticipata),  coglie un meritato successo sulle strade di Houston, dove domina dopo l’uscita di Montoya. Purtroppo la stagione si chiude amaramente con la scomparsa dell’amico Greg Moore a Fontana, dove Tracy si ritira per problemi tecnici. Il canadese si piazza al terzo posto in classifica, il miglior risultato dal 1994.

Prima vittoria stagionale a Milwaukee. champcar.com, Peter Burke
Prima vittoria stagionale a Milwaukee. champcar.com, Peter Burke

Votato dai colleghi “pilota più migliorato”, Tracy è determinato nel 2000  a confermare la concretezza recentemente conquistata, aiutato dal fido Tony Cicale, che lo affianca anche nel nuovo millennio. Nonostante qualche difficoltà di troppo in qualifica, la stagione si apre bene: partito in nona fila, a Homestead si ritrova in testa nel finale, ma in una fase di traffico deve cedere il passo a Papis e Moreno. Un copione simile si ripete a Long Beach, ma questa volta Castroneves rallenta il velocissimo Vasser, coprendo la fuga di Tracy, che coglie il secondo successo in carriera sulle strade della California. Dopo dei buoni piazzamenti a Rio e Motegi e un po’ di sfortuna a Nazareth, Milwaukee apre un periodo nero fatto di guasti e qualche contatto di troppo, che costa a Tracy la testa della classifica.

Il buon podio di Toronto e un settimo posto a Michigan permettono a Paul di tenere il contatto con Andretti e Moreno, ma le cose si fanno nuovamente difficili a causa di un evitabile contatto, l’ennesimo, con Franchitti a Chicago e un altro incolpevole incidente a Mid Ohio. La rocambolesca sequenza di alti e bassi continua poi nel migliore dei modi con due vittorie consecutive. A Road America un problema elettrico al primo giro fa da presupposto per una rimonta strepitosa. In una corsa priva di bandiere gialle ma durissima per la meccanica, il canadese mette a segno una lunga sequenza di sorpassi (l’ultimo su Fernandez a una decina di giri dal termine), approfittando dei numerosi ritiri per centrare il secondo successo stagionale, seguito dal trionfo casalingo di Vancouver, dove Tracy beffa Franchitti durante l’ultimo pit stop in un evento dominato dal team Green. Paul si ritrova così a 6 punti dal capoclassifica Andretti, ma l’incredibile alternanza di due gare positive e due negative prosegue con Laguna Seca e St.Louis, dove Tracy raccoglie solo due punti.

Dopo un quarto posto a Houston, in Australia Tracy deve sperare in un passo falso di De Ferran per riaprire i giochi e, incredibilmente, va proprio così. Il brasiliano è infatti subito fuori gara per un incidente in partenza, lasciando campo libero a Tracy, che domina le prime fasi fino a quando l’acceleratore bloccato lo spedisce in una via di fuga. Il canadese riprende, inanella diversi sorpassi e nelle ultime fasi si ritrova in zona vittoria con i più diretti avversari per il titolo fuori gioco. In una ripartenza però Paul tampona Papis e una scaramuccia con Servia, che taglia la prima curva non restituendo la posizione, finisce in disastro quando i due entrano appaiati nella veloce sequenza di chicane, con lo spagnolo che centra il canadese.

Tracy è costretto al ritiro e dice addio alle speranze di titolo, che finiscono definitivamente a Fontana quando De Ferran conquista la pole, portando a 22 i punti di vantaggio sul canadese. Ancora una volta l’ovale californiano non regala soddisfazioni, questa volta a causa del motore, che cede nelle prime battute. Guardando la classifica finale, l’ottavo e il nono posto in classifica rispettivamente di Andretti e Montoya gridano certamente vendetta, ma non c’è dubbio che nonostante alcuni errori il 2000 di Tracy avrebbe meritato di meglio del quinto posto finale. Al canadese rimane la soddisfazione di aver centrato il maggior numero di successi parziali, 3, come Montoya e Castroneves.

La vittoria di Vancouver rilancia Paul in campionato.
La vittoria di Road America rilancia Paul in campionato.

Nonostante i progressi compiuti e il titolo sfiorato nel 2000, per la nuova stagione Paul deve rinunciare a Tony Cicale, che passa al team Forsythe al fianco di Alex Tagliani. Al canadese è così assegnato Steve Challis, storico ingegnere di Greg Moore. Un inizio di stagione solido, con i podi di Monterey e Nazareth e il buon quarto posto di Long Beach, permette a Paul di presentarsi in testa alla classifica a Motegi, dove una possibile vittoria è impedita dalla rottura del cambio. Da qui, la stagione prende una piega disastrosa: cedimenti meccanici, guasti e qualche errore condizionano le corse successive, facendo precipitare Paul all’ottavo posto in classifica.

Un buon quarto posto a Mid Ohio scuote un attimo la situazione, ma nelle corse successive la tendenza negativa prosegue a causa di pessime qualifiche, incidenti e qualche errore strategico. Nelle 17 corse successive a Nazareth Tracy finisce nei punti solo in 6 occasioni. Ne scaturisce un 14° posto finale, incredibile alla luce dei risultati di inizio stagione.

Fontana. motorsport.com; Dan Streck, 2001
Fontana. motorsport.com; Dan Streck, 2001

Nonostante tutto la squadra ha ancora fiducia nel canadese, che nel 2002 prosegue il suo rapporto con Steve Challis. Dopo due corse interlocutorie a Monterey e Long Beach sulla Reynard, per Motegi il team Green fa correre Andretti e Tracy sulle Lola e il canadese sfrutta subito il potenziale del nuovo telaio, prendendo perentoriamente il controllo della corsa a metà gara. Una sospensione gli nega un successo quasi certo, ma l’appuntamento con la vittoria è solo rimandato, perche a inizio giugno Tracy domina a Milwaukee, dove vince per la terza volta in carriera. Tra la corsa giapponese e quella del Wisconsin, il team Green partecipa però alla 500 miglia di Indianapolis.

Per tutto il mese di maggio la squadra non è in grado di tirare fuori il massimo dalle proprie Dallara Chevrolet, che relegano Franchitti e Tracy nelle retrovie. Grazie anche a una strategia aggressiva, dopo una corsa impalpabile Tracy si ritrova però nel gruppo di testa nella fase decisiva, duellando con Castroneves e Giaffone per la vittoria. Complice l’ostruzionismo di Franchitti, a tre giri dal termine il canadese riesce a liberarsi di Giaffone, il più veloce dei tre, andando all’assalto di Castroneves, che col serbatoio ormai vuoto attende disperatamente una bandiera gialla. Alla fine la neutralizzazione arriva, proprio nel momento in cui Tracy affianca la Dallara del team Penske. Pur senza il supporto di prove fotografiche la direzione gara stabilisce che Castroneves si trova ancora davanti allo sventolare della bandiera gialla, decretandolo vincitore. I vari replay mostrano che il brasiliano è effettivamente in testa nel momento in cui Redon e Lazier entrano in contatto, ma è impossibile stabilire se lo stesso sia vero al momento della neutralizzazione della corsa, arrivata pochi attimi dopo. Il team Green fa ricorso e nelle settimane successive si appella a tutti gli organi sportivi possibili per sovvertire il verdetto della direzione gara, che però non cambia. La vittoria di Milwaukee arriva quindi provvidenziale per addolcire la grande delusione di Indianapolis.

Come nel 2001, dopo un inizio di stagione promettente, qualcosa va storto nella campagna di Tracy, che perde la via del podio, collezionando ritiri e piazzamenti di bassa classifica. Dopo una ruota persa a Laguna Seca, un contatto con Fittipaldi a Portland e un nono posto a Chicago, il lungo inseguimento a Da Matta per la vittoria di Toronto finisce nelle gomme per problemi ai freni. Un terzo e un secondo posto a Cleveland e Vancouver sono una buona consolazione, ma il momento positivo si interrompe col motore rotto di Mid Ohio e un incidente innescato da Brack a Road America, dove Tracy da spettacolo in partenza, balzando al comando dalla seconda fila e comandando per metà gara.

Il finale di stagione è amaro. Il buon quarto posto di Montreal è seguito dall’ottavo di Denver, dove Tracy recupera dopo una penalità per uno scellerato attacco al primo giro che costringe Franchitti al ritiro. Dopo di che il terzo posto casuale della corsa sospesa a Surfers Paradise è l’unica nota positiva, a causa dei motori rotti di Rockingham e Fontana, di una tamponata di Vasser che lo priva del podio a Miami e di un’ultima ingloriosa corsa in Messico, dove Paul centra in partenza lo stesso Vasser e si ritira più tardi con una sospensione danneggiata. L’11° posto finale punisce i troppi ritiri, pur non essendo rappresentativo della competitività mostrata dal canadese in numerose corse.

Surfers Paradise. reddit.com
Surfers Paradise. reddit.com

 

Pochi minuti dopo la bandiera a scacchi di Vancouver, Paul firma il contratto che lo legherà al team Forsythe nel 2003, rinunciando così a passare in IRL con il team Green. La scelta arriva non solo come conseguenza dello scontro con la lega di Tony George per i fatti di Indy, ma anche per le ambizioni del programma di Forsythe. La Player’s, storico sponsor del team, è infatti determinata a conquistare il titolo e chiudere così in bellezza la sua avventura nelle corse, ormai agli sgoccioli per via del bando degli sponsor tabaccai in Canada. C’è un altro motivo per accettare l’offerta di Forsythe: Tony Cicale, fondamentale nella “resurrezione” di Tracy nel ’99, dopo due anni con Tagliani torna infatti a essere il suo ingegnere di pista.

Paul è quindi “condannato a vincere” e tiene subito fede ai propositi a St. Petersburg. Battuto dal sorprendente rookie Bourdais in qualifica, quando il francese sbaglia strategia e poi abbandona per un errore, il canadese ha la strada spianata verso un facile successo. Un copione praticamente identico va in scena a Monterrey, dove Paul è ancora battuto da Bourdais in qualifica, che però si autoelimina mancando il primo rifornimento, lasciando a Tracy il secondo successo consecutivo. A Long Beach è invece Jourdain a negargli la prima pole position stagionale, tenendolo in scacco fino all’ultimo pit stop, quando la trasmissione tradisce il messicano. Paul raccoglie quindi il comando negli ultimi giri, controllando agevolmente Fernandez per conquistare la terza vittoria sullo stradale della California e allungare ulteriormente in classifica. L’appuntamento successivo di Brands Hatch vede finalmente la prima pole per Tracy, ma anche il primo ritiro, perchè dopo aver ceduto il comando a Bourdais durante le soste, Paul deve rinunciare ai preziosi punti del secondo posto a causa del cedimento del motore. Il ritiro è aggravato dalla regola che impone la stessa configurazione aerodinamica per la seconda corsa europea sull’ovale del Lausitzring, dove l’elevato carico scelto per lo stradale inglese non fa andare Tracy oltre il 12° posto. Milwaukee segna poi il ritorno della competitività ma non della fortuna. Paul da infatti spettacolo per tutta la gara alle spalle dell’intoccabile Jourdain, scambiandosi più volte la posizione con un più veloce Servia, finché una ruota mal avvitata durante l’ultima sosta gli fa perdere un giro, relegandolo al 12° posto.

Una bella battaglia al vertice con il compagno Carpentier è invece interrotta a Laguna Seca da una lunga spiattellata, che costringe Paul a cedere il secondo posto al rivale per il titolo Junqueira. Portland vede la seconda pole stagionale, ma dopo un evitabile contatto con Jourdain, nel finale è Fernandez con una bella staccata a soffiare la vittoria a Tracy, che chiude comunque secondo e riprende il comando della classifica. Primato consolidato a Cleveland, dove Paul conduce a lungo, ma deve arrendersi nel finale a un Bourdais più veloce, chiudendo comunque secondo dopo aver rintuzzato un aggressivo attacco di Junqueira. Dieci anni dopo il successo del ’93 il canadese manda poi in visibilio i connazionali a Toronto, dove domina dalla pole, replicando la settimana successiva a Vancouver. La battuta d’arresto di Road America, dove sul bagnato Paul esce di pista già al primo giro, è poi mitigata dal nuovo successo di Mid Ohio, dove il canadese domina rispondendo a Junqueira, vittorioso in Wisconsin ma a sua volta fuori causa in Ohio. Dopo il doppio successo di Toronto e Vancouver, la terza prova canadese a Montreal frutta poi solo un sesto posto, quando Paul rimane a secco all’ultimo giro dopo aver a lungo gravitato in quarta piazza.

Junqueira accorcia le distanze a Denver, dove Tracy chiude quarto a causa di una brutta qualifica e una gara poco entusiasmante, cui segue il ritiro di Miami. Ottavo in una qualifica viziata da vari errori, in gara il canadese risale fino al terzo posto, ma nel tentativo di rispondere a una bella infilata di Bourdais centra il rivale, causando il ritiro di entrambi e ponendo le basi di una rivalità memorabile. Per sua fortuna Junqueira risponde da par suo, con una tamponata a Fernandez che lascia fondamentalmente inalterata la situazione di classifica. Una perentoria affermazione a Città del Messico, dove Paul regola Bourdais mentre Junqueira termina solo settimo, permette poi al canadese di presentarsi a Surfers Paradise con 29 punti di vantaggio. In Australia tutto sembrerebbe precipitare fin dalla prima curva, quando un contatto con il polesitter Bourdais spedisce subito Paul in fondo al gruppo. Il peggio però arriva dopo la lunga sospensione per pioggia, quando il canadese rimane bloccato dietro la vettura incidentata di Tagliani, distruggendo una sospensione nel tentativo di ripartire e non perdere il giro. La sorte è comunque dalla sua parte perchè Junqueira, a lungo in testa, perde colpi nel finale per poi impattare definitivamente contro il muro. Tracy è quindi matematicamente campione con una corsa d’anticipo, la 500 miglia di Fontana, poi cancellata.

Prestazione dominante a Mid Ohio. Mark Scheuern
In trionfo a Surfers Paradise. getty images, Torsten Blackwood

 

Nel 2004 Paul continua ovviamente con il team Forsythe, orfano della Player’s e di Tony Cicale, che viene sostituito nel ruolo di ingengere di pista da Todd Malloy. Il duo canadese da subito buona prova di se nella corsa inaugurale di Long Beach, dove Tracy balza subito al comando con una aggressiva staccata dalla seconda fila, dominando in lungo e in largo la corsa. Uno scialbo settimo posto a Monterrey raffredda però gli entusiasmi, che si spengono del tutto quando Paul finisce contro il muro a Milwaukee dopo aver cercato di superare all’esterno Carpentier per il secondo posto. Un buon podio dietro le imprendibili vetture del team Newman-Haas a Portland conduce poi al disastro di Cleveland, dove Paul parte al palo ma è travolto alla prima curva da Wilson, che reagisce scompostamente a una improbabile staccata di Tagliani. I due entrano di nuovo in contatto a Toronto, dove l’inglese soffia durante le soste il secondo posto a Tracy, che per tutta risposta lo manda in testacoda nel tentativo di recuperare la posizione. Penalizzato, il canadese inscena una spettacolare rimonta dal fondo, prima di spedire a muro Jourdain e beccarsi un altro drive through che lo relega al quinto posto.

Il riscatto arriva subito a Vancouver, dove Tracy parte in pole, domina la corsa e nel finale rimedia a un problema durante la seconda sosta costruendo a suon di giri record il margine sufficiente a effettuare un rabbocco finale e andare a vincere indisturbato. Dopo aver preso imperiosamente il comando dalle mani di Bourdais in una ripartenza, a Road America il possibile terzo successo stagionale sfuma per una strategia sbagliata, un’ultima sosta lentissima e un incolpevole contatto con Junqueira. E’ ancora col brasiliano che Tracy lotta a Denver, dove passa a condurre a metà gara ma nel finale non riesce a contenere la furiosa rimonta di Bourdais, chiudendo al secondo posto. Dopo il poco esaltante quarto posto di Montreal, Laguna Seca vede la riapertura dello scontro con il francese, che Paul costringe in pit lane dopo un contatto al secondo giro. In testa fino al primo pit stop, il canadese deve poi cedere il passo a Carpentier, vedendo la sua prova definitivamente compromessa da una foratura provocata dall’ala anteriore, danneggiata nel contatto con Bourdais. Non va meglio poi a Las Vegas, dove la trasmissione non gli permette nemmeno di prendere la bandiera verde. La pole position e una strenua difesa del comando a Surfers Paradise sono poi rovinate da un dritto, che relega Paul al quarto posto. Un assetto sbagliato e un contatto con Vasser a inizio gara rovinano poi il finale di stagione, che vede Paul chiudere al 10° posto a Mexico City e al quarto in campionato, superato non solo dai piloti del team Newman Haas ma anche dal compagno Carpentier, meno veloce ma più consistente di Tracy.

Quarta vittoria nelle strade di Long Beach. motorsport.com. John Francis

 

Dopo una deludente difesa del titolo, il team Forsythe si presenta in formazione rinnovata nel 2005. Tracy è ora seguito da Eric Zeto, ingegnere di pista del partente Carpentier, che viene sostituito da Mario Dominguez. La stagione parte bene, con la pole e un secondo posto a Long Beach, dove Paul comanda per metà gara ma dopo il primo pit stop deve arrendersi al passo superiore di Bourdais. Il confronto tra i due si trasforma ancora una volta in scontro a Monterrey, dove Paul conduce virtualmente la corsa in mezzo al traffico indotto dalle diverse strategie, quando a metà gara un attacco azzardato del francese lo mette fuori gara con una sospensione KO. La risposta arriva però subito a Milwuakee, dove Tracy parte in seconda fila, prende in breve il comando e domina fino alla bandiera a scacchi. Beffato dalla strategia di Da Matta, a Portland Paul è poi terzo, dovendosi arrendere al solito Bourdais in un duello a metà gara. La risposta arriva però subito a Cleveland, che vede il canadese partire in pole e staccare nel finale gli avversari per conquistare il secondo successo stagionale e il comando della classifica. Toronto vede poi l’ennesima puntata dello scontro con Bourdais, questa volta in pit lane, quando il francese per non oltrepassare con quattro ruote la linea di separazione con la pista, taglia la strada a Paul. Privato di metà ala anteriore, il canadese  conduce a lungo la corsa, rimanendo fermo in pista però per un errore di calcolo nei consumi.

CONTINUA…

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1991 CART Coyne/Penske 39/17 PPG 4 21 6 0 0 0 1 0
1992 CART Penske 4/7 Marlboro 11 12 59 0 3 4 5 1
1993 CART Penske 12 Marlboro 16 3 157 5 8 8 9 2
1994 CART Penske 3 Marlboro 16 3 152 3 8 9 9 4
1995 CART Newman-Haas 3 Budweiser 17 6 115 2 5 6 9 0
1996 CART Penske 3 Marlboro 14 13 60 0 1 4 6 3
1997 CART Penske 3 Marlboro 16 5 121 3 4 5 10 2
1998 CART Green 26 Kool 19 13 61 0 0 3 8 0
1999 CART Green 26 Kool 19 3 161 2 7 10 11 0
2000 CART Green 26 Kool 20 5 134 3 6 7 10 1
2001 CART Green 26 Kool 20 14 73 0 2 4 8 0
2002 CART Green 26 Kool 19 11 101 1 4 5 10 0
2002 IRL Green 26 7-Eleven 1 34 40 7 1 1 1 0
2003 ChampCar Forsythe 3 Player’s 18 1 226 2 10 11 12 6
2004 ChampCar Forsythe 1 Indeck 14 4 254 2 4 7 9 3
2005 ChampCar Forsythe 3 Indeck 13 4 246 0 7 7 8 3
2006 ChampCar Forsythe 3 Indeck 13 7 209 1 3 6 9 0
2007 ChampCar Forsythe 3 Indeck 12 11 171 0 2 4 7 0
2008 IRL/IndyCar Forsythe/Vision 3/22 Subway 3 33 51 0 0 1 1 0
2009 IRL/IndyCar KV/Foyt 5/14/15 Geico 6 23 113 0 0 0 3 0
2010 IRL/IndyCar KV/D&R 15/24 Make a Wish 5 27 91 0 0 0 6 0
2011 IndyCar Dragon/D&R 8/23 Motegi 6 29 68 0 0 0 0 0
Carriera         282   2669 31 75 102 152 25
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1991 0 0 0 0
1992 0 0 0 0
1993 Long Beach Cleveland Toronto Road America Laguna Seca 3 2 0 5
1994 Long Beach Nazareth Laguna Seca 1 1 1 3
1995 Surfers Paradise Milwaukee 0 1 1 2
1996 0 0 0 0
1997 Rio Nazareth St. Louis 0 0 3 3
1998 0 0 0 0
1999 Milwaukee Houston 0 1 1 2
2000 Long Beach Vancouver Road America 1 2 0 3
2001 0 0 0 0
2002 Milwaukee 0 0 1 1
2003 St. Pete Monterey Long Beach Toronto Vancouver Mid Ohio Mexico City 3 4 0 7
2004 Long Beach Vancouver 0 2 0 2
2005 Milwaukee Cleveland 2 0 0 2
2006 0 0 0 0
2007 Cleveland 1 0 0 1
Totale 11 13 7 31
Quote 35,5% 41,9% 22,6% 100,0%

Paul Tracy

Will Power

Nome: William Steven Power

Data e luogo di nascita: 1 marzo 1981, Toowoomba (Australia)

Nazionalità: Australiana

Ruolo: Pilota

Come spesso accade, anche la passione di Will Power per le corse nasce subito in casa. Suo padre è stato infatti un discreto pilota di F.3 e F.2 nei primi anni 80’ e mette subito Will su un go kart all’età di 6 anni. Dopo la fase kartistica passa alle auto a 15 anni, affrontando le prime corse su sterrato per poi passare alle monoposto nel campionato di F.Ford, prima nello stato natale del Queensland e poi nel campionato nazionale. Nonostante le conoscenze del padre in campo motoristico l’ascesa non è semplice e Will si ritrova spesso a guidare vetture piuttosto datate. Ciononostante tra il 1999 e il 2000 conquista in grande stile il campionato regionale, con 5 vittorie e 12 podi su 12 corse, piazzandosi settimo nella serie nazionale, sempre col team di famiglia. L’anno successivo ripete l’esperienza nel campionato australiano di F.Ford, chiudendo secondo alle spalle di Will Davison (pilota ufficiale Van Diemen) con 5 vittorie e 10 podi all’attivo, risultato che ripeterà anche nelle finali nazionali e alla corsa a invito sul cittadino di Surfers Paradise, in occasione della corsa CART. Il 2002 è una stagione molto intensa in cui Will si divide tra il campionato F.3 australiano e la F.Holden. In entrambe le serie non ha a disposizione materiale troppo recente, ma riesce comunque a ottenere 5 vittorie e il secondo posto in F.3, dominando invece la F.Holden con 7 successi. Nella stessa stagione debutta nel V8 Supercars, correndo a Bathurst e Ipswich.

Nel 2003 continua la sua scalata alle categorie top approdando in Europa, dove affronta una difficile stagione d’esordio in F.3 Inglese, iniziata col team Diamond e chiusa alla Fortec, cogliendo un secondo posto a Thruxton come migliore risultato e il 14° posto in classifica. Nel 2004 passa all’Alan Docking Racing, con cui ottiene 5 podi e termina al nono posto in classifica. A fine stagione ha la possibilità di provare la Minardi F.1 a Misano insieme a Will Davison, comportandosi molto bene. In grosse difficoltà economiche, la carriera di Power riceve un decisivo aiuto dal connazionale Mark Webber, che lo aiuta a trovare i finanziamenti procurandogli il test in Minardi e aiutandolo nella fase successiva.

F.3 inglese. speedcafe.com
F.3 inglese. speedcafe.com

Nel 2005 Will passa al campionato World Series Renault con il team Carlin. Molto veloce nei test invernali, dopo un inizio stagione difficile porta a casa il primo podio a Valencia, centrando poi la prima vittoria in gara 2 a Le Mans. Ancora meglio va sul cittadino di Bilbao, dove Will si piazza secondo dietro Kubica in gara 1, dominando dalla pole la seconda corsa. I due proseguono il duello a Oschersleben, dove si aggiudicano una pole a testa, ma il polacco stravince le due corse bagnate, mentre Will commette degli errori tradito dalla pressione delle gomme troppo bassa,  non prendendo punti. Anche i due week end successivi sono da dimenticare e da possibile contendente al titolo, Power precipita in classifica e salta le ultime corse dell’anno, chiamato dal team Australia di Derrick Walker in ChampCar. A Surfers Paradise è eliminato dal compagno di squadra Tagliani dopo una buona prova mentre a Mexico City chiude 10°. Un’altra stagione intensissima lo vede infine partecipare alla corsa inaugurale dell’A1 GP a Brands Hatch, dove coglie un quarto e un secondo posto.

Vittoria a Bilbao in World Series davanti a Danielsson e Pavlovic. renaultsport; speedsport-magazine.com
A1 Gp, Brands Hatch. Dave Dyer; motorsport.com
A1 Gp, Brands Hatch. Dave Dyer; motorsport.com

Nel 2006 Will passa definitivamente in ChampCar, punta del team Australia al fianco di Alex Tagliani. Dopo aver superato indenne il maxi incidente in partenza, alla primo round di Long Beach l’australiano è autore di una buona corsa ai margini del podio, fino a quando è rallentato da problemi ai freni, terminando al nono posto. È poi settimo nella corsa in notturna di Houston, chiude 11° a Monterrey ma problemi meccanici lo bloccano sia a Milwaukee che a Portland. A Cleveland si porta in zona podio nelle prime fasi, approfittando dei numerosi contatti, perdendo però a sua volta un giro quando viene urtato da Philippe. La corsa dell’Ohio chiude una prima parte di stagione sfortunata, ma dopo il settimo posto di Toronto le cose cominciano a girare. Dopo i due sesti posti di Edmonton e San José, arriva un quarto posto a Denver grazie all’incidente tra Bourdais a Tracy, cui segue una discreta quinta piazza a Montreal.

La sequenza di risultati fa velocemente risalire Will in classifica e dopo una gara storta a Road America arriva l’appuntamento di casa a Surfers Paradise, dove l’australiano conquista la prima pole della carriera. In gara comanda le prime fasi, ma durante un turno di soste Tracy lo colpisce nel tentativo di precederlo in uscita dai box, danneggiandogli una sospensione. Will riesce a continuare, mantenendo la seconda posizione fino a quando Bourdais arriva lungo in un tentativo di sorpasso, sistemando definitivamente la sospensione. Un parziale riscatto arriva all’ultimo appuntamento di Città del Messico, in cui Will parte dalla seconda fila e sul bagnato riesce ad avere la meglio su Junqueira, chiudendo sul podio alle spalle di Bourdais e Wilson. I numerosi piazzamenti gli valgono il sesto posto finale e il titolo di rookie of the year.

Long Beach. motorsport.com, Kurt Dahlstrom
Long Beach. motorsport.com, Kurt Dahlstrom

La stagione 2007 della ChampCar si annuncia molto aperta grazie alla nuova Panoz e Power è tra i più attesi protagonisti. Il campionato si apre sul cittadino di Las Vegas e Will detta subito il ritmo, aggiudicandosi la pole e duellando inizialmente con Tracy, per poi prendere il largo e trionfare con margine davanti a Doornbos. A Long Beach parte in prima fila, chiudendo terzo grazie a un sorpasso su Tagliani all’ultimo giro. A Houston conquista la seconda pole stagionale, subisce in partenza l’attacco di Bourdais e Wilson ma rimane attardato da un contatto successivo con l’inglese e un’altra uscita, chiudendo solo 11°. Dopo un discreto quarto posto a Portland arriva decimo a Cleveland, dopo aver ceduto il primo posto a causa di una foratura. A Mont Tremblant si qualifica in prima fila, ma non riesce a partire e si ritrova subito nelle retrovie. Sulla pista bagnata rimonta fino al secondo posto, fino a quando non finisce in testacoda riuscendo comunque a chiudere sul gradino più basso del podio.

Anche a Toronto la corsa si chiude sotto l’acqua e Power, dopo essere partito dalla settima piazza, passa uno a uno i suoi avversari centrando il secondo successo stagionale, portandosi a due punti dal leader della classifica Doornbos. Dopo aver conquistato la terza pole dell’anno a Edmonton è però fermato da un guasto allo sterzo, mentre chiude quarto a San José, dove risale dalle retrovie in seguito a una cattiva qualifica. Un’altra prima fila a Road America è però vanificata da un guasto al cambio nei primi giri e i problemi continuano a Zolder, dove riesce comunque a chiudere quarto dopo essere partito ancora in prima fila. Una corsa negativa ad Assen precede un’altra spettacolare pole a Surfers Paradise, dove rifila 6 decimi a Oriol Servia. La gara purtroppo è una triste replica del 2006, con un contatto in pit lane e un incidente durante la rimonta. La quinta pole dell’anno nell’appuntamento conclusivo a Città del Messico non basta però per contenere Bourdais, che lo passa a metà gara precedendolo senza troppi problemi sul traguardo. Nonostante la grande velocità mostrata, i troppi ritiri non permettono a Power di andare oltre il quarto posto in campionato dietro il solito Bourdais, Wilson e Doornbos.

Strepitosa pole in Messico. motorsport.com, Adriano Manocchia
Strepitosa pole in Messico. motorsport.com, Adriano Manocchia

La fusione tra IRL e ChampCar porta alla chiusura di alcune squadre, tra cui il team Walker, con lo sponsor Aussie Vineyards che continua comunque a supportare Will, che si accasa al team KV insieme a Oriol Servia. Le squadre ex ChampCar faticano però ad adattarsi alla Dallara e Servia riesce in generale a essere più efficace del pilota australiano. Il team KV si presenta con quattro giorni di test alle spalle alla corsa d’apertura a Homestead, dove Will parte dalle retrovie e si tocca con Wilson dopo pochi giri, ritirandosi. A St Pete mette a frutto la solita abilità in qualifica, piazzandosi in prima fila al fianco di Kanaan. In una gara resa molto difficile dalla pioggia, tra qualche contatto e difficili scelte di gomme porta a casa un deludente ottavo posto. In Kansas comincia un difficile rapporto con gli ovali quando l’australiano colpisce il muro dopo aver perso la vettura nel traffico.

Al debutto a Indianapolis si qualifica in ottava fila, riuscendo a chiudere 13° a pieni giri, mentre a Milwaukee parte in seconda fila ma è presto attardato da problemi di assetto. Seguono dei piazzamenti attorno alla decima piazza fino a un incidente a Richmond. Le cose non migliorano neanche a Watkins Glen, ma dopo un 11° posto a Nashville arriva finalmente un buon risultato a Mid Ohio, dove Will guida la corsa nella transizione dalle gomme da pioggia alle slick, chiudendo al quarto posto. Una quinta piazza in qualifica a Edmonton è invece vanificata da un problema a una sospensione. L’inconveniente, aiutato da una toccata a muro, si ripete in Kentucky, mentre a Sonoma il terzo posto delle prove è rovinato da una serie di errori in gara. L’ottavo posto di Detroit conduce all’ultimo appuntamento di Chicago, dove a sorpresa Will emerge dal gruppo nelle fasi finali, precedendo Wheldon per la conquista di una eccellente quinta piazza. Incredibilmente la corsa fuori campionato di Surfers Paradise ripete a grandi linee il copione delle stagioni precedenti. Dopo aver staccato di 8 decimi in qualifica il campione Dixon, Will comanda con margine le prime fasi finché finisce contro il muro in una chicane, lasciando campo libero a Briscoe. Power chiude il campionato al 12° posto, terzo tra i piloti ex ChampCar dietro Servia e Wilson.

St. Pete. indycar.com, Jim Haines
St. Pete. indycar.com, Jim Haines

Quella di Surfers Paradise rappresenta l’ultima corsa IndyCar in terra australiana, cosa che porta all’abbandono dello sponsor Aussie Vineyards, che ha sostenuto Power fin dal suo arrivo in America. Will alla fine del 2008 si ritrova quindi a piedi ma presto si prefigura una possibilità inaspettata: Helio Castroneves è rimandato a giudizio per evasione fiscale e la Penske, in attesa di conoscere le sorti del suo pilota storico, punta sul giovane più promettente, ovvero Will, che con la scuderia del Capitano svolge tutti i test invernali e guida la vettura n.3 nel primo appuntamento del 2009 a St.Pete. L’australiano si qualifica al sesto posto e tiene il passo del compagno Briscoe fino alla prima sosta collettiva, dove manca la propria piazzola facendo perdere tempo prezioso anche a Dixon. Riesce poi a recuperare chiudendo sesto, mentre Briscoe va a vincere. A Long Beach Will comincia le prove sulla vettura numero 3, ma l’assoluzione di Castroneves lo costringe a lasciare la vettura bianco rossa al brasiliano, passando alla guida di una terza monoposto nera sponsorizzata Verizon, che l’australiano piazza in pole. In gara conduce le prime fasi ma perde diverse posizioni durante una ripartenza, riuscendo comunque a risalire fino al secondo posto dietro Franchitti.

Dopo due corse, Will è secondo in campionato ma è costretto all’inattività fino a Indianapolis, dove qualifica la sua Dallara n.12 in terza fila e in gara è tra i più veloci, arrivando anche a occupare il secondo posto dietro Castroneves. Un’ultima sosta un po’ lenta lo allontana però dal compagno e all’ultima ripartenza viene sopravanzato anche da Townsend Bell, chiudendo quinto. Dopo Indy Will salta tutta la serie di ovali, tornando in azione a Toronto, dove centra ancora la prima fila al fianco di Franchitti. Alla partenza però si allarga troppo verso l’esterno, danneggiando l’alettone anteriore di Graham Rahal, errore che gli costa una foratura che lo spedisce subito nelle retrovie. Riesce a districarsi però bene tra le diverse bandiere gialle che caratterizzano la corsa e una buona strategia, insieme a diversi sorpassi, lo portano al terzo posto finale. Nell’appuntamento successivo a Edmonton non c’è storia: Will domina tutto il fine settimana precedendo sul traguardo Castroneves e Dixon.

Il programma parziale dell’australiano prosegue in Kentucky, dove prende il via dalle ultime file a causa della pioggia, che fa cancellare le qualifiche. Una strategia alternativa gli fa condurre una trentina di giri nel tratto centrale, relegandolo però al nono posto finale. Nell’appuntamento successivo di Sonoma la stagione di Power si arresta bruscamente quando, durante un turno di prove libere, centra in pieno la vettura di Nelson Philippe, finito in testacoda all’uscita della curva 3. L’impatto induce una secca decelerazione sul corpo del pilota australiano, che riporta la frattura di due vertebre e una forte commozione cerebrale. Rimane in ospedale, prima in California e poi a Indianapolis, per diverse settimane, affrontando la lunga riabilitazione che viene però allietata dalla conferma full time da parte del team Penske per la stagione 2010.

Edmonton. indycar.com, Shawn Payne
Edmonton. indycar.com, Shawn Payne

Nel 2010 Will è quindi il terzo pilota di una Penske a tre punte per la prima volta dal ’94, con l’australiano che affianca Briscoe e Castroneves. Dopo delle prove invernali molto incoraggianti, a San Paolo Will parte dalla terza fila, scegliendo il momento giusto per montare le slick dopo il nubifragio e giocandosi la corsa nel finale con Briscoe e Hunter-Reay. Briscoe sembra il più veloce del terzetto, ma proprio quando riesce ad avere la meglio sull’americano si pianta contro le gomme lasciando strada a Power, che ripete la manovra del compagno senza sbagliare fino al traguardo, aggiudicandosi la corsa d’apertura. A St Pete l’australiano è ancora più impressionante, conquista la pole e dopo una partenza titubante sull’asfalto umido, ripassa Andretti e Castroneves e, grazie anche a una migliore strategia, conquista il secondo successo consecutivo davanti a Wilson e al brasiliano. La marcia trionfale si arresta a Barber, dove Will conquista ancora la pole ma è beffato da Castroneves e i piloti di Ganassi, che aiutati da una bandiera gialla nel finale evitano l’ultima sosta.

A Long Beach arriva la terza pole consecutiva per l’australiano, che però perde la testa della corsa nei primi giri per un momentaneo problema alla trasmissione, lasciando strada libera a Hunter-Reay e Wilson, che lo precedono sul traguardo grazie a un ritmo leggermente superiore. L’eccellente striscia di risultati si interrompe però in Kansas, al primo ovale dell’anno, in cui Power ottiene un deludente 12° posto al termine di una corsa molto poco incisiva. Nelle qualifiche di Indianapolis arriva un parziale riscatto: Will piazza la sua vettura in prima fila al fianco di Castroneves e in gara è l’unico a tenere il passo di Franchitti, prima di perdere numerose posizioni al primo pit stop, quando un errore della squadra gli costa anche un drive through. Riesce lentamente a riportarsi in zona podio ma altri problemi ai box e una ripartenza sbagliata lo relegano all’ottavo posto nel caos finale dovuto all’incidente di Conway. Una buona prova in Texas è rovinata da un detrito della vettura incidentata della De Silvestro e una tattica sbagliata, cui segue un discreto quinto posto in Iowa.

Dopo la difficile parentesi sugli ovali le cose ricominciano a girare nelle corse successive: a Watkins Glen vince la resistenza di Briscoe e replica a Toronto, dove è battuto in qualifica da Wilson ma riesce ad avere la meglio, dopo una partenza prudente, grazie a un grande sorpasso all’esterno sull’inglese nelle fasi conclusive. A Edmonton Power parte ancora dalla pole ma una strategia più efficace avvantaggia Castroneves, che guida la corsa fino all’ultima ripartenza. Alla bandiera verde Will attacca il brasiliano in curva 1, che però copre la linea interna, cosa proibita dal regolamento. Castroneves mantiene la prima posizione  ma viene penalizzato mentre Power è scavalcato da Dixon, che lo precede sul traguardo. Nell’appuntamento successivo di Mid Ohio l’australiano batte Franchitti per la pole, ma è lo scozzese a conquistare i 50 punti, superando il rivale durante una sosta e controllandolo fino al traguardo. Il duello prosegue a Sonoma, dove Power deve contenere negli ultimi giri Scott Dixon, che su una strategia gomme alternativa è mandato all’attacco per sottrarre punti all’australiano, che però resiste.

Power si presenta così alle quattro corse finali, tutte su ovali, con un vantaggio di 59 punti su Franchitti, un margine apparentemente di sicurezza. A Chicago l’australiano sopravvive a un clamoroso sovrasterzo nelle prime battute, duellando con cattiveria per la testa delle corsa con Wheldon e Franchitti. Un problema all’ultima sosta però non permette alla squadra di completare il rifornimento, costringendolo a effettuare un rabbocco a pochi giri dal termine, con Franchitti che precede l’inglese sul traguardo. In Kentucky Power è velocissimo a pista libera, ma ha problemi nel traffico e si ritrova ottavo dopo il rabbocco conclusivo, mentre Franchitti chiude quinto e lo precede anche nell’appuntamento successivo di Motegi, dove i due chiudono sul podio dietro Castroneves, presentandosi all’ultimo appuntamento di Homestead staccati di 12 punti.

Franchitti accorcia le distanze conquistando la pole e conducendo a lungo la corsa, supportato da Dixon, con Kanaan a insidiarli. Power si mantiene in scia al duo Ganassi nelle prime battute, ma accusa un progressivo sottosterzo che lo fa retrocedere ai margini della top ten. La situazione migliora dopo le soste ma a 65 giri dal termine, col trio di testa perfettamente in vista, l’australiano forza troppo un doppiaggio finendo nello sporco e contro il muro, danneggiando le sospensioni. A Franchitti basta così un ottavo posto per scavalcarlo di 5 punti e laurearsi ancora campione.

Sonoma. indycar.com, Jim Haines
Sonoma. indycar.com, Jim Haines

Dopo un 2010 relativamente a sorpresa, Will nel 2011 è il favorito principale nella corsa al titolo. A St Pete conquista con margine la pole davanti a Franchitti, che però riesce a scavalcarlo all’esterno in una ripartenza, stringendo aggressivamente l’australiano contro il muro e andando a vincere in tranquillità. Will però risponde subito, dominando in Alabama e conquistando la pole a Long Beach, dove è però travolto da Castroneves in una ripartenza e termina decimo, tornando poi al successo nella gara bagnata di San Paolo anche grazie al suicidio strategico del team KV, che rovina una grande prestazione di Sato e Viso. La striscia positiva è interrotta a Indianapolis, dove Will parte in seconda fila ma è costretto a tornare ai box su tre ruote per un errore durante la prima sosta, perde un giro e chiude 14°.

Il riscatto arriva in Texas, dove chiude terzo gara1 dietro i piloti Ganassi e precede Dixon in gara2, ottenendo il primo successo su ovale, cui segue un discreto quarto posto a Milwaukee. Il ciclo degli ovali si chiude però in modo inglorioso in Iowa, dove Will prima entra in contatto con Kimball in pit lane e poi finisce violentemente contro il muro in curva 2. Le cose peggiorano a Toronto, dove l’australiano ottiene la pole ma rimane attardato da un contatto con Franchitti, che lo spedisce in testacoda. Poche tornate dopo la sua gara è rovinata del tutto da un’entrata kamikaze di Tagliani e nel dopo gara Power ne ha per tutti, accusando Franchitti e la direzione gara:

Edmonton ristabilisce un po’ di equilibrio, con Will battuto a sorpresa da Sato in qualifica  ma poi in grado di  controllare la corsa, precedendo Castroneves e Franchitti. Mid Ohio è invece una gara nera: mai veloce come le vetture di Ganassi, Power si mantiene ai margini del podio fino all’ultimo turno di soste. Una bandiera gialla esce proprio mentre Franchitti effettua il suo pit stop, mentre Will è costretto ad attendere l’apertura della corsia box, cosa che lo fa precipitare nelle retrovie e concludere al 14° posto. I primi giri della corsa di Loudon sembrano decretare la fine del campionato: Will paga 62 punti di ritardo dallo scozzese, che domina la prima parte di gara e arriva a doppiare l’australiano, in crisi d’assetto. Dario si aggancia però con Sato in una ripartenza mentre Will si rimette piano piano in carreggiata, occupando il quinto posto quando la pioggia interrompe la corsa. Un tentativo troppo frettoloso di riaprire le ostilità finisce in disastro quando Danica Patrick perde il controllo della vettura, innescando un incidente che coinvolge mezza griglia tra cui Power che, sceso dalla sua vettura, dedica un doppio dito medio alla direzione gara, soddisfazione che gli costa 30.000$ e un periodo di probation.

La controversia di Loudon

Loudon segna comunque una svolta: nella corsa successiva a Sonoma Will domina il fine settimana ripetendosi poi a Baltimora, dove conquista la corsa permettendosi una sosta in più degli avversari, grazie a un finale condotto a ritmo da qualifica. È poi secondo a Motegi, dove poco può contro un Dixon insuperabile, presentandosi in Kentucky con 11 punti di vantaggio su Franchitti. L’australiano parte in pole e nei primi giri è imprendibile per tutti, fino a quando uno scontro con Ana Beatriz in corsia box gli procura un buco in una pancia che affossa la sua Dallara, relegandolo al 19° posto con 18 punti da recuperare sullo scozzese. All’ultima gara di Las Vegas, esce miracolosamente illeso dal catastrofico incidente che cosa la vita a Dan Wheldon e che lo vede volare per decine di metri, prima di schiantarsi contro il muro. La corsa viene cancellata e Dario Franchitti dichiarato campione, mentre Power affronta un breve periodo di riabilitazione dalla frattura vertebrale subita nell’incidente.

Baltimora. indycar.com, Shawn Gritzmacher
Baltimora. indycar.com, Shawn Gritzmacher

Perfettamente ristabilitosi, Will si presenta nel 2012 nuovamente col ruolo di grande favorito. A St Pete conquista subito la pole e domina la prima fase, fino a quando una strategia sbagliata lo costringe in mezzo al gruppo, da cui non riesce più a risalire, chiudendo settimo. Una bandiera rossa durante le qualifiche lo relega al nono posto in partenza a Barber, ma nonostante le poche bandiere gialle riesce grazie a un gran ritmo, un’ottima strategia e diversi sorpassi a portarsi in testa e precedere Dixon sul traguardo. A Long Beach viene penalizzato come tutti i piloti Chevy e parte 12°, ma replica la prestazione della corsa precedente, evitando l’ultimo pit stop e contenendo la rimonta di un velocissimo Pagenaud, che gli entra in scia quando ormai è troppo tardi.

A San Paolo poi conquista la pole e domina la corsa, controllando Hunter-Reay fino al traguardo. Will arriva a Indianapolis con 45 punti di vantaggio su Castroneves e in molti lo danno come sicuro campione. Nessuno immagina che quella di Long Beach sarà l’ultima vittoria per il successivo anno e mezzo. A Indy Will si qualifica in seconda fila e rimane in contatto coi primi fino all’80° giro, quando non può evitare Mike Conway, che gli si gira davanti.

È poi quarto a Detroit dietro Pagenaud e i piloti Ganassi, esaltandosi in Texas grazie alla nuova configurazione aerodinamica impiegata sugli ovali medi. Una evitabile penalità per blocking su Kanaan gli costa però un giro, facendolo terminare all’ottavo posto, cui seguono una misera 12° piazza a Milwaukee e un incidente con Viso in Iowa, a causa di un’incomprensione con lo spotter. Non va meglio a Toronto, dove Will parte in prima fila e guida le fasi iniziali prima che, ritrovatosi nel gruppo per questioni di strategia, un contatto con Newgarden porti alla rottura dell’alettone anteriore e a un contatto col muro, con conseguente giro perso e 15° posto finale. L’ennesima battuta a vuoto segna anche il sorpasso in classifica ad opera di Hunter-Reay, che prende il comando con 34 punti di vantaggio. Nonostante la sesta piazza di partenza, a Edmonton Power riesce comunque a guadagnare il podio al termine di una buona corsa, chiudendo davanti all’americano, solo settimo.

La rimonta prosegue a Mid Ohio, dove Will centra la pole ma deve arrendersi a Scott Dixon al termine di un confronto equilibrato. Hunter-Reay invece si ritira per problemi al motore e perde ancora terreno a Sonoma, dove chiude solo 18° dopo essere finito in testacoda ad opera di Tagliani. Will conquista l’ennesima pole e domina la corsa, ma è sfavorito dall’uscita di una bandiera gialla che lancia in testa il compagno Briscoe, che precede il connazionale fino al traguardo. I 36 punti e la pole di Baltimora sembrerebbero chiudere il discorso titolo, ma dopo aver condotto le prime fasi Will sbaglia a montare le rain durante un breve acquazzone, mentre Hunter-Reay, fin lì in difficoltà, fa la gara della vita e trionfa davanti a Pagenaud e Briscoe. Power si produce in una spettacolare rimonta dal fondo e chiude sesto, presentandosi all’ultimo appuntamento di Fontana con 17 punti di vantaggio sul rivale.

Entrambi partono dalle retrovie, rischiando addirittura il doppiaggio da parte del leader JR Hildebrand fino a quando, attorno al 50° giro, arrivano ai ferri corti. Dopo un giro percorso affiancati, Power tenta di ripassare Hunter-Reay all’interno in curva 1, ma la transizione tra due strati adiacenti di asfalto lo tradisce, mandandolo in testacoda. Tornato in pista grazie a un lavoro straordinario dei meccanici, l’australiano conquista qualche punto in più, obbligando Hunter-Reay ad arrivare quinto o meglio per conquistare il titolo. Dopo la ripartenza da una bandiera rossa nel finale, l’americano si ritrova a battagliare con Sato per la quarta piazza. All’ultimo giro i due sono insidiati da Castroneves, che arriva fortissimo in virtù di gomme appena cambiate, ma il giapponese perde il controllo della vettura in curva 2, causando la neutralizzazione della corsa che garantisce ad Hunter-Reay quarto posto e titolo. Power si piazza secondo a tre punti dall’americano.

Long Beach. indycar.com, Lat Photo USA
Long Beach. indycar.com, Lat Photo USA

Ancora una volta Power comincia la stagione col ruolo di favorito. A St Pete ottiene la solita pole ma in gara, mentre è pienamente in lotta per la vittoria con Castroneves e Hinchcliffe, viene travolto da JR Hildebrand durante una neutralizzazione. Dopo essere partito dalla prima fila interrompe la striscia di vittorie a Barber, chiudendo quinto, mentre a Long Beach è colpito da Vautier durante una sosta e conclude 15°. Le cose non vanno meglio a San Paolo, dove prende il via dalle ultime file dopo essere stato beffato da una bandiera rossa in qualifica. In gara recupera alla grande fino al 17° giro, quando il suo motore va a fuoco. A Indianapolis Will si qualifica in seconda fila ma, dopo aver anche condotto la corsa nelle fasi iniziali, non riesce ad adattare la vettura alle mutevoli condizioni della pista, chiudendo mestamente al 19° posto. A Detroit un passo non irresistibile lo piazza solo all’ottavo posto in gara 1, mentre nella seconda corsa si ritira tamponato da Bourdais durante una ripartenza. A uno scialba settima piazza in Texas segue l’ottimo terzo posto di Milwaukee, dove insidia Castroneves fino al traguardo, mentre in Iowa dopo un buon avvio rimane attardato da una macchina divenuta inguidabile, chiudendo 17°.

È poi quarto a Pocono, il migliore dei piloti Chevrolet in un finale giocato sui consumi, mentre a Toronto lotta per la vittoria con Bourdais e Dixon, pagando diversi eccessi di foga, fino a quando non finisce nelle gomme all’ultimo giro in un estremo attacco a Franchitti per il podio. In gara 2 è poi coinvolto in un incidente con Hunter-Reay all’ultima ripartenza mentre occupa la quarta posizione. A Mid Ohio parte della prima fila, ma come altri big sceglie la strategia sbagliata, chiudendo solo quarto mentre a Sonoma si qualifica in seconda fila, giocandosi la corsa con Franchitti e Dixon. Dopo diversi scambi di “cortesie” con lo scozzese, effettua l’ultima sosta alle spalle di Dixon, che nel lasciare la piazzola travolge un meccanico del team Penske, pagando l’infrazione con un drive through. All’ultima ripartenza Will ha quindi la meglio su Wilson e Franchitti, conquistando il primo successo da San Paolo 2012. A Baltimora si porta subito al comando, superando Dixon al primo giro. Durante una ripartenza però, in un cambio di traiettoria improvviso nel tentativo di superare Bourdais, finisce per travolgere lo stesso Dixon, che stava tentando la medesima manovra. Entrambi sono costretti al ritiro, confrontandosi ancora a Houston, dove in gara 1 è il neozelandese ad avere la meglio, mentre Power rimane attardato da un errore strategico e chiude 12°.

In gara 2 invece è l’australiano a risolvere a proprio vantaggio un duello lungo tutta la gara con il rivale, conquistando la seconda vittoria stagionale. All’ultimo appuntamento a Fontana infine Will, determinato come mai prima sugli ovali, porta a termine una corsa intelligente, uscendo fuori al momento giusto e conquistando la prima 500 miglia in carriera. La sequenza di ottimi risultati raccolti nella seconda parte della stagione gli vale il terzo posto in campionato, alle spalle di Dixon e Castroneves.

Fontana. roadandtrack.com
Fontana. roadandtrack.com

Rinfrancato da un finale di stagione che ha spazzato via i dubbi e il calo di motivazione sorti dopo il disastro di Fontana 2012, Will affronta la nuova annata cercando di non pensare troppo al campionato ma più alle singole gare: mettendo insieme tante vittorie la questione titolo dovrebbe sistemarsi di conseguenza, questo è lo spirito. La corsa di apertura a St. Pete regala però una sorpresa quando Sato beffa tutti in qualifica, interrompendo la striscia di 4 pole consecutive di Power, che rimane però concentrato e in gara veleggia solitario verso la vittoria dopo aver strappato il comando al giapponese con uno spettacolare sorpasso all’esterno. A Long Beach qualche problema in qualifica costringe Will a partire in mezzo al gruppo. Il recupero riesce, anche se a farne le spese è Pagenaud, che finisce nelle gomme dopo essere stato colpito da Will in un tentativo di sorpasso che, a detta di tutti, meritava una penalità. La collisione crea un forte contrasto tra i due, grandi amici dai tempi del team Walker. Intascato il regalo di Hunter-Reay, che nel tentativo di superare Newgarden fa fuori tutti i principali contendenti alla vittoria, Will sarebbe in posizione perfetta, ma all’ultima ripartenza viene sfilato all’esterno da Conway, che conserva il comando fino alla bandiera a scacchi relegandolo al secondo posto. L’astinenza da pole position finisce a Barber, dove Will scatta in testa sul bagnato ma è poi protagonista di un dritto che che lo costringe all’inseguimento di Hunter-Reay. Un assetto poco adatto alla pista asciutta lo lascia poi in balia di Andretti e Dixon, che lo retrocedono al quarto posto finale. L’australiano si presenta al doppio appuntamento di Indianapolis in testa al campionato, ma entrambe le corse non vanno secondo le attese. Nel GP Will sopravvive a un errore iniziale e un contatto con Dixon, ma una penalità per essere passato sul tubo dell’aria compressa lo relega al settimo posto finale. La 500 miglia lo vede partire in prima fila, ma dopo aver condotto durante le prime fasi nel finale l’australiano non ha la velocità per inserirsi nel discorso vittoria, chiudendo solo ottavo.

La situazione di classifica migliora a Detroit, dove Will è solo 16° in qualifica, ma una favorevole sequenza di bandiere gialle e un gran passo gara gli permettono una improbabile rimonta, che nel finale lo vedere contenere gli attacchi di Rahal e conquistare il successo.

CONTINUA…

Milwaukee. indycar.com, Chris Owens
Milwaukee. indycar.com, Chris Owens
Finalmente la Astor Cup. indycar.com, Chris Jones
Finalmente la Astor Cup. indycar.com, Chris Jones
Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L GPV
2005 ChampCar Walker Aussie Vineyards 2 22 17 0 0 0 1 0 0 0 nd
2006 ChampCar Walker 15 Aussie Vineyards 14 6 213 0 1 3 9 1 14 2 nd
2007 ChampCar Walker 5 Aussie Vineyards 14 4 262 2 5 8 8 4 153 8 nd
2008 IRL/IndyCar KV Racing 5 Aussie Vineyards 18* 12 331 1 1 3 6 1 100 3 nd
2009 IRL/IndyCar Penske 3/12 Verizon 6 19 215 1 3 4 6 2 135 3 nd
2010 IRL/IndyCar Penske 12 Verizon 17 2 597 5 9 11 13 8 460 14 nd
2011 IndyCar Penske 12 Verizon 17 2 555 6 9 11 12 8 518 13 nd
2012 IndyCar Penske 12 Verizon 15 2 465 3 6 7 10 5 294 10 nd
2013 IndyCar Penske 12 Verizon 19 4 498 3 4 7 9 4 351 15 3
2014 IndyCar Penske 12 Verizon 18 1 671 3 7 11 15 4 623 11 2
2015 IndyCar Penske 1 Verizon 16 3 493 1 3 7 10 6 298 11 1
2016 IndyCar Penske 12 Verizon 15 2 532 4 7 8 11 1 139 8 2
2017 IndyCar Penske 12 Verizon 17 5 562 3 7 9 10 6 443 10 2
2018 IndyCar Penske 12 Verizon 17 3 582 3 8 8 11 4 358 11 3
205 5993 35 70 97 131 54 3886 119
Vincitore Stradali Cittadini Ovali Totale
2007 Las Vegas Toronto 0 2 0 2
2008 Long Beach 0 1 0 1
2009 Edmonton 1 0 0 1
2010 San paolo St. Pete Watkins Glen Toronto Sonoma 2 3 0 5
2011 Barber San Paolo Texas2 Edmonton Sonoma Baltimore 3 2 1 6
2012 Barber Long Beach San Paolo 1 2 0 3
2013 Sonoma Houston 2 Fontana 1 1 1 3
2014 St. Pete Detroit 2 Milwaukee 0 2 1 3
2015 Indy GP 1 0 0 1
2016 Detroit 2 Road America Toronto Pocono 1 2 1 4
2017 Indy GP Texas Pocono 1 0 2 3
2018 Indy GP Indy500 St. Louis 1 0 2 3
Totale 12 15 8 35
Quote 34,3% 42,9% 22,9% 100,0%

Greg Moore

Nome: Gregory William Moore

Data e luogo di nascita: 22 aprile 1975, New Westminster (Canada)

Nazionalità: Canadese

Ruolo: Pilota

Greg Moore nasce a New Westminster, Columbia Britannica, il 22 aprile 1975. Suo padre Ric, che lo accompagnerà per tutta la carriera come manager e talvolta spotter, dirige una concessionaria d’auto, è un grande appassionato di corse nonché pilota amatoriale in Can-Am. Affascinato spettatore delle corse del padre, Greg a dieci anni chiede e ottiene un kart, che diventa ben presto una sua grande passione, al pari dell’hockey su ghiaccio, lo sport nazionale del Canada. Ma il paese nord americano ha anche una forte tradizione motoristica e un cuore pulsante di passione, ed è questa che alla fine convince Greg a scegliere le 4 ruote, relegando l’amato hockey a hobby. Le corse si sa sono però una passione costosa e Ric Moore negli anni dovrà chiedere un’ipoteca sulla casa e mettere a rischio la sua stessa attività, per dare a Greg una concreta possibilità di arrivare in alto.  Il talento del ragazzo è però evidente e vale i rischi corsi. Greg vince subito nelle sue prime esperienze col kart, imponendosi nei vari campionati nazionali. Passa quindi alle monoposto, a soli 15 anni, impressionando nelle giornate di scuola in F.Ford e vincendo subito il titolo di rookie of the year nell’impegnativo campionato Esso Protec di categoria. L’anno dopo passa al campionato USAC West di Formula 2000, che vince alla grande e lo proietta verso la serie cadetta del grande circo americano, l’IndyLights. Greg, non ancora 18enne, ottiene per i primi mesi del campionato 1993 una speciale licenza per correre, dal momento che i minorenni non potrebbero neanche accedere ai box. Il giovane canadese corre ancora sostenuto dalla famiglia e qualche sponsor minore, per cui le disponibilità finanziarie sono limitate insieme alla dotazione tecnica e alle giornate di test. Il primo anno fa quindi esperienza, imparando a conoscere una macchina grossa e potente come la IndyLight, ottenendo un podio e vari piazzamenti.

Nel ’94, con la macchina perfettamente in mano, centra tre vittorie (tutte su ovali corti), diverse pole position e il terzo posto in campionato. Tutto ciò gli vale l’attenzione della Player’s, da sempre grande sostenitrice dei piloti canadesi, che prende Moore sotto la sua ala protettrice sostenendone finanziariamente la carriera che, nonostante il chiaro potenziale espresso e i mille sforzi del padre, rischiava di arenarsi. Nel ’95 si crea quindi un sodalizio che durerà fino al 1999. Moore diventa pilota ufficiale Player’s ed entra nel top team di Jerry Forsythe, magnate canadese grande appassionato di motori e proprietario di squadre, sia in IndyLights che in IndyCar. Con due anni di esperienza alle spalle e un team finalmente in grado di vincere, Greg annichilisce  la concorrenza. Sullo stradale di Miami, alla prima corsa, rifila distacchi abissali al gruppo, vincendo alla grande. Dopo un primo assaggio a fine ’94 in una Nazareth in versione stradale, arriva anche un vero test in IndyCar, quando Roger Penske invita Moore e Scott Sharp a provare le proprie vetture in previsione della Indy500, data l’indisponibilità dei titolari. Da sempre grande scopritore di talenti, Penske guarda con interesse a Moore, pur sapendo che la sua carriera è ormai legata alla Player’s.

Il campionato intanto prosegue in modo trionfale. Moore batte ogni record, vincendo 10 delle 12 gare in programma.  Un dominio simile in formula cadetta non si vedeva dai tempi di un altro canadese, Paul Tracy, di cui Moore appare l’erede, in tutti i sensi. Proprio come “the thrill from West Hill”, Greg corre e va in giro con dei vistosissimi occhiali dalle lenti rotonde, che lo fanno sembrare più un secchione con indosso una tuta ignifuga piuttosto che un astro nascente del motorismo mondiale. Ma nonostante i 19 anni e l’aspetto da liceale, Greg si dimostra un pilota non solo velocissimo ma anche maturo, pronto per la prossima sfida, il salto in IndyCar.  Il passaggio in F1 di Jacques Villeneuve facilita le cose, con la Player’s che lascia il team Green e sostiene esclusivamente il team Forsythe, che schiererà una sola vettura per Moore, in sostituzione di Teo Fabi.

Greg ha quasi sempre corso con il numero 99 che, diversamente da quanto molti credono, non fu scelto in onore di Wayne Gretzky. In realtà era semplicemente il numero di tessera del club di kart in cui fece le sue prime corse. Ben presto diventa il suo simbolo. http://singleseatracing.blogspot.it
1995 Milwaukee Lights - Greg Moore
Phoenix apre il trionfale 1995, in cui Greg mancherà la vittoria solo a Detroit, preceduto da Robbie Buhl, e nella gara di casa a Vancouver, dove sarà colpito da un altro pilota.racer.com; Marshall Pruett

Il 1996 è un anno di transizione per le corse americane. L’IndyCar si è scissa in due serie antagoniste, CART e IRL, con la prima che conserva le tappe principali del calendario e tutti i migliori attori mentre la seconda può vantare solo l’Indianapolis 500 come fiore all’occhiello. Il team Forsythe rimane ovviamente fedele alla CART e Greg Moore è tra i principali indiziati per il titolo di rookie of the year. Le attese sul giovane canadese, dopo la trionfale stagione in IndyLights, sono altissime e sono in molti a credere che sarà lui la stella del futuro. A Homestead, prima gara stagionale, sembrano arrivare le prime conferme. In una corsa nervosa e lungamente interrotta dalla pioggia, Moore si mette in mostra come grande protagonista. Nelle prime fasi battaglia alla pari con piloti del calibro di Rahal, Unser Jr, Gordon e Pruett, sbeffeggiandoli con millimetrici sorpassi all’esterno ma venendo spesso ripassato nel traffico. Fino alle fasi finali Moore resta in zona vittoria, ma perde un giro per scontare una penalità per infrazione in regime di bandiere gialle. Le speranze di un’incredibile vittoria al debutto sono sfumate ma è ora che inizi il Greg Moore show: con una macchina che non ha fatto che migliorare per tutta la corsa, Greg si ritrova nella parte bassa del gruppo a 30 giri dalla fine e inizia un’incredibile teoria di sorpassi. Che gli valgano una posizione o un giro recuperato poco conta, Moore passa con irridente facilità, sfilando all’esterno un po’ tutti fino ai primi: Rahal, Gordon, Pruett, De Ferran e, infine, il vincitore Vasser, spettatore incredulo del ritmo infernale del giovane canadese. La prestazione vale a Greg un settimo posto ed elogi sperticati, nonostante l’evitabile penalità che gli ha negato una probabile vittoria.

Nell’appuntamento successivo di Rio le cose vanno ancora meglio. Moore parte in seconda fila e guida a lungo il gruppo nel tratto centrale. In testa a una corsa IndyCar a vent’anni e alla seconda gara in carriera! Un problema tecnico lo costringe al ritiro, ma il canadese si rifà in Australia, dove coglie un ottimo terzo posto. Due settimane dopo però, a Long Beach, è vittima di un incidente con Christian Fittipaldi. Un normale contatto di gara per il quale il focoso brasiliano incolpa in toto il rookie.  A Nazareth, primo vero ovale corto dell’anno, Moore porta a termine una gara molto positiva conquistando il secondo posto alle spalle di Andretti. Dopo di che è la volta di un super speedway e della prima 500 miglia, la US500 che la CART organizza in contrapposizione alla Indy500. Si corre a Michigan e Greg ancora una volta stupisce. Sempre veloce nelle prove, in gara fa faville, lottando a lungo nelle zone alte della classifica, come sempre con grandi manovre all’esterno. Il sogno di una  clamorosa vittoria però va in fumo, insieme al suo motore, a 27 giri dalla fine, quando si trova al terzo posto. In precedenza Moore era stato anche protagonista di un’avventura spaventosa ma a lieto in fine. In lotta con Andre Ribeiro, il canadese perde il controllo della vettura in curva 2. La macchina compie una serie di piroette ma viene ripresa nell’erba dal pilota, che la conduce senza danni ai box, prima di riprendere la corsa. Un controllo straordinario, in parte merito della fortuna, ma ancora una volta Greg mette in mostra grande sangue freddo.  A  Milwaukee si ripete. Unico a tenere il ritmo delle Penske e di Andretti, perde il controllo in curva 4 nelle ultime battute ma raddrizza la macchina e si salva dal muro infilando la corsia box! Un altro controllo grandioso e un altro piazzamento pesante.

Inizia così la stagione degli stradali e si accende la battaglia per il titolo di rookie of the year. Se Greg ha finora dominato la scena, un grande concorrente sta per segnare indelebilmente la storia della CART, Alex Zanardi. Inizia così una grande rivalità che caratterizzerà i due anni successivi. A Portland Zanardi infila la prima vittoria e con una impressionante serie di risultati offusca Greg e si lancia all’inseguimento di Vasser per il campionato. Inizia un periodo chiaro scuro per Moore. Al podio di Cleveland e il quarto posto di Toronto, si contrappongono i ritiri di Detroit e Portland e gli incidenti di Mid Ohio ed Elkhart Lake.  A Michigan, nella Marlboro 500, Greg rimane attardato da problemi a una sospensione, ma al primo giro è coinvolto nel terribile incidente che pone fine alla carriera di Emerson Fittipaldi. Partito in prima fila, Greg subisce al primo giro un rischioso attacco all’esterno del veterano brasiliano in curva 2. Le vetture sono vicinissime e la ruota posteriore sinistra di Fittipaldi entra in contatto con l’anteriore destra di Moore. In seguito Fittipaldi e altri piloti accuseranno il canadese di aver innescato l’incidente. Moore in effetti allarga leggermente la traiettoria, un scarto probabilmente causato dall’azione congiunta di turbolenza e gomme fredde, lieve ma sufficiente a mandare in testacoda la Penske.

Moore sente la pressione di Zanardi e, nel tentativo di tenere aperto il discorso per il titolo di rookie dell’anno, commette degli errori. A Mid Ohio butta alle ortiche un discreto piazzamento tentando un impossibile attacco su Ribeiro, che si rifà due settimane più tardi a Road America con una manovra molto pericolosa. Moore tenta di riprendere al paulista la posizione persa nella precedente ripartenza, affiancandolo nel velocissimo tratto che conduce alla Canada Corner. A vetture appaiate, Ribeiro spinge Moore sull’erba, la macchina del canadese alza il muso, raschia contro il muro e solo per miracolo finisce la sua corsa nelle vie di fuga, senza urtare niente e nessuno. Un grande spavento in una pista pericolosa come Road America. La stagione di Moore finisce con il cambio KO a Vancouver e un sesto posto a Laguna Seca. Un primo anno positivo, specie nella prima parte, ma messo in ombra dal ritorno prepotente di Zanardi, culminato col famoso sorpasso su Bryan Herta al Cavatappi di Laguna Seca. In realtà valutare con lo stesso metro di giudizio le stagioni dei due piloti significherebbe fare, almeno in parte, un torto a Moore. Zanardi arriva in America all’apice della sua maturazione di pilota, dopo importanti esperienze in F1 e in generale nell’impegnativo panorama delle competizioni europee. Moore, al primo anno in una serie davvero di alto livello, ha fatto vedere i classici pregi e difetti del debuttante. Velocità, grinta, esuberanza, errori evitabili. In molti si aspettavano qualche vittoria, ma tutti rimangono comunque colpiti da questo 21enne, subito inseritosi nel ristretto circolo delle star di una categoria impegnativa come la CART, notoriamente più adatta a piloti veloci ma esperti.

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Terzo posto a Surfers Paradise. champcar.com; Peter Burke

Considerando queste premesse, Moore nel 1997 è tra i piloti più attesi, sebbene la lotta per il titolo sembri un affare privato tra Penske, Ganassi e Newman Haas. In realtà la stagione inizia in modo tribolato per il team Forsythe, che a poche settimane dalla partenza decide di adottare nuovamente i telai Reynard in luogo dello chassis Lola, usato nei test invernali e rivelatosi molto deludente. Moore corre quindi  a Homestead con la vettura del ‘96, ottenendo un buon quarto posto dopo una corsa accorta. Nel 1997 il team Forsythe prosegue quindi con il pacchetto Reynard-Firestone, accoppiato al motore Mercedes, che combatterà alla pari col blasonato V8 Honda, campione in carica col team Ganassi. A Surfers Paradise, secondo appuntamento stagionale, Moore approfitta dell’incidente tra Zanardi e Tracy e coglie un ottimo secondo posto dietro Scott Pruett. Un contatto con lo stesso Tracy lo relega però nelle retrovie a Long Beach, che lo precede poi nella corsa successiva a Rio, dove Greg coglie un ottimo secondo posto grazie anche alle ottime doti di consumo del motore Mercedes. Non altrettanto positiva è la corsa di Nazareth, viziata da problemi di assetto, mentre guai all’ultima sosta ai box lo estromettono dalla lotta per la vittoria sull’ovale corto di St Louis, dove Greg per lunghi tratti dà spettacolo nelle prime posizioni. Si arriva quindi a Milwaukee. Dopo una sfuriata iniziale di Paul Tracy, per due volte Moore passa il compatriota per la prima posizione, ritrovandosi però  nel gruppo a metà gara, a causa di una strategia sfalsata rispetto agli altri. Nelle ultime battute Steve Challis, ingegnere di pista e fraterno amico che lo accompagnerà per tutta la carriera, decide per un azzardo strategico. Sfruttando ancora le doti di consumo del motore Mercedes, Moore eviterà l’ultimo pit stop prendendo la testa della corsa. Con alle spalle uno scatenato Michael Andretti, Moore gestisce con autorevolezza le ultime decine di miglia e a 22 anni diventa il più giovane vincitore di una corsa sanzionata CART. Le tante promesse vengono finalmente mantenute, il successo lancia Greg nelle parti alte della classifica e nella lotta per il campionato.

L’appuntamento successivo è a Detroit, dove le particolari caratteristiche del motore Mercedes si rivelano ancora determinanti. Moore parte in quarta fila, ma passa i diretti rivali durante le soste e nelle ultime fasi si ritrova dietro Gugelmin e Blundell, compagni di squadra nel team PacWest, anch’essi motorizzati Mercedes. I due tentano una strategia molto rischiosa: evitare l’ultima sosta sperando in una bandiera gialla nel finale. L’agognata neutralizzazione però non arriva e il team PacWest vede entrambe le vetture fermarsi con i serbatoi vuoti, a poche decine di metri dal traguardo. Moore ringrazia e coglie la seconda vittoria consecutiva. L’euforia è totale nei box del team Forsythe, ancora più lanciato in chiave titolo. In condizioni climatiche estremamente variabili, Moore coglie un quinto posto a Portland, ma si ritira a Cleveland con il motore in fumo. Da qui, un po’ come accaduto nella stagione precedente, sale in cattedra Alex Zanardi. Il pilota italiano infila una lunga serie di podi, condita da quattro vittorie, mentre i suoi avversari lentamente si eclissano.  Dopo quello di Cleveland, Moore è costretto al ritiro anche a Toronto e  Michigan. In Canada è proprio un contatto con Zanardi a metterlo fuori gioco, mentre nella US500 è il turbo a lasciarlo a piedi.

Il canadese mantiene in vita le sue speranze di titolo a Mid Ohio, con un secondo posto alle spalle di Zanardi, ma un’uscita sotto l’acqua a Road America e un muretto colpito a Vancouver lo relegano definitivamente fuori dai giochi. Nell’ultimo appuntamento, la Marlboro 500 sul nuovo superspeedway di Fontana, Moore mette in mostra il meglio del suo repertorio, correndo da veterano e ritrovandosi in testa nella fase decisiva della corsa. Sarà però la rottura del motore negli ultimi giri a negargli un successo quasi certo. Termina così un campionato che ha visto Greg entrare nel circolo dei vincitori di tappa, ma il canadese dimostra di avere ancora da imparare per poter lottare per il titolo, in particolare quando la stagione entra nel vivo e non sono più permessi errori. Sportivamente il 1997 non finisce però qui. In qualità di pilota Mercedes di riferimento in America, Moore viene invitato a guidare una delle CLK-GTR della casa tedesca nelle ultime due prove del campionato FIA GT, in programma a Sebring e Laguna Seca. Al debutto su una GT, Greg si comporta molto bene, impressionando i manager tedeschi per la facilità con cui si porta subito sui tempi dei titolari. Viene affiancato ad Alex Wurz, con il quale si instaura subito un ottimo rapporto. L’equipaggio austro-canadese terminerà entrambe le gare al settimo posto, con Wurz che conquista la pole a Laguna Seca.

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In battaglia con Michael Andretti a Portland. champar.com; Peter Burke
Nell'abitacolo della Mercedes CLK. motorsportsretro.com
Nell’abitacolo della Mercedes CLK. motorsportsretro.com

Per il 1998 il campionato CART sembra essere un affare a tre:  Alex Zanardi, che da favorito nel ‘97 ha rispettato il pronostico e ha tutto per puntare al bis; Michael Andretti, che porta in pista una Swift-Ford-Goodyear perfettamente a punto e pronta, sulla carta, per ogni superfice; Greg Moore, che con un anno di esperienza in più è atteso alla prova della maturità. Per il ’98 Player’s e Forsythe decidono di raddoppiare gli sforzi e affiancano a Greg il veloce franco canadese Patrick Carpentier, al secondo anno nella CART dopo l’esordio nel team Bettenhausen. Avere una sola vettura ha in parte penalizzato Greg e la squadra dal punto di vista degli assetti. L’arrivo di Carpentier è visto come un passo avanti del team Forsythe per raggiungere le squadre di vertice. La squadra utilizza anche nel ’98 la combinazione Reynard-Mercedes-Firestone, con la casa tedesca che ha vinto nel ’97 il titolo riservato ai motoristi.

La stagione che inizia a Homestead rispetta in pieno i pronostici. Moore coglie una pole position stratosferica, con oltre due miglia l’ora di media di vantaggio sul secondo, Andre Ribeiro sulla Penske. Il canadese diviene anche, a 22 anni, il più giovane poleman nella storia della serie. In gara Moore domina fino alla prima sosta, durante la quale la squadra si accorge che gli air jack che dovrebbero sollevare la vettura, non funzionano. In tutte le soste i meccanici dovranno usare dei cavalletti manuali, con ovvia perdita di tempo e posizioni. In una pista in cui i sorpassi sono molto difficili, la risalita nel gruppo del canadese ha del prodigioso. Moore passa anche tre macchine in un giro, sfruttando magistralmente il traffico, arrischiando spettacolari sorpassi all’esterno. Le posizioni perse a ogni sosta sono però troppe per permettere al canadese di lottare per il successo e allora Steve Challis prende una decisione drastica: Moore non cambierà le gomme nell’ultimo pit stop, effettuando solo il rifornimento. La mossa lancia Greg in terza posizione, ma il canadese dovrà finire la corsa con gomme già parzialmente usurate. Dopo aver resistito coraggiosamente all’esterno ad una attacco di Christian Fittipaldi, Moore passa Zanardi dopo l’ultima ripartenza e si lancia all’inseguimento di Andretti, dominatore della corsa. All’ultimo giro, sfruttando un doppiaggio, riesce quasi ad affiancare l’americano nelle curve 3 e 4, ma dovrà comunque accontentarsi del secondo posto.

A Motegi, seconda corsa stagionale, Moore coglie un discreto quarto posto, avendo la meglio su Paul Tracy in un infuocato duello a base di ruotate negli ultimi giri. Il piazzamento gli vale la testa del campionato, che prosegue a Long Beach, dove il canadese arriva settimo dopo aver scontato una penalità nel finale per infrazione ai box, per poi tornare sul podio a Nazareth, terzo dietro le vetture del team Ganassi. Con Andretti attardato da errori e contrattempi, il titolo appare un affare privato tra Moore e Zanardi, che ha vinto in modo spettacolare in California ed è arrivato secondo in Pennsylvania. Si va quindi a Rio, dove la corsa si risolve in uno spettacolare duello tra i due rivali. In una sfida sul filo dei consumi, Moore prima rischia il testacoda e poi, sfruttando perfettamente un doppiaggio,  attacca Zanardi alla staccata della curva 1, trovando uno strepitoso sorpasso all’esterno che gli garantisce la vittoria e nuovamente la testa del campionato. La sfida prosegue a St. Louis, dove è però Zanardi a trionfare, mentre Greg chiude terzo lamentando un forte sovrasterzo. Milwaukee si rivela invece amara per entrambi. Moore domina la corsa ma non può evitare Gugelmin, che gli frena davanti accecato dal fumo del motore esploso di De Ferran. Perde diversi giri per le riparazioni e finisce fuori dai punti, mentre Zanardi chiude solo ottavo.  A Detroit i due battagliano fin dalle prove, con il canadese che strappa la pole al rivale per due decimi. In gara però Zanardi ha un ritmo superiore e vince ancora, mentre Moore chiude quinto.

A questo punto, come negli anni precedenti, il campionato di Greg ha una flessione, con un mix di evitabili errori e problemi tecnici. A Portland, un week end iniziato male con delle pessime prove, finisce alla prima curva quando il canadese manca il punto di frenata e travolge Andretti e Fittipaldi. A Cleveland, un’altra brutta qualifica complice un’intossicazione alimentare, conduce ad un incidente in gara dopo pochi giri, mentre a Toronto saranno problemi al turbo a relegarlo quasi fuori dai punti. Zanardi intanto vince le tre corse e chiude virtualmente il campionato. Si arriva alla US500, per la prima volta corsa con l’Handford device, un dispositivo aerodinamico montato sull’alettone posteriore che frena le vetture e cambia completamente il modo di correre sui super speedway. Ancora una volta Moore dimostra di essere nato per correre sugli ovali. Problemi alla frizione lo rallentano per tutta la gara durante i pit stop, ma il canadese è in grado di recuperare e tenere il contatto coi primi. Poi il capolavoro. All’ultima ripartenza, a quattro giri dalla fine, Moore sale in cattedra, approfitta della battaglia interna al team Ganassi e coglie la vittoria nella corsa più importante della stagione, la prima in una 500 miglia.

La vittoria mantiene a galla Greg in classifica ma il periodo nero sugli stradali prosegue. A Mid Ohio, approfittando di un incidente multiplo nelle prime fasi, Moore prende la testa e controlla la corsa con autorità fino al secondo pit stop. Davanti a lui si è appena fermato Ribeiro, un po’ “di traverso”, subito attorniato dai meccanici del team Penske. Moore nel lasciare la sua piazzola fa pattinare troppo le gomme, cosa inutile dato il cospicuo vantaggio sul secondo, strappando di mano a un meccanico una gomma con la sua posteriore sinistra e colpendo la vettura di Ribeiro. L’errore mette in grave pericolo i membri del team Penske e nega al canadese un’altra vittoria, oltre a costargli un periodo di probation. A Road America, un altro problema alla frizione lo ferma mentre è in testa grazie alla strategia, mentre a Vancouver (corsa per lui di casa ma stregata) è coinvolto in un contatto multiplo dovuto ad un rallentamento improvviso del gruppo.  A Laguna Seca si ritira col motore in fumo mentre a Houston spreca la pole, girandosi al primo giro sotto il diluvio e coinvolgendo il solito Christian Fittipaldi. Poca gloria ci sarà anche a Surfers Paradise, dove risale fino all‘ottavo posto dopo una sosta supplementare per problemi al pedale del freno.

Poi arriva la Marlboro500 a Fontana, dove Moore è protagonista per tutta la gara e arriva a giocarsi la vittoria negli ultimi giri contro Vasser e Zanardi, gli stessi avversari della US500. La corsa si decide con una ripartenza all’ultimo giro. Moore riparte in testa ma sa che, a causa dell’enorme scia creata dall’Handford device, non ci resterà a lungo. Entrambe le vetture del team Ganassi lo passano prima di curva 1. Greg riesce a ripassare Zanardi all’ingresso della curva 3, ma nulla può per riprendere Jimmy Vasser, che conquista 500 miglia, milione di dollari in palio e secondo posto in campionato. Moore chiude quinto una stagione in cui coglie due vittorie, una delle quali in una 500 miglia, ma tutto sommato deludente, non essendo il canadese riuscito a rivaleggiare con Zanardi oltre metà stagione.

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Vittoria a Michigan. champcar.com; Peter Burke

Nel 1999, ancora più che negli anni precedenti, Moore è tra i favoriti insieme a Franchitti, Vasser e Andretti. Senza più Zanardi e con due anni da contendente al titolo alle spalle, il canadese sembra essere nelle condizioni ideali per puntare al titolo. La stagione parte bene, con l’accoppiata pole-vittoria a Homestead e alcuni buoni piazzamenti a Motegi e Long Beach. Negli anni la guerra tra i motoristi si è fatta però accesa e la Mercedes comincia a perdere colpi, sia nei confronti della Honda che della Ford. D’altronde, già nel ’98, solo Moore aveva realmente rappresentato la Mercedes nelle parti alte della classifica. La stagione va quindi avanti tra alti e bassi, con i team Honda che si spartiscono le vittorie (se si esclude qualche intromissione di Andretti e Fernandez) e nessuno dei piloti motorizzati dalla casa tedesca a inserirsi nei giochi di testa. Moore, tra piazzamenti poco entusiasmanti, vari problemi tecnici e qualche errore, conquista un secondo posto a Milwaukee e un terzo a Detroit.

A Michigan lotta ancora con una frizione recalcitrante, che blocca definitivamente le sue rimonte. La nota più importante di questa stagione riguarda qualcosa che accade fuori dalle piste. Roger Penske, dopo anni di risultati arrivati col contagocce col suo telaio, il motore Mercedes e le gomme Goodyear, decide per una svolta radicale e opta per il 2000 per l’accoppiata vincitutto Reynard-Honda e due nuovi piloti: Gil De Ferran e Greg Moore. Per il canadese, dopo quattro anni positivi ma non straordinari al team Forsythe, arriva l’opportunità che vale una carriera, con tutti i vantaggi e le responsabilità che ne derivano. Greg, molto legato agli uomini che lascia e al suo ingegnere Steve Challis, è quindi determinato a chiudere la stagione in bellezza nel terreno a lui amico della Marlboro500, a Fontana. Le cose però non si mettono bene fin dall’inizio. Mentre percorre il paddock in motorino, viene urtato da una macchina che lo fa cadere, procurandogli una frattura e profonde escoriazioni alla mano destra, che ne mettono a rischio la partecipazione alla corsa. Non può nemmeno disputare le qualifiche e si prende in considerazione la possibilità di far correre al suo posto Roberto Moreno. Greg è però determinato a chiudere positivamente la stagione e il rapporto con Player’s e Forsythe, consapevole anche della competitività della vettura su questa pista. Contro il parere di molti, compreso suo padre Ric, decide di correre, aiutato da un particolare tutore sperimentato con successo nel warm up. Ovviamente il non disputare le qualifiche lo costringerà a partire dal fondo. Anche Paul Tracy prende il via dalle retrovie e prima della partenza scherza con Moore. “Ci vediamo là davanti”, gli dice Greg.

La corsa comincia con un forte vento che mette in difficoltà diversi piloti, rendendo la macchina sottosterzante nelle curve 3-4 e sovrasterzante in 1-2. Greg tiene subito fede ai propositi, recuperando numerose posizioni in pochi giri, viaggiando all’esterno addirittura a tre macchine in certi frangenti. Poi la corsa viene interrotta per l’incidente di Richie Hearn. Il pilota americano perde il controllo della vettura in curva 2 e sbatte con una certa violenza contro il muro interno. La corsa riparte al 7° giro ma al 9° viene interrotta di nuovo, stavolta per molto tempo. La causa è Greg Moore, che dal 27° era risalito al 15° posto. Il pilota canadese perde il controllo in curva 2, con la vettura che ad altissima velocità finisce nell’erba interna alla pista. Una strada di accesso per i veicoli dei commissari interrompe però lo scivolamento, fungendo da perno e sollevando la vettura, che finisce la sua corsa contro il muretto interno, con la parte alta che impatta per prima. Le immagini dell’incidente sono agghiaccianti e il comunicato del dottor Steve Olvey, arrivato circa un’ora più tardi, conferma quanto tutti temevano. Greg non c’è più.

Moore a Homestead
Il successo a Homestead apre la stagione. champcar.com; Phil Sedgwick

La corsa va avanti con le bandiere a mezz’asta e i piloti che corrono inconsapevoli di aver perso uno dei colleghi più stimati e ben voluti. Una volta tagliato il traguardo, il dolore e l’incredulità regnano sovrane. In un ambiente abituato ad avere la morte come compagna di viaggio, la scomparsa di Greg Moore lascia un vuoto incolmabile. La comunità della CART era già stata profondamente toccata dalla morte, sempre in quel 1999, di Gonzalo Rodriguez a Laguna Seca. Ma la scomparsa di un ragazzo che nel paddock tutti hanno visto crescere, il dolore di una famiglia da tutti ben voluta, la tragica uscita di scena di un talento dal futuro radioso, scuotono l’ambiente. Robby Gordon, anche a causa dell’incidente, lascia la CART e per i tanti amici, Dario Franchitti, Max Papis, Tony Kanaan, Paul Tracy e Jimmy Vasser su tutti, l’inverno sarà molto triste e pieno di incertezze. Franchitti, già amareggiato per aver perso il titolo contro Montoya, scoppia a piangere nel momento in cui suo padre George lo informa della scomparsa del suo migliore amico. Lo scozzese, visibilmente commosso, dedicherà poi a Moore la sua vittoria di Fontana, nel 2005.

L’incidente solleva anche diverse polemiche legate alla sicurezza. Ci si chiede il senso di quella strada d’accesso nel bel mezzo del prato, che ha sollevato da terra la vettura durante il testacoda. Ci si interroga sull’eccessiva potenza delle vetture CART, che nonostante le limitazioni sono in grado di viaggiare nuovamente a 390 kmh di media in catini come Michigan e Fontana. Si punta il dito contro l’Handford device, dispositivo introdotto per ridurre le velocità ma anche causa di lamentele da parte dei piloti. La nuova ala riduce si la velocità delle vetture, creando un enorme freno aerodinamico, ma rende le auto instabili, talvolta imprevedibili e difficilmente recuperabili in caso di perdita di aderenza. Un rischio aggiuntivo in corse in cui le velocità elevatissime mettono già in dubbio le condizioni di sicurezza. Lo stesso muro su cui Moore sbatte, non parallelo alla pista per permettere l’ingresso dei mezzi di soccorso, ha avuto le sue responsabilità sulla gravità dell’incidente. La CART reagisce nel 2000 introducendo un nuovo Handford device, negli intenti meno sensibile ai disturbi aerodinamici e in grado di “far sentire” di più la macchina ai piloti. Nella realtà le lamentele proseguiranno fino al 2001, quando la serie limiterà l’uso del dispositivo ai super ovali insieme a nuove limitazioni sui motori. In tutti gli ovali veloci la zona interna alle curve, che separa la pista dal muro interno, viene totalmente asfaltata, così da permettere a una macchina fuori controllo di decelerare più efficacemente. Gli stessi muri interni vengono protetti da file di gomme.  Nel 2001 sarà reso obbligatorio l’uso dell’Hans device, dispositivo poi universalmente adottato che riduce gli effetti delle decelerazioni da impatto sul collo dei piloti. Nello stesso anno le vetture stesse subiranno una graduale riduzione delle potenze, anche in un’ ottica di abbassamento dei costi.

Come nel caso di Ayrton Senna e altri piloti scomparsi in gara, la morte di Greg Moore concorre almeno nel garantire migliori condizioni di sicurezza per le corse che in seguito verranno.

Il posto di Moore nel  team Player’s viene preso da un altro canadese, Alex Tagliani. Sarà però Paul Tracy, nel 2003, a portare a Jerry Forsythe il tanto agognato titolo CART. Proprio Tracy avrà l’onore di vincere nel 2000 la corsa di Vancouver, evento interamente dedicato alla memoria di Greg con i genitori, Ric e Donna Moore, che premieranno il canadese, che avrà la meglio su Franchitti. Forse la sconfitta più dolorosa della carriera di Dario, che si rifarà due anni dopo. Roger Penske, proprietario tra l’altro della pista in cui Moore perde la vita, sceglie in extremis al suo posto Helio Castroneves, che sarà autore di una buona stagione, premiato al termine col Greg Moore Legacy Award. La CART istituisce questo premio annuale alla memoria del canadese, da assegnare al pilota che più di tutti ne porta avanti lo spirito, in pista e fuori. La serie decide inoltre di ritirare il numero 99, che ha accompagnato la carriera di Greg fin dai kart.

In molti in seguito condivideranno ricordi e impressioni sul giovane canadese. Roberto Moreno dirà: ”se avessi corso al suo posto sarebbero successe due cose: Greg sarebbe ancora con noi e io non avrei avuto l’incidente, perché non avrei tentato le manovre che lui stava facendo”. Il brasiliano sarà poi molto commosso nel ricevere il trofeo del vincitore della corsa di Vancouver nel 2001. Tutti ne rimarcheranno il grandissimo talento, il coraggio, ma più di tutto l’attitudine, dentro e fuori dalla pista. Alex Zanardi dirà: “era un ragazzo di quelli veri, uno di quelli che in pista non mollava un millimetro ma fuori dall’abitacolo, se gliele avevi suonate di santa ragione, era sempre il primo a farti i complimenti anche digrignando i denti”.

Perché Moore non era solo un grande pilota. Nonostante la giovane età, Greg era una figura polarizzante, carismatica, un elemento di aggregazione in un mondo in cui la competizione estrema sembrerebbe non lasciare spazio a sincere amicizie. Moore era il simbolo del “what happens on the track, stays on the track”, del riuscire a separare la carriera dalla vita normale . Questo gli ha permesso di stringere amicizie profonde con piloti come Dario Franchitti, Max Papis, Tony Kanaan ma anche Paul Tracy e Jimmy Vasser oltre che rapporti di stima e rispetto con i vari Zanardi, Andretti, Gordon, Montoya e molti altri, per non dire tutti gli altri. In un ambiente duro ma più aperto al cameratismo rispetto alle corse europee, Moore ha contribuito in modo determinante al clima di rispetto e amicizia che ha unito i piloti di quella generazione. Un modello di sportività che ancora oggi fa scuola e costituisce forse l’eredità più grande lasciata da Greg, senza sottostimare le sue gesta in pista che lo hanno consacrato come pilota di livello mondiale, lasciandoci con il grande interrogativo non del se, ma di quanto avrebbe potuto vincere come punta del team Penske.

Ciò che sportivamente ha impressionato di Moore era la sua straordinaria abilità negli ovali. La sua incredibile sensibilità ad altissime velocità, il suo controllo in condizioni estreme. Ma soprattutto i suoi numeri, manovre incredibili, sorpassi all’esterno che in pochissimi potevano emulare. Lo accusavano di essere un oval master non altrettanto forte sugli stradali. Il tempo e la maturazione lo avrebbero portato a eccellere anche in quell’ambiente, in particolare nel team Penske. Come è solito dire Franchitti infatti: ”riuscite a immaginare cosa avrebbe potuto fare con un motore Honda?!”

Non avremo mai la risposta, abbiamo però visto abbastanza per dire che Moore avrebbe continuato a dare spettacolo e a guadagnarsi rispetto e ammirazione di tutti per molti anni ancora.

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Toronto 2000, Paul Tracy indossa un casco con i colori dell’amico scomparso. champcar.com; Peter Burke
Dario Franchitti, Max Papis, Paul Tracy e altri piloti, porteranno sempre sul casco questo adesivo in ricordo di Greg, con quella che è diventata la sua frase simbolo: “See ya up front”. motosportretro.com

 

Dario Franchitti, Max Papis, Paul Tracy e il giornalista Mike Zizzo raccontano a Marshall Pruett i loro ricordi di Greg a vent’anni dalla sua scomparsa. Invito chi volesse approfondire ulteriormente vita e carriera del canadese a guardare questa splendida riunione.

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1996 CART Forsythe 99 Player’s 16 9 84 0 3 5 8 0
1997 CART Forsythe 99 Player’s 17 7 111 2 5 7 7 0
1998 CART Forsythe 99 Player’s 19 5 141 2 6 8 10 4
1999 CART Forsythe 99 Player’s 20 10 97 1 3 5 8 1
Carriera         72   433 5 17 25 33 5
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1996 0 0 0 0
1997 Milwaukee Detroit 0 1 1 2
1998 Rio Michigan 0 0 2 2
1999 Homestead 0 0 1 1
Totale 0 1 4 5
Quote 0,0% 20,0% 80,0% 100,0%

Greg Moore

 

Scott Dixon

Nome: Scott Ronald Dixon

Data e luogo di nascita:  22 luglio 1980, Brisbane (Australia)

Nazionalità: Neozelandese

Ruolo: Pilota

Lo chiamano “Iceman”, ma in realtà lui è il Rick Mears degli anni 2000. Come il campione californiano Scott Dixon è infatti un personaggio riservato, sobrio, misurato dentro e fuori la vettura. Ad accomunarli non solo un controllo dell’auto straordinario, tale da permettergli di condurre auto sovrasterzanti al punto da essere inguidabili per i compagni, ma anche una condotta di gara sempre improntata alla razionalità, alla correttezza, al raggiungimento del massimo risultato col minimo rischio. Un’attitudine che pur non impedendo a entrambi di mettere a segno talvolta  manovre clamorose, ne ha in parte influenzato la percezione dei tifosi, solitamente attratti da personaggi più controversi e spettacolari. Piloti simbolo delle due grandi potenze del motorismo a ruote scoperte americano, la maggiore forza dell’uno è forse la debolezza dell’altro: l’assoluta maestria di ogni tipo di circuito di Dixon contrapposta allo speciale rapporto di Mears con Indianapolis. Per entrambi, abituati a far parlare molto più la pista che i microfoni, il livello di rispetto universalmente raggiunto non lascia dubbi, non solo sulla caratura del pilota, ma anche sulla grandezza dell’uomo. 

 

Scott Dixon è un predestinato, una sorta di bambino prodigio dell’automobilismo in pista fin da giovanissimo, perche i suoi genitori sono molto attivi nel mondo delle corse su terra, sia dietro il volante che come organizzatori. Per Scott però prefigurano una carriera in pista e fin da subito il neozelandese si mette in luce sul kart, effettuando poi un precocissimo passaggio alle auto. Già a tredici anni infatti riceve una speciale licenza per disputare la sua prima corsa con vetture turismo, facendo scalpore quando la sua auto finisce rovesciata a Pukekohe. Dopo questa prima traumatica esperienza Scott passa, vincendo, un po’ per tutte le categorie propedeutiche che Australia e Nuova Zelanda possono offrire: Formula Vee, Super Vee, F.Ford e F.Holden, campionato in cui corrono vecchie vetture di F.3000. Trovati i giusti finanziamenti, per Scott il passo successivo è l’America. Nel 1999 si accasa infatti  nel team IndyLight di Stefan Johansson che, intuito il talento del ragazzo, sarà da lì in poi il suo manager. Alla prima stagione Scott, ancora diciottenne, si segnala tra i piloti più promettenti, vincendo una corsa sull’ovale di Chicago e mostrando grande adattamento. La stagione successiva Johansson fa accasare il suo protetto nel junior team di Bruce McCaw, titolare in CART del team PacWest. Il 2000 per Dixon è un anno trionfale, ma nonostante 5 vittorie, due incidenti nel finale di stagione mantengono la corsa al titolo aperta fino a Fontana, dove il neozelandese coglie la sesta affermazione, precedendo in volata il rivale Townsend Bell. Il titolo nella serie cadetta lascia quindi pochi dubbi al team PacWest, che punta su Scott per la stagione CART che va a cominciare.

Campione IndyLights 2000, qui a Fontana insieme a Townsend Bell e Tony Renna. Autoracing1.com

Nel 2001 Dixon esordisce quindi nella CART al posto di Mark Blundell, che si prende un anno sabbatico. Nella battaglia per il titolo di rookie of the year, Scott se la vede con Bruno Junqueira, fresco campione F.3000 accasatosi da Ganassi al posto di Montoya. Il confronto è equilibrato, ma è il neozelandese ad arrivare per primo alla vittoria, trionfando a Nazareth alla terza corsa della stagione quando un’ottima strategia gli permette di evitare l’ultimo rifornimento. Scott è poi bravo nel finale a contenere gli attacchi di un velocissimo Kenny Brack, diventando a 20 anni il più giovane vincitore di una corsa sanzionata CART. Fin dalla prima stagione, seppur coinvolto in diversi contatti, Dixon mette in mostra grande maturità e concretezza, segnando punti con costanza e riportando il team PacWest a posizioni viste solo nel ‘97. Per ¾ di stagione infatti Scott si mantiene ai margini della top 5 in classifica. Non è spettacolare e non conquista pole a raffica, ma è solido e quando il mezzo lo assiste porta sempre a casa il risultato, mentre Junqueira è coinvolto in numerosi incidenti al volante della ben più competitiva Lola-Toyota del team Ganassi. A fine stagione Dixon, molto più competitivo del compagno Gugelmin, può contare su 10 arrivi in top ten (tra cui un bel podio a Milwaukee), che gli valgono l’ottavo posto in classifica e il titolo di rookie of the year.

Prima vittoria a Nazareth. Indycar.com
Prima vittoria a Nazareth. Indycar.com

Nel 2002 Scott è ovviamente confermato nel team PacWest, che schiera una Lola-Toyota nelle prime tre corse della stagione, prima di chiudere i battenti per mancanza di fondi. La CART non può però permettersi di lasciare a spasso il suo giovane più promettente e Chip Ganassi decide, supportato dalla Toyota, di mettere in campo una terza vettura per Scott, che va ad affiancare Junqueira e Brack. Il pilota neozelandese riprende dove aveva lasciato, marcando punti quasi a ogni corsa. Mentre Brack affronta una stagione molto deludente e da assoluto favorito finirà per portare a casa una sola vittoria, Junqueira è la punta della squadra, vince due corse e ottiene diversi podi anche se il discorso campionato è chiuso con largo anticipo da un grande Cristiano Da Matta. Dixon fatica a tenere il passo del brasiliano, non riuscendo a fare il salto di qualità atteso. Dopo i numerosi piazzamenti iniziali, la seconda parte di stagione è caratterizzata da problemi meccanici e incidenti che lo relegano a un deludente tredicesimo posto, con la piazza d’onore di Denver come miglior risultato.

Livrea Coors a Denver, dove chiude secondo

Dopo aver tastato il terreno nelle stagioni precedenti, nel 2003 Ganassi decide di trasferire tutta la sua operazione nel campionato IRL, schierando due G-Force-Toyota per il confermato Scott Dixon e Tomas Scheckter. La squadra decide infatti di interrompere anzi tempo il rapporto con Brack, che torna al team Rahal mentre Junqueira preferisce rimanere in ChampCar e passa al team Newman Haas. Nella prima corsa di Homestead Dixon parte in mezzo al gruppo, ma dopo una prima fase di studio inizia la sua rimonta. A metà gara conquista il comando durante una sosta e non lo molla più, precedendo De Ferran e Castroneves sul traguardo per la sua prima vittoria, all’esordio, in IRL. Le corse successive non sono altrettanto positive: a Phoenix rompe il cambio dopo aver condotto le prime fasi mentre a Motegi è coinvolto in un brutto incidente con Kanaan. Al suo esordio a Indianapolis, il neozelandese è frenato da problemi elettrici, commettendo poi un brutto errore quando colpisce il muretto box dopo aver perso il controllo della vettura durante una neutralizzazione. Nelle corse successive però le cose cominciano a girare: Scott domina letteralmente a Pikes Peak e Richmond, mettendo poi insieme numerosi piazzamenti che lo fanno entrare nella lotta per il titolo.

Data la giovane età, la sua concretezza sorprende tutti, cominciando a valergli il soprannome di “Ice man”. Nel finale di stagione, nonostante due probabili vittorie a Nazareth e St. Louis svanite per problemi tecnici, i due secondi posti consecutivi di Chicago e Fontana gli permettono di agganciare Castroneves in vetta alla classifica, in vista dell’ultima corsa in Texas. Partito in prima fila, quando Helio e Kanaan vengono a contatto, a Scott non resta che controllare la situazione dietro De Ferran, prima che la corsa venga sospesa per l’incidente di Brack e Scheckter. A 23 anni Scott Dixon è quindi campione IRL. La gioia per lui e la squadra dura però pochi giorni. Al termine di una stagione inconcludente e zeppa di incidenti, Ganassi lascia libero Scheckter ingaggiando Tony Renna, promessa americana ben comportatosi alla guida di una Dallara del team Kelley. Renna, amico e compagno di Dixon ai tempi del team PacWest in IndyLights, sale per la prima volta sulla vettura del team Ganassi in una fredda giornata di autunno a Indianapolis. Dopo alcuni giri, forse per un cedimento meccanico o una foratura, la sua vettura scarta sull’erba all’ingresso di curva 3, colpendo poi il muro e le reti di contenimento. L’impatto devastante non lascia scampo al pilota americano.

Vittoria a Pikes Peak. indycar.com
Vittoria a Pikes Peak. indycar.com
indycar.com
Campione 2003. indycar.com

Per il 2004 al fianco di Dixon viene quindi scelto Darren Manning, reduce da una buona stagione d’esordio in ChampCar. Nelle prime tre corse il team Ganassi si dimostra molto competitivo: a Homestead Scott rimonta da centro gruppo ed è l’unico a tenere il passo delle Penske, commettendo però un errore terribile in occasione del primo pit stop, quando perde il controllo in corsia di decelerazione per poi colpire violentemente la testa del muretto. Le protezioni fanno comunque il loro dovere e il neozelandese esce incolume dalla G-Force distrutta. A Phoenix si ripete lo stesso copione ma questa volta Dixon non fa errori, pressando a lungo Kanaan senza però trovare un varco. Dopo il secondo posto in Arizona, la stagione prende una brutta piega a Motegi, dove Scott si frattura una gamba in un brutto incidente nelle prove, riuscendo comunque a disputare la corsa, che chiude quinto. La svolta della stagione arriva però con il passaggio ai motori 3 litri, che coglie impreparata la Toyota. Il team Ganassi sprofonda infatti in un lungo periodo di mediocrità, non riuscendo ad affacciarsi davanti neanche negli ovali corti, a differenza della Penske. A una mediocre Indy500 segue quindi una lunga sequenza di corse inconcludenti, in cui Scott colleziona piazzamenti nella parte bassa della top ten, non correndo a Milwaukee dopo un brutto incidente nelle qualifiche. Manning invece, molto aggressivo ma troppo spesso coinvolto in incidenti, riesce di tanto in tanto a portarsi  nelle posizioni che contano.

Dopo Homestead, Dixon prova intanto per la prima volta la Williams F1 a Le Castellet. Sir Frank, sempre interessato ai talenti d’oltreoceano, è curioso di provare il neozelandese, che vive questa possibilità con grandi aspettative. Dopo l’incidente di Renna, Scott non sembra infatti più a suo agio in IRL e un passaggio in F1 sarebbe l’ideale per il prosieguo della sua carriera. Nonostante oltre un anno di inattività sugli stradali e la poca abitudine a frenare col piede sinistro, in Francia Dixon si comporta molto bene, tenendosi a pochi decimi da Ralf Schumacher e risultando più veloce del tester Gené. Scott firma un precontratto e il posto lasciato libero nel 2005 da Montoya sembra suo. Qualche settimana più tardi, un secondo test a Barcellona raffredda un po’ gli entusiasmi, con la Williams che rimane in bilico per mesi sulla scelta da fare. Pressato da Ganassi, che fissa nella metà stagione il termine ultimo per prolungare il contratto, Dixon decide di rimanere in America. La stagione va avanti senza sprazzi significativi, con il campione in carica che chiude solo decimo in classifica.

A Homestead per la prima volta con il numero 1. indycar.com
A Homestead per la prima volta con il numero 1. indycar.com

Il 2005 se possibile è per lunghi tratti una stagione peggiore della precedente. Il team Ganassi schiera tre G-Force-Toyota, affiancando a Dixon e Manning il debuttante Briscoe. Sarà proprio quest’ultimo l’unico a mettersi in mostra in qualche occasione, senza però mai riuscire a portare a casa risultati concreti, a causa di numerosi incidenti. Per Dixon una stagione insulsa, piena di errori frutto della frustrazione e incidenti, in cui riesce a mettere insieme solo 5 arrivi in top ten. Scott può però contare su un contratto appena firmato e anche Ganassi capisce che senza un motore Honda, o al limite Chevrolet, non si va da nessuna parte. A farne le spese è Manning, appiedato a metà stagione per far spazio a Jaques Lazier sugli ovali e a Giorgio Pantano sugli stradali. A Watkins Glen, dopo il bruttissimo incidente di Briscoe a Chicago, un lampo illumina una stagione disastrosa. Pantano piazza la sua vettura in prima fila, ma è Dixon a compiere un capolavoro, passando uno a uno i suoi avversari e tornando alla vittoria dopo oltre due anni.

Ritorno alla vittoria a Watkins Glen. indycar.com; Ron McQueneey

Nel 2006 Ganassi fa di tutto per mettere le mani sui motori Honda, ingaggiando anche il neo campione Dan Wheldon. Quando però Toyota e Chevrolet ufficializzano il ritiro, tutti hanno “diritto” al motore giapponese. Quello tra Scott e Wheldon è un rapporto difficile, di grande competizione interna. Il neozelandese fatica ad accettare la figura ingombrante di un pilota che vince al primo colpo, guidando in un modo aggressivo, perennemente sul filo del sovrasterzo.  Nel 2006 il rapporto rimarrà teso, con anche qualche ruotata, ma col tempo i due impareranno a convivere, diventando grandi amici, soprattutto dopo il passaggio di Wheldon al team Panther. In pista la relazione in realtà porta subito i suoi frutti, come visto a Daytona, dove il trio Dixon-Wheldon-Casey Mears centra il primo successo di Ganassi nella maratona della Florida. Quando la stagione IRL comincia, Chip cancella poi in breve il ricordo delle recenti delusioni grazie a Wheldon, che a Homestead ottiene una perentoria affermazione avendo la meglio sulle Penske. Dixon invece chiude quinto col giro più veloce.  A St. Pete Scott è poi secondo dietro Castroneves, dopo aver corso quasi tutta la gara con il musetto a penzoloni. Un errore strategico a Motegi lo relega al nono posto, mentre a Indy parte in seconda fila e chiude sesto, non riuscendo a inserirsi nella battaglia finale, dopo aver anche scontato una penalità per blocking nell’ultimo quarto di corsa.

In una stagione in cui una vettura Penske o Ganassi garantisce quasi sempre un arrivo tra i primi 4, Scott è quindi secondo in Texas, cogliendo poi la seconda vittoria di fila al Glen, in condizioni difficili a causa della pioggia. Il punto debole del team Ganassi in questa stagione sono però gli ovali corti, in cui Dixon e Wheldon sono quasi inesistenti rispetto ai piloti Penske. Una seconda vittoria a Nashville, frutto anche della strategia, tiene in corsa Dixon, che però è frenato da due gare sfortunate: a Michigan perde un giro quando rimane a secco in pista; a Sonoma domina letteralmente, ma un problema all’ultima decisiva sosta gli nega un successo certo, facendolo chiudere solo quarto. Con la vittoria Scott si sarebbe presentato a ridosso  di Castroneves all’ultima corsa di Chicago, che affronta invece da quarto in classifica con un distacco di 21 lunghezze. Al termine di un duro confronto con Wheldon, Dixon chiude quindi secondo in Illinois, ma il podio del neo campione Hornish lo relega al quarto posto in classifica finale.

Duello per la vittoria in Kentucky. indycar.com, Chris Jones
Duello per la vittoria in Kentucky, dove Scott è secondo dietro Hornish. indycar.com, Chris Jones

Nel 2007 Ganassi si presenta ancora più agguerrito rispetto alla stagione precedente, dominando le prime corse. Wheldon trionfa infatti a Homestead e Kansas, mentre il compagno raccoglie un terzo e un quarto posto, quest’ultimo a causa di una evitabile penalità. La facilità di questi successi innesca una polemica sul team, accusato di usare ali flessibili. A St Pete va invece in scena una replica di quanto accaduto nel 2006, con Castroneves che controlla Scott per tutta la corsa. A Indianapolis è poi il team Andretti-Green a dominare, con Ganassi un po’ in difficoltà. Wheldon, mai realmente in lotta per la vittoria, è coinvolto in un incidente nel finale mentre Dixon come Franchitti evita l’ultimo rifornimento sperando nella pioggia, che puntualmente arriva, regalando a Scott un secondo posto. Nelle corse successive Franchitti è bravo e fortunato a capitalizzare sulla sfortuna altrui. Dixon è infatti coinvolto incolpevolmente in un maxi incidente in Texas, mentre in Iowa dopo aver fatto la pole è subito fermo per problemi elettrici. Dopo il podio di Richmond, inizia però la grande rimonta di Scott, che nelle gare successive recupera oltre 50 punti a Franchitti, a cominciare da Watkins Glen, dove vince per la terza volta consecutiva costringendo all’errore Castroneves e controllando lo scozzese. Si prosegue con la seconda vittoria consecutiva a Nashville, in cui Dixon va in testa con uno spettacolare sorpasso su Franchitti e Wheldon, prendendo poi il largo nel traffico. La perfetta applicazione della strategia lo vede quindi trionfare a Mid Ohio, dove il neozelandese gestisce al meglio i consumi,  superando lo scozzese e il poleman Castroneves durante le soste per centrare il terzo successo di fila.

I duellanti subiscono una battuta d’arresto a Michigan, dove sono entrambi coinvolti nel maxi incidente che fa fuori mezza griglia, per poi scontrarsi ancora in Kentucky, dove Dixon si arrende a Kanaan ma recupera ancora su Franchitti, solo settimo al traguardo. Le corse successive vedono quindi un’incredibile escalation di tensione. A Sonoma Franchitti domina, con Kanaan che gli copre le spalle dagli attacchi di Dixon e Castroneves. Il neozelandese riesce però a ritardare più di tutti ogni sosta, insidiando il duo di testa. Proprio quando Franchitti sembra avviato a vincere, si tocca però con Marco Andretti, che uscendo dalla pit lane non da strada al capo squadra, danneggiandogli l’ala anteriore. Nella ripartenza successiva Dixon ha quindi vita facile nel passare lo scozzese, andando a vincere davanti a Castroneves e conquistando la testa campionato, mentre Franchitti chiude terzo difeso oltre ogni limite da Kanaan. Gli stessi protagonisti animano l’appuntamento successivo di Detroit,  dove Castroneves parte in pole ma butta la vittoria alle ortiche con una tattica suicida, lasciando campo libero a Franchitti e Dixon. Scott riesce a beffare il rivale dopo l’ultima sosta, imbattendosi però nel finale in Buddy Rice, che va avanti ormai solo con i fumi dell’etanolo. In un estremo tentativo di sorpasso, Dixon e l’americano entrano in contatto col neozelandese che, volontariamente o meno, termina la propria carambola su Franchitti. Aiutato dai commissari lo scozzese riesce comunque a riprendere, tornando davanti in classifica per soli tre punti.

Tutto si decide quindi nell’ultimo appuntamento di Chicago, che vede Hornish dominare la corsa e Kanaan uscire subito di scena per problemi al motore. Dixon e Franchitti si marcano a vicenda, guadagnando un giro su tutti nel momento in cui una bandiera gialla fortunata premia la loro tattica risparmiosa. Grazie a una neutralizzazione nel finale entrambi evitano poi l’ultimo rabbocco, senza però la certezza di riuscire a vedere il traguardo. Quando la bandiera verde sventola per l’ultima volta, a due giri dalla fine, Dixon precede Franchitti. Lo scozzese non sembra in grado di portare un attacco efficace, ma proprio all’ultima curva Scott rallenta col serbatoio vuoto, lasciando corsa e campionato al rivale, prossimo al passaggio in Nascar.

Prima vittoria a Mid Ohio. indycar.com, Jim Haines
Prima vittoria a Mid Ohio. indycar.com, Jim Haines

Il 2008 è l’anno magico di Scott Dixon, che vince il campionato, la 500 miglia di Indianapolis e sposa la bellissima podista gallese Emma Davies. È una stagione in cui va tutto bene al neozelandese: la macchina è sempre velocissima, non ha mai problemi di affidabilità, la tattica è quasi sempre azzeccata e la fortuna non manca. Già a Homestead Dixon vince “aiutato” da Kanaan, che con la vittoria ormai in vista non può evitare la vettura fuori controllo di Viso. Dopo un errore a St Pete, un terzo posto a Motegi e un secondo in Kansas dietro Wheldon, a Indianapolis inizia la marcia trionfale. Scott sigla la pole e conduce gran parte della corsa, insidiato da Wheldon, Andretti e Kanaan. L’inglese è però attardato da problemi a un ammortizzatore mentre il brasiliano è coinvolto in un incidente. Nelle ultime battute spunta dal nulla Vitor Meira, che con una ripartenza strepitosa si infila tra Dixon e Carpenter prendendo il comando. All’ultimo pit stop i meccanici del team Ganassi restituiscono però la testa a Dixon, che nel finale non ha poi problemi a controllare il brasiliano, portando a casa il primo successo al Brickyard.

Nella corsa successiva a Milwaukee, un duello esaltante con Briscoe viene interrotto dalla bandiera gialla negli ultimi giri, con Scott che arriva secondo ma si rifà in Texas, dove va in testa nel finale ed è lui ad approfittare delle bandiere gialle per l’incidente tra Andretti e Hunter-Reay, gli avversari più pericolosi. Al Glen il neozelandese manca invece un clamoroso poker a causa di un maldestro testacoda dietro la pace car, che coinvolge anche l’incolpevole Briscoe. Piazzamenti a Richmond e in Iowa portano all’ennesima vittoria a Nashville, la più inaspettata della stagione. La gara è infatti comandata da Kanaan, quando durante una bandiera gialla tutti si fermano a rifornire, a eccezione di Dixon e Wheldon. Mentre l’inglese punta però ad andare in testa sperando nella pioggia incombente, per Dixon la chiamata ai box arriva semplicemente troppo tardi per rientrare. Puntualmente la corsa viene interrotta per pioggia dopo pochi minuti, con Scott vincitore.

A Edmonton il neozelandese vince invece piegando Castroneves, che precede di un soffio anche in Kentucky, dove il brasiliano resta a secco nel tentativo di evitare l’ultimo rabbocco. Per Dixon è la sesta vittoria stagionale, ma anche l’ultima, perché a Sonoma per una volta non tiene il passo delle Penske e a Detroit un errore strategico gli nega una vittoria certa. La fortuna lo assiste comunque, perché una penalità rallenta il rivale Castroneves e la corsa viene decurtata per il limite delle due ore, poco prima che Scott debba rientrare per effettuare un rabbocco, con conseguente perdita di posizioni e quindi punti. Il neozelandese arriva quindi a Chicago con un vantaggio considerevole su Castroneves, che lo precede di 3 millesimi sul traguardo non potendogli però sottrarre il secondo titolo in carriera.

Scott, Emma e il Borg Warner Trophy. indycar.com, Dana Garrett
Scott, Emma e il Borg Warner Trophy. indycar.com, Dana Garrett
Vittoria a Edmonton davanti all'avversario per il titolo Castroneves e Justin Wilson. indycar.com, Shawn Payne
Vittoria a Edmonton davanti all’avversario per il titolo Castroneves e Justin Wilson. indycar.com, Shawn Payne

Nel 2009 Dixon è affiancato da un nuovo compagno di squadra, Dario Franchitti. Dan Wheldon lascia infatti il team Ganassi dopo tre stagioni non troppo soddisfacenti, in cui da comunque un grande contributo alla crescita di Dixon, soprattutto sugli ovali. Prima che il campionato IndyCar prenda il via, Scott accetta la proposta di De Ferran, suo grande estimatore, di correre la 12 ore di Sebring insieme allo stesso brasiliano e all’altro titolare Pagenaud. La corsa non andrà troppo bene, ma il neozelandese si prende la soddisfazione di piazzare la Acura in pole davanti a Audi e Peugeot ufficiali.  È una stagione strana per il campione in carica, con tante vittorie esaltanti ma anche diverse gare sotto tono. Si inizia subito male a St Pete, a causa di un incidente con Mutoh che pone fine a una corsa tutt’altro che entusiasmante. Nulla di buono viene anche da Long Beach, una delle piste più indigeste al neozelandese, bravo però due settimane dopo in Kansas ad approfittare di un errore strategico della Penske e soffiare la vittoria a Briscoe. A Indianapolis Dixon e Franchitti sono i più veloci e guidano a lungo la corsa. Entrambi rimangono però attardati da soste lente nel momento topico, chiudendo sesto e settimo rispettivamente.

Sugli ovali Dixon ha una marcia in più del compagno, che però è più efficace nei circuiti cittadini, mentre sugli stradali il confronto è più equilibrato. A Milwaukee Scott centra la seconda vittoria, piombando su Briscoe nelle fasi conclusive durante un doppiaggio. In Iowa il neozelandese è poi quinto dopo un contatto nelle prime battute con Castroneves, tornando al successo a Richmond davanti a Franchitti. Nelle corse successive Dixon accumula quindi piazzamenti in top 5, tornando al successo a Mid Ohio, dove vince con un vantaggio enorme dopo aver passato Wilson durante il doppiaggio di Milka Duno. Per tutto il campionato il neozelandese si alterna in testa alla classifica con Franchitti e Briscoe, ma nelle ultime corse l’australiano sembra poter portare l’affondo decisivo: vince alla grande in Kentucky, con Dixon e Franchitti solo 6° e 7°; è secondo a Sonoma dietro lo scozzese, mentre Dixon si qualifica male e compromette tutto con una partenza azzardata; vince ancora a Chicago precedendo in volata il duo Ganassi. In Giappone però il pilota Penske rimette tutto in discussione colpendo il muro mentre lascia i box, con Dixon e Franchitti che colgono una doppietta.

All’ultima corsa di Homestead i tre si presentano così raccolti in un fazzoletto di punti, con Dixon a precedere Franchitti di 5 lunghezze e Briscoe di 8. Una volta in gara, Dixon e Briscoe sono più veloci e prendono il largo, mentre Franchitti rimane più attardato e punta tutto sui consumi, cercando sulla distanza di effettuare una sosta in meno. I tre doppiano tutto il gruppo e incredibilmente la corsa va via liscia senza bandiere gialle, con lo scozzese che procede a passo ridotto negli ultimi giri e sul traguardo precede di pochi secondi i rivali. Al suo ritorno in IndyCar, Franchitti è quindi di nuovo campione davanti al compagno di squadra.

Grande vittoria a Milwaukee. indycar.com, Ron McQueneey
Grande vittoria a Milwaukee. indycar.com, Ron McQueneey

Il 2010 segna un battuta d’arresto per Dixon, che pur arrivando terzo in classifica non è mai realmente coinvolto nella lotta per il titolo, che resta un affare privato tra Power e Franchitti. L’inizio di stagione è interlocutorio, con un sesto posto a San Paolo dopo un incidente in partenza, un errore a St Pete e la piazza d’onore a Barber. Al quarto posto di Long Beach fa poi seguito la vittoria in Kansas, che precede Indianapolis. Scott parte in seconda fila ed è tra i favoriti, ma la sua corsa si complica dopo una prima sosta difficile che lo spedisce a fondo gruppo. Con una macchina poco agile nel traffico inizia una lenta rimonta, ma il passo di Franchitti è inavvicinabile e alla fine Scott sarà solo quinto.

La sequenza di ovali successiva non porta risultati di rilievo fino alla trasferta canadese. A Toronto un incidente nel finale con Hunter-Reay è decisivo per le speranze di titolo di Scott, che vince però a Edmonton approfittando del pasticcio tra Castroneves e Power. Poche emozioni vengono dalle corse successive, fino al secondo posto di Sonoma dove Dixon, ormai fuori dai giochi per il titolo, è mandato in avanscoperta davanti a Franchitti per cercare di rubare la vittoria a Power, che però in California è insuperabile. Nelle corse successive continua la sequenza di mezzi risultati fino all’ultimo appuntamento di Homestead, dove Scott prima copre le spalle a Franchitti e poi, dopo il ritiro di Power, è lasciato libero di andare a cogliere il terzo successo stagionale, come lo scozzese, che però porta a casa il titolo.

Vittoria nel gran finale di Homestead. indycar.com, Chris Jones
Vittoria nel gran finale di Homestead. indycar.com, Chris Jones

Il 2011 vede il ritorno di un Dixon in forma campionato, che è però frenato da una serie di contrattempi quasi grotteschi. Nella prima corsa di St Pete è subito eliminato da un maxi incidente alla prima curva, mentre a Barber è secondo dietro Power. Un incidente provocato da Castroneves lo esclude poi dalla lotta per la vittoria a Long Beach e San Paolo lo vede solo 12°, al termine di una corsa resa caotica dalla pioggia. A Indianapolis Scott è tra i favoriti, partendo in prima fila e alternandosi a lungo in testa alla corsa con Franchitti. Nel finale, mentre il compagno tenta invano di evitare l’ultima sosta, Dixon fa la scelta giusta fermandosi a rabboccare. I meccanici non immettono però abbastanza etanolo per arrivare in fondo e Scott deve cedere al penultimo giro la posizione a Wheldon, che raccoglie la vittoria offertagli su un piatto d’argento da Hildebrand. Alla fine Dixon è solo quinto.

Nelle corse successive il neozelandese raccoglie due secondi posti nel doppio appuntamento in Texas, chiudendo settimo a Milwaukee, per poi tornare sul podio in Iowa. La trasferta canadese lo soddisfa a metà : a Edmonton Scott ha la corsa in mano, ma si ritira quando Viso sbaglia completamente una frenata andandogli addosso; a Toronto nel caos più totale è sempre tra i più veloci, rimontando abilmente nel traffico, ma a metà corsa perde la posizione su Franchitti durante i pit stop, non riuscendo più a superare il compagno, che va a vincere. Finalmente a Mid Ohio arriva la prima vittoria della stagione, dopo una corsa dominata e un sorpasso su Franchitti all’ultima ripartenza.

Gli appuntamenti successivi sono poi all’insegna della consistenza, con un terzo posto a Loudon e due quinti a Sonoma e Baltimora, prima della trasferta giapponese sullo stradale di Motegi, dove trionfa controllando Power per tutta la corsa. È infine terzo in Kentucky, dietro Carpenter e Franchitti, nell’ultima gara della stagione che assegna punti. L’ultimo appuntamento di Las Vegas viene infatti cancellato dopo l’incidente mortale di Dan Wheldon, di cui come detto Scott era diventato uno dei più cari amici nel paddock. Franchitti porta quindi ancora a casa il titolo mentre il neozelandese chiude il campionato al terzo posto.

Vittoria sullo stradale di Motegi due anni dopo aver trionfato sull'ovale. indycar.com, Chris Jones
Vittoria sullo stradale di Motegi due anni dopo aver trionfato sull’ovale. indycar.com, Chris Jones

Il 2012 di Dixon assomiglia terribilmente alla stagione precedente, con tanti episodi sfortunati a estrometterlo dalla lotta per la vittoria finale. Nelle prime corse il neozelandese raccoglie due secondi posti: a St Pete, dove è forse troppo arrendevole nel duello con Castroneves, e a Barber, preceduto da Power. Un ritiro per problemi tecnici nella mai amata Long Beach, conduce poi al week end di San Paolo, dove è tradito da una bandiera gialla ed è solo 17°. A Indianapolis parte 15°, risalendo facilmente il gruppo e giocandosi la vittoria con Franchitti e Sato. Negli ultimi giri Dixon e lo scozzese si alternano più volte in testa, sottovalutando però l’aggressività del giapponese, che a due giri dal termine segue la strada aperta da Franchitti, superando di forza Dixon e facendogli perdere il contatto. All’ultimo giro un’altra azzardata manovra di Sato si conclude poi in un contatto con Franchitti in cui la Dallara del team Rahal ha la peggio. Le posizioni vengono congelate e Dixon si ritrova tra lo scozzese e Kanaan in un podio che è il miglior omaggio all’amico Wheldon.

A Detroit Scott supera la delusione, dominando una corsa a lungo interrotta per le pessime condizioni dell’asfalto. Il dominio prosegue in Texas, dove il neozelandese conduce gran parte della corsa esibendosi in spettacolari sovrasterzi a causa della nuova configurazione aerodinamica, fino a quando la vettura non diventa troppo “loose” anche per lui, spedendolo contro il muro. A Milwaukee è poi vittima di un’incredibile svista della direzione gara, che lo estromette dalla lotta per la vittoria ritenendolo colpevole di un presunto sorpasso anticipato in una ripartenza che viene addirittura annullata. Dopo un quarto posto in Iowa, la rottura del motore a Toronto si somma ai problemi elettrici che lo rallentano a Edmonton, dove chiude 10°. Le speranze di titolo di Scott risorgono nella solita Mid Ohio, dove coglie una perentoria vittoria davanti a Power, per poi affievolirsi di nuovo a Sonoma, dove il neozelandese è mandato in testacoda da Castroneves al primo giro. Una buona rimonta è poi rovinata da un arrischiato sorpasso ad Hunter-Reay, in cui l’ala anteriore ha la peggio. Senza più velleità di titolo, nelle ultime corse Dixon giunge quarto a Baltimora e terzo a Fontana, dietro Carpenter e Franchitti. La classifica finale lo vede terminare ancora una volta al terzo posto, alle spalle di Hunter Reay e Power ma nettamente davanti a Franchitti, mai a suo agio sulla nuova DW12.

Prestazione dominante a Detroit una settimana dopo la delusione di Indy. indycar.com, LAT photo USA
Prestazione dominante a Detroit una settimana dopo la delusione di Indy. indycar.com, LAT photo USA

Il 2013 di Dixon si può dividere in due fasi, che hanno come spartiacque un test effettuato dal team Ganassi a Sebring, alla vigilia della corsa di Pocono, che insieme a un motore Honda finalmente a punto permette alla squadra di ritrovare la forma vincente. La stagione parte infatti in modo pessimo a St Pete, con Franchitti e Dixon qualificati nelle retrovie con grossi problemi di adattamento alle nuove gomme Firestone. Mentre lo scozzese si ritira presto per un incidente, Scott adotta l’assetto del 2012 e nonostante un problema alla valvola Wastegate mette a segno una buona rimonta, che lo vede precedere in volata la De Silvestro e Viso per il quinto posto. Nella corsa successiva a Barber le cose vanno meglio e Dixon mette Hunter Reay sotto pressione fino al traguardo, centrando l’ennesima piazza d’onore in Alabama. A Long Beach poi il neozelandese pasticcia in qualifica, parte ultimo e viene tamponato da Vautier poco dopo la partenza.

Riesce comunque a recuperare il giro di distacco e chiudere ai margini della top ten, mentre a San Paolo è ancora la Wastegate a relegarlo al 17° posto. Indianapolis è il punto più basso della stagione per il team Ganassi, che si qualifica male e a differenza dell’anno precedente fatica a entrare nella top ten. Alla fine Scott è solo 14°. Nelle corse di Detroit porta a casa due quarti posti, il primo dei quali frutto di una rimonta strepitosa dal fondo del gruppo, a causa di una tamponata di Allmendinger al primo giro. Nell’appuntamento successivo in Texas, un probabile piazzamento in top5 non si materializza a causa di un problema alla trasmissione  e anche le corse successive di Milwaukee e Iowa regalano poche soddisfazioni. Il test di Sebring permette poi finalmente al team Ganassi di rimettersi in carreggiata con le regolazioni per sospensioni e ammortizzatori, come si vede a Toronto. La svolta per la classifica arriva però prima, sull’ovale di Pocono, dove è la nuova impostazione del motore Honda a fare la differenza, con Dixon che guida una tripletta Ganassi, evitando il rabbocco finale che costa la gara a molti piloti Chevrolet.

Nel doppio appuntamento di Toronto Scott vince una difficile gara 1, avendo la meglio su Bourdais e Power, per poi dominare la seconda corsa davanti al leader di classifica Castroneves. Con tre vittorie consecutive, Dixon si candida quindi a sfidante principale del brasiliano, che riesce però a precederlo per il sesto posto a Mid Ohio in una corsa basata sui consumi. Un po’ come accaduto nel 2007, le ultime gare si svolgono in un clima infuocato. A Sonoma Scott è aggressivo come non mai, prendendosi la testa a ruotate su Power e Franchitti. Durante la sosta decisiva però, il neozelandese invade la piazzola Penske, colpendo un meccanico che fa poco per evitare lo scontro, cosa che costa a Dixon un drive through e molti punti in classifica. Nell’appuntamento successivo di Baltimora Scott, partito in pole, battaglia a lungo con Power, fino a quando un improvviso cambio di traiettoria dell’australiano in ripartenza non manda entrambi contro il muro. Nel dopo gara il neozelandese attacca pesantemente il direttore di corsa Beaux Barfield, reo di non aver permesso il recupero della sua auto, che con poche riparazioni avrebbe potuto riprendere. Memore di quanto accaduto a Milwaukee nel 2012, Dixon chiede addirittura la rimozione del direttore di gara, dichiarazioni che gli costano una pesante multa.

Nel doppio appuntamento di Houston, Scott se la deve ancora vedere con Power. Nella prima corsa l’australiano rimane attardato da un errore strategico e Dixon può vincere con facilità. In gara 2 è invece il pilota Penske, tallonato per tutta la corsa dal neozelandese, a portare a casa la vittoria. I 90 punti conquistati, parallelamente al doppio ritiro di Castroneves per problemi al cambio, lanciano Dixon in testa al campionato con 25 lunghezze di vantaggio sul rivale. A Houston il team Ganassi perde però Dario Franchitti, coinvolto in un terribile incidente che lo porterà al ritiro definitivo dalle corse. Il posto dello scozzese nell’ultima corsa viene preso da Tagliani che, insieme a Kimball, da manforte a Dixon a Fontana. Scott conduce una gara attenta, cercando di evitare le mille insidie del traffico e di un asfalto molto scivoloso. L’elevato numero di ritiri e i problemi finali di Castroneves rendono però il lavoro più semplice e il quinto posto alla fine è sufficiente al neozelandese per conquistare il terzo titolo in carriera.

Terza vittoria in una settimana in gara 2 a Toronto. indycar.com, John Cote
Terza vittoria in una settimana in gara 2 a Toronto. indycar.com, John Cote
Campione per la terza volta. indycar.com, Chris Jones
Campione per la terza volta. indycar.com, Chris Jones

Nonostante il titolo vinto in extremis, le difficoltà di inizio stagione culminate col flop di Indianapolis spingono Chip Ganassi ad abbandonare la Honda, portando la squadra sotto la tenda Chevrolet. Il team Ganassi torna quindi a condividere la motorizzazione con il team Penske, mentre la squadra di Michael Andretti compie il percorso inverso, andando a capitanare la pattuglia del costruttore giapponese. C’è però un’altra grande novità: le conseguenze dell’incidente di Houston costringono Dario Franchitti al ritiro, ponendo fine ad una collaborazione tecnico-sportiva estremamente proficua con Dixon. Il neozelandese si ritrova così a dividere il box con il confermato Kimball, il rientrante Briscoe e Tony Kanaan, che sostituisce Franchitti alla guida della vettura Target numero 10. Seppur amici ormai di lunga data, nei primi mesi la collaborazione tecnica tra Dixon e il brasiliano stenta a decollare, anche a causa di due stili di guida piuttosto differenti. Se a ciò si sommano le inaspettate difficoltà del team nell’adattamento al motore Chevrolet, si spiegano almeno in parte i risultati che nelle prime corse della stagione arrivano col contagocce.

Nella prova inaugurale di St.Pete Scott porta a casa un discreto quarto posto, avendo ragione di Kanaan durante le soste senza però mai impensierire le Penske. Va peggio a Long Beach, dove il neozelandese entra in lotta per la vittoria solo grazie a un azzardo strategico nel finale, che però non paga, relegandolo fuori dalla top ten. Dopo un discreto terzo posto nella prova bagnata di Barber, il mese di maggio segna un brutto stop per le ambizioni di titolo di Dixon, che prima rovina il suo Gp di Indianapolis finendo nella sabbia in un maldestro contrattacco su Power, poi conclude la sua Indy500 contro il muro della curva 4 mentre si trova nel gruppo di testa. Un altro fine settimana poco esaltante frutta un 12° e un 4° posto nel doppio appuntamento di Detroit, cui segue una corsa regolare in Texas, dove una lunga battaglia con Kanaan e Montoya si conclude con un quinto posto. Il secondo double header stagionale a Houston va anche peggio di Detroit: gara 1 vede Scott finire a muro sul bagnato mentre nella seconda frazione sono problemi ai freni a concluderne anzi tempo la corsa. Nelle due corse successive di Pocono e Iowa, Kanaan è il dominatore assoluto, ma gli va male in entrambi i casi. In Pennsylvania il brasiliano è penalizzato da una strategia errata, terminando quarto davanti a un meno incisivo Dixon. In Iowa il duo Ganassi guida gran parte della corsa, con il brasiliano a condurre, ma entrambi sono beffati nel finale da Hunter Reay e Newgarden, che cambiano le gomme durante l’ultima neutralizzazione e in pochi giri sono in grado di superare senza sforzo praticamente tutto il gruppo.

Due corse discrete nel doppio appuntamento di Toronto fruttano un paio di piazzamenti in top ten, precedendo Mid Ohio, dove la stagione di Dixon trova finalmente un senso. Ormai universalmente riconosciuto come il dominatore della pista, in virtù delle 4 vittorie fin qui raccolte, Scott è atteso tra i protagonisti, ma un errore in qualifica sotto la pioggia lo costringe a partire dal fondo. Incapace di risalire il gruppo in una pista in cui i sorpassi sono proibitivi, Scott approfitta di una felice intuizione strategica di Mike Hull per prendere il comando a metà gara. Una volta a pista libera il neozelandese ha quindi la possibilità di sfoderare il suo vero passo gara, viaggiando più forte di tutti nonostante la sosta anticipata lo costringa a risparmiare carburante. Arriva così la prima vittoria stagionale per squadra e pilota, che dopo un non trascendentale quarto posto a Milwaukee concedono il bis a Sonoma, dove Scott supera Power durante le soste ed è poi bravo a mettere pressione a Conway, che su una diversa strategia prende il comando nel finale ma è poi costretto a cedere il passo dal serbatoio vuoto. L’ultimo appuntamento di Fontana va invece con merito a Kanaan, che prende il largo nel finale precedendo il compagno di squadra in una doppietta Ganassi. Dixon termina così il 2014 al terzo posto, un piazzamento forse fin troppo generoso per una stagione a tratti insufficiente e salvata dalla eccellente striscia di risultati delle ultime quattro gare.

A Sonoma davanti a Kanaan e Hunter Reay. indycar.com, John Cote, 2014
A Sonoma davanti a Kanaan e Hunter Reay. indycar.com, John Cote, 2014

Nove anni dopo il successo con Wheldon e Mears, il 2015 rivede Dixon in victory lane alla 24 ore di Daytona. Sempre efficace ma spesso alla guida della macchina “sbagliata”, il neozelandese ha finalmente l’occasione di portare a casa il secondo Rolex della carriera, non lasciandosela sfuggire grazie ad un ultimo turno di guida strepitoso, in cui Scott ha la meglio su Jordan Taylor sia sul piano della velocità che su quello dei consumi, facendo vedere il meglio del suo repertorio. Dopo un 2014 di rodaggio, il team Ganassi si presenta ai nastri di partenza della nuova stagione IndyCar forte del nuovo aerokit Chevrolet, dimostratosi nettamente superiore al pacchetto Honda nei test invernali, e della buona chimica raggiunta dal duo Dixon-Kanaan alla fine dell’anno precedente. La prima corsa non va però come previsto a causa di numerosi problemi durante le soste, che confinano costantemente Scott in mezzo al gruppo e al 15° posto finale. Dopo un undicesimo posto nella corsa farsa di New Orleans, flagellata dalla pioggia e dagli incidenti, Dixon riempie un’altra casella della sua brillante carriera a Long Beach, pista in cui non ha mai brillato. Aiutato dai dettagliatissimi appunti dell’amico Franchitti, il neozelandese piazza la sua vettura in seconda fila, superando Castroneves ai box anche grazie a un’incomprensione del brasiliano con Kanaan. Una volta al comando, Scott ha poi gioco facile nel controllare la Penske fino al traguardo, conquistando la vittoria in una delle poche piste per lui ancora inviolate. Una buona corsa conduce poi al terzo posto di Barber, dove nel finale il neozelandese non riesce a difendere la piazza d’onore da un Rahal inarrestabile. La prima fila al fianco di Power nel Gp di Indianapolis è invece solo il viatico per un incidente in partenza, in cui Scott è maldestramente centrato da Castroneves. Riparata la vettura, Dixon riparte dal fondo, staccato da Power di oltre 40 secondi, riuscendo a portare a casa almeno il decimo posto nonostante l’assenza di bandiere gialle.

Dopo aver primeggiato nel 2008, Scott torna quindi in pole alla Indy500, nonostante le qualifiche ridotte a due giri in assetto da gara, per scongiurare il ripetersi dei decolli che hanno condizionato la settimana precedente di prove. In gara Dixon è poi grande protagonista, guidando il gruppo più a lungo di tutti, nonostante la pressione delle altre vetture Penske e Ganassi, che dominano l’evento. La lotta per il successo è ovviamente appannaggio dei piloti superstiti delle due squadre, con Dixon che spalleggiato da Kimball se la deve vedere con Montoya e Power. Il neozelandese da inizialmente l’impressione di potercela fare, ma un deciso sorpasso di Montoya a 5 giri dal termine, complice anche un sacchetto che ostruisce un radiatore, gli fa perdere tempo prezioso, relegandolo al quarto posto finale. Alla delusione di Indianapolis segue un double header di Detroit segnato dal maltempo. Gara1 vede Scott chiudere al quinto posto, quando la minaccia dei fulmini porta alla conclusione anticipata dell’evento. In gara 2, dopo aver perso tempo dietro Newgarden, il neozelandese mette in atto una bella rimonta sui fuggitivi Power e Montoya, ma dopo varie neutralizzazioni la sua corsa termina contro le barriere dopo essere stato colpito involontariamente dal compagno Kimball. La sequenza di corse negative si interrompe finalmente in Texas, dove Scott domina precedendo Kanaan in una bella doppietta del team Ganassi, ma gli appuntamenti successivi di Toronto, Fontana e Milwaukee, regalano solo mediocri piazzamenti in top ten. Va addirittura peggio in Iowa, dove Dixon si ritira a causa di problemi tecnici, non potendo approfittare del ritiro di Montoya, che guida la classifica.

Staccato dal colombiano di quasi 50 punti, il terreno amico di Mid Ohio sembrerebbe l’ultima speranza per il neozelandese, che da copione parte in pole e domina le prime fasi, salvo poi essere spedito nelle retrovie da una bandiera gialla uscita al momento sbagliato. Montoya, fino a quel momento disperso nel gruppo, compie invece il percorso opposto, fino a quando la neutralizzazione causata da un testacoda sospetto di Karam, compagno di Dixon al team Ganassi, rovina la corsa del colombiano, lanciando il neozelandese al quarto posto, posizione che conserva fino al traguardo. Una deludente nona piazza nell’appuntamento successivo di Pocono, funestato dalla scomparsa di Justin Wilson, sembrerebbe lasciare ancora una volta poche speranze per Dixon, che si presenta al gran finale di Fontana con 47 punti da recuperare su Montoya e 13 su Rahal. La corsa californiana regala però come Indianapolis punteggio doppio, mantenendo aperte le speranze teoriche anche di Power, Castroneves e Newgarden. Il misero nono posto della qualifica non aiuta a instillare ottimismo all’interno del team Ganassi, ma nei primi giri Dixon mostra la grinta dei giorni migliori, installandosi subito in coda a Montoya per poi passare davanti durante le soste. Quando poi il colombiano entra incredibilmente in contatto con Power, danneggiando l’ala anteriore, il team Ganassi capisce di avere l’occasione di fare il colpaccio. Dixon passa a condurre grazie a un ritmo superiore alla concorrenza e i compagni di squadra riescono tutti a raggiungere piazzamenti in top 5, con Montoya che per vincere il titolo deve arrivare almeno sesto. Nonostante un inseguimento disperato negli ultimi giri, il colombiano deve accontentarsi della settima piazza, che lo condanna al pari punti con Dixon, che però vincendo a Sonoma può contare su un successo in più. Per il neozelandese si tratta quindi del quarto titolo IndyCar personale, che va a rompere la maledizione dei quattro anni intercorsi tra i campionati conquistati in precedenza.

Vittoria in Texas. indycar.com, Chris Owens
Vittoria in Texas. indycar.com, Chris Owens

 

Trionfo a Sonoma. indycar.com, Chris Owens
Trionfo a Sonoma. indycar.com, Chris Owens

Il 2016 per il team Ganassi si apre con un annuncio triste: dopo 26 anni di collaborazione, nel 2017 la squadra non avrà più il supporto dello sponsor Target, già ridotto alla sola vettura #9, che sosterrà solo il programma Nascar di Kyle Larson. In omaggio ai vecchi tempi la vettura di Dixon rispolvera quindi le saette che a fine anni ’90 adornavano le vetture di Vasser, Zanardi e Montoya. Neanche questo riesce però a cambiare la fortuna di Scott a St.Pete, dove problemi di raffreddamento dei freni affliggono tutte le vetture del team Ganassi, non facendo andare il neozelandese oltre il settimo posto. Decisamente meglio va invece a Phoenix, dove Scott si installa al secondo posto dopo aver visto Montoya e Castroneves subito eliminati da forature, per poi passare davanti a Kanaan durante un turno di soste. Una volta al comando, il campione in carica non ha quindi troppi problemi nel controllare Pagenaud e Power, andando a conquistare il primo successo della stagione.

L’appuntamento successivo sulle strade di Long Beach sembrerebbe seguire il copione già visto nel 2015, con Dixon e Castroneves in prima fila a giocarsi la vittoria. Il tutto si decide all’ultima sosta, quando Scott supera il brasiliano ma è beffato da Pagenaud, che si ferma più tardi di tutti e rientrando in pista con due ruote oltre la riga bianca prende il comando. Il neozelandese nel finale avrebbe un’occasione per tornare davanti, ma decide di non rischiare, accontentandosi di un secondo posto condito dalle polemiche. Il team Ganassi accusa infatti la direzione gara per non aver penalizzato il taglio di Pagenaud, ma a ben guardare in predecedenza diversi piloti, tra cui lo stesso Dixon, non sono stati puniti per la medesima infrazione. La frustrazione più grande deriva però dall’errore della squadra, che non si era avveduta della sosta ritardata di Pagenaud, invitando Dixon a risparmiare carburante dopo aver conquistato la posizione ai danni di Castroneves. Frustrazione che cresce a Barber, dove Scott parte in seconda fila ma è centrato al tornantino da Bourdais, non riuscendo poi ad andare oltre il decimo posto data l’assenza di bandiere gialle.

Lo stentato inizio di stagione, ormai un classico dei campionati di Dixon, si conferma nel mese di Indianapolis, che vede Scott solo settimo nello stradale, frenato da problemi al turbo, e poi impalpabile nella 500 miglia, dove chiude 8° dopo aver anche colpito il muro. Il doppio appuntamento di Detroit conferma il momento negativo, nella forma di problemi elettrici in gara 1 e del team Penske in gara 2, dove in partenza una ruotata di Castroneves gli danneggia lo sterzo e poi un attacco insensato di Montoya gli causa una foratura. Nonostante tutto Scott riesce a chiudere 5°, aumentando i rimpianti per un fine settimana che poteva regalare ben altre soddisfazioni. La frustrazione peggiora se possibile a Road America, dove il neozelandese è l’unico a tenere il passo di Power, prima di essere eliminato da un problema agli scarichi. Una boccata d’ossigeno arriva in Iowa, dove Scott chiude terzo tra le Penske dopo una bella battaglia con Power per la piazza d’onore, ma Toronto regala un’altra delusione. Portata a casa la prima pole dell’anno, il campione in carica comanda senza fatica la corsa seguito da Pagenaud, ma una bandiera gialla uscita al momento sbagliato rovina i piani di entrambi, facendoli piombare in mezzo al gruppo e regalando la vittoria a Power. Nei due appuntamenti successivi le sventure invece sono totalmente auto inflitte. A Mid Ohio Scott è atteso come mattatore, ma un errore della squadra in qualifica gli impedisce di completare un secondo giro veloce in Q2, relegandolo all’11° posto. In gara è invece il neozelandese che in un attacco piuttosto ottimistico distrugge la sospensione anteriore destra contro la fiancata di Castroneves. Un probabile top 5 in Texas è invece rovinato da un evitabile contatto con Carpenter che spedisce la Dallara n.9 contro il muro.

Quando a inizio stagione il progetto di una corsa nelle strade di Boston fallisce miseramente, Scott è il più felice nell’apprendere che in sostituzione viene scelta Watkins Glen, in passato suo terreno di caccia al pari di Mid Ohio. Le aspettative non vengono disattese: Scott domina tutte le sessioni di prove e in gara sparisce, facendo un’altra corsa rispetto al resto del gruppo. Anche quando alcuni incidenti nel finale impongono di risparmiare carburante il neozelandese non fa una piega, viaggiando più forte anche di chi sceglie di tirare al massimo ed effettuare un rabbocco del finale. Il secondo successo stagionale è quindi la naturale conseguenza di una superiorità imbarazzante. Abbandonata da tempo ogni speranza di titolo, a Sonoma Scott può comunque allungare la sua striscia di 10 stagioni consecutive chiuse in top 3, forte delle vittorie conseguite in California negli ultimi due anni. La corsa si rivela invece un disastro per il team Ganassi, che vede tutte le sue vetture attardate da vari problemi. Scott chiude quindi al sesto posto una stagione frustrante, molto migliore del 2015 in termini di velocità pura, ma troppo spesso viziata da problemi tecnici, sfortune e qualche errore imprevisto. A luglio Scott fa anche il suo debutto alla 24 ore Le Mans sulla Ford GT ufficiale del team Ganassi, completando l’equipaggio #67 composto da Ryan Briscoe e Richard Westbrook. Inizialmente in difficoltà avendo potuto coprire pochi, problematici giri nelle prove per via della pioggia, il neozelandese entra pian piano in sintonia con la pista francese, viaggiando nella seconda metà gara sullo stesso passo dei migliori. I tre si giocano la vittoria con la vettura #66 gemella e la Ferrari del team Risi, rimanendo però attardati da alcune virtual safety car durante la notte. Arriva così un agrodolce terzo posto di classe, con Scott che si prende comunque la soddisfazione di far segnare il giro più veloce.

Dominio totale a Watkins Glen. indycar.com, Chris Owens
Dominio totale a Watkins Glen. indycar.com, Chris Owens

A sorpresa nell’inverno Ganassi decide di tornare sotto la tenda Honda, nonostante il pacchetto Chevy si sia dimostrato largamente superiore nelle due stagioni precedenti. La scelta, proiettata al ritorno ad un kit aerodinamico unico nel 2018, è comunque accolta con favore dell’ambiente, favorito dall’avere i due top teams impegnati con diversi costruttori. Tante sono le incertezze sulla vigilia del campionato di Scott, che però a St. Pete spazza via tutto, dominando le prove e mettendo in mostra un passo inavvicinabile in gara. Peccato che la solita bandiera gialla rovini tutto, costringendolo a una rimonta del fondo che si chiude al terzo posto. In prima fila anche a Long Beach, il neozelandese comanda le prime fasi, ma lo spettro della neutralizzazione di St. Pete tradisce Mike Hull, che richiama Dixon ai box quando vede Andretti fermarsi in pista. La bandiera gialla  però questa volta non arriva e Scott è da lì costretto a una tattica al risparmio che lo fa chiudere al quarto posto. Una bella sorpresa arriva poi in Alabama, dove il neozelandese è l’unico pilota Honda a contrastare le Penske, mancando il successo dopo aver subito un bel sorpasso da Newgarden, che contiene Scott fino al traguardo. Dopo un buon quinto posto nel dominio Chevy di Phoenix, una prova simile all’Alabama nell’Indy GP conduce ad un’altra ottima seconda piazza dietro Power. Arriva così la Indy500, dove Scott si fida del suo ingegnere Chris Simmons, affrontando la qualifica con un assetto scarichissimo che però paga, permettendo al kiwi di centrare la terza pole position al Brickyard. Poche ore dopo però Scott è incredibilmente vittima, insieme a Franchitti e alla moglie Emma, di una rapina allo sportello di un Taco Bell nei pressi dello Speedway, cui fortunatamente scampa senza un graffio. Brividi addirittura peggiori arrivano però durante la 500 miglia, che a un quarto di gara lo vede centrare la vettura fuori controllo di Howard e spiccare un terrificante volo verso le reti di contenimento interne. Nonostante un incontro troppo ravvicinato tra casco e muretto, Scott esce incredibilmente incolume dalla sua Dallara, riportando solo una piccola frattura a un piede.

Nonostante ciò è comunque ancora secondo nella prima corsa di Detroit, chiudendo poi sesto gara 2. Dopo una 24 ore di Le Mans non entusiasmante anche per via dei problemi al piede, il ritorno in America coincide con la corsa del Texas, dove Scott è in piena lotta per la vittoria con Will Power, quando nel tentativo di inserirsi tra i due Sato tocca l’erba a 7 giri dalla bandiera scacchi, travolgendo Dixon, che esce dalla vettura incolume ma furioso. Il riscatto non si fa però attendere e a Road America si vede il miglior Dixon della stagione. Dato il dominio in qualifica, prima della partenza i piloti Penske scherzano su chi tra loro taglierà per primo il traguardo, ma in gara Scott mette subito le cose in chiaro, mettendo subito pressione su Power e Pagenaud, che passa durante le soste, avendo poi la meglio in pista su Castroneves e Newgarden per conquistare la vittoria e un largo margine in testa al campionato. Dopo aver raggiunto l’apice la stagione del neozelandese vive però una flessione. Un week end difficile in Iowa conduce ad un mediocre ottavo posto per gentile concessione di Kanaan, cui segue una decima piazza a Toronto dopo un contatto con Power al primo giro. Anche il terreno solitamente amico di Mid Ohio non lo aiuta, a causa di un problema ad un ammortizzatore che lo relega al nono posto. La tendenza sembrerebbe cambiare a Pocono, dove il neozelandese conduce più a lungo di tutti, non avendo però nel finale la velocità del gruppo di testa, raccogliendo solo un sesto posto. Sempre a capo del contingente Honda a St. Louis, pista favorevole alla Chevrolet, Scott è poi bravo ad approfittare del battibecco in casa Penske per superare Pagenaud e chiudere secondo alle spalle di Newgarden, che con due corse da disputare lo precede in classifica di 31 punti. A Watkins Glen l’americano rischia però di compromettere tutto con un maldestro errore in uscita dalla pit lane, ma Dixon ne approfitta solo parzialmente, dovendosi inchinare a Rossi, che lo controlla abilmente fino al traguardo. Il secondo posto permette comunque a Scott di presentarsi a Sonoma con soli tre punti di ritardo, ma come nel 2016 la Penske domina l’evento. Partito sesto, Scott rimane infatti a lungo impelagato in una battaglia con Castroneves, non avendo comunque il passo per lottare con Newgarden, che vince meritatamente il titolo. Scott chiude invece la corsa quarto, portando a casa un terzo posto in classifica che gli va un po’ stretto, considerando i tanti punti persi incolpevolmente a Indy e Texas.

Spettacolare successo a Road America. Mike Harding, indycar.com
Spettacolare successo a Road America. Mike Harding, indycar.com

Dopo una stagione di incertezze relative alla sponsorizzazione, nel 2018 Ganassi incassa per la vettura #9 il sostegno full time della PNC Bank di Pittsburgh, da anni associata alla squadra come sponsor minore. Il 2017 da uomo di vertice Honda convince la casa giapponese a puntare su Scott per il programma di test privati con il nuovo aerokit, che comportando una sostanziale riduzione di deportanza dovrebbe sulla carta favorire le eccellenti doti di controllo del neozelandese. Nonostante questo vantaggio però il team Ganassi, tornato dopo 5 anni a una formazione a due punte con il rookie of the year Ed Jones ad affiancare Dixon, fatica a ingranare nelle prime corse. Una difficile qualifica bagnata e un clamoroso svarione che lo vede centrare Sato a inizio gara, costringono infatti  il 4 volte campione a una difficile rimonta fino al sesto posto finale a St. Pete, cui segue un quarto posto per certi versi fortunoso a Phoenix, dove Scott emerge dal gruppo dopo l’ultima sosta, beneficiando di alcuni ritiri davanti a lui. Un probabile podio sfuma invece a Long Beach quando una bandiera gialla sfortunata rovina la corsa a lui e Bourdais, che gli soffia poi sul traguardo il quinto posto nella bagnatissimo appuntamento successivo a Barber. Il difficile momento in qualifica prosegue quindi nell’Indy GP dove Scott è eliminato addirittura in Q1, mettendo però in mostra un passo gara da vittoria il giorno seguente, che gli permette di risalire dal 18° al 2° posto finale. Dopo la sfortuna di Long Beach, una bandiera gialla fortunata raddrizza invece una Indy500 mediocre, permettendo al neozelandese di conquistare un terzo posto prezioso per via dei punti doppi.

La stagione cambia finalmente volto a Detroit, dove Dixon deve arrendersi in qualifica a un sorprendente Marco Andretti, prendendo però saldamente il comando a metà gara per conquistare il primo successo stagionale. Una prova più tranquilla lo vede poi chiudere quarto il giorno dopo dietro il compagno Jones. Il copione di Detroit 1 si ripete per certi versi in Texas, dove Scott si avvicina progressivamente al vertice, prendendo il comando durante il penultimo turno di soste per conquistare il secondo successo stagionale e portare a 23 le lunghezze di vantaggio sul rivale della stagione, Alexander Rossi. Divario che aumenta a Road America, dove Scott rimane ancora fuori dalla Fast Six, ma in una gara priva di bandiere gialle è comunque in grado di risalire al terzo posto, non potendo però impensierire Newgarden e Hunter-Reay. Dopo la tappa dell’Iowa, difficile per tutti i contendenti al titolo, a Toronto Dixon conquista un successo fondamentale in chiave titolo, passando in testa dopo un madornale errore di Newgarden e approfittando delle disavventure di Rossi, Power e Hunter-Reay. Sotto di 70 punti, il campione di Indy 2016 suona però la carica a Mid Ohio, feudo del neozelandese, conquistando una schiacciante vittoria con Scott solo quinto, per poi fare il bis a Pocono, dove però Dixon limita i danni chiudendo in terza piazza grazie anche al devastante incidente del primo giro che fa fuori numerosi protagonisti.

A St. Louis una corsa tesissima tra Dixon, Rossi e Power si trasforma nel finale in un confronto strategico in cui la tattica aggressiva dell’australiano ha la meglio sul gioco al risparmio dell’americano e l’ultimo splah and go troppo ritardato del neozelandese, che si presenta a Portland con 24 punti di vantaggio. L’ennesima brutta qualifica si trasforma in incubo al primo giro, quando Scott si ritrova coinvolto in un incidente multiplo da cui esce però incredibilmente senza danni e ancora a pieni giri. La sorte è evidentemente con lui in Oregon, perchè dopo i guai al cambio che mettono fuori gioco Power, una bandiera gialla sfortunata spedisce Rossi, sicuro vincitore, in fondo al gruppo mentre Scott si ritrova nelle prime posizioni. I due chiudono rispettivamente 7° e 5°, presentandosi all’ultimo appuntamento di Sonoma separati da 29 lunghezze. Nonostante i punti doppi gli lascino ancora buone possibilità di conquistare il titolo, l’americano spreca però tutto al primo giro rimediando una foratura in un contatto con Andretti. Nonostante una bella rimonta nel finale, a Dixon basta così un tranquillo secondo posto dietro Hunter-Reay per superare Mario Andretti, Dario Franchitti e Sebastien Bourdais, laureandosi campione per la quinta volta in carriera.

Battaglia con Newgarden nella fondamentale vittoria di Toronto. indycar.com, James Black
Scott festeggia il quinto titolo con la moglie Emma e le figlie Poppy e Tilly. indycar.com, Stephen King
Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P. LL L GPV
2001 CART Pac West 18 Nextel 20 8 98 1 2 6 10 0 74 7 0
2002 CART Ganassi   Target 19 13 97 0 1 3 12 0 0 0 nd
2003 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 16 1 507 3 8 9 11 5 748 14 nd
2004 IRL/IndyCar Ganassi 1 Target 15 10 355 0 1 2 10 0 3 1 nd
2005 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 17 13 321 1 1 1 5 0 25 1 nd
2006 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 14 4 460 2 6 9 12 1 215 9 nd
2007 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 17 2 624 4 10 13 16 2 291 13 nd
2008 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 18 1 646 6 13 15 15 7 900 12 nd
2009 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 17 2 605 5 10 12 14 2 815 12 nd
2010 IRL/IndyCar Ganassi 9 Target 17 3 547 3 5 9 15 0 279 9 nd
2011 IndyCar Ganassi 9 Target 17 3 518 2 9 12 13 2 190 7 nd
2012 IndyCar Ganassi 9 Target 15 3 435 2 6 8 9 1 456 9 nd
2013 IndyCar Ganassi 9 Target 19 1 577 4 6 10 12 2 239 8 0
2014 IndyCar Ganassi 9 Target 18 3 604 2 4 11 12 1 97 8 3
2015 IndyCar Ganassi 9 Target 16 1 556 3 4 7 12 2 306 10 3
2016 IndyCar Ganassi 9 Target 16 6 477 2 4 5 11 2 268 7 3
2017 IndyCar Ganassi 9 NTT Data 17 3 621 1 7 9 16 1 131 8 1
2018 IndyCar Ganassi 9 PNC Bank 17 1 678 3 9 13 15 1 357 6 3
Carriera         305 8726 44 106 154 220 29 5394 141  

*1 gara fuori calendario

Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
2001 Nazareth 0 0 1 1
2002 0 0 0 0
2003 Homestead Pikes Peak Richmond 0 0 3 3
2004 0 0 0 0
2005 Watkins Glen 1 0 0 1
2006 Watkins Glen Nashville 1 0 1 2
2007 Watkins Glen Nashville Mid Ohio Sonoma 3 0 1 4
2008 Homestead Indy500 Texas Nashville Edmonton Kentucky 1 0 5 6
2009 Kansas Milwaukee Richmond Mid Ohio Motegi 1 0 4 5
2010 Kansas Edmonton Homestead 1 0 2 3
2011 Mid Ohio Motegi 2 0 0 2
2012 Detroit Mid Ohio 1 1 0 2
2013 Pocono Toronto 1 Toronto 2 Houston 1 0 3 1 4
2014 Mid Ohio Sonoma 2 0 0 2
2015 Long Beach Texas Sonoma 1 1 1 3
2016 Phoenix Watkins Glen 1 0 1 2
2017 Road America 1 0 0 1
2018 Detroit 1 Texas Toronto 0 2 1 3
Totale 16 7 21 44
Quote 36,4% 15,9% 47,7% 100%

 

James Hinchcliffe

Nome: James Hinchcliffe

Data e luogo di nascita: 5 dicembre 1986, Oakville (Canada)

Nazionalità: Canadese

Ruolo: Pilota

Di gran lunga il pilota più popolare dopo l’abbandono di Danica Patrick, James Hinchcliffe rimane un’incognita. Un po’ come Eddie Sachs, il pilota più amato degli anni ’60, più che un grande talento Hinchcliffe è considerato un pilota costruitosi pazientemente, che dopo una lunghissima gavetta ha sfondato nella serie maggiore, conquistandosi importanti occasioni grazie anche  alla sua personalità prorompente. Nonostante svariate vittorie su diversi tipi di tracciato, rimane però il dubbio che il canadese non abbia saputo trarne il meglio, non riuscendo a fare il determinante salto di qualità.

Come tutti Hinchcliffe inizia la sua carriera nei kart, in cui conquista numerosi campionati tra Canada e USA. Nel 2002 esordisce in monoposto, partecipando alla scuola Bridgestone di F.Ford e al successivo campionato, conquistando una pole e una vittoria. Nel 2003 prosegue l’esperienza in F.Ford, portando a casa 10 podi e 5 vittorie su 12 corse, buone per il terzo posto in campionato.  La stagione successiva passa quindi al campionato F.BMW USA, in cui coglie 4 pole positions, 10 podi e 3 vittorie consecutive nella parte terminale della stagione, che gli valgono il secondo posto in campionato e il titolo di rookie of the year. Disputa anche qualche altra gara in F.Ford, cogliendo 3 vittorie su 4 partecipazioni. L’anno successivo continua l’ascesa verso le categorie top, con il passaggio nel campionato Star Mazda, sempre con l’AIM Autosport, con cui James si conferma uno dei giovani più promettenti, vincendo tre corse a Sonoma, Road America e Laguna Seca, che insieme ad altri tre podi gli valgono il terzo posto in campionato, a pochi punti dal campione Raphael Matos e davanti ai figli d’arte Marco Andretti e Graham Rahal.  Il 2006 per James segna poi l’inizio una lunga militanza nelle categorie cadette di ChampCar e IndyCar. Il canadese debutta infatti in F.Atlantic col team Forsythe, portando a casa una vittoria a Portland e due podi, a Long Beach e a Montreal. I numerosi ritiri lo relegano però al decimo posto di un campionato estremamente competitivo, che il costante Simon Pagenaud conquista all’ultima corsa, precedendo Graham Rahal e Andreas Wirth, compagno di Hinch. Sempre nel 2006 James debutta in Grand-Am a Daytona, guidando una Riley-Lexus della sua vecchia squadra, l’AIM Autosport. Nel 2007 passa al team Sierra, col quale si piazza quarto in campionato, mettendo insieme 5 podi e 3 pole positions. Il suo compagno Raphael Matos conquista invece il titolo, precedendo Franck Perera. Parallelamente James rappresenta il Canada nel campionato A1 Gp, saltando solo due appuntamenti e mettendosi in luce a Brno, dove coglie un secondo e un quinto posto. È poi quarto in gara 1 a Pechino e due volte sesto in Nuova Zelanda.

Sul fronte Atlantic il 2008 vede il ritorno al team Forsythe, con cui  Hinch conquista la doppietta pole-vittoria a Long Beach, cui si sommano altri tre podi che gli fruttano ancora un quarto posto in campionato. Nell’inverno disputa poi altre 6 corse in A1 Gp, senza però ottenere risultati di rilievo. Nel 2009 passa quindi in IndyLights col top team Schmidt Motorsports, con cui mette a segno 5 podi, non andando però oltre il quinto posto finale, poco dietro l’esperto compagno di squadra Wade Cunningham. Nel 2010 Hinch, adattatosi alle diverse caratteristiche della Dallara, passa al team Moore, lottando finalmente per il titolo con Jean Karl Vernay, che ha preso il suo posto al team Schmidt. Il canadese vince tre corse: a Long Beach ancora dalla pole, in casa a Edmonton e poi a Chicago in volata. Il rookie francese soffre sugli ovali ma è incontenibile sugli stradali, vince 5 corse e si aggiudica il titolo con una gara d’anticipo. Vernay meriterebbe senza dubbio una possibilità in IndyCar, ma senza due soldi in tasca l’ambiente lo dimentica nel giro di pochi mesi. Hinchcliffe invece, seppur meno impressionante come risultati, negli anni ha saputo costruire attorno all’immagine di solido pilota anche quella di grande personaggio. Il canadese è fin da giovanissimo ospite nelle cabine di commento della ChampCar, diventa un beniamino del pubblico e mette sù un sito internet surreale, http://www.hinchtown.com/ , strutturato come una stravagante città, Hinchtown, di cui è ovviamente “il Sindaco”.

autoracing1.com
Un Hinchcliffe sbarbato ai tempi della F.BMW. autoracing1.com

 

In A1 Gp nel 2006. gpupdate.com; Sutton
Vittoria a Long Beach 2010. indycar.com; Ron McQueeney
Vittoria a Long Beach 2010. indycar.com; Ron McQueeney

Dopo un inverno di dubbi sui supporti economici, James nel 2011 riesce finalmente a debuttare nel campionato IndyCar, al volante della vettura Sprott #06 del team Newman Haas. Nei test Hinch è sempre tra i più veloci, ma per problemi di sponsor la sua stagione comincia al secondo appuntamento in Alabama, dove stacca l’ottavo tempo in qualifica ma in gara è coinvolto in un incidente multiplo che gli costa il ritiro. Nell’appuntamento successivo di Long Beach riesce invece a concretizzare la velocità mostrata nelle prove, portando a casa un eccellente quarto posto, frutto di un ottimo passo gara, oltre che dei diversi incidenti che gli succedono davanti. Nella corsa successiva di San Paolo chiude poi nono sotto l’acqua, mentre la sua prima Indy500 termina contro il muro dopo metà gara, quando finisce nello sporco mentre naviga a centro gruppo. Dopo un fine settimana difficile in Texas, arrivano due buoni piazzamenti in top ten a Milwaukee e in Iowa. Le corse successive non regalano particolari soddisfazioni fino a Mid Ohio, dove James esce di pista al primo giro ma è spedito in prima posizione da una bandiera gialla fortunata. Hinch è bravo a tenere sotto controllo Dixon e Franchitti fino alla sosta successiva, ma va in testacoda poco dopo un’altra ripartenza, rovinando un possibile podio. Si rifà però nelle ultime corse della stagione, mettendo insieme due ottimi quarti posti a Loudon e Kentucky, che gli permettono di conquistare il titolo di rookie of the year con 6 punti di vantaggio su JR Hildebrand. Hinchcliffe chiude il campionato al 12° posto, mentre il più esperto compagno Servia, col quale il canadese collabora perfettamente, porta a casa un eccellente quarta piazza, a conferma della grande stagione del team Newman Haas.

Sonoma. indycar.com; Richard Dowdy
Sonoma. indycar.com; Richard Dowdy

Nonostante gli ottimi risultati Carl Haas, non più in grado di seguire personalmente la squadra a causa delle sue precarie condizioni fisiche, non è più disposto a coprire personalmente buona parte del budget. Il team chiude quindi i battenti, lasciando a piedi Servia e Hinchcliffe. Mentre lo spagnolo riesce ad accasarsi al team Dreyer&Reinbold, per il canadese la situazione è incerta. Dan Wheldon, dato per sicuro nel team Andretti per il 2012 con il supporto dello sponsor GoDaddy, perde la vita nel catastrofico incidente di Las Vegas e Michael Andretti e lo sponsor vedono in Hinchcliffe il miglior candidato, sia da un punto di vista sportivo che promozionale, per rimpiazzare lo sfortunato pilota inglese.

Alla guida della nuova Dallara, ribattezzata DW12 dietro sua idea per onorare il campione 2005, Hinchcliffe stupisce nelle prime corse, mettendo in mostra una solidità che lo tiene a lungo nelle parti alte dalla classifica. Nella prima corsa a St Pete è subito quarto, conquistando poi la prima fila a Barber, dove sfiora il podio perdendo però colpi nelle ultime ripartenze, che lo vedono retrocedere al sesto posto. L’appuntamento però è solo rimandato perchè a Long Beach, al termine di una corsa consistente, James è promosso al terzo posto da una penalità al compagno Hunter-Reay, che all’ultimo giro fa fuori Sato. Dopo un’altra sesta piazza a San Paolo, Hinch conquista poi la prima fila a Indianapolis, cedendo la pole a Briscoe per pochi millesimi. In gara resta in zona vittoria fino alle fasi finali, ma non riesce a farsi largo nel momento decisivo. “Stavo cercando di guidare con un po’ di dignità” dice dopo la bandiera a scacchi, ma gli altri piloti non si fanno gli stessi scrupoli. Allo scivolone su un pezzo di asfalto sgretolato che lo spedisce contro il muro a Detroit, Hinch risponde nelle gare seguenti con un quarto posto in Texas e un buon terzo a Milwaukee, che gli vale la seconda posizione in campionato a pochi punti da Power. Dopo il ritiro per incidente in Iowa però, la stagione di Hinchcliffe praticamente si spegne. Il canadese perde infatti il ritmo dei migliori e tra prestazioni non esaltanti e qualche problema tecnico, nelle corse successive conquista solo un settimo posto a Toronto e un quinto a Mid Ohio, risultati che lo fanno precipitare all’ottavo posto finale.

Long Beach. indycar.com; LAT Photo USA
Long Beach. indycar.com; LAT Photo USA

Per il 2013 Hinchcliffe è confermato al team Andretti, ancora supportato dallo sponsor GoDaddy, e il suo campionato è un continuo alternarsi di alti e bassi. Alla prima corsa di St Pete il canadese parte in seconda fila, rimane in zona vittoria per tutta la gara e alla fine è pronto nell’approfittare di un’incertezza di Castroneves, andando a conquistare la prima vittoria in carriera. Nell’appuntamento successivo di Barber però si qualifica male, è coinvolto in un incidente al primo giro e si ritira poi per problemi al motore. A Long Beach le cose non vanno meglio: partito in quarta fila Hinch rimane nel gruppo dei primi, fino a quando un azzardato attacco a Kanaan durante una ripartenza causa una carambola, costringendo al ritiro lui e il compagno Viso. Il riscatto arriva però nella corsa successiva a San Paolo, dove il canadese viene fuori nel finale e ingaggia un esaltante duello con Sato, che a più riprese va ben oltre il limite per difendere la sua prima posizione. Proprio all’ultima curva però il giapponese perde il posteriore in frenata, lasciando a Hinchcliffe il varco giusto per infilarsi e ottenere una meritata vittoria. A Indianapolis il meccanismo si inceppa di nuovo. Il team Andretti schiera 5 vetture, tutte velocissime eccetto la #27, che si barcamena fino al traguardo correndo grossi rischi per terminare solo al 21° posto.

Come l’anno precedente, Detroit non porta niente di buono, con il canadese fuori per incidente in entrambe le corse, cui seguono poi un nono posto in Texas e un quinto a Milwaukee. Finalmente in Iowa Hinch torna in forma vittoria, dominando 226 giri su 250 e portando a casa il primo successo su ovale. Il canadese non perde però le cattive abitudini a Pocono, dove parte in prima fila ma centra il muro al primo passaggio. La metà stagione ripropone la flessione già osservata nel 2012 per il Sindaco, che questa volta riguarda però tutto il team Andretti, incapace di tenere il passo della Penske e del rimontate team Ganassi. Nel week end di casa a Toronto Hinchcliffe parte dalle retrovie in entrambe le corse, terminando la prima ottavo e la seconda subito fuori per un problema elettrico. Piazzamenti poco esaltanti nella parte bassa della top ten conducono quindi al week end di Houston. Allo stallo sulla griglia che conduce a un immediato incidente in gara 1, Hinch risponde con una seconda prova pulita e senza intoppi, chiudendo terzo dietro Power e Dixon. Nell’ultimo appuntamento di Fontana infine, James sopravvive a incidenti e guasti tecnici che colpiscono molti concorrenti, chiudendo al quarto posto. Nonostante le tre vittorie, il canadese chiude la stagione solo ottavo, lo stesso risultato del 2012.

San Paolo. indycar.com; Chris Jones
San Paolo. indycar.com; Chris Jones

 

I successi ottenuti non bastano a strappare la riconferma alla GoDaddy, lasciando HInchcliffe nell’incertezza fino a quando il team Andretti non trova un nuovo title sponsor, la United Fiber&Data. Sfatato il tabù vittoria Hinchcliffe è visto tra i principali outsiders nella lotta al titolo. La stagione della consacrazione non tarda però a dimostrarsi un incubo. Dodici mesi dopo il primo trionfo, a St. Pete Hinchcliffe fatica più del dovuto in qualifica, chiudendo in coda al gruppo con vari problemi. Il riscatto potrebbe arrivare subito, a Long Beach, dove Hinch parte in prima fila ed è pienamente in lotta per la vittoria quando una sciagurata manovra di Hunter-Reay sul leader Newgarden rovina la corsa di tutti e tre.

continua…

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
2011 IndyCar Newman Haas 6 Sprott 16 12 302 0 0 3 7 0
2012 IndyCar Andretti 27 Go Daddy 15 8 358 0 2 5 8 0
2013 IndyCar Andretti 27 Go Daddy 19 8 449 3 4 6 11 0
2014 IndyCar Andretti 27 United Fiber&Data 18 12 456 0 1 4 8 0
2015 IndyCar Schmidt 5 Arrows Elect. 5 23 129 1 1 1 2 0
2016 IndyCar Schmidt 5 Arrows Elect. 15 13 416 0 3 4 9 1
2017 IndyCar Schmidt 5 Arrows Elect. 17 13 376 1 3 3 7 0
Carriera         105   2486 5 14 26 52 1
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
2011 0 0 0 0
2012 0 0 0 0
2013 St. Pete Iowa San Paolo 0 2 1 3
2014 0 0 0 0
2015 NOLA 1 0 0 1
2016 0 0 0 0
2017 Long Beach 0 1 0 1
2018 Iowa 0 0 1 1
Totale 1 3 2 6
Quote 16,7% 50,0% 33,3% 100,0%

Rick Mears

Nome: Rick Ravon Mears

Data e luogo di nascita: 3 dicembre 1951, Wichita (Kansas, USA)

Nazionalità: Statunitense

Ruolo: Pilota, Driver’s Coach, Consulente

Rick Mears nasce a Wichita, Kansas, il 3 dicembre 1951. Quella di Rick è una famiglia da corsa: suo padre Bill è infatti un pilota stock car di successo in un’epoca irripetibile, in cui la vita si divide tra le giornate passate a lavorare e le notti a gareggiare, con in mezzo poche ore di sonno. Bill,  meccanico in un rivenditore di auto usate, negli anni ‘50 arriva a correre anche 5-6 gare a settimana, ottenendo i primi ingaggi. In un fine settimana di vacanza passato in California, Bill e sua moglie Skip decidono per il classico cambio di vita all’americana, trasferendosi a Bakersfield, cittadina non lontana da Los Angeles. La California, oltre a offrire prospettive di vita migliori, da anche a Bill la possibilità di continuare a dare sfogo alla sua passione per le corse, oltre ad essere il miglior terreno possibile per le prime scorribande dei suoi due rampolli, Roger e Rick, che ci mettono poco a seguire le orme del padre, armeggiando con qualunque cosa abbia un motore. Roger si dà subito al kart, per poi passare a midget e stock car mentre Rick si innamora delle moto, diventando un promettente crossista. Fin dalle prime esperienze, il più giovane dei fratelli Mears si fa notare per uno stile paziente ed efficace. Come ricorderà Roger: “poteva metterci dei giorni ad imparare qualcosa che magari io padroneggiavo in poche ore. Procedeva sempre con prudenza, a piccoli passi. Una volta imparato però faceva quella cosa meglio di chiunque altro”.

Alcune brutte cadute convincono però Rick ad accettare la proposta del padre di concentrarsi sulle quattro ruote. Gareggiando con mezzi autocostruiti, Rick e Roger si danno allora alle corse su sterrato e nel deserto con i dune buggy, che talvolta vedono partecipare lo stesso Bill. È qui che nasce la Mears Gang, che all’inizio degli anni ‘70 domina la scena del corse californiane e non solo. I due fratelli si spartiscono infatti le vittorie sia nei circuiti di terra, in una continua sequenza di duelli all’ultima curva, che nel deserto, partecipando inoltre a importanti competizioni come Pikes Peak e la Baja 1000 in Messico. Roger è infatti uno dei primi a introdurre i buggy nella famosa corsa del Colorado, raccogliendo numerose vittorie di classe e battagliando con personaggi del calibro di Parnelli Jones, leggenda del motorismo USA, che diventa una sorta di mentore per i due fratelli, i cui orizzonti si allargano sempre più. Roger costruisce insieme al padre una stock car, cercando di sfondare nei campionati regionali della Nascar, mentre Rick ha l’occasione di debuttare in pista con una monoposto. Guidando una Formula Vee di alcuni amici, ottiene a Riverside la licenza SCCA per poter disputare le prime corse, passando subito ad una più prestante Super Vee. La rapidità con cui la sua carriera si sviluppa da questo punto in poi, considerando l’esperienza su pista praticamente inesistente, ha dell’incredibile, ma non è poi così sorprendente nell’ambiente ancora per certi versi pioneristico delle corse americane degli anni ’70.

Rick approfitta di ogni occasione per fare esperienza e migliorare la propria tecnica di guida, pur senza ambizioni di professionismo. Le corse, nonostante i successi mietuti nel deserto, sono ancora solo un hobby e l’unica sicura fonte di sostentamento è costituita dal lavoro nell’azienda del padre Bill, che nel frattempo ha messo su un’attività nel settore del movimento terra. Rick si divide quindi tra le auto e il lavoro con l’escavatore, disertando di nascosto ogni tanto il dovere per andare a provare qualche nuova macchina nei vari autodromi della zona, fino a quando non riceve una chiamata che gli cambierà la vita. Bill Simpson, pilota e fondatore dell’omonima azienda di abbigliamento da gara e dispositivi di sicurezza, offre a Mears la possibilità di provare una F.5000 a Willow Springs. Alla prima presa di contatto con una monoposto di grande potenza, Mears si comporta bene, risultando nettamente più veloce di Simpson che, impressionato dal giovane americano, gli fa disputare due corse in F.5000 per poi farlo debuttare in IndyCar, come seconda guida del suo team, al volante di una Eagle vecchia di due anni.

La 500 miglia di Ontario del 9 settembre 1976 vede quindi l’esordio di Rick Mears, non solo nel campionato IndyCar/USAC, ma anche su un ovale estremamente veloce come il super speedway californiano. In realtà la sua partecipazione è in dubbio fino alla vigilia, in quanto l’USAC è preoccupata per la scarsa esperienza di Rick sulle monoposto. A sua insaputa, Simpson offre la propria casa a copertura di eventuali danni procurati ad altri concorrenti. Rick fuga ogni dubbio qualificandosi 20° e, seppur doppiato numerose volte non solo dal vincitore Bobby Unser ma anche dal “capo” Simpson, al volante di una ben più prestante McLaren, si comporta bene, completando la gara in ottava posizione senza ostacolare i più veloci e facendo preziosi chilometri. La prestazione convince sempre più Simpson delle potenzialità del 25enne californiano, tanto da garantire a Mears il sedile per due delle ultime tre corse in calendario. Simpson vende infatti la Eagle ad Art Sugai, impresario appassionato di corse, a patto che a guidare sia proprio Rick. Al volante di una vettura imbarazzante come velocità e colore (un rosa che le vale il soprannome di “pink lady”), Mears raccoglie due noni posti al Texas World Speedway e all’ultima corsa di Phoenix.

Nonostante i mezzi limitati e la assoluta non competitività della vetusta Eagle, Rick decide di proseguire l’avventura col team Sugai anche nel 1977, raccogliendo solo delusioni nelle prime corse della stagione, fino alla mancata qualificazione alla Indy 500. Mears si presenta allo Speedway con la moglie Dina, i figli Clint e Cole e una roulotte, che è praticamente tutto ciò che possiede. Nonostante gli sforzi e i grossi rischi presi nel tentativo di qualificarsi, Rick si ritrova senza vettura e prospettive, in quanto il team Sugai è prossimo alla chiusura. Lo stile di Mears non è però passato inosservato. Roger Penske ha infatti seguito attentamente i progressi del giovane pilota americano, rimanendo impressionato dal suo cercare di qualificarsi senza mai sbagliare o mettere a rischio la vettura. Con l’aiuto di Bill Simpson, Rick intanto approda nell’abitacolo della McLaren-Offy schierata dal leggendario Teddy Yip, proprietario del Theodore Racing che a Indy aveva fatto correre Clay Regazzoni. Con la ben più competitiva vettura inglese, Mears ha finalmente l’occasione di ben figurare, cogliendo 4 arrivi in top ten su sei gare, col quinto posto di Milwaukee come miglior risultato. Roger Penske ha così le risposte che cercava e contatta Simpson, titolare di un contratto decennale con Mears. Consapevole dell’importanza della proposta del Capitano per la carriera di Rick, Simpson ne cede gratuitamente il “cartellino” a Penske, che per il 1978 impegna Mears in un programma parziale: Indianapolis e tutte le corse in cui Mario Andretti non sarà disponibile a causa dell’impegno Lotus in F1. È la svolta di una carriera, perché Mears si inserisce senza troppa fatica tra i big dell’IndyCar, realizzando che non gli è richiesto nulla più di quanto fatto fino a quel momento con vetture decisamente meno competitive.

Mears Gang al gran completo con Rick (a destra), Bill (al centro) e Roger (sinistra). fourwheeler.com
Mears Gang al gran completo con Rick (a destra), Bill (al centro) e Roger (sinistra). fourwheeler.com
Mancata qualificazione a Indy '77. pinterest.com
Mancata qualificazione a Indy ’77. pinterest.com
Dopo Indianapolis Rick passa finalmente a un'auto competitiva, la McLaren di Teddy Yip.
Dopo Indianapolis Rick passa finalmente a un’auto competitiva, la McLaren di Teddy Yip.

Al debutto col team Penske a Phoenix, Rick ottiene un discreto quinto posto, rientrando poi in azione a Indianapolis, dove nonostante gli inviti alla cautela del team, piazza la sua vettura all’esterno della prima fila, cancellando il ricordo dell’anno precedente e posando il primo mattone di un rapporto con lo Speedway che diverrà felicissimo. La corsa non va altrettanto bene, terminando con un ritiro per problemi tecnici verso metà gara, ma Rick si rifà in breve, cogliendo un ottimo secondo posto a Mosport alle spalle di Danny Ongais, per poi centrare la prima vittoria in IndyCar nella corsa seguente, Milwaukee. Mears si dimostra velocissimo, ma la sua vittoria è chiaramente favorita dai problemi che affliggono gli avversari, in particolare Al Unser, che si ferma per un rabbocco negli ultimi giri nel bel mezzo del loro duello. Soddisfatto a metà per il modo in cui l’affermazione è scaturita, Rick discute con AJ Foyt questa sensazione. L’esperto texano non si fa pregare nel sottolineare una delle leggi più sacre delle corse :”devi prendere tutte le gare che puoi, perché saranno molte più quelle che perderai in questo modo di quelle che vincerai”. Tra il giovane Mears e la leggenda Foyt si instaura un buon rapporto, dopo un’iniziale incomprensione e relative spiegazioni che chiariranno molto agli occhi di Rick il ruolo di Foyt nel paddock. Come dirà più avanti Mears “AJ è un grande “teddy bear”, quando ci discuti capisci che il suo abbaiare è molto più forte del suo morso”.

L’impegno part time per Mears prosegue tra ritiri per guasti tecnici e podi, fra i quali svettano le vittorie di Atlanta e nella trasferta europea di Brands Hatch, dove Rick ottiene il terzo successo stagionale ereditando la testa della corsa dal dominatore Ongais, fermo per un guasto. Mears si conquista così un posto da titolare per il 1979, al fianco del nuovo arrivo Bobby Unser. Con una mossa a sorpresa infatti Penske decide di dare il benservito a Tom Sneva, campione nazionale negli ultimi due anni ma mai entrato nelle grazie del patron, optando per uno schema che diventerà un classico, con un capo squadra affermato e un giovane da far crescere.

In lotta con AJ Foyt. 500legends.com
In lotta con AJ Foyt. 500legends.com
Davanti a tutti a Brands Hatch. motosportretro.com
Davanti a tutti a Brands Hatch. motosportretro.com

Il 1979 è anche l’anno della prima grande spaccatura in seno alle ruote scoperte americane. Dan Gurney, spalleggiato da Penske,  Pat Patrick e Jim Hall, scrive una lettera indirizzata ai vertici di USAC e Indianapolis, chiedendo una sostanziale modernizzazione della gestione commerciale della serie, sulla falsariga di quanto fatto da Bernie Ecclestone in Formula 1. Il patron della Eagle denuncia in particolare l’inconsistenza dei premi in denaro e la difficoltà nel reperire sponsor, data la totale assenza di un’attività di marketing da parte degli organizzatori. Fortemente contrariati dall’atto di accusa delle squadre, USAC e IMS rigettano le proposte dei team, che formano quindi un loro campionato, denominato CART (inizialmente sanzionato dalla SCCA), che nel ‘79 comprenderà, per decisione del tribunale dell’Indiana, anche la Indy500, nonostante il tentativo dell’USAC di escludere i team ribelli. In questo clima di “guerra” il team Penske spadroneggia nel nuovo campionato, vincendo nove corse su 14, 6 con Unser e 3 con Mears. Sarà però il giovane della squadra ad avere la meglio nella lotta per il titolo, grazie ai migliori piazzamenti ottenuti nelle varie 500 miglia, che assegnano un punteggio maggiore. Tra queste, spicca per Mears la prima vittoria a Indianapolis.

Snobbato da pubblico e media, più concentrati sui soliti nomi, Mears ottiene la pole e batte i fratelli Unser su quello che, data la maggiore esperienza, dovrebbe essere il loro punto di forza, la visione di gara, adottando un modo di correre che farà scuola. Fin dalla partenza Mears si defila dalle prime posizioni, utilizzando i primi 150 giri come una sessione di test in cui sviluppare l’assetto della vettura in funzione delle condizioni di pista e atmosferiche, oltre che del potenziale espresso dai diretti rivali. Il tutto con l’obiettivo di presentarsi al momento decisivo, le ultime 50 miglia, nelle migliori condizioni possibili per puntare alla vittoria. Un po’ per sfortuna, un po’ per aver spinto troppo, prima Al sr. e poi Bobby Unser rimangono però attardati da problemi tecnici, così Mears non deve far altro che subentrare loro al comando e andare a conquistare, dopo 4 anni dai primi passi in monoposto e alla seconda partecipazione, la corsa più ricca e importante del mondo. Solo più tardi Rick realizzerà quanto importante per la sua carriera sarà quell’affermazione ma, forse a causa della sua preparazione atipica e lontanissima dalle ruote scoperte, per il Mears del 1979 vincere a Indianapolis non è poi tanto diverso che vincere a Michigan o ad Atlanta.

Seppur non entusiasmante, seppur non spettacolare, il poco appariscente Mears in un solo anno porta quindi a casa titolo e Indy 500, ripagando in pieno la fiducia accordatagli due anni prima da Roger Penske. Non tutto è però rose e fiori all’interno dell’organizzazione. Bobby Unser è infatti un personaggio difficile da gestire, un vulcano di idee, grazie alla sua esperienza non solo come pilota ma anche come costruttore e ingegnere “autodidatta”. Col tempo saranno numerosi i contrasti su aspetti tecnici tra Unser e la squadra e anche tra i piloti, pur non arrivando mai ad alcuno scontro, la sintonia è tutt’altro che perfetta, con Unser che cerca per quanto possibile di sviare il compagno e nascondere assetti e dati tecnici, accusando Mears di poco impegno in fase di sviluppo e messa a punto. Nonostante le nozioni tecniche imparate nella costruzione dei buggy siano in parte adattabili alle ChampCar, Mears ha ancora molto da imparare delle corse su pista, sia da un punto di vista tecnico che di guida, specie sugli stradali. Pur partecipando attivamente allo sviluppo in virtù di una eccezionale sensibilità, Rick è sempre il pilota giovane della squadra, che tende a fidarsi maggiormente di Unser, grazie anche alla sua forte personalità. Anche per questo motivo, Mears disputa la prima parte della stagione con la Penske PC6 dell’anno prima, mentre ad Unser è affidata subito la nuova PC7, che ben presto diventa il nuovo termine di paragone.

A Indy Mears piazza la sua PC7 in pole davanti all’ex compagno di squadra Tom Sneva. espn.com
All’inseguimento dei fratelli Unser. pinterest.com
Penske, Dina e il resto della famiglia in festa per il primo trionfo al Brickyard
Rick beve il latte per la prima volta
In azione a Watkins Glen, dove chiude secondo. motorsportmagazine.com

Il dominio del 1979 lascia il posto nell’80 alle briciole concesse da Johnny Rutherford e il suo “yellow submarine”, la Chaparral 2K, già competitiva con Unser sr. nel ’79, che sfrutta appieno le lezioni sulle minigonne insegnate in F1 dalla Lotus. Rick chiude quarto una stagione mediocre in cui conquista 5 podi, tra cui la vittoria sullo stradale di Mexico City, mentre Bobby Unser si segnala come il più credibile rivale di Rutherford, vincendo quattro corse contro le 5 del rivale della Chaparral, che ovviamente si aggiudica anche Indy. La nuova PC9 è un grande passo avanti rispetto alla PC7, ma la sua messa a punto risulta molto problematica. Con il finire della stagione, grazie anche al grande lavoro di sviluppo di Unser, la Penske dimostra però di aver ormai raggiunto la Chaparral, seppur troppo tardi per impensierire Rutherford. Se Unser rende giustizia alla PC9, Mears, che inizialmente guida ancora la PC7, non si adatta mai completamente alla macchina, anche a causa del ridotto numero di test effettuati.

Nota positiva del 1980 sono le prove svolte da Rick a bordo della Brabham BT49 di F1, sulle piste di Le Castellet e Riverside. In Francia, alla prima presa di contatto e mantenendo un certo margine di sicurezza, il pilota americano si tiene a circa mezzo secondo dai tempi di Nelson Piquet, adattando la sua guida ad una vettura leggera e reattiva come la F1. Di quel test Mears ricorderà come “la macchina si guidava in modo completamento diverso dalla ChampCar. Con questa non potevi frenare e curvare contemporaneamente, dovevi frenare a ruote dritte e stare alla larga dai cordoli. Con la F1 invece potevi davvero attaccare, frenare più tardi, essere aggressivo, colpire i cordoli. All’inizio andavo piano perché la guidavo come una ChampCar, poi ho capito che bisognava andare sempre a tutto gas”. Nel secondo test di Riverside, svolto dalla squadra inglese in preparazione della corsa di Long Beach, Mears è addirittura più veloce di Piquet. Il pilota americano si guadagna la stima dei tecnici per la velocità mostrata e le interessanti doti tecniche, oltre a uno stile simile a quello del brasiliano. Ecclestone offre a Mears un volante per il 1981, ma l’americano declina l’offerta in quanto, seppur allettato dalla sfida, non è disposto a trasferirsi in Europa, considerando anche l’evidente crescita del campionato CART, che presenta numerose corse su ovali, un tipo di sfida di cui la F1 è sprovvista.

Rick sulla PC9, una vettura con cui non si troverà troppo bene. pinterest.com – home.comcast.net
Alla guida della BT49 a Riverside. John Rettie

Imparate le lezioni sulle minigonne, che diventeranno fisse in questa stagione, la Penske torna in grande stile nel 1981 con la PC9B, evoluzione del modello precedente, cogliendo l’accoppiata Indy-campionato. Unser si aggiudica Indy dopo un’eterna polemica con Mario Andretti su presunti sorpassi in bandiere gialle, col vincitore decretato dal tribunale dopo diversi mesi. Il campionato però è completamente dominato da Mears, che si aggiudica 6 gare su 11, tra cui gli stradali di Mexico City, Watkins Glen e Riverside, oltre a una memorabile sfida sull’ovale di Michigan, in cui Rick conquista una vittoria da sogno infilando all’ultima curva niente meno che il suo idolo Mario Andretti. Una stagione perfetta con un unico neo, il ritiro a Indianapolis per un brutto incendio scoppiato durante una sosta, che costa a Mears diverse ustioni al volto, sulle quali saranno necessari dei piccoli interventi di ricostruzione. Sull’incidente Rick ricorderà:” tutti si erano concentrati sui meccanici ma fu mio padre il primo ad accorgersi che stavo andando a fuoco. Mi conosce, sa che sono pigro e che per niente al mondo mi muoverei così in fretta. Sono uscito dall’abitacolo e sentivo le fiamme che mi entravano dentro il casco. Le ustioni non sono state un grande problema, la cosa peggiore era il non poter vedere e respirare, oltre al calore assorbito dalle vie respiratorie”.

Sulla PC9B non ha rivali, tranne a Indy dove un incendio in pit lane lo estromette dalla corsa. 500legends.com, pinterest
Sulla PC9B non ha rivali, tranne a Indy dove un incendio in pit lane lo estromette dalla corsa. 500legends.com, pinterest
Lotta in casa Penske alla Michigan 500
Lotta in casa Penske a Michigan

Il 1982 segna un’altra novità in casa Penske, con l’allontanamento di Unser e l’ingaggio di Kevin Cogan al fianco di Rick Mears, prima guida indiscussa. Unser, in eterna polemica con il team manager Derrick Walker soprattutto per questioni riguardanti sospensioni e aerodinamica della nuova PC10, viene licenziato dopo aver litigato addirittura con Roger Penske. Se fino a questo momento Rick era considerato il giovane della squadra, nonostante i due campionati vinti, l’uscita di scena di Unser obbliga Mears al ruolo di caposquadra, sia come risultati che da un punto di vista tecnico. Questo comporta anche un salto in avanti in qualifica. Se come pilota giovane del team la regola principale era stata “non fare danni ed entrare in gara”, ora spetta a Rick elevare il suo livello di guida quando è richiesta la massima prestazione. Da un punto di vista tecnico e dello sviluppo,  grazie agli anni al fianco di Unser, al suo atteggiamento riflessivo e alla sua grande curiosità per la meccanica, Mears è invece pronto a prendere le redini del lavoro di sviluppo, sempre pesante in una squadra come la Penske che costruisce i propri telai. Negli anni le doti di sensibilità di Mears diventeranno un’arma essenziale per la squadra del Capitano. Annate difficili come il 1980 sono servite a Rick per approfondire la meccanica delle vetture, studiare il funzionamento delle minigonne e migliorare il proprio rapporto con gli ingegneri, ai quali affida analisi sempre più precise e accurate. Rick ingaggia una vera e propria sfida con i tecnici, applicando la sua sensibilità nell’individuare prima di loro i problemi che affliggono la vettura, accelerando così la messa a punto.

Parallelamente, prosegue l’affinamento della tecnica di guida, soprattutto sugli stradali. Noto per una pulizia assoluta nel condurre la vettura, con traiettorie sempre rotonde e uscite di curva mai oltre le righe, per Rick il primo strumento per leggere le reazioni della macchina non è il fondoschiena, ma il volante. Al variare della resistenza opposta da questo, Mears interpreta il comportamento della vettura, cosa che gli consente tempi di reazione rapidissimi, specie sugli ovali, dove si segnala come uno dei migliori nel condurre un’ auto “loose”, sovrasterzante. Nella lotta per il titolo 1982, Mears controlla senza troppi problemi l’arrembante rookie Rahal, conquistando quattro vittorie, più di tutti ma poche considerando le otto pole positions su 11 gare, che iniziano a valergli il soprannome di “Rocket Rick”.

Il terzo titolo in quattro anni è però offuscato dall’esito della 500 miglia di Indianapolis, evento che come l’anno precedente non assegna punti per il campionato, in quanto ancora oggetto di scontro tra USAC e CART. Dopo aver conquistato la pole, Mears si gioca la corsa negli ultimi giri con la Wildcat di Gordon Johncock. All’ultima sosta il team riempie totalmente il serbatoio della Penske, nonostante fosse necessario solo un rabbocco parziale, costando a Mears tempo prezioso sia ai box che in pista. La sua vettura è però molto più in forma della Wildcat di Johncock. A 10 giri dal termine, il distacco tra i due è di circa 10”, con Mears che recupera al ritmo di un secondo al giro. In una 500 miglia ricordata per il rombo dei motori coperto dal boato del pubblico, l’inseguimento di Mears è frenetico e arriva al culmine allo sventolare della bandiera bianca, quando Rick e  Johncock entrano fianco a fianco in curva 1. Il sorpasso sembra cosa fatta ma il veterano americano, uno dei più duri e coraggiosi piloti degli anni ’70-’80, tiene giù all’esterno e rintuzza l’attacco di Mears, che in vano ritenta l’assalto sul traguardo, transitando sotto la bandiera a scacchi con una lunghezza di ritardo rispetto alla Wildcat, vincitrice nel finale più infuocato visto a Indy fino a quel momento. In molti accusano Rick di arrendevolezza, ma il pilota americano non ammetterà mai il minimo rimpianto per l’esito della corsa. In realtà, forse anche a causa del suo “background” non pistaiolo, Rick nell’82 è in una fase della carriera in cui non è ancora disposto a rischiare tutto, anche per una corsa come Indianapolis. Nove anni dopo, come vedremo, andrà diversamente.

Il duello con Johncock a Indy. indianapolismotorspeedway.com
Il duello con Johncock a Indy. indianapolismotorspeedway.com
La bandiera a scacchi è in vista... indianapolismonthly.com, IMS
La bandiera a scacchi è in vista… indianapolismonthly.com, IMS
…e Johncock resiste nel finale più ravvicinato mai visto fino ad allora.
Davanti a Rahal e all'inseguimento di Cogan a Riverside. johnhartephoto.wordpress.com
Davanti a Rahal e all’inseguimento di Cogan a Riverside. johnhartephoto.wordpress.com

Il 1983 per Rick è una stagione da dimenticare. Sesto in classifica e vincitore solo di una corsa a Michigan, Mears accumula numerosi ritiri per problemi tecnici, risultando complessivamente meno efficace di Al Unser sr., ingaggiato da Penske al posto di Cogan, lasciato libero dalla squadra dopo una stagione deludente, con l’incidente causato alla partenza della Indy 500 come punto più basso. Pur vincendo a sua volta la sola corsa di Cleveland, Al sr. mette insieme  un’ottima sequenza di piazzamenti in top 5, che gli permettono di vincere il titolo tenendo a bada la rimonta dello strepitoso rookie Teo Fabi, che alla guida di una March del team Forsythe conquista la pole a Indy e soprattutto coglie 4 vittorie. Il costruttore inglese soffia alla Penske anche la vittoria a Indianapolis e la beffa è totale per il Capitano, perché  a vincere è quel Tom Sneva allontanato misteriosamente dalla squadra al termine del vittorioso 1978, che precede sul traguardo Unser e Mears.

Come detto, Unser basa il suo campionato sulla consistenza, con la Penske che dopo metà stagione è costretta ad abbandonare il fallimentare modello PC11, ripiegando su una versione aggiornata della PC10, denominata B e rispondente alle nuove limitazioni sull’altezza delle minigonne. Proprio alla guida della B, Mears  vive una delle giornate più amare della stagione alla Michigan 500 dove, dopo aver a lungo dominato, vede la propria vettura divenire sovrasterzante a causa della rottura di un ammortizzatore posteriore. Questo favorisce la rimonta di John Paul Jr., abile all’ultimo giro a sfruttare un doppiaggio per infilare Mears all’ultima curva. Nel tentativo di incrociare la traiettoria e tornare in testa, Rick investe però la turbolenza della March di Paul, che manda la Penske in testacoda e contro il muro, non prima di essere centrata da Chris Kneifel, il doppiato che costa a Rick la corsa. Il 1983 è comunque da ricordare per Mears come la stagione del passaggio agli storici colori Pennzoil, che lo accompagneranno fino al 1990. Dopo 5 anni di successi con la bellissima livrea bianco-blu della Gould, la Penske di Rick sposa la livrea gialla della casa petrolifera americana, che diventerà presto un simbolo per la CART.

A Laguna Seca sulla PC10B. wildhirt.com
A Laguna Seca sulla PC10B. wildhirt.com

L’inizio del 1984 è ancora peggiore di quanto accaduto la stagione precedente, con la nuova PC12 che si dimostra non competitiva sia a Long Beach che a Phoenix. Poche settimane prima di Indianapolis, Roger Penske decide quindi di abbandonare il proprio telaio in favore dello chassis March, che comincia a spopolare tra i team della CART. Come accadrà anche 15 anni dopo con la Reynard, la Penske stravolge completamente il telaio inglese, facendo valere la propria superiorità ingegneristica rispetto ai rivali. Il risultato è una prestazione dominante di Mears a Indianapolis, vinta con 2 giri di vantaggio sul secondo, Roberto Guerrero. In realtà la corsa è ben più combattuta di quanto il risultato possa far pensare, con Rick che lotta a lungo con il polesitter Sneva e il giovane Al Unser jr. Little Al si ritira però a metà gara, mentre Sneva abbandona a 30 giri dal termine,  consegnando a Mears la seconda vittoria in carriera al Brickyard.

Dopo Indy, Rick entra nella lotta per il titolo, infilando una lunga serie di piazzamenti che lo avvicinano al leader del campionato Mario Andretti, il cui cammino è un continuo alternarsi di vittorie e ritiri. A Milwaukee, Rick rompe il motore all’ultimo giro, consegnando la vittoria a Sneva, mentre a Pocono è beffato da Danny Sullivan per pochi decimi in una corsa basata sui consumi. La rincorsa di Mears si arresta però bruscamente sull’ovale di Sanair, dove il pilota americano è protagonista dell’incidente più brutto della sua carriera. In mezzo a un gruppo di macchine, Mears è ansioso di avere pista libera per provare alcuni giri in vista delle qualifiche. Sul traguardo tenta quindi una manovra azzardata, uscendo dalla scia delle due macchine che lo precedono senza però aver superato del tutto la March di Corrado Fabi. La ruota posteriore sinistra di Mears entra così in contatto con il muso della vettura di Fabi, che spedisce la March Pennzoil frontalmente contro i guard rails che delimitano la pista. L’impatto divelle il muso della March fino alla pedaliera,  che si imprime perfettamente nei piedi  di Mears, che presentano terribili traumi da compressione. Nel destro in particolare non rimane illeso un solo osso. Dopo essere stato estratto con difficoltà dall’abitacolo, Mears viene elitrasportato d’urgenza all’ospedale di Montreal, dove si parla apertamente di amputazione. Roger Penske, devastato dalle terribili ferite riportate dal suo pilota, rivive il dramma di Mark Donohue. Una volta dichiarato il pericolo di amputazione, il Capitano organizza il trasferimento di Mears al Methodist Hospital di Indianapolis, dove Rick potrà essere curato da una coppia di medici che negli anni salveranno la vita di numerosi piloti: Terry Trammell e Steve Olvey.  I due scongiurano subito il rischio relativo alla perdita degli arti, ma Mears va incontro a una lunga serie di operazioni per ridurre le fratture e ricostruire i piedi osso dopo osso, legamento dopo legamento.

Due fattori concorrono al sereno recupero di Rick: la presenza costante della fidanzata Chris e il supporto di Roger Penske. Qualche anno prima Mears deve affrontare il divorzio dalla moglie Dina, che non riesce più a sostenere la vita perennemente in viaggio del pilota, anche per dare stabilità alla crescita dei figli. Pochi mesi dopo Rick conosce Chris, che lavora saltuariamente al bar dell’hotel di Reading, cittadina delle Pennsylvania in cui si trova la sede del team Penske. I due si sposeranno nel 1985 e anche grazie ai suoi studi da infermiera Chris è una  presenza fondamentale durante tutta la riabilitazione. Penske non fa mai mancare nulla al suo pilota, invitandolo a rispettare i tempi previsti per il recupero, rincuorandolo sul fatto che, quando sarà pronto, la sua macchina sarà lì ad aspettarlo. Il Capitano riderà per anni poi del fatto che Rick, una volta risvegliatosi dopo l’incidente, riesce a riconoscere lui ma non Chris! Qualche camera più lontano, anche Derek Daly recupera dalle fratture riportate in un brutto incidente sull’ovale di Michigan. I due, una volta ristabilitisi, diventano presto l’incubo del reparto, ingaggiando furiose gare sulle sedie a rotelle. La degenza di Rick al Methodist Hospital dura tre mesi e mezzo. Bill Simpson nel frattempo prepara, insieme a Terry Trammel, delle scarpe speciali per aiutare Mears a riprendere a guidare, con i piedi che per molto tempo continueranno a sanguinare e causare terribili sofferenze al pilota americano.

La nuova PC12 si dimostrerà presto inefficace. pinterest
La nuova PC12 si dimostrerà presto inefficace. pinterest
Seconda vittoria allo Speedway. autosport.com
Seconda vittoria allo Speedway alla guida della March 84C modificata dalla Penske. autosport.com

Nel febbraio 1985, 5 mesi dopo l’incidente, Rick può a malapena camminare con le stampelle, ma si sente pronto per tornare a guidare. Il team organizza allora un test sul difficile ovale di Phoenix, dove l’apprensione di tutti è palpabile. Dopo un inizio cauto, Mears ritrova pian piano gli automatismi e a fine giornata viaggia sugli stessi tempi di Danny Sullivan, autore di un ottimo 1984 e ingaggiato da Penske per la stagione successiva.  Il rapporto tra i due nei 5 anni di convivenza alla Penske sarà eccellente, in un clima di grande collaborazione, come del resto è sempre stato con Al Unser, molto più uomo squadra del fratello Bobby. Proprio Al sr. sostituirà Rick per buona parte della stagione ’85. Mears infatti completa un programma di sole 5 gare, comprendente Indianapolis e gli altri ovali in calendario, non essendo i suoi piedi in grado di sopportare l’azione frenetica richiesta dagli stradali.

L’incidente di Sanair compromette in parte la mobilità del piede destro, ma i danni maggiori per l’abilità di Rick sugli stradali verranno dalla lunga inattività su questo tipo di piste. La seconda metà degli anni 80’ è un periodo di cambiamento per l’IndyCar, che segna il tramonto dei grandi campioni degli ovali come Foyt, Rutherford, Johncock, Sneva ecc., portando alla ribalta giovani affamati come Rahal, Michael Andretti e Al Unser Jr, che si affiancano agli intramontabili Mario Andretti ed Emerson Fittipaldi. Mears, il primo vincitore di Indianapolis nato dopo la seconda guerra mondiale, è preso nel mezzo di questa guerra generazionale e, considerando la sua formazione del tutto atipica per un pilota di formula, il suo è un processo formativo continuo, che con Sanair si arresta bruscamente. Rick rimarrà quindi un po’ in “ritardo” rispetto ai giovani protagonisti delle stagioni successive, pur riuscendo a mettere a segno alcune grandi prestazioni su stradali e cittadini. Sugli ovali invece sarà sempre il maestro indiscusso.

Pur correndo solo 5 gare in quel 1985, Mears riesce comunque a togliersi delle soddisfazioni, conquistando la vittoria alla Pocono 500 e altri due podi, un secondo posto a Michigan e un terzo a Milwaukee. Un po’ di rammarico ci sarà solo per Indianapolis in cui Rick, partito con il muletto dalla decima posizione, rimane in contatto coi primi fino a che un problema alla trasmissione lo costringe al ritiro dopo metà gara. Nonostante una corsa in meno dei suoi rivali, Al Unser riesce a ripetere l’exploit del 1983, vincendo una sola volta ma collezionando una lunga sequenza di piazzamenti che, unita all’inconsistenza degli avversari, gli permette di conquistare il titolo con un solo punto di vantaggio sul figlio Al Unser jr.

Nel 1985 Rick si sposta nel paddock su questa sedia a rotelle motorizzata per non affaticare i piedi infortunati a Sanair
Ritorno alla vittoria a Pocono, dopo essere partito dalla seconda fila. motorsportmagazine.com, pinterest
Ritorno alla vittoria a Pocono, dopo essere partito dalla seconda fila. motorsportmagazine.com, pinterest

Dopo due anni passati a sviluppare in proprio il telaio March, Roger Penske decide per il 1986 di riprovare con le proprie macchine, dando al nuovo progettista Alan Jenkins (sostituto di Geoff Ferris, concentrato sul gruppo trasmissione) carta bianca per riorganizzare il reparto tecnico della squadra. Nasce quindi la Penske PC15, pensata per alloggiare il nuovo motore Ilmor-Chevrolet, che dovrebbe contrastare lo strapotere del Cosworth DFX. Il progetto si dimostra però poco efficace fin da subito. Il motore ha inizialmente grossi problemi all’albero a gomiti, costringendo la squadra a ripiegare sul Cosworth fino a Indy, mentre la PC15 si rivela una monoposto mediocre, con uno sterzo poco sensibile che rende difficile capire il comportamento della vettura. Rick si alterna per tutta la stagione tra i due telai, guidando la Penske su alcuni stradali e la March sugli ovali, mentre Sullivan guida quasi sempre la vettura inglese. A loro si unisce Al Unser per le varie 500 miglia. A Indy, Mears piazza la March in pole e guida a lungo la corsa, subendo però il ritorno di Rahal e dello scatenato Cogan nelle ultime battute. Negli ultimi giri Rick cerca di tornare davanti ma la sua March, velocissima a pista libera ma molto instabile nel traffico, non gli consente di replicare. Mears chiude terzo e incollato a Cogan, superato a due giri dal termine da Rahal, che ottiene un trionfo storico per il team Truesports. Rick chiude ottavo una stagione modesta, la prima senza vittorie, con i podi di Road America e Miami come uniche note positive. Sullivan invece, seppur distante dal campione Rahal, porta a casa un terzo posto finale e due vittorie.

A Long Beach alla guida della PC15. pinterest
A Long Beach alla guida della PC15. pinterest
Ancora alla Indy500, dove chiude terzo. indycar.com
Ancora alla Indy500, dove chiude terzo alla guida di una March 86C. indycar.com
Due anni dopo l’incidente Rick torna a Sanair sulla March
Due anni dopo l’incidente Rick torna a Sanair sulla March

Il 1987 non si discosta particolarmente dalla stagione precedente. La Penske inizia l’annata con la nuova PC16, sempre progettata da Alan Jenkins, che sfortunatamente non risolve i problemi che affliggevano la PC15. La nuova vettura, spinta dal finalmente collaudato Ilmor-Chevrolet, verrà ancora alternata alla March 87C, con la quale Rick torna alla vittoria, dominando la Pocono 500. Per Mears una stagione discreta, chiusa al 5° posto grazie ad alcuni buoni piazzamenti raccolti nella seconda parte della stagione, come i terzi posti di Laguna Seca e Nazareth. Sullivan finisce nono in classifica, senza vittorie, ma è il buon vecchio Al Unser a portare a casa la vittoria dell’anno per la Penske, conquistando la Indy500 al volante di una March 86C-Cosworth. “Big Al”, subentrato all’infortunato Ongais e alla guida di una vettura vecchia di una anno, trionfa dopo aver visto tutti i piloti motorizzati Chevrolet, compresi Mears e Sullivan, uscire di scena per noie al motore. La beffa sarà atroce soprattutto per Mario Andretti, che domina tutto il mese ma viene messo KO a 20 giri dalla fine da una valvola che si rompe perché…Mario va troppo piano! I tecnici della Ilmor si accorgeranno infatti più tardi che Andretti, nel tentativo di preservare la meccanica, va ad una velocità che manda le valvole in risonanza, cosa che non sarebbe accaduta ad un ritmo superiore. Nonostante le stagioni deludenti e offerte più remunerative ricevute da altre squadre, Rick rimane fedele alla Penske, fiducioso che il suo momento possa nuovamente arrivare.

Pit stop a Portland, dove guida la Penske PC 16. motorsportretro.com
Pit stop a Portland, dove guida la Penske PC 16. motorsportretro.com

 

A Indy Rick inizia le prove con la nuova Penske PC16...

A Indy Rick inizia le prove con la nuova Penske PC16…
In prima fila a Indy con la March, al fianco delle Lola di Andretti e Rahal. wired.com
…per poi passare alla March 87C, che piazza al fianco delle Lola di Andretti e Rahal. wired.com

Nel 1988 arriva l’ennesima svolta al reparto tecnico della Penske, con l’ingaggio di Nigel Bennett, il progettista delle Lola di Andretti e Rahal, campione anche nel 1987. Fin dai primi test di Phoenix, Mears e Sullivan capiscono che la nuova PC17-Chevy sarà la vettura che riporterà il team al successo. Sullivan ha un inizio di stagione difficile, ma dopo Indianapolis vince quattro corse, chiudendo sempre in top 5, cosa che gli permette di conquistare il titolo con una gara di anticipo. Mears non riesce a tenere il passo del compagno sugli stradali, pur mettendo insieme diversi podi in piste difficili come Mid Ohio, Meadowlands e Miami. Ciò che lo estrometterà  dalla lotta per il titolo saranno i ritiri per problemi tecnici a Michigan e Pocono e un incidente a Phoenix, dove viene eliminato dal doppiato Randy Lewis. Tre probabili vittorie sfumate che relegano il pilota americano al quarto posto finale, dietro anche ad Unser jr. e Rahal.

Rick porta comunque a casa la vittoria dell’anno, trionfando a Indianapolis dopo essere partito dalla pole position, la quarta al Brickyard. Le Penske sono chiaramente le vetture da battere, ma la pioggia caduta il giorno prima della gara cambia totalmente le carte in tavola. Nelle prime battute Sullivan prende il comando mentre Rick cede numerose posizioni, lamentando un forte sovrasterzo. Nonostante le numerose correzioni su ali e pressione delle gomme effettuate durante le soste, la PC17 resta ingovernabile, con Rick che rimane attardato di quasi due giri. Con l’aumentare della gommatura depositata sull’asfalto però, Mears capisce che i problemi principali sono costituiti dalle ruote lenticolari usate dalla squadra per tutto il mese, utili nel rendere neutro il comportamento della vettura in tutta la fase di percorrenza. In queste mutate condizioni di aderenza, i copriruota risultano però molto più invasivi, convincendo Mears e la squadra a convertire tutti i treni da usare successivamente alla soluzione tradizionale col cerchio scoperto. L’operazione, condotta dai meccanici a ritmo frenetico, porta i suoi frutti perché la vettura diventa immediatamente più gestibile, con Rick che anche grazie alla strategia recupera in breve il tempo perduto. La vettura di Sullivan, perfetta a inizio gara, peggiora invece giro dopo giro, fino a far perdere il controllo al pilota americano, che impatta violentemente contro il muro della curva 1. Continuando a seguire l’evoluzione delle condizioni atmosferiche e della pista, la vettura di Mears migliora ancora, consentendo a Rick di rilevare il comando dalle mani del compagno Unser e andare a vincere Indy500 per la terza volta in carriera. Sette giorni più tardi, Rick concederà il bis sul miglio di Milwaukee, precedendo Sullivan in una doppietta Penske.

Penske in formazione, si notano i cerchi lenticolari sulle tre macchine. pinterest.com
Penske in formazione a Indianapolis, si notano i cerchi lenticolari sulle tre macchine. pinterest.com
Dopo una difficile rimonta Rick porta a casa il terzo successo allo Speedway. indycar.com
Dopo una difficile rimonta Rick porta a casa il terzo successo allo Speedway. indycar.com

Il 1989 vive sulla battaglia per il titolo tra Rick e Fittipaldi, a lungo incalzati da Teo Fabi e Michael Andretti. La Marlboro, che ha sostenuto l’avventura del brasiliano col team Patrick fin dall’inizio, trova l’accordo per portare il due volte campione del mondo al team Penske, di cui diventerà sponsor principale. Il passaggio avverrà solo nel ’90, ma per il 1989 Emerson potrà contare su una Penske PC18 uguale a quelle di Mears e Sullivan. Il campionato inizia bene per Rick, che a Phoenix rifila un giro a tutti, arriva quinto a Long Beach e stacca l’ennesima pole a Indianapolis. E’ però una 500 miglia amara, perché  Mears  rompe il motore dopo metà gara e assiste al trionfo di Fittipaldi, che dopo aver dominato la corsa sopravvive a un contatto con Al Unser jr. a due giri dalla fine.

Come sempre accade però, Milwaukee ribalta il risultato di Indy, con Mears che domina dopo essere partito dalla pole. Nelle corse successive Rick mette insieme numerosi piazzamenti, ma Fittipaldi sembra inarrestabile, ottenendo tre vittorie consecutive e due secondi posti. Il ruolino di marcia del brasiliano ha però una battuta d’arresto nelle 500 miglia di Pocono e Michigan. In Pennsylvania Rick chiude secondo dietro Sullivan, che vive una stagione difficile dopo essersi fratturato un braccio in un brutto incidente a Indianapolis. In Michigan invece Mears si deve arrendere a una sospensione, che lo abbandona a dieci giri dal termine nel bel mezzo di un esaltante duello con Michael Andretti, che vince così indisturbato.  Nelle corse successive di Mid Ohio e Road America, vinte da Fabi e Sullivan, Rick chiude sesto e terzo, mentre Fittipaldi raccoglie un quarto e un quinto posto, presentandosi a Nazareth con 18 punti di vantaggio.

I contendenti al titolo si giocano la corsa, ma quando Rick sembra avviato a vincere è costretto a rientrare ai box per rimuovere parte del tubo dell’aria compressa, rimasto incastrato durante l’ultima sosta, rovinata da un’incomprensione con i meccanici. Fittipaldi vince il titolo grazie al vantaggio di 22 punti e 5 vittorie con cui si presenta a Laguna Seca, dove Mears è comunque protagonista di un fine settimana strepitoso. In una corsa intensissima, Rick parte dalla pole, guida la corsa più a lungo di tutti e torna alla vittoria su uno stradale per la prima volta dopo l’incidente di Sanair. È la 26° vittoria in carriera, che fa di lui il pilota più vincente degli anni ’80, superando Bobby Rahal.

A Road America, una delle sue piste preferite. Jerry Winker, comicozzie.com

Il campione Fittipaldi approda nel 1990 in una Penske a  tre punte: il brasiliano, Rick Mears e Danny Sullivan. Piloti e macchina che hanno dominato le ultime due stagioni in teoria dovrebbero lasciare solo le briciole agli avversari, ma a fine anno il team del Capitano avrà collezionato “solo” 4 vittorie. Le Lola-Chevrolet di Al Unser jr. e Michael Andretti monopolizzano infatti la lotta per il titolo, vincendo complessivamente 11 delle 16 corse in calendario. Né loro né i piloti Penske però si aggiudicano la Indy 500, che va a sorpresa ad Arie Luyendyk , mentre Mears chiude solo quinto senza mai trovare il giusto bilanciamento per la sua PC 19. L’unica vittoria della stagione per Rick arriva nuovamente alla prima corsa di Phoenix, ma il suo 1990 è tutto sommato positivo. Un buon rendimento sugli stradali, unito ai secondi posti di Milwaukee e Nazareth, gli permette infatti di guidare il campionato al giro di boa e chiudere al terzo posto, dietro Unser e Andretti ma davanti a Rahal. Fittipaldi e Sullivan terminano invece quinto e sesto, pagando i numerosi ritiri accumulati nella seconda parte della stagione.

Il brasiliano si aggiudica la prova di Nazareth, uscendo vittorioso da un esaltante duello con Mears, che riesce a superare nel traffico e a controllare nel finale. Sullivan invece porta a casa due vittorie, a Cleveland e all’ultima corsa di Laguna Seca, dove domina prove a gara. Secondo un copione che si ripeterà anche nel seguito, Roger Penske non intende però schierare tre vetture stabilmente, col campione ’88 che sarà costretto a cercare un’altra sistemazione, andando a guidare la Lola-Alfa Romeo del team Patrick.

Secondo a Milwaukee. Rick Zimmermann, pinterest.com
Secondo a Milwaukee. Rick Zimmermann, pinterest.com

Il 1991 per Rick segna l’abbandono degli storici colori Pennzoil, che vengono sostituiti dalla classica livrea Marlboro.  La stagione parte per la prima volta a Surfers Paradise dove Rick, sfruttando vari contrattempi dei principali avversari, conduce agevolmente a tre giri dal termine, quando finisce in una via di fuga per evitare due doppiati che entrando in contatto rischiano di travolgere la sua vettura. Riesce comunque a riprendere arrivando terzo, mentre la vittoria va a John Andretti, al volante di una Lola sponsorizzata proprio Pennzoil. Dopo la pole e il sesto posto di Phoenix, si arriva a Indianapolis. Per tutto il mese Mears e Fittipaldi dettano il ritmo, incalzati dagli Andretti. Durante il fast friday però, una sospensione posteriore cede sulla Penske, spedendo Rick contro il muro per la prima volta in 15 anni di corse allo Speedway. L’impatto è molto violento e una volta trasportato al Methodist Hospital la diagnosi è di due piccole fratture al piede destro, il più martoriato dall’incidente di Sanair.

Nonostante tutto, tre ore dopo Mears è di nuovo in pista, pronto a salire sul muletto. Il dolore è intenso, specie in accelerazione, ma Rick riesce comunque a viaggiare forte, sparando negli ultimi minuti alcuni dei suoi migliori giri di tutto il mese e risollevando il morale della squadra, che si sente responsabile per l’incidente. Il giorno dopo Rick piazza il muletto in pole, la sesta a Indy, mentre Fittipaldi accusa problemi tecnici e deve rinunciare al tentativo. Una volta in gara, Rick prende subito il comando, ma la sua macchina è piuttosto sottosterzante, cosa che lascia campo libero agli Andretti. Sosta dopo sosta la situazione migliora, ma Mears verso metà gara rischia il doppiaggio da parte di un Michael Andretti scatenato, che però fora una gomma ed è costretto ad una sosta supplementare. Se la Penske migliora, non altrettanto si può dire del piede destro di Rick, che a ogni rilascio sembra trafitto da dei coltelli. L’unica soluzione è allentare la pressione, ritraendo la gamba in fase di rilascio e premendo col piede sinistro sul destro in accelerazione.

Guidando in questo modo, dopo 400 miglia Rick è ancora in contatto con i primi, Andretti e Fittipaldi. Il brasiliano però è messo fuori gioco da un problema alla trasmissione mentre Andretti, leggermente fuori sequenza con i rifornimenti, lascia il comando a Rick quando a 17 giri dal termine sfrutta una bandiera gialla per effettuare l’ultima sosta. La ripartenza arriva a 14 giri dalla conclusione, con Rick e Andretti preceduti da due doppiati, John Andretti e Al Unser jr.  Michael azzecca una ripartenza superba, sfruttando la scia di tre vetture per sfilare all’esterno Mears, che frenato dalla turbolenza vede la Lola allontanarsi nel rettilineo di ritorno. Sembra finita, ma Rick infila le curve 3 e 4 a una velocità incredibile, rientrando in scia ad Andretti sul rettilineo principale. All’approssimarsi di curva uno Michael copre l’interno, non scoraggiando però Mears, che tiene giù all’esterno e replica esattamente quanto fatto da Andretti la tornata precedente. La Penske prende ben presto vantaggio, rivelando una velocità mai vista fino a quel momento in gara.

Qualche giro dopo però, la vettura ferma di Mario Andretti rimette tutto in discussione. Alla ripartenza, Rick attuerà una tattica perfetta, lasciando sul posto Andretti: “Michael era sempre molto bravo in ripartenza nel lasciare un po’ di spazio e trovare il tempo giusto per passarti, quindi sapevo di dovermi inventare qualcosa per non dargli la scia sul traguardo. Non mi piaceva accelerare e frenare di continuo, è solo un modo per ammucchiare le macchine e creare incidenti. Adottai una tattica da short track: cominciai nel rettilineo di ritorno ad aumentare gradualmente la velocità, acceleravo e poi mantenevo quella velocità, guardando ogni volta lo specchietto. Vedevo che stava lasciando spazio e quindi si preparava a partire, per cui continuai con questa tattica, accelerando un po’ per poi rimanere a quella velocità. Dopo la terza o la quarta volta Michael partì e io non feci niente, aspettavo solo di vedere il muso della sua macchina negli specchietti. Quando arrivò sapevo che stava frenando e non poteva avere il piede sull’acceleratore per cui partii, prendendo abbastanza vantaggio da impedirgli di prendermi la scia. A quel punto si trattava solo di fare le prime curve in pieno e non commettere errori fino alla fine”.

A 40 anni, Mears diventa il più giovane pilota ad aver vinto 4 edizioni della 500 miglia di Indianapolis. La quarta affermazione in particolare è una perfetta sintesi del suo modo di correre: “…è stata una gara da manuale, perché come sempre abbiamo corso la prima metà solo in funzione della seconda parte, rimanendo dove devi essere alla fine per provare a vincere. Abbiamo lavorato sulla macchina tutto il tempo, senza mai mostrare tutta la nostra velocità fino al momento decisivo. Questo è più o meno il piano che usavamo in tutte le gare, ma il più delle volte succedeva qualcosa: l’avversario più veloce si ritirava, tu ti ritiravi o avevi altri problemi, una gomma, il motore o altro e lo scenario che avevi immaginato, con la battaglia finale per la vittoria, finiva per non realizzarsi mai. Invece quella volta è andata proprio secondo i piani. Michael era stato il più veloce tutto il giorno e andava forte anche alla fine, i suoi giri più veloci li ha fatti dietro di me, quindi nessuno ci ha regalato niente, ce la siamo meritata. Michael aveva un po’ di sottosterzo ma era comunque il più veloce, quindi probabilmente ha pensato che non valesse la pena modificare qualcosa nella macchina, rischiando di peggiorarla senza potersi più fermare e tornare indietro. Se prima della sua ultima sosta avessi mostrato quanto la mia macchina era veloce, probabilmente avrebbe fatto delle modifiche, avrebbe chiesto più ala davanti o uno stagger maggiore e sarebbe stato più difficile da battere” (…) “dopo aver perso la testa della corsa, sapevo che avrei avuto un’altra occasione per attaccare Michael, ma non mi aspettavo che accadesse proprio il giro successivo. Il tempismo fu perfetto, feci le curve 3 e 4 in piano e gli presi la scia. Non capivo che traiettoria avrebbe preso ma alla fine occupò l’interno, lasciandomi libero l’esterno come avevo fatto io il giro precedente. La velocità era molto alta. 30-40 giri prima probabilmente non avrei rischiato quella manovra, ma era il momento di provarci. Fortunatamente la macchina è rimasta lì con me e sono uscito dall’altra parte della curva davanti”.

La quarta vittoria a Indy, per il modo in cui è scaturita, è per Mears anche una sorta di redenzione per quanto accaduto nel 1982, il cui finale di gara rappresentò per molto tempo una delle principali argomentazioni dei suoi detrattori.

Pur non avendo la stessa costanza di risultati della stagione precedente, il 1991 per Rick è un grande anno. Dopo Indianapolis, porta infatti a casa anche la Marlboro 500 di Michigan, lottando a lungo con gli Andretti e controllando nel finale la rimonta di Luyendyk. Si toglie anche la soddisfazione di partire davanti a tutti sul cittadino di Meadowlands, dove chiude terzo. A Laguna Seca, il suo stradale preferito insieme a Road America, domina il Marlboro Challenge, competizione tra i piloti partiti in pole durante la stagione che mette sul piatto 250.000 dollari, già vinti dal pilota Penske l’anno precedente a Nazareth. Rick comanda tutta la corsa, ma rimane a secco proprio all’uscita dell’ultima curva. Riesce a tagliare il traguardo, non prima però di essere superato da Michael Andretti, che il giorno dopo conquista il suo unico titolo CART. Mears chiude il campionato al quarto posto, ancora davanti a Fittipaldi, che non vive una grande stagione.

Prima fila di leggende, Rick, Foyt e Mario Andretti. pinterest.com
Prima fila di leggende, Rick, Foyt e Mario Andretti. pinterest.com
Il sorpasso decisivo su Michael Andretti. pinterest.com
Il sorpasso decisivo su Michael Andretti. pinterest.com

La Penske apre il 1992 con una doppietta a Surfers Paradise, con Fittipaldi che sul bagnato infila Mears a pochi giri dal termine. La stagione prosegue senza acuti fino a Indianapolis, dove Rick è nuovamente vittima di un bruttissimo incidente in prova. Mentre percorre la curva 2, una grossa perdita dal radiatore inonda d’acqua le ruote posteriori, mandando in testacoda la Penske, che si schianta contro il muro capovolgendosi e strisciando sull’asfalto per diverse decine di metri prima di fermarsi. Mears se la cava con un polso malconcio e varie escoriazioni, qualificando qualche giorno dopo la sua PC21 in terza fila, poco davanti a Fittipaldi. La corsa dei due, mai realmente competitivi, finisce contemporaneamente attorno a metà gara, quando in una ripartenza Jim Crawford va in testacoda davanti a Rick che non può evitare lo scontro, mentre Fittipaldi colpisce il muro nella confusione generata dall’incidente.

Il brasiliano sarà regolarmente al via a Detroit, mentre Mears subisce la rottura del polso già infortunato in prova, che lo obbliga a saltare diverse gare. Aiutato da un tutore, torna in azione a Portland, dove chiude settimo, ritirandosi poi a Milwaukee dopo essere partito dalla prima fila. Il polso non migliora affatto, ma Rick ottiene comunque un ottimo quarto posto a Loudon, ritirandosi però a Michigan quando le sue condizioni gli impediscono di controllare una macchina che diventa sempre più sovrasterzante. Nessuno lo sa ancora, ma sarà questa l’ultima corsa della carriera di Rick Mears.  Nei mesi precedenti infatti, il pilota americano si rende conto di non trarre più lo stesso piacere dalla guida, che insieme allo spirito competitivo e al lavoro di squadra era sempre stato la sua maggiore motivazione. Inizia a pensare al ritiro, confidandosi a riguardo solo con Chris e il fratello Roger.

Dopo qualche settimana in cui il polso migliora a stento e Rick si accorge di non provare alcun disagio nel vedere Paul Tracy correre sulla sua macchina, la decisione può essere una sola. A Road America Mears informa Roger Penske del suo ritiro, rifiutando anche la possibilità di un programma limitato agli ovali o alla sola Indy500. Constata l’irremovibilità del suo pilota, Penske dice solo “va bene, ma se poi vieni a dirmi che vuoi tornare in macchina ti prendo a calci nel sedere!”. Mears annuncia la sua decisione alla squadra durante le festività natalizie, lasciando attoniti i membri del team.  L’unica motivazione che nei mesi successivi all’incidente aveva trattenuto Rick dalla decisione di ritirarsi era la possibilità di regalare alla sua squadra la storica quinta affermazione al Brickyard.

Incredibilmente uscirà quasi del tutto illeso da questo botto. pinterest.com
Incredibilmente uscirà quasi del tutto illeso da questo botto. pinterest.com
Ultima foto di rito a Indianapolis. indycar.com
Ultima foto di rito a Indianapolis, dove parte in terza fila. indycar.com

Dopo 15 stagioni, 4 vittorie e 6 pole positions a Indianapolis, tre campionati CART, 29 vittorie e 40 pole positions, si conclude la carriera di uno dei più grandi piloti americani di sempre. Rick non abbandona però l’ambiente e la squadra. Penske lo arruola come consulente e uomo immagine. Oltre a partecipare a tutti i briefing tecnici, nei primi tempi il suo lavoro è volto soprattutto a far crescere Paul Tracy, suo velocissimo e irruente erede. Nel 1995 diventa anche uno dei primi spotter della storia IndyCar, quando “guida” Al Unser jr. attraverso il traffico verso il secondo posto di Milwaukee. Negli anni successivi mette su, insieme al fratello Roger, una squadra IndyLights per i rispettivi figli, Clint e Casey, che proseguono la tradizione della Mears Gang. Mentre la carriera del primo, nonostante alcune vittorie, non avrà seguito, Casey riesce a debuttare nella CART nel 2000 e a costruirsi una solida reputazione in Nascar. Negli anni successivi Rick affronta un avversario ben più temibile dei tanti con cui ha diviso la pista. Dopo il divorzio dalla seconda moglie Chris, nel 2003 fa scalpore la notizia del suo inserimento in un programma di recupero dall’alcolismo. Rick affronta il programma di sua spontanea volontà e riesce a vincere la dipendenza, continuando a lavorare attivamente per l’IndyCar a sostegno dei rookies, oltre ad avere un ruolo non trascurabile nella crescita dei vari piloti che nel tempo si succedono alla Penske, da Helio Castroneves e Sam Hornish fino a Ryan Briscoe e Will Power. Il rapporto con il brasiliano, di cui Rick è da anni lo spotter, è sicuramente il più stretto e proprio Helio è a oggi il pilota più vicino ai record di Mears a Indianapolis.

A 65 anni, Rick Mears rimane una delle leggende delle corse USA, per quanto ma soprattutto per come ha vinto. Non c’è stato forse nella storia un pilota più determinato ma al contempo corretto e unanimemente rispettato dai colleghi. Allo stesso modo, Mears rappresenta uno dei rari casi di sportivi universalmente amati dal pubblico, per il suo rendimento in pista ma anche per un atteggiamento sempre positivo, mai polemico, di totale condivisione di meriti e colpe con la squadra, oltre a un’apertura verso i tifosi che, dalle corse coi buggy ad Ascot Park alle 4 Indy500, non è mai cambiata. Un esempio di sportività e umiltà come pochi ce ne sono stati nella storia del motorsport.

Rick ascolta con Tracy e Fittipaldi l’analisi di Senna a Firebird ‘93. motorsport.com
Rick ascolta con Tracy e Fittipaldi l’analisi di Senna a Firebird ‘93. motorsport.com
Insieme a Sam Hornish, che molti considerano il suo erede sugli ovali. Michael Conroy/AP, toledoblade.com
Insieme a Sam Hornish, che molti considerano il suo erede sugli ovali. Michael Conroy/AP, toledoblade.com
Per i piloti Penske Rick rimane un punto di riferimento. motorsportmagazine.com, pinterest.com
Per i piloti Penske Rick rimane un punto di riferimento. motorsportmagazine.com, pinterest.com

Due pareri particolari su Rick:

“Quando ero un ragazzino c’erano due eroi cui mi ispiravo. Uno correva in macchina e l’altro giocava a football, erano Rick Mears e Joe Montana. Penso che avessero qualità molto simili. Erano entrambi dei grandi irriducibili combattenti, ma sapevano esserlo con classe e rispetto per l’avversario. Non li conosco bene ma ho avuto occasione di passare un po’ di tempo con Rick e ha rispettato in pieno tutto ciò che avevo sentito su di lui. Ho incontrato Joe una volta brevemente, ed è stato lo stesso. Ma siccome sono anch’io un pilota, è Rick il mio riferimento principale. Lo seguivo alla tv, specialmente a Indianapolis, aveva quel nome “cool”, Rick Mears, una macchina veloce ed era sempre tra i migliori…e molto spesso era IL migliore. Era un gran corridore, con i suoi grandi sorpassi all’esterno e così via. Rappresentava tutto ciò che volevo essere come pilota e come persona. Ebbi il grande piacere di andare a Indianapolis durante un giorno di prove e riuscii a parlargli attraverso le reti mentre camminava. Avevo una maglietta che volevo mi autografasse, cosa che fece e quello mi legò definitivamente a lui. Purtroppo non ho avuto il piacere di correrci insieme, sarebbe stata una grande battaglia. Quando mi dicono che guido come Rick Mears, per me non c’è complimento più grande”.

Jeff Gordon

“Rick era un talento incredibile, tutti dicevano quanto fosse bravo sugli ovali e penso che la cosa gli desse un po’ fastidio, perché era in grado di brillare anche sugli stradali quando ne aveva l’occasione. Bisognava fare i conti con lui ovunque. Penso che molti non ne abbiano capito la personalità, perché era sempre molto gentile, molto calmo ma non credo che, una volta in macchina, ci fosse qualcuno mosso da una competitività e da una voglia di vincere più grandi delle sue ”.

Mario Andretti

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1976 USAC Simpson/Sugai 38/90 East Side Café 3 16 370 0 0 0 3 0
1977 USAC Sugai/Theodore 90/38 Theodore 8 20 555 0 0 1 4 0
1978 USAC Penske 7/71 Gould 11 9 2171 3 6 7 9 0
1979 CART Penske 9 Gould 14 1 4060 3 9 13 14 2
1980 CART Penske 1 Gould 12 4 2866 1 5 8 10 0
1981 CART Penske 6 Gould 10 1 304 6 8 9 10 2
1981 USAC Penske 6 Gould 1 0 0 0 0 0
1982 CART Penske 1 Gould 11 1 294 4 6 8 9 8
1982 USAC Penske 1 Gould 1 0 1 1 1 1
1983 CART Penske 1 Pennzoil 13 6 92 1 4 5 8 1
1984 CART Penske 6 Pennzoil 11 5 110 1 4 7 9 2
1985 CART Penske 5 Pennzoil 5 10 51 1 3 3 3 2
1986 CART Penske 1 Pennzoil 17 8 89 0 4 5 8 4
1987 CART Penske 8 Pennzoil 15 5 102 1 4 6 9 0
1988 CART Penske 5 Pennzoil 15 4 129 2 5 7 10 4
1989 CART Penske 4 Pennzoil 15 2 186 3 6 11 14 5
1990 CART Penske 2 Pennzoil 16 3 168 1 5 10 14 3
1991 CART Penske 3 Marlboro 17 4 144 2 4 7 12 6
1992 CART Penske 4 Marlboro 8 13 47 0 1 2 5 0
 Carriera         203   11738 29 75 110 152 40
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1978 Milwaukee Brands Hatch Atlanta 2 1 0 2 3
1979 Indy500 Trenton2 Atlanta 3 0 0 3 3
1980 Mexico City 1 0 0 1
1981 Riverside Atlanta1 Atlanta 2 Michigan Watkins Glen Mexico City 3 0 3 6
1982 Phoenix1 Atlanta Riverside Pocono 1 0 3 4
1983 Michigan 0 0 1 1
1984 Indy500 0 0 1 1
1985 Pocono 0 0 1 1
1986 0 0 0 0
1987 Pocono 0 0 1 1
1988 Indy500 Milwaukee 0 0 2 2
1989 Phoenix Milwaukee Laguna Seca 1 0 2 3
1990 Phoenix 0 0 1 1
1991 Indy500 Michigan 0 0 2 2
1992 0 0 0 0
Totale 7 0 22 29
Quote 24,1% 0,0% 75,9% 1

Rick Mears