La nascita del campionato CART nel 1979 è il risultato dell’evoluzione subita dalle corse a ruote scoperte americane negli 80 anni precedenti. Fino agli anni ‘50 la AAA, American Automobile Association, controllava buona parte delle attività motoristiche svolte negli USA dall’inizio del 20° secolo, fino a quando una serie di tragedie, culminate nel 1955 con la morte di 80 spettatori a Le Mans, non ha portato alla sua improvvisa uscita di scena dall’ambito sportivo. Ne seguì la formazione dell’USAC, lo United States Auto Club, voluto dal presidente dell’Indianapolis Motor Speedway Tony Hulman, che riprese da dove l’AAA aveva lasciato, patrocinando le corse di Midget, Sprint Cars, stock cars e “Championship cars”, le auto che animavano la gara più ricca e importante del mondo, la Indianapolis 500.
Se la corsa dell’Indiana rappresentava l’apice del motorismo americano, il resto del campionato rimaneva una serie di eventi più o meno collegati tra loro, piuttosto che continuare il discorso iniziato nel mese di maggio. Dopo la morte di Tony Hulman nel 1977, le squadre cominciarono a manifestare apertamente il proprio malcontento per la dilettantesca gestione del campionato. La successiva scomparsa dell’intero gruppo direttivo USAC in un incidente aereo a inizio ’78, allargò il vuoto di potere, finendo per far sfociare i numerosi incontri tra personaggi come Dan Gurney, Pat Patrick, Jim Hall, Roger Penske, Teddy Mayer e Tyler Alexander nel famoso “White Paper”, in cui lo stesso Gurney metteva nero su bianco i problemi della serie e i possibili correttivi proposti dalle squadre. Il messaggio era chiaro: “C’è qualcosa di sbagliato nel nostro sport, non sta minimamente raggiungendo il suo pieno potenziale e c’è un gran bisogno di cambiamento!”.
La frustrazione dei proprietari si concentrava soprattutto sui premi gara troppo scarsi e la pessima esposizione mediatica, che oggi come allora rendeva molto arduo il reperimento di adeguati sponsor. Una condizione in netto contrasto con il grande sviluppo commerciale che contemporaneamente altri sport come golf, football e baseball stavano incontrando, per non parlare della F1, che Bernie Ecclestone cominciava a trasformare in uno spettacolo globale. La gran parte dei team manager era d’accordo e quando USAC e IMS sdegnatamente rifiutarono di riconoscere le preoccupazioni delle squadre, non ci volle molto perché i proprietari formassero una propria associazione.
La Championship Auto Racing Teams era quindi pronta a partire. “Pensavamo tutti che il potenziale fosse molto maggiore di una sola grande corsa all’anno” ricorda Gurney, “ma una cosa che posso dire per certo, essendo stato uno dei membri del primo gruppo direttivo della CART, è che tutti volevamo solo far crescere la Indy500. Era già l’evento sportivo di un giorno più grande del mondo, quindi non aveva bisogno di grossi cambiamenti, ma noi volevamo migliorare il resto della stagione, non la 500 miglia”. Ci furono molti problemi all’inizio, con polemiche e cause legali, ma sotto la guida dell’avvocato John Frasco presto la CART ottenne il supporto, come sanctioning body ad interim, del SCCA, lo Sports Car Club of America, ed era pronta a organizzare la sua prima corsa a Phoenix, l’11 Marzo 1979, davanti a un grande pubblico e con la diretta nazionale su NBC.
L’USAC non cedette, cercando di bloccare l’iscrizione delle squadre CART alla Indy500 e andando avanti con il suo campionato, ma entrambe le iniziative si rivelarono un buco nell’acqua. Il tribunale dette infatti ragione alla CART, riconoscendo il diritto delle squadre di partecipare alla corsa in cui i ribelli, guidati da Rick Mears, sbaragliarono la concorrenza. “Non ci feci molto caso allora, ma ripensandoci la situazione tolse molto alla mia prima vittoria, con tutte le cause e il casino che andava avanti” dice Mears. “La vittoria a Indy arrivò e passò molto in fretta. Non ebbe lo stesso peso che avrebbe avuto normalmente. Ma la cosa non mi infastidì, l’avevo vinta ed era tutto ciò che avevo bisogno di sapere; dovevo solo andare avanti e vincerla di nuovo!”. Il trionfo della CART fu mitigato dal secondo posto di AJ Foyt, fedele all’IMS fino all’ultimo ma in definitiva costretto a “convertirsi”, quando nel 1981 l’USAC per riempire la griglia del suo campionato arrivò in qualche occasione a far correre insieme Champ cars e Midgets.
Il rapporto tra CART e Indianapolis continuò quindi come una sorta di convivenza forzata. Lo Speedway non poteva fare a meno delle squadre, che a loro volta avevano bisogno del palcoscenico principale. Dopo un breve tentativo di tregua nel 1980, la Indy500 rimase esclusiva del morente campionato USAC fino al 1983, quando si raggiunse finalmente un accordo per includerla nel calendario CART, pur rimanendo interamente gestita da USAC e IMS, sia da un punto di vista commerciale che tecnico e sportivo. Nel frattempo la CART incassò il determinante supporto delle PPG Industries, che divennero il title sponsor della serie, ottenendo più tardi la concessione da parte dello Speedway di ribattezzare il campionato come PPG IndyCar World Series, associando quindi ufficialmente le Champ cars a Indianapolis.
Il particolare “ovale” di Trenton
I primi anni di competizione vedono il team Penske come grande protagonista. Dopo aver conquistato la Indy 500, il poco più che debuttante Mears vince anche il titolo ‘79, precedendo il compagno Bobby Unser, secondo anche nel 1980 quando però a trionfare è Johnny Rutherford sulla Chaparral 2K progettata da John Barnard. La vettura americana porta oltreoceano il concetto di wing car introdotto tre anni prima dalla Lotus in F1, consentendo a “Lone Star” Rutherford di accaparrarsi anche la Indy 500. Il 1981 vede il ritorno al vertice della Penske, con Unser che conquista un discusso successo a Indianapolis su Mario Andretti mentre Mears domina il resto della stagione, proseguendo con lo stesso passo anche nell’82 con la nuova Penske PC10, con cui “Rocket” manca però la seconda affermazione a Indianapolis, persa di un soffio contro la Wildcat di Gordon Johncock in un finale memorabile.
L’inizio degli anni ’80 segna anche una nuova invasione dei costruttori inglesi. Nonostante il terzo titolo di Mears arrivi senza troppi patemi, la March già nel 1982 prende infatti il controllo del mercato telaistico, trionfando a Indianapolis nel 1983, dove la vettura inglese è portata in pole dal debuttante Teo Fabi e alla vittoria da Tom Sneva davanti alle Penske di Unser Sr. e Mears. E’ però lo stesso Al Sr. a portare a casa il titolo, grazie a una lunga serie di piazzamenti in top 5 che gli permettono di contenere la rimonta di Fabi, secondo per 6 soli punti nonostante 4 esaltanti vittorie. Paradossalmente è la stessa CART a facilitare la nuova invasione britannica, bloccando due anni prima lo sviluppo della Eagle BLAT, rivoluzionaria vettura progettata da John Ward e Trevor Harris, spinta da uno stock block Chevy in alluminio, che già prevede lo sfruttamento dei gas di scarico per generare deportanza e in generale basata su concetti totalmente diversi dalle convenzionali wingcars. Nelle mani di Mike Mosley la vettura americana umilia tutti a Milwaukee nel 1981, mancando la vittoria a Indy e Michigan per banali guasti meccanici. Stessa sorte tocca a Rocky Moran e Geoff Brabham negli appuntamenti di Watkins Glen e Riverside. Non accettando il rischio di dover convertire le proprie vetture ai concetti introdotti dalla Eagle, i poteri forti del campionato ottengono per il 1982 delle modifiche regolamentari che rendono inefficace la vettura di Dan Gurney, che dopo qualche anno sposta il suo impegno nel campionato IMSA.
Questi episodi non stemperano comunque l’interesse crescente di pubblico e partecipanti verso la serie, che già dai primi anni ’80 comincia a essere terreno di approdo per team e piloti della declinante Can Am. Fra loro Truesports e Newman Haas e piloti del calibro di Bobby Rahal, Geoff Brabham, Danny Sullivan e Al Unser Jr, figlio d’arte al quale si unisce a partire dal 1983 il fresco campione di F.Atlantic Michael Andretti. Dopo un decennio di dominio del motore Cosworth DFX turbo, a metà anni ’80 si assiste poi a un cambio della guardia anche tra i propulsori, con l’avvento del V8 Ilmor Chevrolet, dominatore della scena fino al 1991, che vince la concorrenza dell’obsoleto DFX oltre che delle unità presentate a fine decennio da Porsche, Alfa Romeo e Judd.
I nuovi arrivati non perdono tempo per affermare la propria competitività e se la Indy 500 1984 va a Rick Mears al volante di una March pesantemente modificata dal team Penske, il campionato è appannaggio di Mario Andretti alla guida della Lola-Cosworth del team Newman Haas, storico importatore del costruttore inglese. Il primo titolo per la March arriva l’anno seguente, grazie alla solita consistente stagione di Al Unser Sr., che da sostituto dell’infortunato Mears ha la meglio sulla Lola del figlio “Little Al” per un solo punto. La Indy 500 va invece a Danny Sullivan, vincitore al termine di un lungo duello con Mario Andretti nell’edizione ricordata per il celeberrimo “spin and win” dell’ex pilota Tyrrell.
L’andamento dei campionati successivi è un’ottima cartina tornasole dell’evoluzione della serie. Un duello fino all’ultima corsa caratterizza le stagioni ’86-’87, che vedono Bobby Rahal beffare per due volte Michael Andretti, con Al jr. più staccato e gli specialisti degli ovali sempre più relegati al ruolo di comprimari da un calendario che progressivamente sposta il suo baricentro su stradali e cittadini, riducendo il numero di ovali. Col passare degli anni infatti la CART inizia ad espandere la sua attenzione verso alcuni dei circuiti permanenti più celebri del paese: inizialmente Watkins Glen e Riverside per passare poi a Mid Ohio, Road America, Portland, Cleveland e Laguna Seca, che diventano in breve appuntamenti fissi così come Long Beach, inserita nel calendario CART nel 1984. Causa ed effetto del cambiamento è anche il sempre maggiore interesse dei piloti di estrazione europea verso il campionato. Dopo la positiva esperienza di Teo Fabi, la CART rilancia la carriera di Roberto Guerrero, dando poi una nuova giovinezza ad Emerson Fittipaldi. Alcune stagioni di apprendistato precedono infatti un 1989 strepitoso per il brasiliano, che al volante di una Penske del team Patrick arricchisce il suo già straordinario palmares in una drammatica edizione della Indy500, vinta dopo un contatto ruota a ruota con Al Unser jr a due giri dal termine. Qualche mese dopo Emmo riesce a portare a casa anche il campionato, al termine di un lungo confronto col compagno di marca Mears, la Lola-Chevy di Michael Andretti e la March-Porsche di Teo Fabi.
Stagioni di esaltante competizione in pista non cancellano però le tensioni tra squadre e IMS, ne i dissapori all’interno della stessa CART, la cui composizione è ormai nettamente cambiata rispetto alla formazione originale, con il progressivo abbandono della McLaren e personaggi come Jim Hall e Dan Gurney. Accusato di favorire i suoi ex datori di lavoro Pat Patrick e Roger Penske e mai del tutto accettato dall’ambiente per la sua poca competenza in ambito motoristico, dopo 8 anni da CEO John Frasco è sostituito brevemente dal suo sottoposto John Caponigro e dall’ex meccanico e proprietario di team John Capels, fino all’arrivo nel 1990 di Bill Stokkan. Ex marketing manager per Playboy e Carlsberg, neanche Stokkan ha particolare esperienza nel mondo dei motori, ma riesce ad allargare ulteriormente i confini del campionato, sfidando la FISA nell’organizzare la corsa di apertura del campionato 1991 a Surfers Paradise, nella Gold Coast australiana. L’espansione agli antipodi non rappresenta però una vera novità, arrivando dopo le due corse di Mexico City nelle stagioni ’80-’81, cui hanno fatto seguito le trasferte in Canada sull’ovale di Sanair, fino all’approdo nel 1986 all’Exhibition Place di Toronto, un appuntamento divenuto nel tempo un classico.
È un periodo contrastante per la CART, anche a causa di un progressivo incremento dei costi che, nonostante i continui record di pubblico e ascolti, nel biennio ’91-’92 fa oscillare di gara in gara il parco partenti tra le 21 e le 28 vetture. Parallelamente la tensione con l’IMS e il suo nuovo presidente, Tony George, cresce di anno in anno. La frustrazione del nipote di Tony Hulman risiede nel progressivo allontanamento del campionato dalle sue origini, con un calendario che concentrandosi per due terzi su stradali e cittadini rende sempre più difficile l’avanzare dei giovani piloti provenienti dai circuiti USAC verso Indianapolis, con le squadre che guardano con sempre maggiore interesse ai piloti di estrazione europea. A ciò si somma la dipendenza della serie dai motoristi, con contratti di leasing ferrei che rendono difficile la vita delle piccole squadre e di chi, anche all’ultimo momento, volesse iscriversi alla 500 miglia, passati vincitori compresi. Più di tutto comunque il motivo di discordia è lo scarso peso che lo Speedway gioca all’interno del consiglio di amministrazione della CART, dove Tony George è trattato come il padrone di una normale pista del calendario, quando l’importanza della Indy500 per il successo del campionato è ovviamente cruciale.
Pazzo finale a Portland 1986 tra gli Andretti e Al Unser Jr.
Dal punto di vista sportivo e della competizione il campionato comunque continua a crescere. Oltre ai titoli ’86 e ’87 Bobby Rahal porta a casa nel 1986 una Indy 500 da antologia, avendo la meglio su Rick Mears e Kevin Cogan all’ultima ripartenza a due giri dal termine, segnando il giro più veloce all’ultimo passaggio nonostante il serbatoio praticamente vuoto. È anche l’ultima grande gioia per il suo capo Jim Trueman, che qualche giorno più tardi perde la battaglia contro il cancro, a soli 51 anni. La 500 miglia 1987 va invece ad Al Unser Sr., alla guida di una March-Cosworth vecchia di un anno, ritirata in fretta e furia dal team Penske dalla hall di un hotel. Il quarto successo in carriera allo Speedway per “Big Al” arriva dopo aver visto tutti i piloti Chevrolet fermarsi con problemi al motore, compreso il dominatore assoluto della corsa Mario Andretti, mentre Roberto Guerrero getta al vento la vittoria facendo spegnere il motore durante l’ultima sosta.
Nel 1988 l’ingaggio dell’ex progettista Lola Nigel Bennett porta alla “rinascita” della Penske, con il dominio in campionato di Danny Sullivan e il terzo successo in carriera a Indianapolis di Rick Mears. I meriti della nuova PC17 nei successi degli alfieri del Capitano vanno però ripartiti con il motore Ilmor Chevrolet, che dopo due anni di rodaggio fa piazza pulita dei vecchi Cosworth. Dopo la doppietta del 1989 con la Penske del team Patrick, il 1990 vede il passaggio di Emerson Fittipaldi e dello sponsor Marlboro al team Penske, ma è ormai il tempo delle nuove leve, con Al Unser Jr. e Michael Andretti vincenti in 11 dei 16 appuntamenti della stagione e “Little Al” finalmente campione al volante della Lola-Chevy del team Galles. Indianapolis va invece a sorpresa ad Arie Luyendyk, autore di un record sulla distanza di gara che resisterà 23 anni. Il 1991 è finalmente l’anno di Michael Andretti e del team Newman Haas, che dopo un travagliato avvio di stagione mettono insieme 8 vittorie, avendo la meglio sull’eterno rivale Bobby Rahal. Per Michael il tanto agognato titolo mitiga la delusione patita a Indianapolis dove, dopo aver dominato buona parte della corsa, il giovane americano è beffato a pochi giri dal termine da Rick Mears, alla conquista della quarta affermazione allo Speedway dopo un duello leggendario.
Il quadro tecnico cambia ancora nel 1992, quando la Ford decide di rientrare ufficialmente nel campionato, affidando il suo Cosworth XB ai team Newman Haas e Ganassi. Michael Andretti è ancora una volta il pilota più veloce del campionato, ma il potente XB si rivela ancora acerbo per permettere all’americano di confermare un titolo che va ancora una volta a Bobby Rahal, al debutto nel ruolo di pilota/proprietario di team dopo essere entrato in società con Carl Hogan. All’ultima gara di Laguna Seca un terzo posto è sufficiente al pilota dell’Ohio per conquistare il terzo campionato in carriera con soli 4 punti di vantaggio su Andretti, che però vive la delusione più cocente a Indianapolis, dove si ritira a 13 giri dal termine dopo aver dominato la corsa dalla prima curva. Il forfait di Andretti lascia strada libera ad Al Unser Jr, che pochi secondi prima della neutralizzazione supera Scott Goodyear, complice il doppiaggio di Lyn St. James. Negli ultimi sette giri il canadese prova in tutti i modi a riguadagnare la posizione, chiudendo sul traguardo a soli 43 millesimi da “Little Al” che, commosso, giustifica le sue lacrime in victory lane con un “you just don’t know what Indy means” che passerà alla storia.
Rick Mears e Michael Andretti raccontano il finale della Indy500 1991
Storico duello tra Al Unser Jr e Scott Goodyear al termine della Indy 500 1992
La crescente popolarità della CART esplode letteralmente alla fine del 1992 quando Nigel Mansell, dopo mesi di infinite trattative con la Williams, cede alle lusinghe di Paul Newman e per la stagione successiva prende il volante della Lola-Ford lasciata libera da Michael Andretti, che tenta il salto opposto approdando in McLaren al fianco di Ayrton Senna. L’impatto di Mansell sul campionato è a 360°: alla prima corsa di Surfers Paradise l’attenzione mediatica è paragonabile ai livelli raggiunti solo durante il mese di maggio, rendendo istantaneamente inadeguate le sale stampa di buona parte dei circuiti. La competizione in pista diventa ancora più serrata, con la diffusione di manovre difensive più dure fino a quel momento poco tollerate.
L’adattamento del pilota inglese al campionato è stupefacente, da campione del mondo. Tra sorpassi, penalità e diverse strategie Mansell si aggiudica pole e vittoria in Australia nel tripudio generale, ma è poi costretto a saltare la seconda prova di Phoenix dopo un tremendo incidente in prova, che gli procura un bruttissimo infortunio alla schiena. Il pilota inglese corre in condizioni estremamente critiche le prove successive, andando vicinissimo alla vittoria a Indianapolis, dove è però beffato nel finale da Fittipaldi e Luyendyk. Il campionato vive sul confronto Mansell-Penske, con Rahal frenato dal progetto di rendere competitiva l’unica vettura interamente americana in griglia, la Truesports, mentre Al Unser Jr. vive un’ultima, poco soddisfacente annata al team Galles. L’avversario di Mansell per il titolo è il consistente Fittipaldi, ma il vero rivale dell’inglese si dimostra il 25enne Paul Tracy, che a fine campionato mette insieme lo stesso numero di vittorie, 5, cui non si sommano però i tanti punti persi per incidenti evitabili, oltre a diverse rotture meccaniche. Nonostante 7 poles, Mansell dopo Surfers Paradise non vince più su stradali e cittadini, mettendo invece insieme 4 vittorie su ovali, che unite all’affidabilità del motore Ford gli permettono di diventare il primo pilota a vincere consecutivamente il titolo in F1 e IndyCar.
La stagione 1994 segna un’altra svolta, con importanti novità sul piano tecnico e sportivo. Abbandonata la F1 la Honda si lancia alla conquista del Nord America, affrontando una difficile stagione d’esordio con il team Rahal. Sul fronte dei telai, dopo i successi mietuti in F.3000 la Reynard lancia la sfida a Lola e Penske, affrontando le particolari esigenze delle vetture da ovale. In un solo anno il parco partenti cresce enormemente di livello, con Michael Andretti a portare al debutto la Reynard del team Ganassi, la promessa Robby Gordon a guidare la Lola-Ford del team Walker e l’arrivo sulla Reynard del team Green/Forsythe del debuttante Jacques Villeneuve. La novità più importante è però il passaggio, fortemente voluto dalla Marlboro, di Al Unser Jr. al team Penske.
Il campionato è un monologo delle vetture bianco-rosse, capaci di conquistare 12 delle 16 corse in programma, con Andretti che porta alla vittoria la Reynard in Australia e a Toronto, Scott Goodyear che vince a sorpresa la Marlboro 500 di Michigan e Jacques Villeneuve che si laurea rookie of the year, portando a casa un successo strepitoso sul difficile stradale di Road America. Al Unser Jr. è praticamente impeccabile e le poche volte in cui non si dimostra il pilota più redditizio della squadra, è un pizzico di fortuna ad aiutarlo nel portare a casa 8 vittorie e il titolo con anticipo record, mentre Fittipaldi e Tracy precedono il primo dei “mortali”, Michael Andretti.
Ovviamente anche Indianapolis è un affare privato tra le Penske, reso ancor più memorabile da un cambiamento regolamentare introdotto dall’USAC nel ’93 che, nel tentativo di attirare più costruttori americani, ammette unità anche non strettamente di serie per i motori con distribuzione ad aste e bilancieri, che godono di notevoli vantaggi in termini di pressione di sovralimentazione. Solo Ilmor e Penske però raccolgono la sfida, preparando in gran segreto un propulsore apposito che, provato al banco, supera i 1000 cv contro gli 820 del classico Ilmor D. Le Penske dominano il campo ma solo Unser vede il traguardo, precedendo Villeneuve dopo l’incidente di Fittipaldi a 10 giri dal termine. Il trionfo segna anche l’inizio della collaborazione tra Ilmor e Mercedes, oltre all’ingresso della casa tedesca nel campionato. Per Mansell una stagione storta in cui la sua classe non basta a compensare un po’ di sfortuna e una Lola tutt’altro che irresistibile, relegando il campione ’93 all’ ottavo posto finale, senza vittorie.
Storico duello Mansell-Fittipaldi a Cleveland 1993
Finale di Indianapolis 1994
Arrivederci Mario
Il 1995 è l’anno di Jacques Villeneuve, vincitore di 4 corse che unite a una notevole consistenza lo tengono al riparo dal ritorno di Al Unser Jr., che nonostante i guai del canadese non riesce a ribaltare la situazione nell’ultimo appuntamento di Laguna Seca. Michael Andretti, tornato al team Newman Haas dopo i ritiri di Mansell e del padre Mario, si conferma il pilota più veloce, pagando però qualche errore di troppo oltre alla non sempre ottimale affidabilità della sua Lola-Ford. Per Reynard, Ford e Goodyear il titolo si aggiunge a una incredibile edizione della 500 miglia di Indianapolis, che vede le Penske incapaci di qualificarsi, Michael Andretti gettare al vento la vittoria durante un doppiaggio, le potentissime Menard subito attardate da problemi tecnici e infine una girandola di potenziali vincitori uscire di scena, tra cui Scott Goodyear, che nel finale supera la safety car prima che questa imbocchi la corsia box, gettando al vento una meritata vittoria per sé, il nuovo potente motore Honda e la rientrante Firestone. A gioire in victory lane è quindi ancora Jacques Villeneuve, che riesce a sovvertire l’incredibile penalizzazione di due giri subita a metà gara per la stessa infrazione. Per il costruttore giapponese e la casa americana un parziale rivincita arriverà qualche mese più tardi, con la vittoria del rookie Ribeiro a Loudon.
La crescita di qualità e popolarità della serie non aiuta però a tenere sotto controllo la diatriba con Tony George e l’IMS, che spingono per una completa revisione del sistema di controllo del campionato. Per sbloccare la situazione di immobilismo decisionale che caratterizza il consiglio direttivo della CART, George propone una nuova composizione, più snella, comprendente due proprietari di team ed esponenti USAC, PPG e lo stesso presidente IMS. Dopo aver a lungo rigettato la proposta, il consiglio accetta una riorganizzazione temporanea, che vede nel gruppo direttivo 5 proprietari di team (Penske, Walker, Coyne, Hall e Haas) con diritto di voto, affiancati da Stokkan e George come consiglieri. L’obiettivo del nuovo corso è conseguire quella riduzione dei costi da tutti auspicata, cercando di far prevalere gli interessi del campionato su quelli dei singoli proprietari, problema che di fatto affligge la CART dalla sua formazione. Nonostante si riesca a portare in porto alcuni miglioramenti (riduzione del numero giornate di test, concentrazione di alcuni eventi su due giorni, incremento sanzioni per violazioni tecniche), a fine ’93 l’assemblea dei proprietari decide di tornare al consiglio di 24 membri con diritto di voto, con Tony George ancora nel ruolo di consulente. La rottura tra le due organizzazioni è ormai imminente, innescata si dice da una frase retorica di Bill Stokkan che, col senno di poi, sembra un’occasione attesa da tempo: alle parole del CEO “cosa succederebbe se noi non partecipassimo alla 500 miglia?” Tony George coglie la palla al balzo, rinuncia al proprio posto all’interno del consiglio della CART e comincia a programmare la creazione di un nuovo campionato per auto a ruote scoperte, comprendente la Indianapolis 500. La scissione diventa realtà a inizio ’94, quando la CART sceglie come nuovo CEO Andrew Craig, già impegnato nell’organizzazione di vari progetti olimpici, trascurando il candidato proposto dal presidente IMS, che qualche mese più tardi annuncia il proprio campionato, denominato Indy Racing League, che dovrebbe partire nel 1996 sanzionato dall’USAC. L’obiettivo della nuova serie è riportare in primo piano lo spirito originale del campionato USAC, con piloti provenienti dalle varie serie Midget e Sprint cars a sfidarsi su un calendario di soli ovali, con vetture più semplici e meno costose che garantiscano un maggiore livellamento delle prestazioni e la possibilità per i piccoli team di emergere, eliminando la dipendenza dai motoristi e l’acquisto dei sedili da parte di ricchi piloti stranieri.
Tra accuse reciproche e tentativi di riavvicinamento, la polemica separazione diventa guerra aperta a metà del 1995, quando USAC e IMS annunciano la regola divenuta celebre come 25/8, secondo cui 25 dei 33 posti di partenza per la Indy 500 1996 saranno appannaggio dei piloti stabilmente impegnati in IRL. La CART risponde boicottando in massa l’evento, inserendo nel calendario 1996 la US 500, una 500 miglia organizzata con le stesse modalità della Indy 500 e tenuta lo stesso giorno sull’ovale di Michigan.
Il 27 gennaio ’96, a Orlando, il campionato IRL tiene la sua prova inaugurale, con una ventina di iscritti alla guida di vetture rispondenti alle specifiche CART degli anni precedenti, vendute con poca lungimiranza alle squadre IRL proprio dai team della serie rivale. Le stesse vetture, spinte ai limiti in cerca di nuovi record che facciano notizia, animano la Indy 500, funestata dalla morte in prova del polesitter Scott Brayton. La gara vede ai nastri di partenza vecchie “glorie”, molti comprimari esclusi dalla CART, qualche giovane interessante come Tony Stewart e molti semi-sconosciuti. L’inesperienza del parco partenti fa temere incidenti catastrofici, ma la Indy 500 fila via in relativa tranquillità, mentre sono le “stelle” della CART a combinare un disastro durante la partenza della concorrente US 500, con Vasser e Fernandez che agganciandosi in prima fila causano un “big one” che fa fuori mezza griglia, costringendo la direzione gara a una lunghissima bandiera rossa.
Jacques Villeneuve trionfa a Indianapolis dopo aver recuperato due giri di distacco
Strepitoso finale della Marlboro 500 1995
L’inizio della scissione
Il disastro alla partenza della US500 1996
Da un punto di vista meramente sportivo il campionato CART/IndyCar 1996 vede l’inizio del dominio del team di Chip Ganassi, grazie a una serie di felici intuizioni del manager di Pittsburgh, che sposa in pieno l’impegno Honda e Firestone, ingaggiando Alex Zanardi al fianco del confermato Jimmy Vasser. È l’americano a portare a casa il titolo, grazie a una fantastica striscia di 4 vittorie nelle prime sei gare (compresa la US500, nonostante il pasticcio iniziale), ma è l’italiano a conquistare l’America, mettendo a segno una delle più spettacolari manovre della storia, un’impossibile staccata a Bryan Herta al Cavatappi di Laguna Seca, che gli vale la terza vittoria stagionale dopo il titolo di rookie of the year. Mentre la corsa al titolo dell’italiano viene frenata da qualche contrattempo di troppo con i doppiati e un rapporto difficile con gli ovali, Vasser deve guardarsi fino all’ultimo da Michael Andretti (5 vittorie) e Al Unser Jr., che rimane in corsa nonostante una Penske irriconoscibile. Il 1996 segna anche l’ingresso del quarto motorista, con la Toyota che scende in campo proprio nell’anno del primo titolo per la rivale Honda.
Nel 1997 la CART perde la battaglia legale sul diritto di utilizzo del marchio “IndyCar”, che resta congelato fino al 2003, quando la IRL diventa IndyCar Series. Parallelamente le vetture del campionato CART tornano alla denominazione originale, passando da “indy cars” a “champ cars”. Mentre il campionato di Tony George supera il primo anno di transizione, adottando un nuovo pacchetto tecnico basato su motori aspirati 4 litri derivati dalla serie, la CART apre a un nuovo costruttore. Il team Newman Haas abbandona infatti la Lola dopo 14 anni per portare in pista in esclusiva il nuovo telaio Swift, subito vincente con Michael Andretti nel primo appuntamento di Homestead. La vettura americana, ancora a corto di test e frenata da un pacchetto Ford-Goodyear non sempre all’altezza, non si dimostra comunque versatile come la collaudata Reynard, che conquista il mercato sbaragliando la Lola, in netta crisi dopo il fallimento del progetto F1.
La prima parte del campionato, incentrata maggiormente sugli ovali, vede in realtà prevalere la Penske-Mercedes di Paul Tracy, ma è Alex Zanardi a salire in cattedra nella seconda parte della stagione, infilando una sequenza di podi e vittorie che annichilisce i rivali, oltre a mettere a segno alcune rimonte che rimangono nella storia della categoria. Nonostante la concorrenza crescente, il bolognese si ripete nel 1998, chiudendo il campionato con l’incredibile risultato di 15 podi su 18 corse, che gli garantiscono il titolo con 4 gare d’anticipo e un vantaggio di punti record. Questi risultati valgono al pilota italiano l’ingaggio da parte della Williams F1, sulle orme di Jacques Villeneuve, che nel giro di tre anni replica, al contrario, l’impresa riuscita a Nigel Mansell. Il 1998 segna anche una svolta politico-commerciale, con la prima corsa in Giappone, l’ingresso come title sponsor della Fed Ex a porre fine a una collaborazione quasi ventennale con la PPG e soprattutto la quotazione in borsa del titolo CART, con i proprietari di team inizialmente titolari del capitale azionario.
Il 1999 vede oltre ai 4 motoristi ben 5 telai impegnati nel campionato, compresa la Eagle del team All American Racers di Dan Gurney, di ritorno nella CART nel 1996. Il campionato vede vincere 10 piloti diversi, con una lotta per il titolo che si restringe via via a Dario Franchitti e al sensazionale debuttante Juan Pablo Montoya, perfettamente a suo agio nel sedile lasciato libero da Zanardi. Il titolo va al colombiano all’ultima gara, teatro del terribile incidente che costa la vita a Greg Moore, una delle star del campionato. La scomparsa del canadese costringe la CART a interrogarsi sulle prestazioni sempre più impressionanti delle Champ car, che nonostante le diverse limitazioni di potenza e aerodinamiche imposte negli anni, superano ormai i 900 cv e in scia raggiungono i 400 km/h in super speedway come Fontana.
Pazzesco ultimo giro a Road America 1996
Spettacolare finale a Portland ‘97
Ultimi giri dalla US500 1999
Con l’affluenza di pubblico in calo, soprattutto sugli ovali, il numero dei piloti americani che scende di anno in anno e gli spettatori tv che diminuiscono, il 1999 vede un primo tentativo di avvicinamento tra CART e IRL, che nel frattempo è riuscita a costruirsi un’identità e un discreto seguito. La CART deve ammettere per la prima volta di soffrire l’assenza della Indy500 e a metà anno sembra potersi raggiungere un accordo, basato su una formula con motori atmosferici e predominanza delle corse su ovali. Tony George alla fine decide di continuare per la sua strada, anche se i negoziati aprono le porte alla partecipazione del team Ganassi alla 500 miglia di Indianapolis del 2000.
Il pubblico accoglie bene il team tetra campione CART, ma la corsa è inevitabilmente vissuta da tutti come un confronto tra le due serie. Montoya manca la pole, accomodandosi in prima fila al fianco del campione IRL Greg Ray, ma in gara, dopo una prima fase di studio, il pilota colombiano prende il largo, guidando 167 giri della corsa e andando a vincere praticamente indisturbato. Il team Ganassi è accusato di spendere per Indy più di quanto i migliori team IRL investano per tutto il campionato, ma la facilità con cui Montoya imprime la sua faccia sul Borg Warner Trophy sembra segnare una voragine tra le due serie. La IRL viene in parte riscattata da Kenny Brack, vice campione F.3000 nel 1996 e campione IRL nel ’98, che da rookie in CART col team di Bobby Rahal arriva a giocarsi il titolo all’ultima corsa.
Il 2000 vede il numero di costruttori scendere da 5 a 3, con l’abbandono per scarsi risultati del team AAR di Dan Gurney e del telaio Eagle, la conversione del team Penske al telaio Reynard e la Swift che schiera una sola vettura gestita dal team Coyne. Dopo anni di delusioni si ritira anche la Goodyear, mentre per la Mercedes è il canto del cigno dopo diverse stagioni di risultati sotto le aspettative. La sfida tra Honda, Ford e Toyota sale ancora di livello, con la casa americana che schiera il nuovo sofisticato propulsore Cosworth XF. Dopo 4 anni di difficile apprendistato, la Toyota porta a casa ben 5 vittorie, frutto della collaborazione con il team Ganassi, che abbandona Honda e Reynard adottando il telaio Lola, ben comportatosi nel ’99 nelle mani del giovane Castroneves. I vincitori diversi salgono a undici e la lotta per il titolo coinvolge una decina di piloti fino alle ultime corse, quando la consistenza premia la Reynard-Honda di Gil De Ferran e del rinnovato team Penske, mentre Andretti e Montoya terminano il campionato recriminando sulla scarsa affidabilità della pur ottima Lola e delle rispettive motorizzazioni.
Nel 2001 il colombiano diventa il quinto campione CART in meno di un decennio a lasciare la serie per la F1, con Ganassi che rinnova il parco piloti puntando su campione e vice campione della F.3000 internazionale mentre il numero dei piloti americani scende alla miseria di tre superstiti: Michael Andretti, Jimmy Vasser e Bryan Herta. Le dimissioni di Andrew Craig a metà 2000 portano al ruolo di CEO ad interim Bobby Rahal, che viene poi sostituito da Joe Heiztler. La stagione 2001 chiude quella da molti definita come un’epoca d’oro per le corse a ruote scoperte americane, segnando l’inizio della fine per la categoria. La competizione in pista rimane furiosa, con undici vincitori diversi, ancora più equilibrio tra Lola e Reynard e nuovi appuntamenti in calendario, con le corse in Messico, Germania e Inghilterra a compensare l’uscita di scena dell’ovale di Rio. Il campionato vive sul confronto tra il duo Penske De Ferran-Castroneves, Kenny Brack e Michael Andretti, che dopo cinque stagioni lascia il team Newman Haas, sostituito da Cristiano Da Matta. Lo svedese sfrutta alla grande la Lola del team Rahal e le caratteristiche “risparmiose” del motore Ford, dominando gli ovali, ma alla fine la superiorità ingegneristica della Penske rende imprendibili le vetture del Capitano sugli stradali. Questo e la solita grande consistenza di Gil De Ferran consegnano quindi il secondo titolo al brasiliano e alla squadra americana, al top anche nel secondo trionfo CART a Indianapolis, dove Castroneves e De Ferran dominano nel finale, precedendo Michael Andretti e tre vetture del team Ganassi.
Per la CART sono però le ultime buone notizie: proprio Penske, spinto dalla Marlboro e i vari sponsor, “tradisce” la serie che aveva contribuito a creare, trasferendo la sua operazione in IRL; nel mese di aprile la CART è costretta a rimandare e poi cancellare la corsa organizzata sull’ovale di Fort Worth, quando i piloti cominciano a manifestare mancamenti dovuti all’inatteso carico g verticale indotto dalla velocità e dall’elevato banking. Le vetture viaggiano a medie superiori a 235 mph, circa 10 mph più forte delle vetture IRL, trasformando un evento voluto per umiliare i rivali nel loro “feudo”, in una disfatta. La CART ne riceve infatti un brutto colpo d’immagine oltre a dover pagare un pesante risarcimento al Texas Motor Speedway. Un’altra sberla arriva poi dai motoristi giapponesi: il ritardo nella definizione del nuovo regolamento tecnico e le infinite polemiche sulla gestione della valvola pop-off esasperano la Honda, che annuncia il suo ritiro dal campionato al termine del 2002.
Da sempre sostenitore di una formula sovralimentata con cubatura più ridotta e pressione maggiore, il costruttore nipponico rimane infatti spiazzato dalla decisione della CART di adottare motori atmosferici di caratteristiche simili a quelli utilizzati in IRL a partire dal 2003, considerati poco interessanti da un punto di vista tecnico. La decisione, volta a ridurre le prestazioni delle vetture ma intesa in realtà come una manovra di avvicinamento alla serie rivale, è vista dalla Honda come un ulteriore sgarbo in favore della Toyota, che già aveva dichiarato l’intenzione di correre a Indianapolis nel 2003. Incredibilmente, pochi mesi più tardi gli stessi proprietari che avevano votato l’adozione del motore atmosferico, decidono di accantonare tutto e mantenere il turbo 2.65 litri, affidando per il 2003 la monofornitura alla Ford, unica rimasta dopo la dipartita di Honda e Toyota verso la IRL.
Beffa finale, il CEO Heitzler, esperto di comunicazione ma incapace di procurare alla serie un’esposizione tv adeguata, viene licenziato a fine anno quando il consiglio direttivo scopre il suo passato ricco di cause per bancarotta e mancati pagamenti.
Il duello Montoya (Lola-Toyota) – Andretti (Lola-Ford) negli ultimi giri della Michigan 500 2000
Sfida all’ultima curva tra De Ferran e Brack nella seconda tappa della trasferta europea 2001, sull’ovale inglese di Rockingham
Ultimi giri della Michigan 500 2001
Dopo l’allontanamento di Heitzler, che costa alla CART un ulteriore sanzione perché avvenuto in modo irregolare, nel 2002 la serie affida a Chris Pook il rilancio. Lo storico manager della corsa di Long Beach introduce numerose novità, tra cui il congelamento dei telai dopo il 2002, l’abbandono della formula consumo e un nuovo sistema di qualifica su due giorni. Sulla falsariga di quanto accaduto in Formula 1, anche la CART ammette poi la propria impotenza sul bando dei controlli elettronici, ponendo fine ad anni di sospetti e accuse sottobanco liberalizzando il controllo di trazione.
Dopo un 2001 di rodaggio, Cristiano Da Matta e il team Newman Haas sbaragliano la concorrenza, portando al titolo la Lola e il motore Toyota, mentre delude Kenny Brack, che da super favorito al team Ganassi ottiene una sola vittoria. La Indy500 2002 vede poi il terzo capitolo della sfida CART e IRL, con Paul Tracy (Team Green, CART) che nel finale va all’attacco di un Helio Castroneves (Team Penske, IRL) in grave crisi coi consumi. A due giri dal termine, proprio quando il canadese affianca il brasiliano in curva 3, un incidente tra Lazier e Redon costringe alla neutralizzazione della corsa. Castroneves viene dichiarato vincitore, ma il sospetto che la vettura del team Green fosse davanti al momento dell’accensione delle luci gialle spinge il team Green a fare ricorso, col tribunale che qualche mese dopo da ragione alla Penske, come già accaduto nel 1981. A fine anno, “bad boy” Tracy viene votato come pilota più popolare tra i tifosi della CART, che giudicano un furto l’esito della corsa.
La CART del 2003 è ormai solo una lontana parente del glorioso campionato di qualche anno prima. Con la partenza verso la IRL di Penske, Ganassi, Andretti/Green e Rahal (nel 2004), la serie vive sul confronto tra i due top team superstiti: Newman Haas, che schiera due vetture per Junqueira e il rookie Bourdais; Forsythe, che conferma Patrick Carpentier e ingaggia Paul Tracy, finalmente campione al termine di un lungo confronto con lo stesso Junqueira e Jourdain. A metà stagione gli errori di tanti anni hanno il loro epilogo nella bancarotta della CART, risultato di una gestione fallimentare a causa della storica incapacità delle squadre di abbandonare i propri interessi e convergere verso una posizione comune. Ne è testimonianza la quotazione in borsa del ’98, che vide molti proprietari vendere sottobanco le proprie azioni, in totale violazione degli accordi presi.
La serie va comunque avanti, salvata dalla cordata composta da Jerry Forsythe, Kevin Kalkhoven e Paul Gentilozzi, che rileva ciò che rimane della CART, ribattezzandola Champ Car World Series e proseguendo l’infinita “faida” con Tony George. Il campionato, disputato con le vecchie Lola, gomme Bridgestone e un motore Ford sovralimentato da circa 750 cv (ripescato dopo aver abbandonato l’idea del nuovo motore atmosferico), diventa in breve un monomarca comandato dai team Newman Haas e Forsythe, se si esclude qualche inserimento di Justin Wilson e del team Rusport.
Il 2004 vive sul duello tra Bourdais e Junqueira (più qualche intromissione di Tracy), col francese che nel finale piega la resistenza del brasiliano, conquistando il titolo principale dopo quello di rookie of the year nel 2003. Nel 2005 il confronto tra i due è interrotto da un brutto incidente subito da Junqueira a Indianapolis, che costringe il brasiliano a restare inattivo per il resto della stagione. Per Bourdais il secondo titolo consecutivo è quasi una formalità, fatta eccezione per una serie di colpi proibiti con Tracy che infiamma il pubblico, soprattutto negli appuntamenti canadesi del campionato. Alle spalle del francese chiude Oriol Servia, sostituto di Junqueira in casa Newman Haas e vincitore dell’appuntamento di Montreal.
Nel 2006 l’ostacolo principale tra Bourdais e il terzo titolo è AJ Allmendinger che, passato al team Forsythe alla quinta corsa del campionato, infila tre vittorie consecutive e 5 in totale, tenendo aperto il discorso titolo fino alla penultima prova di Surfers Paradise, dove un ritiro consegna il titolo al francese, mentre l’americano salta l’ultima corsa accettando l’offerta del team Red Bull Toyota in NASCAR. Più che per il bel confronto tra i due contendenti però, la stagione fa notizia per le risse che coinvolgono Tracy negli appuntamenti di San Josè e Denver, dove il canadese entra in contatto e viene alle mani rispettivamente con Tagliani e lo stesso Bourdais.
Il 2007 segna l’introduzione di una nuova vettura, la Panoz DP01 spinta dal solito motore Cosworth, che regala una sensazione di novità insieme all’adozione delle partenze da fermo, del limite temporale di un’ora e tre quarti e dell’arrivo di diversi piloti di estrazione europea come Doornbos, Jani, Pagenaud e Gommendy. La nuova stagione segna anche l’abbandono definitivo degli ovali, ormai totalmente “estinti” nelle stagioni precedenti con l’eccezione di Milwaukee e Las Vegas. Bourdais parte ancora una volta coi favori del pronostico, ma per metà stagione il francese se la deve vedere con il rookie of the year 2006 Power, il debuttante Doornbos e il solito Wilson, prima che l’esperienza del francese e la superiorità tecnica del team Newman Haas abbiano la meglio, consegnando a Bourdais il quarto titolo consecutivo.
A pochi mesi dall’inizio della stagione 2008 infine, Kalkhoven e Forsythe, alla soglia di una nuova bancarotta, sono costretti a cedere, accettando le “condizioni di resa” di Tony George, con le squadre Champ Car che ottengono un accesso “facilitato” al campionato IRL IndyCar, con la garanzia di sconti sui telai Dallara. L’unificazione, effettuata in fretta a furia, non permette la coesistenza degli appuntamenti di Motegi e Long Beach, così la Champ Car dà il suo estremo saluto sul cittadino della California, in un evento che, pur assegnando punti per il campionato IRL, viene disputato con regole e vetture del campionato Champ Car, chiudendo malinconicamente 30 anni a tratti spettacolari, in cui la CART ha rappresentato molto più che una valida alternativa alla F1, unendo a piloti straordinari, vetture da sogno e piste da brivido, un ambiente e un‘impostazione ancora, per certi versi, incentrata sulla semplicità e sulle corse a misura d’uomo. Un’attitudine che ha reso la serie, se non la più importante, probabilmente la più bella del mondo.
La rivalità Tracy-Bourdais
Prima partenza da fermo della storia Champ Car. Si notano le gomme con la spalla rossa, a indicare la mescola tenera da alternare obbligatoriamente con quella più dura. La serie è stata la prima a introdurre questa regola, così come l’utilizzo del push to pass.
Pareri e ricordi dei piloti che hanno vissuto il periodo 1993-2001
Jacques Villeneuve: “Emerson Fittipaldi era il mio idolo da quando avevo sette anni. Probabilmente ho imparato prima a dire “Emerson Fittipaldi” che “Papà”, quindi correre contro di lui, Mario Andretti e anche Nigel Mansell, uno che rispettavo molto all’inizio della mia carriera, era fantastico. È questo il ricordo più bello delle corse di quei tempi: correre contro questi piloti, in quell’ambiente, era semplicemente incredibile”.
Juan Pablo Montoya: “Erano bei tempi. C’era una grande competizione: nel ’99 c’era la guerra dei pneumatici, che era un po’ come quando oggi tutti usano le “rosse” in IndyCar. Le macchine avevano molta aderenza, c’era tanta potenza, erano divertenti. Anche le macchine attuali sono divertenti ma sono più legate allo “slancio” . Le vetture CART invece acceleravano sempre e sono contento di averle guidate. Ho guidato una macchina da 950 cavalli. Le macchine di Ganassi erano davvero dominanti per qualche anno, ed era bello esserne parte, ma la cosa migliore era quanto andavano le vetture sugli ovali. Facevamo le 250 mph in scia, era piuttosto impressionante. La mia ultima gara CART fu a Fontana e non guidavamo in un Superspeedway da 6 mesi. Ricordo che facevamo un giro lento per poi cominciare a spingere ma dopo tre giri ancora non riuscivo a fare tutta la pista in pieno e pensavo: < sei una femminuccia, tieni giu!> Ho fatto in pieno le curve 3 e 4 e la velocità era tale che ho subito alzato il piede! Sono tornato ai box dicendo <Oh Dio, avevo dimenticato quanto vanno forte questo cose>, ma dopo due minuti era tutto normale”.
Mario Andretti: “Ogni anno c’era una macchina nuova ed è qualcosa che aspettavi con impazienza perché si migliorava di continuo. Da pilota per me era come essere padre ogni anno. Ok, non era sempre un bel bambino, alcuni avevano gli occhi incrociati e così via, ma in ogni caso dovevamo sviluppare la macchina e c’era sempre qualcosa di nuovo. Si provava sempre e ogni test era coperto dalla stampa, c’era sempre qualcosa di cui parlare. La serie tirava parecchio ai tempi.”
Bobby Rahal: “Quella decade fu sicuramente il momento più alto per la CART, ma le fondamenta furono costruite negli anni ’80. Quando arrivai, nell’82, le cose non erano molto diverse dal campionato USAC degli anni ’70: c’erano una o due squadre che dominavano, non c’erano tante gare e Indy dominava tutto. Ma già nel ’92 all’improvviso parecchie squadre potevano vincere gare o il titolo, c’era spazio per un team appena formato come il TrueSports. Tra il 1986 e il 1992 abbiamo vinto tre titoli e un sacco di gare, quindi era una delle squadre dominanti suppongo. Dall’inizio degli anni ’90 e fino al 2000 la serie continuò a crescere. C’era un sacco di pubblico, gli ascolti tv erano buoni, c’erano molti sponsor, tre motoristi in lotta, due produttori di gomme, era popolare. A Laguna Seca ci volevano due ore e mezza per arrivare in pista da quanta gente c’era. Erano bei tempi e a ripensarci è triste come tutto sia andato in malora a causa della scissione. Sugli ovali facevamo le 235, 238 mph e non c’erano grossi pacchetti di macchine. Si viaggiava in gruppetti, ci si superava, non si trattava di andare in giro fianco a fianco tutto il tempo. C’era la Toyota, c’era la Honda, la Firestone, un sacco di squadre arrivarono in quel periodo. Era davvero il campionato in cui essere.”
Bruno Junqueira: “Ho avuto la grande opportunità di correre per Ganassi quando il mio sogno di arrivare in F1 non è andato a buon fine. C’erano squadre con grosse risorse, diversi costruttori e tanti buoni piloti. Era molto difficile e dovevo imparare in fretta. non avevo esperienza con la macchina, le piste, la cultura…e le macchine erano veloci! Nella mia prima corsa su un ovale, a Nazareth, ho fatto la pole e poi quell’anno ho vinto la mia prima gara a Road America. Ancora prima di correrci, guardavo le gare su Eurosport quando vivevo in Inghilterra e correvo in F.3000. La adoravo, era molto più interessante della F1 a quei tempi”.
Helio Castroneves: ”Ogni volta che ti sedevi su quella macchina era un po’ uno spavento. Anche in rettilineo, quando andavi sul gas c’era TANTA potenza. Andavamo verso i 1000 cv. Le macchine erano incredibili. Ricordo una volta a Sebring in cui avevo paura anche solo a toccare l’acceleratore. A volte tendi ad abituarti alle macchine, ma non si faceva mai l’abitudine con quelle, soprattutto sugli ovali. Quando realizzavi che la gara successiva sarebbe stata Milwaukee o Nazareth dicevi sempre < oh cavolo >, si aveva davvero paura a premere sull’acceleratore. Una volta chiesi a Christian Fittipaldi <ma è così anche in Formula 1?>, mi disse <In F.1 sembra molto veloce all’inizio ma poi ti abitui, questa sembra sempre troppo veloce!>. Fu un sollievo, non ero il solo a pensarla così! Non era solo la potenza, era che lei spingeva sempre. E il rumore era assolutamente fantastico, volevi accelerare solo per poterlo ascoltare. Feci diverse belle gare in quel periodo ma la migliore fu quella con Penske a Laguna nel 2000. Avevamo una sospensione particolare per i trasferimenti di carico, era fantastica. Io e Gil avevamo un vantaggio enorme rispetto agli altri. A ogni curva, l’avantreno era stabile. Fu il vantaggio più grande che riuscimmo mai a ottenere”.
Christian Fittipaldi: ”Tutti i piloti erano felici e non lo sapevano! Era fantastico. Andavamo in bei posti, belle piste, provavamo sempre ma ci lamentavamo lo stesso! No scherzo, ma credo che la parte migliore, di gran lunga, fossero le macchine, perché in certe occasioni quelle cose avevano più di 1000 cavalli e con tutto quel carico davano una sensazione incredibile dentro l’abitacolo”.
Kenny Brack: “Ho guidato molte macchine differenti negli anni ma penso che la più fantastica fosse la Lola-Ford/Cosworth del team di Bobby Rahal nel 2001. La Lola era un gran telaio e noi eravamo il team ufficiale Ford. Abbiamo lavorato strettamente con la Cosworth per sviluppare il motore e alla fine avevamo circa 1000 cavalli. Non c’erano aiuti di guida, nessun ABS o traction control, niente. Erano macchine serie in termini di potenza ed eccitazione quando le guidavi. Negli anni precedenti c’era anche la guerra degli pneumatici, quindi si provava di continuo. Ognuno sviluppava la propria macchina, i motori, le gomme. Penso sia stato l’ultima ventata di aria fresca in IndyCar. Per me quella è stata una buona era nel motorsports. Le macchine potevano essere potenti e lo sviluppo era continuo. Erano bei tempi ma poi tutto è divenuto più regolamentato. Il muletto è stato vietato, le regole sono diventate più restrittive fino ad arrivare alla situazione attuale, in cui tutti guidano la stessa macchina. Ho guidato anche la Williams FW15 di Formula 1 nel 1993. Quella è stata la macchina più tecnologicamente avanzata mai costruita, ma non ci ho mai corso, l’ho solo provata al Paul Ricard. Aveva un V10 Renault e ovviamente era a sua volta molto potente, ma gli preferisco la ChampCar perchè era una bestia più brutale”.
Max Papis: “Le macchine più esigenti che ho guidato sono sicuramente le ChampCars. La #7 Miller Lite che ho guidato per anni è stata sicuramente quella che mi ha dato più soddisfazione perchè per essere un campione dovevi essere un pilota completo. Passavi dal guidare su un ovale corto come Nazareth a Long Beach la settimana dopo, e poi Michigan, Toronto, Laguna Seca. Il livello di competizione e dei partecipanti era sbalorditivo”.
Gil De Ferran: “C’era così tanta potenza e gli ultimi anni, 2000 e 2001, le macchine e i motori erano davvero sviluppati, era una gran macchina da guidare. Non importava quante volte l’avevi guidata, ogni volta che ti ci sedevi era un <ok, preparati>. Erano impegnative da portare al limite, da guidare ad alto livello in ogni condizione. Nei cittadini spesso era molto difficile schiacciare a fondo tra due curve. Controllavi il pattinamento per tutto il tempo. Ci voleva coraggio, soprattutto su certe piste, c’erano tecniche speciali. Non c’era una diversità accentuata come in F1, ma tutti avevano piccole differenze. Erano macchine ben fatte, soprattutto quando sono andato alla Penske, dove ci mettevano molto impegno, anche se non progettavano più le loro macchine ci mettevano molto del loro, ed erano bellissime. Mi piacevano le differenze nelle vetture, nelle gomme, nei motori e la relativa libertà per fare cose diverse”.
Adrian Fernandez: “Erano macchine assolutamente fantastiche. Erano difficili e dure fisicamente. Non avevamo nessuno degli aiuti odierni come cambio al volante, idroguida o roba del genere. A quei tempi avevamo quasi 1000 cavalli. Erano sovralimentate senza controllo di trazione o altro. Quindi quelle macchine mi hanno dato la più forte sensazione di velocità provata in vita mia. Le velocità che facevamo su alcuni ovali o in certi rettilinei erano incredibili e le macchine assolutamente bellissime. È un periodo che mi manca tanto, la competizione era altissima con piloti fantastici e leggendari. Sono stato così fortunato da poter correre contro Mario Andretti, Emerson Fittipaldi, Bobby Rahal, Alex Zanardi e Juan Pablo Montoya per citarne qualcuno. Era davvero uno di quei periodi in cui le corse erano al massimo da ogni punto di vista: sponsor, squadre quello che vuoi. Una vera epoca d’oro, un periodo che mi manca tanto”.
Dario Franchitti: “Quando ero un pilota Mercedes in DTM guardavamo spesso le corse Indycar perché Greg Moore era un pilota Mercedes. Poi Jan Magnussen fece alcune gare nel ’96 e tornò dicendo: <se mai avrai l’occasione di andare, vai. Le macchine sono fantastiche, molto divertenti>. E così che tutto iniziò per me. Le prestazioni delle macchine sono la cosa che più mi è rimasta impressa. Ricordo di averle viste la prima volta su un ovale, Gil De Ferran stava girando, mi passò davanti e pensai <non è poi così veloce>, ma stava frenando! Il giro dopo è passato a tutta e non ci potevo credere, la velocità era terrificante. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è come quelle macchine non smettessero MAI di accelerare. Erano difficili da guidare. Se ondeggiava una volta e non l’avevi corretta, eri nel muro. Dal punto di vista del pilota non c’era nulla come tirare il collo a una di quelle macchine con le gomme morbide in un cittadino, o in un giro di qualifica a Mid Ohio. Ricordo un test di gomme a Portland per la Firestone e ad oggi non ho più sperimentato velocità e aderenza come quel giorno. Andammo in Texas e le macchine erano troppo veloci. Nei test avevamo calcolato male la lunghezza della pista, non ci eravamo accorti di quanto andavamo forte, stavamo facendo le 237 mph di media! Per forza che ci sentivamo male! Erano fuori di testa. Mettere insieme un giro su un cittadino, un ovale corto, ognuna di quelle piste, era una sfida. Erano fantastiche ed erano bei tempi. Ci sono stati dei periodi d’oro per l’IndyCar e la metà degli anni ’90 era uno di questi. Dovevo dimenticarmi che stavo combattendo con gente come Andretti, Zanardi, Vasser, Al Jr. Ci volle un po’ ad abituarsi. Penso che non ci si accorse subito degli effetti della scissione fino all’inizio degli anni 2000. Penso ci volle così tanto, ma quello strappò proprio il cuore al tutto…e solo ora si sta cominciando a ricostruire”.
Michael Andretti: “La prima cosa che mi viene in mente sono i primi anni ’90, quando tutto era perfetto con la squadra. Nel ’90 stavamo ancora costruendo, nel ’91 ne abbiamo raccolto i frutti, nel ’92 dominavamo ma la macchina non era affidabile. Sarebbe stato bello avere la macchina del ’93, penso che avremmo potuto vincere tutte le gare ed è stato frustrante mancare quella stagione da un punto di vista “IndyCar”. È stato bello tornare nel ’94 quando Chip mi ha dato l’occasione, vincere la prima corsa dopo il mio ritorno, battendo Nigel. Fondamentalmente ero il migliore della mia categoria, ma le Penske avevano un vantaggio enorme. Le macchine erano fantastiche. C’era sempre qualcosa di nuovo, non era un monomarca. Erano tempi in cui era divertente sia guidare che essere un ingegnere, perché potevi essere creativo. Potevi chiedere cose che volevi e loro potevano costruirle e farle funzionare. Quando ci ripenso dico a me stesso <wow, era davvero caro per i proprietari>. Di certo non era una serie a buon mercato. Rimasi con la gomma sbagliata per 5 anni e penso di aver perso un sacco di gare che avrei dovuto vincere. La Goodyear era davvero indietro. Era deludente essere dalla parte sbagliata, quindi dal punto di vista del pilota, tutta quella libertà non era una buona cosa, perché se avevi il materiale sbagliato, non potevi fare risultati. Era divertente quando invece avevi il pacchetto giusto. Poi arrivò la scissione, fu così frustrante essere preso in mezzo a tutta quella politica. Ho perso l’occasione di provare a vincere Indy per 5 anni. E’ stato molto triste per il campionato. Non penso che quel pacchetto tecnico funzionerebbe oggi, sarebbe troppo costoso. Detto questo, se avessi corso oggi probabilmente avrei vinto il doppio delle gare. Le macchine non erano affidabili, si rompevano spesso, ora non si rompono mai. Pensare a quante volte ero in testa ed è successo qualcosa!”.
Alex Zanardi: “Quando hai un esperienza fantastica e ne parli bene, potrebbe sembrare che lo fai solo perché hai avuto molto successo, ma credo sinceramente che quelle che avevamo nella CART fossero le più belle auto che uno potrebbe mai aver il privilegio di guidare. Erano molto potenti, attaccate a terra grazie a quelle grandi, fantastiche gomme morbide. Avevano un buon carico. Erano le macchine più belle che abbia mai guidato, F1 compresa. Ero contento come “un maiale nella merda” dentro quelle cose, perché sembravano fatte su misura per me. Sono stati certamente tre anni fantastici. I miei ricordi più belli sono legati all’incredibile relazione col mio compagno Jimmy, ma pensando più egoisticamente il piacere più grande l’ho tratto da quelle occasioni in cui riuscii a vincere contro ogni ostacolo; gare in cui sono sicuro che molti altri piloti al mio posto avrebbero parcheggiato la macchina a metà gara, mentre io sono riuscito a tirarne sempre fuori qualcosa alla fine. In quegli anni ho vinto alcune delle gare più memorabili che un pilota potrebbe sperare di vincere nella sua vita”.
Foto di copertina: champcar.com; Peter Burke