Nonostante la pace forzata successiva all’introduzione, nel 1983, della Indy500 nel calendario CART, il rapporto tra l’Indianapolis Motor Speedway (IMS) e l’associazione delle squadre è sempre stato più di reciproca sopportazione che di alleanza. Le cose precipitano rapidamente quando a presidente dello Speedway viene eletto nel 1990 Tony George, nipote del grande Tony Hulman e unico figlio maschio della prole di Mary Hulman George, figlia dello storico presidente. Fin dalla sua salita al potere, Tony George punta ad incrementare il peso dello Speedway nelle decisioni della CART, cercando ovviamente di salvaguardare gli interessi della Indy 500.
Nonostante la massiccia affluenza di pubblico e gli ottimi ascolti, la forte apertura a stradali e cittadini vissuta negli anni ’80 porta infatti al pensionamento un’intera generazione di leggende dello Speedway, che non potendo più ottenere contratti a lunga scadenza sono obbligati a partecipare alla Indy 500 con piccole squadre, senza quindi grosse possibilità di fare risultati. La tendenza si aggrava ulteriormente all’inizio degli anni ’90, quando la Ilmor decide di fornire i suoi motori esclusivamente in leasing, scottata dall’affaire Patrick-Alfa Romeo, che a fine ’89 vede la squadra americana prima annunciare il ritiro e poi siglare un accordo con la casa del Biscione, che in omaggio riceve un motore Ilmor-Chevy da ispezionare. Questo tipo di fornitura, adottata in breve da tutti, comporta una programmazione a lungo termine delle unità da produrre e assistere, rendendo difficile la vita di chi organizza una puntata last minute a Indianapolis. Clamorosa è a questo proposito l’esperienza di Al Unser Sr. nel 1991, impossibilitato a partecipare perché la Ilmor, accusata dall’IMS di voler lasciare a piedi una leggenda di Indy, non ha abbastanza motori a disposizione per equipaggiare anche il quattro volte vincitore.
Parallelamente, la mancanza di esperienza sugli stradali e i crescenti costi delle sofisticate vetture CART, rendono sempre più difficile la scalata verso Indy dei giovani americani provenienti da Midgets e Sprint cars, il che significa per lo Speedway una grave perdita in termini di pubblico: sia quello locale già legato ai piloti, sia quello che potrebbe scaturire da una loro affermazione. Esempio lampante di questa condizione è un certo Jeff Gordon, che dopo aver visto preclusa ogni possibilità nel mondo delle ruote scoperte trova la sua dimensione in Nascar, aprendo una strada che molti altri seguiranno negli anni a venire. Preoccupato per una situazione che vede sempre più la sua corsa in balìa dei “baroni” della CART, George, sostenuto tra l’altro da alcune delle squadre più in difficoltà, si muove su più fronti per costringere la serie a rivedere la sua politica, sia sul fronte tecnico che finanziario. Per sbloccare una situazione che vede la Ilmor padrone del mercato motoristico, propone l’adozione di unità aspirate da 3.5 litri, simili a quelle usate in F.1, ritenute tecnologicamente più interessanti e quindi in grado di attirare nuove case. Propone poi una diversa composizione del consiglio direttivo della CART, che dovrebbe comprendere alcuni proprietari, il presidente dell’USAC Tom Binford, un rappresentante dello sponsor PPG e lo stesso George. Dopo 15 anni di “indipendenza”, i proprietari non sono però minimamente intenzionati a lasciare il loro campionato in mano allo Speedway. George alla fine ottiene un nuovo consiglio di amministrazione, composto da 5 proprietari, di cui è consigliere senza diritto di voto. Dopo un anno però, ritenendo inascoltate le sue pressioni per una netta riduzione dei costi che assottigli la disparità tra piccole e grandi squadre e garantisca un ampio parco partenti per la 500 miglia, George lascia il consiglio della CART, che forte del proprio successo va avanti per la sua strada.
La spaccatura definitiva avviene a fine ’93, quando le squadre eleggono come nuovo CEO della serie Andrew Craig, snobbando la candidatura di Cary Agajanian, proposto da George. Nel marzo del ’94, mentre i team CART sono in viaggio verso Surfers Paradise, sede del primo appuntamento della stagione, l’IMS rilascia un comunicato in cui si annuncia la creazione, a partire dal 1996, di un campionato per vetture di tipologia IndyCar, sanzionato dall’USAC e di stampo puramente americano, con un calendario di soli ovali comprendente la Indianapolis 500. La nuova serie si ispira non troppo velatamente alla Nascar, che negli anni ’90 conosce un’espansione enorme, con i promotori che giocano sull’esaltazione dell’americanità, sottolineando come da loro corrano solo piloti di cui l’americano medio può pronunciare il nome. Nonostante l’iniziativa bellicosa, inizialmente George intende solo spaventare la CART e smuovere una situazione ai suoi occhi immobile e inaccettabile, ma quando le squadre si dicono sdegnate ma non preoccupate all’idea di un nuovo campionato, la serie alternativa diventa una possibilità sempre più concreta.
Qualche mese più tardi intanto George si prende la sua “rivincita” sulla Ilmor, convincendo l’USAC a ridurre sensibilmente la pressione del turbo per i motori ad aste e bilancieri non di serie, mandando su tutte le furie Mario Ilien e Paul Morgan, che già avevano cominciato la costruzione di numerose unità del motore che aveva dominato la 500 miglia ‘94, reso ora inefficace dal nuovo regolamento. In piena estate intanto si tiene la prima edizione della Brickyard 400, con le stock car che vìolano il terreno sacro di Indy e le casse dell’IMS che si riempiono, cosa che dà un impulso decisivo alla creazione della nuova serie.
Primi segni di rottura
Il dispetto regolamentare dell’USAC verso la Ilmor
All’inizio del 1996 la IRL è pronta a partire, organizzando la corsa inaugurale a fine gennaio in un particolare ovale corto costruito a Orlando, nei pressi di Disneyworld. In pista si vedono veri e propri pezzi da museo. In 26 si presentano nelle prove libere, dove qualcuno ha il coraggio di riesumare addirittura delle Lola del 1992. Gli altri corrono con Reynard e Lola 94/95 ottenute dalle squadre CART. Il parco partenti, com’è facile aspettarsi, è fortemente disomogeneo. A veterani come Luyendyk, Guerrero e Cheever si affiancano giovani già visti nella CART come Lazier, Sharp ed Hamilton ma più in alto di tutti si erge il salvatore della patria, il prodigio che senza la nuova serie mai avrebbe corso a Indianapolis, Tony Stewart, giovanissimo ma già leggenda dei Midgets. La vittoria nella prima corsa va però al semi sconosciuto Buzz Calkins, proprio davanti a Stewart, con i più immediati inseguitori, Buhl e l’inossidabile Alboreto, staccati di due giri. L’appuntamento successivo a Phoenix vede invece trionfare Luyendyk davanti a Sharp e Mike Groff, mentre Buddy Lazier subisce un serio infortunio alla schiena.
A Indianapolis la prima fila è dominata dal team Menard, con Scott Brayton a precedere il rookie Stewart, anche se il più veloce è Luyendyk, che perde la prima fila per un’irregolarità tecnica ma riesce comunque a qualificarsi viaggiando oltre le 237 mph di media, segnando il record della pista, sia su un giro che su quattro tornate. In realtà l’olandese nelle libere si spinge fino alle 239 mph, velocità permesse dal nuovo manto stradale e da un limite sul turbo più alto di quanto concesso dalla CART a Michigan, nel tentativo di rendere quella del ’96 l’edizione della 500 miglia più veloce della storia. Un mese di maggio per certi versi surreale si tinge poi di nero nella seconda settimana di prove, quando Brayton finisce contro il muro della curva 2 a causa di un cedimento meccanico. L’incidente, all’apparenza meno violento di altri occorsi allo Speedway, costa incredibilmente la vita al simpatico pilota dell’Indiana.
La corsa, dopo aver visto vari protagonisti tra cui Stewart e Luyendyk uscire di scena tra guasti ed errori, si decide negli ultimi giri, quando l’outsider Alessandro Zampedri, alla guida di una Lola-Ford ’94 del team Scandia, prende il comando per una ventina di tornate. I sogni dell’italiano sfumano però a dieci giri dal termine, quando il cedimento di un ammortizzatore posteriore lo costringe a cedere il passo al redivivo Lazier, che all’ultima ripartenza controlla Davy Jones centrando un fantastico successo, considerando le sue difficili condizioni dopo l’incidente di Phoenix. Purtroppo all’ultima curva si verifica anche un catastrofico incidente in cui Zampedri, dopo un contatto con Guerrero, finisce contro le reti, riportando un bruttissimo infortunio al piede sinistro che lo terrà fermo fino alla stagione successiva. O meglio all’anno successivo, perchè la prima stagione IRL finisce proprio a Indianapolis, con USAC e IMS che pensano a un calendario simile a quello degli altri sport USA, cioè a cavallo di due anni solari, con la Indy 500 a chiudere ogni stagione. Buzz Calkins e Scott Sharp chiudono quindi il campionato ’96 a pari punti e nonostante il secondo non abbia al suo attivo nessuna vittoria, il titolo è assegnato ex aequo.
Il format si rivela subito troppo complesso, costringendo gli organizzatori a una marcia indietro: la seconda stagione vede un calendario di 10 appuntamenti, due nel ’96 e gli altri nel ’97, chudendosi in novembre a Las Vegas, mentre la terza stagione si disputa interamente nel 1998. Dopo le prove di Loudon e Las Vegas, la prima corsa ’97 a Orlando vede il debutto dei nuovi pacchetti tecnici voluti da Tony George, che prevedono motori atmosferici di 4 litri derivati dalla serie, montati su telai Dallara o G-Force. Curioso che, in una serie di stampo totalmente americano, al bando per la costruzione dei telai partecipino un’azienda italiana e una inglese, per di più senza esperienza nelle corse su ovali, mentre i motoristi sono Oldsmobile e Nissan. Al fine di contenere i costi il regolamento di motori e telai, oltre ad assegnare un prezzo massimo per ogni componente, rimane bloccato per tre anni.
La corsa di Phoenix è un po’ la sublimazione del sogno di Tony George, con il meccanico Jim Guthrie che alla guida di una Dallara autogestita trionfa su Tony Stewart e il super team Menard. A Indianapolis la corsa vede un duello in prima fila tra Luyendyk e Stewart, con un grande Vincenzo Sospiri come terzo incomodo. L’italiano è però presto messo fuori gioco da problemi tecnici mentre il giovane americano tocca il muro nel finale. Luyendyk riesce invece a riprendere il comando a sei giri dal termine sul compagno Scott Goodyear, andando a vincere non senza apprensione, quando un errore della direzione gara porta a una ripartenza non annunciata all’ultimo giro. Due settimane dopo in Texas l’USAC concede il bis, dichiarando vincitore Billy Boat per un errore di cronometraggio, quando a vincere in pista è in realtà ancora Luyendyk, che prima di vedersi riconoscere il successo si prende qualche schiaffone da AJ Foyt, inferocitosi nel momento in cui l’olandese va a protestare in victory lane offuscando la presunta vittoria della squadra texana. Questa serie di errori dilettanteschi decreta la separazione tra USAC e IRL, che diventa sanctioning body di se stessa.
Le prime corse del ’97 permettono anche un primo, impietoso confronto con le vetture CART: in un solo anno la pole position a Indianapolis “rallenta” di oltre 15 mph, che su 4 giri equivalgono a oltre 10” di distacco. Discorso analogo vale per il parco partenti che, a parte i soliti noti, vede al via numerosi piloti non all’altezza del compito, facendo suonare un primo campanello d’allarme per Tony George, che inizia a capire come gli ovali sterrati non siano più la giusta palestra per Indianapolis e le vetture a ruote scoperte di alto livello. Nel resto della stagione Tony Stewart (G.Force-Oldsmobile) mena le danze un po’ dappertutto ma vince una sola volta, con qualche errore e vari guasti che tengono la corsa per il titolo aperta fino a Las Vegas, dove il pilota dell’Indiana ha comunque ragione di Davey Hamilton, anche se per soli 6 punti.
Nel 1998 la serie incassa il supporto della catena di ricambi per auto Pep Boys, che diviene il primo title sponsor del campionato fino al ’99. La nuova stagione vede l’ingresso in punta di piedi del telaio Riley&Scott, ma a prevalere è la Dallara, che dopo un ‘97 difficile vince a Indy con Eddie Cheever e conquista il campionato con Kenny Brack e il team Foyt. Lo svedese, al debutto l’anno prima col team Galles, passato dalla CART all’IRL, sfrutta al meglio l’ottimo lavoro del team di SuperTex, prendendo lo slancio decisivo nella parte terminale della stagione, in cui infila tre vittorie consecutive che gli permettono di costruire un buon margine su Hamilton e Stewart. Per Cheever un trionfo a Indianapolis da libro Cuore, con una partecipazione permessa all’ultimo da un sponsor di patatine, che l’americano di Roma vende personalmente nel paddock e oltre. In gara, dopo un contrattempo iniziale, l’ex pilota Renault comanda a lungo, rintuzzando nel finale gli attacchi di Buddy Lazier con una guida spregiudicata e spettacolare, facendo il pelo al muro a ogni curva.
Il confuso finale della Indy500 1997 con bandiera verde “a sorpresa”
Documentario autoprodotto dalla IRL sui primi due anni della serie.
Nel 1999 è il giovane emergente Greg Ray a trionfare in campionato, conquistando tre successi e riportando al vertice il team Menard. Per Kenny Brack arriva la piazza d’onore, ma è un bell’accontentarsi dopo quanto successo a maggio, quando lo svedese conquista la 500 miglia di Indianapolis, raccogliendo il comando all’ultimo giro dalle mani di Robby Gordon, fermo senza metanolo. Più che per la gara in sé, Indianapolis fa però notizia a livello planetario quando Tony George nega il pass stampa al giornalista di Sports Illustrated Ed Hinton, reo di aver polemizzato sulla sicurezza nella corsa precedente di Charlotte, dove un incidente multiplo causa l’uccisione di tre spettatori, colpiti da alcuni detriti. Sommerso da una marea di proteste, George è presto costretto a cedere per contenere il danno d’immagine. Una seconda batosta viene dal figlio prediletto Tony Stewart, che decide di abbandonare la IRL per trasferirsi stabilmente in Nascar, partecipando alla sola 500 miglia. Il 1999 è invece un altro anno trionfale per la Dallara e il motore Oldsmobile. La casa italiana, che nel tempo si adatta alle particolari caratteristiche delle vetture da ovale, riuscendo a rendere vincente un telaio che nel ’97 era stato presto accantonato da molti, inizia una lenta conquista del mercato, potendo ormai contare su top team come Menard, Hemelgarn, Kelley e Panther.
Il 2000 apre un nuovo triennio tecnico, anche se il nome di chi produce telai e motori non cambia. Cresce però la competizione e se la Dallara si dimostra ancora la vettura più solida, con Buddy Lazier che vince il campionato all’ultima gara su Scott Goodyear ed Eddie Cheever, a Indianapolis è la G.Force a trionfare, grazie al team Ganassi e a Juan Pablo Montoya. La compagine Target, che dopo la scissione si afferma come il team di riferimento nel campionato CART, decide infatti di rompere il muro che separa le due serie, tornando in quello che rimane il palcoscenico più prestigioso, seppur privato dei migliori protagonisti. Il fatto segna apparentemente un piccolo disgelo tra le due organizzazioni, protagoniste negli anni precedenti di una lotta senza quartiere passata dalle stanze del potere alla stampa, dalle tribune fino al…tribunale. La scissione porta infatti a galla il doppio spirito degli appassionati americani, tra chi vorrebbe un campionato con i migliori piloti (indipendentemente dalla nazionalità) e le macchine più avanzate, contrapposti a chi mette in primo piano lo spirito nazionalistico e vuol vedere in pista piloti americani correre nel loro ambiente prediletto, gli ovali.
Questa contrapposizione costringe anche molti personaggi illustri delle corse americane a schierarsi, e se dall’alto della loro caratura internazionale leggende come Mario Andretti e Dan Gurney sostengono senza indugio la CART, altri assi di Indy come AJ Foyt e Johnny Rutherford sposano invece la causa di Tony George. Tra questi ultimi anche Leo Mehl, rispettato capo della sezione sportiva della Goodyear che, una volta accettata la carica di top manager della IRL, assume un atteggiamento estremista, tanto da essere noto tra i team CART come “l’uomo una volta conosciuto come Leo Mehl”. Tra le forti prese di posizione dell’ex capo Goodyear, la sicurezza nella disfatta per i team CART che tentassero di sfidare le squadre IRL con il loro materiale, riecheggia nell’aria a Indy 2000, non tardando a rivelarsi infondata nel momento in cui il team Ganassi si dimostra subito velocissimo, nonostante si divida tra Indy e le varie prove concomitanti del campionato CART. Le tante intimidazioni verbali lanciate poi dai veterani di Indy non scalfiscono Montoya, che domina la corsa indisturbato dopo l’uscita di scena di Greg Ray, a muro mentre lotta col colombiano. Tra i vari piloti infastiditi dalle dichiarazioni del campione CART, che battezza Indianapolis come una pista facile, anche Al Unser Jr., che dopo anni di magra nel team Penske passa in IRL col team Galles, tornando competitivo e regalando maggiore popolarità alla serie.
Finale Indy500 1999
Anche nel 2001 prosegue il dominio di Dallara e Oldsmobile, questa volta ad opera del giovanissimo Sam Hornish Jr., che mette a segno due vittorie nelle prove d’apertura a Miami e Phoenix, cui si somma il successo finale in Texas. Vittorie a parte è però la grande costanza a consegnare il titolo al giovane americano con due gare d’anticipo, mentre Buddy Lazier si deve accontentare del secondo posto nonostante quattro successi parziali. Indianapolis segna invece un altro trionfo della CART. La corsa, svolta in condizioni meteo difficili, vede il ritiro immediato del pole sitter Scott Sharp, a muro in curva 1, mentre il compagno Mark Dismore, tra i più veloci, è frenato da problemi tecnici. Anche Greg Ray finisce a sua volta nelle barriere per il secondo anno di fila, così come Hornish. Dopo varie interruzioni per pioggia la gara diventa una sfilata dei team CART, con Castroneves e De Ferran a centrare una doppietta per il team Penske che va in parte a lavare l’onta della mancata qualificazione del 1995. Dietro di loro Michael Andretti a precedere tre vetture del team Ganassi guidate da Vasser, Junqueira e Tony Stewart. Il primo pilota IRL, Eliseo Salazar, chiude settimo a un giro.
Dopo due anni da Indy Racing Northern Light Series, in onore del motore di ricerca title sponsor dal ’99, nel 2002 la serie torna alla donominazione originale, prendendosi una clamorosa rivincita politica sui rivali quando Roger Penske, inizialmente tra i più fermi oppositori di Tony George, decide di spostare la sua operazione in IRL. Il campionato è quindi dominato dalle Dallara Chevrolet (che rileva il marchio Oldsmobile) di Penske e Panther, con De Ferran e Castroneves a sfidare Hornish, anche se non mancano numerosi inserimenti di vari outsider, tra cui il rookie of the year 2001 Felipe Giaffone, alla guida di una G.Force-Chevy del team Nunn, impegnato come Ganassi sia in CART che IRL. La Penske la fa da padrona sugli ovali corti, mentre Hornish e il team Panther prevalgono sugli ovali più veloci. Al termine di un lungo botta e risposta il campionato si decide nelle ultime due prove, con De Ferran che abbandona la compagnia dopo un brutto incidente a Chicago e Hornish che vince sia in Illinois che in Texas, avendo la meglio su Castroneves all’ultima corsa al termine di un epico duello ruota a ruota.
A Indianapolis va invece in scena l’ennesimo scontro con la CART, che domina inizialmente la corsa con Tony Kanaan, fino a quando una macchia d’olio non spedisce il brasiliano contro il muro. Un errore estromette dalla lotta anche il rookie Scheckter, in testa fino a 30 giri dal termine, lasciando campo libero a Castroneves, che evita l’ultima sosta e va in fuga nella speranza di un nuovo intervento della pace car. La neutralizzazione alla fine arriva, ma proprio nel momento in cui il brasiliano è affiancato da Tracy in curva 3 a due giri dal termine. La vittoria è assegnata al pilota Penske, ma il canadese giura che le luci verdi erano ancora accese al momento del sorpasso, senza che le immagini televisive possano smentirlo. La querelle va avanti per settimane tra appelli e contro appelli, fino a quando Castroneves è dichiarato vincitore, nel sospetto generale che l’IRL abbia manipolato il verdetto per evitare l’ennesima sconfitta in casa.
Controverso finale di Indy 2002
Sintesi della corsa di Chicago 2002
Highlights dell’ultima prova 2002 in Texas
Il 2003 segna l’introduzione di un nuovo pacchetto tecnico, sempre caratterizzato da motori V8 aspirati da 3.5 litri, oltre all’ingresso di Honda e Toyota, in arrivo dalla CART, insieme a squadre come Andretti/Green, Rahal e il definitivo trasferimento di Nunn e Ganassi, mentre la Nissan abbandona la compagnia. In base a quanto stabilito dal tribunale nel 1997, la serie può finalmente assumere il nome di IndyCar Series, anche se negli anni a seguire verrà sempre usata la doppia intestazione IRL/IndyCar. Le griglie piene del 2002 e i nuovi arrivi sembrerebbero rappresentare la definitiva vittoria sulla CART, ma il 2003 in realtà segna l’inizio della fine per il sogno di Tony George di una serie a buon mercato dove chiunque armato di un officina e un po’ di soldi può presentarsi a Indianapolis e ben figurare.
L’ingresso delle potenti squadre CART (da anni associate ai costruttori giapponesi) e dei loro piloti per buona parte di estrazione europea, innalza istantaneamente il livello della competizione, introducendo nuovi limiti di professionalità e soprattutto mezzi economici che, nonostante regolamenti molto restrittivi relativamente allo sviluppo, lasciano poco scampo alle tanti compagini che fino a quel momento avevano animato la serie. Il 2003 vede infatti il dominio di tre squadre: il team Ganassi con il giovane Scott Dixon e la sua Panoz/G.Force-Toyota; il solito team Penske con la Dallara-Toyota e il team Andretti-Green, che schiera tre Dallara-Honda. I costruttori giapponesi sbaragliano la concorrenza della Chevrolet e l’unico pilota IRL in grado di reggere l’impatto è Sam Hornish, che dopo aver tribolato per metà stagione con un propulsore Chevy depotenziato, torna in auge nel momento in cui la casa americana corre ai ripari, infilando tre vittorie nella parte conclusiva della stagione e rientrando in una corsa al titolo che all’ultimo appuntamento in Texas coinvolge 5 piloti e 4 squadre.
Dopo 150 giri di lotta senza quartiere però, in Texas Hornish rompe il motore, Kanaan e Castroneves sono costretti a varie soste dopo essersi scambiati una ruotata e a Scott Dixon basta un secondo posto dietro Gil De Ferran per laurearsi campione, non sotto la bandiera a scacchi ma in seguito alla sospensione della corsa, causata da un terribile incidente che nelle ultime battute vede la Dallara di Brack decollare sulla Panoz di Scheckter e distruggersi contro le reti, con lo svedese che pur riportando numerose fratture alle gambe, al bacino e alle costole, riesce a cavarsela. Il campanello d’allarme suonato in Texas precede purtroppo l’incidente mortale di Tony Renna, alla prima uscita con il team Ganassi, che perde la vita in un test post campionato a Indianapolis, dopo essere finito nelle reti al termine di una carambola innescata forse da una foratura.
Per una serie nata con un occhio particolare alla sicurezza, questi incidenti proseguono una lunga serie che nel tempo ha visto Sam Schmidt andare incontro alla tetraplegia dopo un violento scontro con il muro a Orlando e Davey Hamilton interrompere la propria carriera dopo un incidente in Texas simile, nella dinamica e nelle conseguenze, a quello occorso ad Alessandro Zampedri nel 1996. D’altro canto non può essere taciuta l’introduzione a Indianapolis nel 2002 delle barriere SAFER, strutture di assorbimento urto poste davanti al muro in cemento, che negli anni salveranno molte vite, incontrando una diffusione universale negli ovali.
Finale a Michigan
Ultimi giri a Chicago
In risposta ai drammi e conseguenti polemiche, la IRL impone per il 2004 una riduzione della cilindrata a 3 litri che spiazza inizialmente i costruttori, con i nuovi motori pronti solo a Indianapolis. Le prime gare vengono così corse con un air box tagliato per ridurre l’afflusso d’aria al motore e se a Homestead sono Penske e Toyota a imporsi, nelle corse successive la musica cambia radicalmente. Il team Andretti Green comanda i giochi, ma è soprattutto la Honda a fare la voce grossa, dominando letteralmente le due stagioni successive. Il triennio 2003-2005 è invece il più esaltante ed equilibrato nella sfida Dallara-G.Force, con la casa inglese che viene nel frattempo acquisita dalla Panoz. Se la vettura italiana si dimostra in generale più versatile e largamente superiore negli ovali corti, il telaio anglo-americano ha invece un certo vantaggio nelle piste più veloci. La cosa risulta palmare dal computo Indy500-campionati, che vede il pareggio tra le due case nonostante il netto vantaggio di singole vittorie per il telaio costruito a Varano.
Malgrado 4 dei 5 contendenti al titolo guidino una Dallara, il titolo 2003 va come detto a Dixon su G.Force, mentre Indianapolis è ancora terreno di caccia del team Penske, che dividendosi tra i due telai vede De Ferran portare a casa la vittoria sulla vettura inglese, con Castroneves secondo in volata al volante della Dallara. Il 2004 vive come detto sul dominio delle squadre Honda, con i grandi protagonisti della stagione precedente frenati da una Toyota poco competitiva. A Indianapolis Buddy Rice, sostituto di Brack in casa Rahal, piazza in pole e poi in victory lane la sua Panoz/G.Force-Honda, battendo lo squadrone AGR e proseguendo la battaglia per il resto della stagione. Se la Panoz bissa la vittoria al Brickyard, il campionato premia però la versatilità della Dallara e del suo pilota di riferimento, Tony Kanaan, che vince tre corse come il compagno Wheldon e le G.Force-Honda di Rice e Fernandez (ultimo tranfuga della ChampCar e mattatore del finale di stagione), resistendo fino all’ultimo alla pressione dell’americano, che chiude il campionato al terzo posto a causa di alcuni guai nelle corse decisive.
Il 2005 non smuove troppo gli equilibri, con il team AGR che fa incetta di vittorie mandando in avanscoperta Dan Wheldon, sempre impeccabile, velocissimo e abile a trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Sono sei le affermazioni dell’inglese, che fa sua anche un’edizione spettacolare della Indy500 in cui esplode il fenomeno Danica Patrick, capace grazie alla strategia di guidare la corsa nelle ultime battute, dovendo però alzare bandiera bianca all’ultimo, causa consumi. La Dallara in campionato piazza 4 piloti ai primi 5 posti, ma la sfida con la Panoz è comunque a tratti esaltante, con la vettura anglo-americana che va vicinissima a una terza affermazione consecutiva al Brickyard con Meira e la stessa Patrick, dimostrandosi anche molto efficace nei circuiti stradali.
Se la competizione in pista, pur influenzata dalla superiorità Honda, rimane feroce e spettacolare, sul versante politico le cose procedono a rilento. A metà 2003 Tony George si vede infatti negata dal tribunale la possibilità di acquisire ciò che resta della morente ChampCar, che passa sotto il controllo di Kevin Kalkhoven e Gerry Forsythe. Una decisione del tribunale che, col senno di poi, si rivela controproducente per le ruote scoperte americane, che avrebbero certamente beneficiato di una fusione tra le due serie quando entrambe potevano ancora contare su un discreto seguito. Nel tentativo di stroncare definitivamente gli odiati rivali, Tony George decide allora di smentire se stesso, introducendo in calendario due stradali (Sonoma e Watkins Glen) e un cittadino (St Petersburg). Le vetture IRL con sospensioni e trasmissione adattate per la guida sugli stradali, girano per la prima volta a destra in un test a Homestead nell’estate 2004, evidenziando subito un comportamento bizzarro: pesanti, sotto potenziate, lente nei cambi di direzione ed esageratamente sottosterzanti. Nonostante l’impietoso confronto con le ChampCar, George decide di andare avanti, dando il via a un’escalation che completerà lo snaturamento totale della serie. Dopo l’arrivo dei costruttori giapponesi e dei team CART infatti, il campionato è dominato da poche squadre e piloti stranieri, fatta eccezione per Sam Hornish. L’introduzione di stradali e cittadini non fa che accelerare l’allontanamento dei piloti americani, in breve sostituiti da conduttori di estrazione europea, spesso paganti, mentre i piloti provenienti da Midgets e Sprint Cars spostano definitivamente il loro interesse verso la Nascar. Per porre un freno all’emorragia, George decide allora di acquisire la IndyLights, nel tentativo di creare una serie propedeutica a quella maggiore.
Highlights 2004
Non sono solo i piloti però a cominciare la transumanza verso la Nascar. La Toyota, dopo due anni di batoste, decide infatti di lasciare un campionato privo del necessario seguito, avviando una pesante offensiva nelle stock car, mentre la Chevrolet abbandona definitivamente come già annunciato all’inizio del 2005. Nel 2006 la serie decide così di proseguire con il regolamento tecnico 2003-2005, diventando di fatto un monomarca quando il team Rahal abbandona il telaio G.Force a metà stagione e Ganassi lo impiega solo sugli stradali. Il rilancio punta tutto sull’immagine del pilota più celebre, Danica Patrick, ma a maggio un altro barlume di speranza arriva dal 19enne Marco Andretti, beffato sul traguardo di una Indy 500 antologica da un immenso Sam Hornish, che riesce a sovvertire un’incredibile concatenazione di sfortune, vincendo la sua maledizione al Brickyard e chiudendo un vuoto di vittorie americane che durava dal 1998. Con Marco invece si inaugura un terzo capitolo della maledizione degli Andretti.
Il campionato, che si apre tragicamente a Homestead con la scomparsa nel warm up di Paul Dana, è un affare privato tra la Penske e il team Ganassi, che risorge guidato da Dan Wheldon dopo due stagioni in ombra. Il pilota inglese domina buona parte delle corse, ma il team Penske si dimostra più consistente, sfruttando gli errori dei rivali e portando i suoi piloti, Castroneves e Hornish, a otto vittorie complessive, con l’americano che conquista il titolo all’ultima corsa controllando Wheldon, secondo con gli stessi punti ma due vittorie in meno, mentre il brasiliano è terzo due punti più indietro.
Nel 2007 il passaggio di Danica Patrick al team AGR e l’attesa consacrazione di Andretti, rookie dell’anno 2006, sono i maggiori motivi di interesse. Il rendimento della giovane americana è però terribilmente incostante, con buone qualifiche e gare nelle posizioni di vertice alternate a errori imbarazzanti e prove opache. Per Andretti III è invece una stagione catastrofica, colma di incidenti e gare sotto tono. Anche la Penske perde lo smalto del 2006 e la corsa per il titolo si trasforma in breve in un affare privato tra Dario Franchitti e Scott Dixon. I due chiudono nell’ordine a Indianapolis, dove lo scozzese recupera da un contrattempo iniziale e l’effetto congiunto di pioggia e strategia gli permette di beffare le Penske e il duo Kanaan-Andretti, dominatore della corsa. Con Franchitti che allunga negli ovali successivi (nonostante due voli terrificanti a Michigan e Kentucky) e Dixon che recupera negli stradali, si arriva all’ultima corsa di Chicago, in cui lo scozzese vince gara e titolo dopo aver visto il rivale fermarsi all’ultima curva col serbatoio vuoto. L’esaltante finale di stagione viene però rovinato dal passaggio dello stesso Franchitti e Sam Hornish in Nascar, ennesimo smacco per l’IndyCar che riceve un po’ di ossigeno, in termini di esposizione mediatica, dalla vittoriosa partecipazione di Helio Castroneves a “Dancing with the Stars”.
Wheldon vs Castroneves a Homestead 2006
Ultimi giri Indy 500 2006
Ultimi giri della finale 2007
I migliori sprint IRL fino al 2007
Con la partenza degli ultimi due campioni, la stagione 2008 sembra avere poco da offrire, ma a febbraio arriva improvvisa l’unificazione tra IRL e ChampCar, sull’orlo di una nuova bancarotta dopo le coraggiose ma inefficaci iniziative di Kalkhoven. Non tutte le squadre Champ passano in IRL, nonostante il trattamento di favore garantito da George, ma il parco partenti, sceso in breve alla miseria di una ventina di unità (a fine 2002 si contavano quasi 30 auto a gara), ne riceve un sostanziale rinvigorimento. Non che l’arrivo di forze non proprio fresche vada comunque a scalfire gli equilibri di un campionato che, ancora una volta, si trasforma in una sfida tra i piloti di Ganassi e Penske. Uno Scott Dixon in stato di grazia e per una volta fortunato porta a casa sei vittorie e il titolo all’ultima corsa su Helio Castroneves, la cui straordinaria costanza non può avere la meglio sui tanti successi del neozelandese.
Per un campionato abituato tra il 2002 e il 2005 a 8/9 vincitori diversi a stagione, il monomarca Honda piuttosto che livellare i valori in campo, crea un solco invalicabile tra top team e il resto della griglia, con il team AGR che scivola lentamente da una categoria all’altra. Il 2008 segna però una momentanea inversione di tendenza con 10 vincitori diversi, tra cui Danica Patrick, che conquista il primo successo rosa in una categoria maggiore, battendo Dixon e Castroneves a Motegi in una battaglia sul filo dei consumi. Per il neozelandese in realtà il titolo è solo la ciliegina sulla torta dopo il trionfo di Indianapolis, conquistato vincendo la resistenza di un coriaceo Vitor Meira.
L’annata che sembra poter segnare il ritorno dell’IndyCar ai fasti del passato segna invece la sua scomparsa dai televisori di mezza America, quando l’emittente ABC decide di non confermare il contratto con la serie, impegnandosi nella trasmissione di poche gare scelte, tra cui ovviamente Indianapolis. Con in mano un prodotto che nessuno vuole comprare, Tony George non ha allora altra scelta che accettare un contratto decennale con la semi sconosciuta emittente satellitare Versus, già detentrice dei diritti NHL. Improvvisamente la serie scompare dai radar e negli anni successivi per le squadre la ricerca di sponsor, già molto difficile, diventa un’impresa quasi impossibile, se non fosse per la discreta esposizione ancora garantita da Indianapolis, che ora come non mai sorregge tutto il baraccone.
Il 2009 vede quindi la contrazione della griglia, che scende a poco più di 20 unità fisse, mentre si registra il ritorno col team Ganassi del figliol prodigo Franchitti, scottato dalla disastrosa esperienza in Nascar. Lo scozzese ci mette poco a recuperare gli automatismi, inserendosi subito in una lotta per il titolo che lo vede alternarsi al vertice col compagno Scott Dixon e il pilota Penske Ryan Briscoe. I tre arrivano all’ultima gara di Homestead raccolti in un fazzoletto di punti ed è proprio Franchitti, in virtù di una strategia più conservativa, a trionfare in una corsa caldissima e incredibilmente priva di bandiere gialle. Indianapolis è invece la sede del riscatto di Helio Castroneves, sotto processo nell’inverno per evasione fiscale, che dopo aver evitato una lunga detenzione torna alle corse nel secondo appuntamento di Long Beach e a Indy, con 300.000 occhi addosso, strappa la pole e coglie il terzo storico trionfo al Brickyard.
Ultimi giri di Chicago 2009
A metà 2009 intanto arriva una svolta epocale, quando il consiglio di amministrazione di Indianapolis decide di togliere a Tony George il controllo dello Speedway e del campionato, con le sorelle del fondatore IRL ormai preoccupate per il patrimonio di famiglia. Nel tempo diventa infatti chiaro come la creazione della nuova serie, il finanziamento sotto banco di molte squadre prive di sponsor, la costruzione dello stradale per la F1, le discutibili campagne mediatiche e la formazione del team Vision, usato come riempitivo negli anni più bui del campionato, abbiano intaccato pesantemente il bilancio dello Speedway, tanto che dopo 15 anni è difficile sbilanciarsi sull’enorme quantità di denaro dilapidata dall’ormai ex presidente, che decide poco più tardi di lasciare anche il suo posto nel consiglio di amministrazione. Come CEO della serie viene quindi ingaggiato Randy Bernard, manager texano che dal niente porta negli anni ’90 i rodei a show di interesse nazionale, ma che poco o nulla sa di corse automobilistiche.
Mentre Bernard, che fa capo al nuovo CEO dell’IMS Jeff Belskus, prende coscienza degli insormontabili problemi che affliggono il campionato e della vasca di squali in cui si è tuffato, in pista il 2010 vede un lungo confronto tra Dario Franchitti e l’australiano Will Power, tra i migliori piloti ChampCar, ingaggiato da Roger Penske nel 2009 e reduce da un brutto incidente a Sonoma. Power domina la prima fase della stagione, mettendo in mostra un passo inavvicinabile su stradali e cittadini, ma Franchitti tiene pazientemente contatto, mettendo poi a segno una strepitosa rimonta nelle ultime corse, che vedono l’australiano perdere punti su punti sugli ovali fino al fatale errore nell’ultimo appuntamento di Homestead, che consegna a Franchitti il terzo titolo in carriera. Per lo scozzese a maggio arriva anche la seconda affermazione a Indianapolis al termine di una corsa dominata, con un successo agevolato dal disastroso incidente che nel finale vede Mike Conway finire contro le reti e riportare seri danni, che lo costringeranno a una lunga riabilitazione. La neutralizzazione aiuta Franchitti e Wheldon, in crisi coi consumi, ad arrivare al traguardo senza eccessive preoccupazioni.
Nel 2010 si definisce anche il futuro tecnico della serie, basato su un monotelaio più leggero e sicuro, sul quale le squadre potranno costruire la propria aerodinamica, spinto da un propulsore turbocompresso V6 di 2,2 litri di cilindrata. La sfida raccoglie l’interesse di tre case: la solita Honda, Chevrolet e Lotus, mentre per produrre il telaio viene scelta ancora la Dallara, l’unica delle case coinvolte (Swift, Lola, Delta Wing, BAT) disponibile a costruire un proprio stabilimento a Indianapolis.
Il 2011, dopo una stagione di apprendistato, vede la serie rispondere ai dettami di Randy Bernard, che si impegna attivamente nella promozione del campionato. Dopo l’istituzione della commissione ICONIC per la scelta della nuova vettura e il coinvolgimento della Chevrolet, il manager texano riporta la serie in mercati come Loudon, Baltimora, Las Vegas e Pocono, promuovendo poi alcune discutibili iniziative per suscitare interesse e coinvolgere nuovo pubblico. Una di queste vede la corsa in Texas viene divisa in due gare da 166 miglia, con la griglia della seconda decisa da un sorteggio effettuato nell’intervallo. A metà stagione poi Bernard scommette sul talento dei propri piloti, offrendo 5 milioni di dollari alle star di altre categorie che riuscissero a vincere l’ultima corsa del campionato sull’ovale di Las Vegas. L’appello però cade nel vuoto, con il manager texano che cambia strategia, creando una lotteria in cui il tifoso estratto in caso di vittoria dividerebbe il montepremi con Dan Wheldon, vincitore della Indy 500.
Dopo due anni difficili con il team Panther, il 2011 vede il pilota inglese rifiutare sedili non competitivi, concentrandosi sulla sola 500 miglia, arrivata al compleanno numero 100. Nonostante i piloti del team Ganassi dettino il ritmo, la gara è aperta come non accadeva da tempo, decidendosi in un finale giocato sui consumi in cui il rookie Hildebrand, unico in grado di evitare il rabbocco finale, centra incredibilmente il muro all’ultima curva, subendo il sorpasso di Wheldon proprio sulla dirittura d’arrivo, con l’inglese che conquista un secondo, commovente successo allo Speedway.
Il campionato, che vive ancora sul confronto tra Franchitti e Power, è in realtà dominato dalle polemiche sul direttore di gara Brian Barnhart, fedelissimo di Tony George. Polemiche che esplodono nel demolition derby di Toronto, in cui la direzione gara annuncia una penalità, subito revocata, quando un contatto tra i duellanti per il titolo manda Power in testacoda. Le cose peggiorano a Loudon, con la corsa sospesa per pioggia e fatta poi riprendere in condizioni di aderenza insufficiente, provocando un prevedibile incidente a catena e il doppio dito medio di Power in diretta tv a condensare l’umore generale. Con una poderosa rimonta nelle ultime prove, l’australiano riesce comunque a portare la contesa con Franchitti all’ultima corsa, programmata sul rinnovato e velocissimo ovale di Las Vegas. Una gara vissuta dall’ambiente come una specie di ultimo giorno di scuola, essendo l’ultima apparizione della vetusta Dallara IR03.
Chiunque abbia un telaio e un motore si presenta quindi in Nevada, con una griglia che supera le 30 unità. La mattina della corsa però, l’eccitazione lascia spazio alla tensione. In gara infatti i timori dei piloti, preoccupati dall’eccessiva aderenza garantita dal banking e dal nuovo manto stradale, non tardano a rivelarsi fondati quando un contatto tra Cunningham e Hinchcliffe innesca una reazione a catena nel gruppo compatto, con i piloti delle retrovie a decollare su chi, davanti, è riuscito a rallentare. In una scena apocalittica in cui quasi tutti miracolosamente restano indenni, Dan Wheldon ha la sfortuna di impattare contro le reti con il roll bar, che viene divelto da un palo di sostegno delle protezioni. Per il pilota inglese non c’è nulla da fare. L’annuncio della scomparsa dato da un Randy Bernard in lacrime e i commoventi 5 giri di saluto dei colleghi, chiudono così tristemente la stagione e 9 anni di onorato servizio per la vecchia Dallara.
Ultimi giri della Indy 500
Highlights della gara in Kentucky
La preparazione della stagione che dovrebbe rappresentare la svolta definitiva, si apre quindi con una cappa di tristezza per i fatti di Las Vegas, con la nuova vettura, denominata DW12 in onore di Wheldon, suo primo tester, che nelle prove mette in evidenza un comportamento anomalo e imprevedibile. La monoposto, nata per essere più leggera, agile ed efficiente aerodinamicamente, nei test si dimostra un vero disastro, evidenziando un peso maggiore del previsto, una resistenza aerodinamica esagerata e un bilanciamento totalmente sbagliato, spaventando i vari piloti che si succedono nelle prove. Intense sessioni di test e il lavoro alacre della Dallara e del nuovo responsabile tecnico IndyCar Will Phillips, risolvono in parte la situazione, consegnando alle squadre per la prima prova di St Petersburg una vettura onesta, sempre sottosterzante e meno veloce delle attese, ma solida e affidabile. Se la prova della pista viene tutto sommato superata dalla nuova Dallara, che anzi riesce a produrre corse spettacolari anche sui cittadini più angusti, il pubblico manifesta subito il suo disprezzo per la vettura, dalle forme tutt’altro che accattivanti.
La stagione sportivamente parlando si rivela appassionante, con Will Power e il team Penske a dominare la prima fase, subendo poi il ritorno di Ryan Hunter Reay e del rinnovato team Andretti, in grado in estate di infilare tre vittorie consecutive. Tra vari colpi di scena, la disputa tra i due si risolve nell’ultimo appuntamento di Fontana in cui l’australiano, vittima ancora dei nervi, finisce contro il muro regalando il titolo ad Hunter Reay, primo campione americano dai tempi di Hornish. L’esaltante competizione è però offuscata per tutto l’anno dai giochi di potere che a fine stagione portano all’allontanamento di Randy Bernard, osteggiato da molti proprietari perchè incapace di risolvere la diatriba tra squadre e Dallara sul prezzo eccessivo dei ricambi della nuova vettura, non più realizzabili in proprio dai team. Sul manager texano pesa anche la responsabilità di un calendario un po’ raffazzonato, con soli 5 ovali dopo la rottura definitiva con la ISC, società della Nascar proprietaria di buona parte degli ovali del paese.
Per anni spettatrice neutrale e beneficiaria della guerra CART-IRL, la famiglia France (proprietaria della Nascar) ha in realtà sempre avuto un rapporto di favore con Tony George, specie dopo l’apertura dello Speedway alle stock car, con la IRL che negli anni ha a sua volta tentato di affermarsi, con poco successo, in feudi delle ruote coperte come Charlotte, Atlanta e Dover, svolgendo anche dei test sullo stradale di Daytona. Il canale preferenziale tra le due organizzazioni si interrompe però con l’uscita di scena di Tony George e un rapporto non facile tra ISC e Randy Bernard, che porta a una promozione pari a zero delle corse IndyCar negli ovali, con conseguenti posti vuoti in tribuna, cui segue il fallimento della nuova alleanza con l’altro colosso dei proprietari di ovali, Bruton Smith, come testimonia la corsa di Loudon, durata una sola stagione, oltre al sempre più deficitario appuntamento in Texas, una volta la corsa più ricca dopo Indianapolis.
Sopravvissuto a un tentativo di “golpe” da parte di…si, ancora lui, Tony George, che entra ed esce a piacimento dal consiglio di amministrazione accontentato dalla madre Mary, Randy Bernard viene licenziato dopo l’ultima corsa, quando le speculazioni sul futuro della serie spingono Firestone, Honda e Chevrolet a far pressione sul CEO di IMS Jeff Belskus per risolvere la situazione.
Finale della Indy 500 2012
Pochi mesi dopo l’uscita di scena di Bernard arriva l’ingaggio di Mark Miles, storico presidente ATP (associazione tennisti professionisti) che va ad affiancare Doug Boles, successore di Jeff Belskus al vertice di IMS. Si consuma poi il definitivo divorzio con la Lotus, dimostratasi totalmente incapace di rispettare gli impegni presi con l’organizzazione, sia in termini di prestazioni che di fornitura e promozione. Il 2013 prende quindi il via con due motori e il solito monotelaio Dallara, con gli aerokit, i pacchetti aerodinamici costruiti dai motoristi, fatti slittare di anno in anno dalle squadre per ridurre i costi.
La stagione va via in relativa tranquillità, senza scandali e polemiche eccessive, almeno fino alle ultime gare. Si può finalmente tornare a parlare di corse, con un campionato apertissimo condotto fino alle ultime prove dall’intramontabile Castroneves, più per demeriti altrui che per un reale dominio del brasiliano, che vince solo in Texas. La seconda parte di una stagione che vede vincere 10 piloti diversi, vive il ritorno in auge del team Ganassi, guidato da Scott Dixon, che si rimette in corsa infilando tre vittorie consecutive, prima di incappare in una serie di incidenti e polemiche che vedono il neozelandese attaccare pesantemente Beaux Barfield, direttore di corsa dal 2012 al posto di Brian Barnhart. Il pilota Ganassi riesce comunque ad avere la meglio su Castroneves e il team Penske all’ultimo appuntamento di Fontana, regalando alla Honda un titolo che pareggia i conti con il successo del 2012 di Hunter Reay e Chevrolet. Il medesimo scambio di consegne, in senso opposto, avviene a Indianapolis, dove Tony Kanaan riesce finalmente a interrompere la propria maledizione allo Speedway, riportando al successo Ilmor e Chevy laddove era stato Dario Franchitti nel 2012 a portare in trionfo la Honda, al termine di un feroce duello con Takuma Sato all’ultimo giro.
Il 2014 vede il clamoroso ritorno alle ruote scoperte di Juan Pablo Montoya, che dopo 7 tormentate stagioni in Nascar rompe lo storico legame col team Ganassi, andando a unirsi ai rivali storici della Penske. La scelta del colombiano si rivela azzeccata, perché a fine campionato il team del Capitano piazza tre piloti ai primi quattro posti, con Will Power che conquista quel titolo troppe volte sfuggitogli, avendo la meglio sul compagno Castroneves, sempre più abbonato alla piazza d’onore. La 500 miglia di Indianapolis va invece a Ryan Hunter Reay al termine di uno spettacolare confronto con lo stesso Castroneves, risolto sul traguardo con il pilota Honda (nell’inverno Ganassi e Andretti cambiano fornitori di motori) a precedere il brasiliano di una lunghezza. La vittoria finale di Power assicura invece il secondo titolo alla Chevrolet. Al termine di una stagione relativamente tranquilla, una tegola per la serie arriva con l’abbandono del direttore di corsa Beaux Barfield che, stanco dell’imperante clima di tensione tipico del paddock IndyCar, decide di tornare all’ambiente più disteso del campionato USCC/IMSA.
Il 2015 vede finalmente la comparsa degli aerokit, le nuove vesti aerodinamiche fortemente volute da Honda e Chevrolet per ampliare la sfida tecnica e caratterizzare anche visivamente le rispettive vetture. Pur introducendo un sensibile incremento prestazionale, calmierato tramite l’introduzione di un fondo vettura meno efficiente, gli aerokit riescono nell’impossibile, peggiorando l’aspetto di una vettura già universalmente detestata. Se lo spettacolo delle passate stagioni era stato determinato anche dall’equilibrio tecnico tra i due motori, fin dai primi test l’aerokit Chevy si dimostra nettamente superiore alla controparte giapponese. Come se non bastasse la casa americana ha anche a disposizione i migliori piloti, con Ryan Hunter Reay a fronteggiare da solo uno stuolo di top drivers marchiati Chevrolet che ora comprende anche Simon Pagenaud, rivelazione delle passate stagioni e nuovo acquisto di Roger Penske. La vera spina nel fianco per i piloti del Capitano si rivela però Graham Rahal, che rispetta finalmente le aspettative legate al suo nome assumendo il ruolo di principale sfidante di Montoya. Dopo uno strepitoso successo a Indianapolis in una infuocata battaglia finale contro Power e Dixon, il colombiano imposta la sua campagna sulla consistenza, guidando la classifica dalla prima gara fino all’epilogo di Sonoma, che come la Indy500 assegna punteggio doppio. In California però sia il colombiano che Rahal vanno incontro a problemi, lasciando strada libera a un inarrestabile Dixon, che raggiunge il pilota Penske in classifica e lo supera in termini di vittorie, aggiudicandosi a sorpresa il quarto titolo personale.
Il rocambolesco finale di stagione smuove per un attimo l’ambiente, gettato nello sconforto dalla scomparsa di Justin Wilson, che nella prova precedente di Pocono è colpito sul casco da un detrito della vettura incidentata di Karam. Dopo l’ultima corsa si consuma anche il divorzio tra la serie e Derrick Walker, storico proprietario di team chiamato nel 2013 a ricoprire il ruolo di “president of competition”, sorta di factotum del lato più meramente sportivo del campionato. A Walker, inizialmente osannato come perfetto tramite tra squadre e organizzazione della serie, è fatale il disastro delle prove di Indianapolis dove gli aerokits, visti da molti team manager come inutili e costosissimi orpelli, causano il decollo delle vetture sfuggite al controllo del pilota. Accusata di incompetenza e irresponsabilità, dopo svariate ore di incertezza la direzione sportiva della serie opta per lo stravolgimento delle qualifiche, imponendo l’uso della stessa configurazione aerodinamica per prove e gara e limitando la caccia alla pole a un solo tentativo per vettura.
Su Walker e Mark Miles pesa anche un calendario assurdamente compresso in 6 mesi, a causa della irremovibile e assurda volontà del manager ATP di evitare sovrapposizioni tra la stagione IndyCar e quella del football NFL. Il posto di Walker (che prima di rassegnare le dimissioni si assicura il ritorno della serie a Road America) viene preso da Jay Frye, ex manager del team RedBull in Nascar e in ottimi rapporti con il mondo delle stock car, che in pochi mesi incassa il favore del pubblico e quello più effimero delle squadre, riportando il campionato nelle ex roccaforti di Phoenix e Watkins Glen, in quest’ultimo caso in sostituzione della corsa prevista sulle strade di Boston, che non riscuote il favore della popolazione locale.
Il 2016 si apre con un quadro tecnico e sportivo pressoché immutato, con la Chevrolet che conserva un certo margine sui rivali della Honda e i team Penske e Ganassi a spartirsi le vittorie. Si assiste quindi all’attesa esplosione di Pagenaud, deludente nel suo anno di debutto alla Penske, che nelle prime gare conquista tre vittorie consecutive, mettendo subito una seria ipoteca sul campionato. La marcia del francese si arresta però alla Indy500, tornata ai fasti del passato in occasione della 100° edizione, dove le Honda si mettono prepotentemente in mostra, permettendo a James Hinchcliffe di centrare la pole 12 mesi dopo aver rischiato la vita impattando contro il muro della curva 3. Al termine di 500 miglia tiratissime il successo arride però a un personaggio inatteso, Alexander Rossi, “finito” in IndyCar a poche settimane dall’inizio del campionato e sorprendentemente efficace nel risparmiare carburante ed evitare l’ultimo, decisivo rifornimento. Dopo un inizio di campionato blando, anche a causa di alcuni problemi fisici che ne condizionano il pre stagione, dopo Indy intanto si rifà vivo Will Power. Sfruttando alcune battute a vuoto di Pagenaud infatti, l’australiano mette insieme 4 vittorie, rientrando in lotta per il titolo nonostante il forfait nella prima prova di St. Petersburg. Un incidente a Watkins Glen e problemi tecnici a Sonoma chiudono però la disputa, con Pagenaud che conquista meritatamente il titolo con una prestazione dominante in California.
Ultimi giri di San Paolo 2013
Fasi finali della Indy 500 2014
L’incredibile finale della corsa in Texas nel 2016
Foto in copertina: indycar.com