Rinviata di tre mesi causa Covid 19, la stagione IndyCar 2020 comincia in Texas rispolverando il format della giornata singola: una sessione di libere, poi qualifica e gara. Altra anomalia che si somma alla mancanza di pubblico, l’imposizione di finestre di pit stop obbligatorie ogni 35 giri, a causa delle incognite relative agli pneumatici. Decisione cautelativa indotta dallo stop alla produzione, che ha costretto la Firestone a impiegare la stessa mescola del 2019, mai provata con l’aeroscreen (e il relativo peso aggiuntivo) in condizioni da gara.
Nelle prove a emergere è stato il team Ganassi, con Felix Rosenqvist davanti a tutti. La qualifica, complice anche l’ordine di uscita dettato dalla classifica 2019, ha invece premiato il campione in carica Newgarden, ultimo a prendere la bandiera a scacchi. Il pilota del Tennesse ha preceduto un Dixon apparso subito in gran forma, ma a fare scalpore è stato l’incidente nel giro di riscaldamento di Sato. A causa dei danni sostenuti e del poco tempo indotto dall’inusuale format, il giapponese è stato incredibilmente costretto a dare forfait.
Prima della partenza vari problemi hanno poi afflitto altri piloti Honda: guai elettronici hanno infatti costretto Rahal, Rossi e Hunter-Reay a schierarsi in pista oltre il tempo consentito, cosa che è costata a tutti un drive trough. Al danno si è quindi aggiunta la beffa per il californiano, finito sotto di due giri dopo un altro passaggio in pit lane per eccesso di velocità mentre scontava la prima penalità.
Newgarden ha brevemente condotto le prime fasi, mostrando però problemi di bilanciamento che lo hanno costretto a cedere il comando a Dixon, in grado di fare il vuoto in pochi giri, prima della bandiera gialla per un incidente innescato dal rookie Veekay (già a muro nelle libere), che ha messo fuori combattimento anche l’incolpevole Palou. Al restart Dixon ha ripreso il comando con autorità, lasciando le Penske a subire il ritorno di un aggressivo Rosenqvist, ben destreggiatosi in un bellicoso gruppetto che ha visto a lungo coinvolti Veach, Carpenter, Kimball, Andretti, Hinchcliffe, Kanaan e un combattivo Daly.
La seconda bandiera gialla della corsa, arrivata circa a metà gara per detriti in pista, ha propiziato il terzo turno di soste, che ha visto Newgarden e Rosenqvist sopravanzare Dixon, mentre Power, Kanaan e Hinchcliffe rimanevano attardati da vari problemi in pit lane.
Alla ripartenza del 90° giro Dixon ha quindi messo un’ipoteca sulla vittoria, passando abilmente all’esterno prima Rosenqvist e poi Newgarden. Con lo svedese bloccato dietro il campione in carica, il neozelandese ha in breve costruito un vantaggio che ha superato i 10 secondi, salvo poi subire il rientro del compagno. L’estremo caldo ha infatti annullato le paure di pack racing indotte dal limite ridotto di giri percorribili, causando una forte riduzione di deportanza, cui si è unita l’impossibilità di utilizzare la seconda linea nelle curve 1 e 2. Dietro richiesta della Nascar queste sono infatti state interessate recentemente dalla stesura di una resina con lo scopo di aumentare l’aderenza, rivelatasi incompatibile con le gomme Firestone.
A lungo bloccato prima dietro Power e poi da Rossi, prima dell’ultimo pit stop Dixon ha visto Rosenqvist farsi minaccioso negli specchietti. Alla ricerca di pista libera per sfruttare la gomma fresca, al 186° giro lo svedese ha quindi tentato la carta della sosta anticipata, imitato tre giri più tardi dal compagno, rimasto per un soffio al comando. Voglioso di tentare l’assalto alla vetta nel traffico, Rosenqvist è però rimasto coinvolto in uno sfortunato episodio, che lo ha visto superato all’esterno di curva 1 dal doppiato Andretti. Di slancio l’americano ha poi passato anche un Hinchcliffe in difficoltà e finito in sovrasterzo nella turbolenza. Già impegnato nel sorpasso al canadese, per evitare il contatto Rosenqvist è uscito dalla traiettoria gommata, perdendo il posteriore per poi impattare contro il muro.
Senza più la minaccia dello svedese, Dixon ha poi condotto serenamente il gruppo alla ripartenza del 198° giro, andando a conquistare la vittoria numero 47 in carriera. Alle sue spalle ha chiuso un solido Pagenaud, in grado di mettersi dietro Newgarden in una giornata di alti e bassi per le Penske. Con un bel guizzo nel finale Zach Veach ha invece risolto in suo favore una lunghissima battaglia ai margini del podio, approfittando dell’eccessiva foga di Carpenter, quinto sul traguardo e quasi a muro nel tentativo di soffiare il podio a Newgarden. A lungo in lotta per la top5, Conor Daly si è dovuto accontentare di un pregievolissimo sesto posto, precedendo un difensivo Colton Herta. Ottavo ha chiuso quindi Hunter-Reay, irriducibile nella sua rimonta dopo un testacoda in prova e i guai al via. L’americano ha preceduto il primo dei rookies, il campione IndyLights Oliver Askew, con Tony Kanaan a chiudere la top ten dopo una sfortunata penalità nelle prime fasi. Peggio è andata al compagno Kimball, a lungo candidato per un posto sul podio, costretto ad una inattesa sosta nel finale e a muro all’ultimo giro, in un estremo tentativo di rimonta a gomme fresche.
Chiuso un 2019 che avevamo definito di assestamento, l’IndyCar si appresta ad aprire la nuova decade con clamorose novità, sia in pista che fuori.
CAMBIO AL VERTICE
Dopo anni di speculazioni che andavano ormai sopendosi, il novembre scorso è arrivato a sorpresa il clamoroso annuncio del passaggio di mano tra la famiglia George e Roger Penske, divenuto proprietario dell’Indianapolis Motor Speedway e della stessa IndyCar.
Un addio agrodolce quello dei George, testimoniato dalle lacrime di Tony, presidente dell’IMS dal 1990 e ideatore della IRL (con tutto ciò che ne è conseguito), in occasione dell’annuncio ufficiale.
Un cambio di mano però quanto mai necessario, considerando gli investimenti ormai ridotti al lumicino dei George sia su Indianapolis che, soprattutto, sulla IndyCar Series, sempre vista dal resto della famiglia come un costosissimo e non necessario giochino di Tony.
Sulla carta, non c’è nessuno più indicato di Roger Penske per prendere il comando di tutta la baracca. Come ripete spesso, il Capitano ha un amore sconfinato per Indianapolis fin da quando il padre lo portò a vedere la 500 miglia nei primi anni ’50. Più di tutto, Penske è un “racer”, un amante delle corse e della competizione, passione dimostrata dalla mole di campionati in cui la sua organizzazione ha partecipato e compete attualmente (solo nel 2019 il team Penske ha conquistato il campionato IndyCar, la Indy500, il campionato IMSA, la Bathurst 1000, il campionato Virgin Supercars e 7 vittorie in Nascar Cup).
Tale successo è stato permesso, oltre che dalla maniacale cura per il dettaglio che il Capitano ha trasmesso, anche da una innata capacità dell’organizzazione di stringere saldissimi rapporti B2B con aziende leader nel campo automotive e tecnologico. Non sorprende quindi che i vari programmi della squadra siano sponsorizzati in linea di massima dalle stesse aziende, che sono ora state coinvolte nel programma di investimenti che Penske Corporation sta mettendo in atto per l’IMS e per l’IndyCar.
Se per Indianapolis le attenzioni principali si concentrano su una migliore esperienza per il pubblico, l’incremento del montepremi della 500 miglia (passato da 13.090.536$ a 15.090.536$) e l’ampliamento dell’offerta, così da rendere nuovamente lo Speedway la “Racing capital of the World”, per l’IndyCar gli obiettivi sono tanto ambiziosi quanto complessi.
Penske si ritrova infatti a gestire l’inversione a U fatta dalla serie nel 2019, che dopo aver annunciato per il 2021 un motore termico di 2400 cm3 pressochè identico alle unità attuali, ha poi ceduto alle pressione dei costruttori e del mercato, sposando una soluzione “soft-hybrid”, tramite l’implementazione di un sistema KERS standard.
Una mossa che permetterebbe alla serie di mettere un piede nel campo ibrido e attirare l’attenzione del tanto atteso terzo costruttore. Nonostante si tratti di tecnologie ormai consolidate e dispositivi uguali per tutti, preoccupa però l’inevitabile aumento dei costi in un campionato che, seppur in lenta crescita, vede le sue squadre fare i salti mortali per chiudere i budget e mettere insieme un programma competitivo.
Ridurre i costi di partecipazione, ampliare il programma Leader Circle di supporto alle squadre e, soprattutto, rendere l’IndyCar Series un prodotto distinto dall’IMS e in grado di generare utile in maniera autonoma, sono le grandi sfide che il certamente capace management di Roger Penske ha davanti nei prossimi anni.
CALENDARIO
Il calendario 2020 è stato ovviamente rivoluzionato dall’emergenza covid-19, che ha fatto slittare la partenza del campionato dal 15 marzo al 6 giugno. Se St. Petersburg è comunque riuscita a recuperare il suo posto in calendario, conquistando addirittura l’onore di ospitare l’ultima corsa il 23 ottobre, altre piste non hanno avuto la stessa fortuna. Barber, Austin, Long Beach, Detroit, Toronto, nonché la rientrante Richmond, hanno infatti dovuto alzare bandiera bianca, rassegnandosi a tornare nel 2021. La serie ha comunque reagito prontamente all’emergenza, riuscendo a mettere insieme un calendario di 14 appuntamenti (solo tre in meno di quanto inizialmente programmato), organizzando tre double headers (due gare sullo stesso circuito, il sabato e la domenica) a Road America, Iowa e Laguna Seca, oltre a due eventi disgiunti sullo stradale di Indianapolis. Il calendario si compone quindi di 6 prove su ovale, 8 su stradale e un cittadino.
Anche la Indy500 è stata ovviamente influenzata dal coronavirus, slittando di tre mesi, dal 25 maggio al 24 agosto. Nonostante gli sforzi degli organizzatori, non è ancora chiaro se l’evento si terrà a porte chiuse o se sarà consentita la partecipazione del sempre numerosissimo pubblico.
La grande novità tecnica della stagione è invece l’aeroscreen. In cantiere già dal 2015 in seguito al tragico incidente di Justin Wilson, la soluzione addottata dall’IndyCar rappresenta un mix tra l’Halo introdotto dalla F1 e il cupolino provato nel 2019. Di questa soluzione, ottimale da un punto di vista estetico ma rivelatasi fallimentare sotto il profilo strutturale, l’aeroscreen conserva la superficie anti proiettile che avvolge l’abitacolo, ora supportata da una struttura in alluminio, composta da un pilone centrale che si estende però a circoscrivere l’intero abitacolo.
Il risultato è un dispositivo che dovrebbe garantire l’impressionante resistenza agli urti dimostrata dall’Halo, mettendo però al riparo i piloti dai piccoli detriti tipici degli incidenti sugli ovali.
Se la visibilità sull’asciutto, garantita anche da appositi tear offs che saranno rimossi durante le soste da un meccanico supplementare, ha raccolto consensi unanimi, qualche dubbio rimane sulla visibilità sul bagnato e, soprattutto, sul flusso d’aria all’interno dell’abitacolo. Nonostante varie soluzioni siano state proposte per aprire dei condotti di aerazione verso il casco, molti piloti hanno sottolineato le inusuali temperature raggiunte durante il recente test di Austin, flagellato da freddo e maltempo. Un problema cui IndyCar e Red Bull Advanced Technologies, che ha riprogettato il dispositivo, dovranno far fronte in vista delle impegnative corse estive.
SQUADRE E PILOTI
Sul fronte sportivo, la “silly season” invernale è stata scossa dalle clamorose esclusioni di James Hinchcliffe e Sebastien Bourdais. Dopo mesi di promesse successive all’annuncio della partnership tra Arrow Schmidt e McLaren, che già aveva portato alla clamorosa separazione tra lo stesso Schmidt e la Honda, il Sindaco è stato informato solo a novembre del suo appiedamento in favore dei giovani Askew ed O’Ward. Pochi giorni dopo è poi arrivata la doccia fredda anche per il francese, lasciato a piedi dal team Coyne per problemi di budget. Se Bourdais è subito riuscito a garantirsi la stagione in IMSA con il team JDC, oltre a quattro corse con il team Foyt, Hinchcliffe, a lungo in ballo con il team Rahal, ha optato all’ultimo minuto per il team Andretti, per cui correrà le due corse di Indianapolis e il Texas. Opportunità materializzatasi solo dopo la rinuncia forzata del team Andretti, sembra dietro richiesta Honda, di schierare una vettura a Indy per Fernando Alonso, accasatosi comunque al team Schmidt-McLaren, con cui cercherà di lavare la comune onta subita nel 2019.
I test invernali, influenzati dal mal tempo, hanno come spesso accade dato un quadro parziale degli equilibri.
Roger Penske, non più impegnato al muretto per evitare l’ovvio conflitto di interessi, appare ancora una volta a capo della squadra di riferimento. In soli tre anni Josef Newgarden ha già eguagliato i titoli conquistati in 15 stagioni complessive dai compagni Power e Pagenaud. L’americano, veloce, solido, completo e fortunato il giusto, non è ancora immune da errori dettati dall’emotività, ma rappresenta sicuramente la punta della compagine Penske, nonché il favorito per il titolo. Strepitoso nel mese di maggio, Pagenaud ha riscattato un 2018 orribile con una stagione di alto livello, seppur condita di alti e bassi. Poco in vista nei test, dovrà confermare di essersi definitivamente ristabilito tra i top drivers. Veloce e imprevedibile come sempre, Will Power si avvia verso gli ultimi anni di carriera IndyCar. Capace di dominare su ogni superficie, il 39enne di Toowoomba rimane troppo falloso e sfortunato per puntare al titolo.
Potrebbe essere una sfida di sopravvivenza tra l’australiano e il francese, che per il 2021 dovranno guardarsi dall’arrivo quasi certo di Scott McLaughlin. Il 26enne neozelandese, due volte campione della Virgin Supercars Australiana e quasi digiuno di ruote scoperte, ha lasciato tutti a bocca aperta nei test svolti a COTA e Sebring, dimostrandosi subito competitivo, al punto da togliere il sedile ad Helio Castroneves per l’Indy GP e guadagnarsi, sembrerebbe, altre wild card ancora da confermare, in vista di un 2021 full time nel campionato.
Il team Andretti, rivitalizzato dopo l’uscita di scena degli aerokits, si propone come principale sfidante, con un incredibile dispiegamento di mezzi che vede ben cinque vetture full-time, più il supporto alla struttura di Michael Shank. Alexander Rossi, velocissimo e completo, è ormai a pieno titolo tra i tre top drivers del campionato insieme a Dixon e Newgarden, candidandosi ancora come punta di diamante della squadra. L’ex F1 dovrà però guardarsi da Colton Herta, che con una Dallara-Chevy molto ben impostata, è riuscito a tirare fuori l’incredibile dallo sgangherato team Harding, portando a casa ben due vittorie e segnalandosi come pilota velocissimo, aggressivo ed estremamente maturo per un 19enne. Alla soglia dei 40 anni, Hunter Reay rimane un pilota solido e capace di togliersi belle soddisfazioni, ma non più in grado di costruire una seria campagna per il titolo, alternando belle prestazioni a troppi weekend sotto tono. Alla quindicesima stagione nella serie, nessuno si aspetta più un’esplosione da Marco Andretti, pressochè invisibile nel 2019. La rinnovata collaborazione con il driver coach Rob Wilson potrebbe risvegliare gli sprazzi di competitività visti nel 2013, ma la sensazione è che il meglio della carriera di Marco sia già alle spalle. Reduce da una seconda stagione molto difficile e giunto all’ultimo anno del suo programma triennale, Zach Veach deve assolutamente ritrovare la velocità vista a sprazzi nel 2018 e cominciare finalmente a fare risultati, per sperare in un sedile nel 2021.
Chiuso il programma Ford GT in IMSA, Chip Ganassi ha dirottato parte del personale eccedente su una terza vettura IndyCar per Marcus Ericsson. Evanescente in prova ma spesso molto efficace sul passo gara, lo svedese ha alternato errori imbarazzanti a prove consistenti. Potrebbe togliersi qualche soddisfazione isolata ma appare difficile vederlo stabilmente in top 5. Indicato da tutti come sicuro candidato al titolo dopo una prima corsa spettacolare a St. Pete, la stagione di Felix Rosenqvist ha visto un pauroso alternarsi di alti e bassi. In difficoltà sugli ovali dopo il brutto botto in prova a Indianapolis, lo svedese ha commesso molti errori di esuberanza, salvo poi ritrovare consistenza nel finale di stagione, mettendo a segno diverse prove apprezzabili. Se saprà controllare la foga e troverà il suo passo sugli ovali, potrebbe essere una buona alternativa a Dixon in chiave titolo. Solo due volte in victory lane nel 2019, il cinque volte campione sarebbe stato ancora della partita per il titolo, senza una improbabile sequenza di guasti nelle ultime corse. Padre per la quarta volta nell’inverno, a 40 anni suonati rimane il riferimento della categoria, seguito questa stagione da Michael Cannon, in arrivo dal team Coyne al posto di Chris Simmons, ora capo degli ingegneri.
Pilota
Marcus Ericsson (SWE)
Scott Dixon (NZL)
Felix Rosenqvist (SWE)
Vettura
#8 Huski Chocolate
#9 PNC Bank
#10 NTT Data
Motore
Honda
Honda
Honda
Ingegnere
Brad Goldberg
Michael Cannon
Julian Robertson
Stratega
NA
Mike Hull
Barry Wanser
Capo meccanico
NA
Blair Julian
Kevin O’Donnell
In ombra nei test, Takuma Sato è forse reduce dalla miglior stagione in IndyCar. Il giapponese, vincitore di due corse, rimane una mina vagante, in grado di sbucare dal nulla e vincere su ogni tipo di pista, come di combinare disastri come successo a Pocono. Nel 2019 si è comunque permesso di oscurare Graham Rahal, più costante ma incapace di produrre gli stessi acuti. Dopo lo spettacolare 2015, il figlio d’arte sembra aver perso smalto, non essendosi adattato completamente alla diminuzione di deportanza conseguita all’abolizione degli aerokits. Il duo nippo-americano sarà affiancato nelle due corse di Indianapolis da Spencer Pigot, di ritorno nel team con cui debuttò nel 2015 e alla ricerca di un rilancio, dopo le due ultime deludenti stagioni nel team ECR.
Pilota
Graham Rahal (USA)
Takuma Sato (JAP)
Vettura
#15 United Rentals
#30 Panasoninc
Motore
Honda
Honda
Ingegnere
Allen McDonald
Eddie Jones
Stratega
Ricardo Nault
NA
Capo meccanico
Donny Stewart
Brad Wright
Rivoluzione in casa Carpenter. Appiedato per mancanza di sponsor, Spencer Pigot lascia il sedile al giovane Rinus Veekay, in arrivo dalla IndyLights dove ha duellato lungamente con il campione Askew. Molta attesa per il fan favorite Conor Daly che, supportato dalla US Airforce, sarà al via di tutti i stradali e i cittadini, oltre che della Indy500. Dall’americano, sempre combattivo in gara, si attende però un deciso salto in avanti in prova, dove non ha mai brillato. Ed Carpenter sarà ancora al via sugli ovali, alla ricerca di una vittoria (magari a Indianapolis) che sfugge da ben 6 anni.
Pilota
Conor Daly (USA)
Rinus Veekay (NED)
Ed Carpenter (USA)
Vettura
#20 United Rentals
#21 Panasoninc
Motore
Honda
Honda
Ingegnere
Brent Harvey
Matt Barnes
Stratega
NA
NA
Capo meccanico
NA
NA
Nella bufera per l’appiedamento tardivo di Hinchcliffe, percepito non a torto come un tradimento da buona parte del pubblico, il team Arrow Schmidt rinuncia anche alla storica collaborazione con Honda per associarsi alla McLaren di Zak Brown e Gil De Ferran. Il team, il cui passaggio alla Chevrolet riequilibra almeno in parte la sproporzione di top teams verso Honda, si affida all’esperienza di un ingegnere del calibro di Craig Hampson e a due giovanissimi dietro il volante. A soli 20 anni, Patricio O’Ward è percepito come la guida della squadra, reduce da una mezza stagione agrodolce con il team Carlin e un’esperienza non esaltante in Superformula. Quando le cose hanno funzionato, il messicano è stato esaltante nel 2019. Velocissimo e senza paura, il campione IndyLights dovrebbe avere tutto il sostegno tecnico per mettere a frutto il suo talento e magari puntare a un successo. Askew, campione in quasi tutte le classi della Road to Indy, ha le carte in regola per mettere il fiato sul collo al compagno e mettersi in mostra, cercando di evitare il plafonamento delle prestazioni visto in altri ex campioni IndyLights.
Pilota
Patricio O’Ward (MEX)
Oliver Askew (USA)
Vettura
#5 Arrow
#7 Arrow
Motore
Chevrolet
Chevrolet
Ingegnere
Will Anderson
NA
Stratega
NA
NA
Capo meccanico
NA
NA
Dopo l’addio al duo Bourdais-Hampson, il team Coyne riparte dal confermato Santino Ferrucci e dal nuovo arrivo Alex Palou. L’ex GP2 ha impressionato alla stagione d’esordio, mostrando un’ottima velocità unità a grande intelligenza, smentendo in toto la nomea di testa calda costruita in Europa. Se saprà tenere i piedi per terra, il suo futuro nella serie potrebbe essere roseo. Palou arriva in IndyCar con il sostegno della Honda e forti credenziali, dopo un eccellente terzo posto all’esordio in Superformula. È certamente atteso tra le sorprese della stagione e darà filo da torcere ad Askew per il titolo di rookie of the year.
Pilota
Santino Ferrucci (USA)
Alex Palou (SPA)
Vettura
#18 Sealmaster
#55
Motore
Honda
Honda
Ingegnere
Olivier Boisson
Eric Cowdin
Stratega
Dale Coyne
NA
Capo meccanico
NA
NA
Dopo due anni di progressiva espansione, Michael Shank raggiunge l’obiettivo di entrare definitivamente in IndyCar, schierando una vettura full time per il fido Jack Harvey. Spesso più veloce in prova degli ex “compagni” del team Schmidt, l’inglese ha spesso faticato a mantenere lo stesso ritmo per un’intera corsa. Quando però ha avuto l’occasione, come all’Indy GP, non se l’è fatta scappare, dosando bene aggressività e buon senso. Forte di una lunga gavetta alle spalle e il supporto tecnico del team Andretti, l’accoppiata Harvey-Shank potrebbe stupire, presentandosi più volte in top 5.
Pilota
Jack Harvey (ENG)
Vettura
#60 AutoNation
Motore
Honda
Ingegnere
NA
Stratega
Michael Shank
Capo meccanico
NA
Come nel 2019, il team Carlin si presenta a St. Pete forte del miglior tempo nell’ultimo test stagionale. Max Chilton, il più veloce a Sebring, scommette sui grandi progressi compiuti nell’inverno in termini di assetto e programma di sviluppo degli ammortizzatori. Dal team inglese, tra i più blasonati nel panorama europeo e reduce da due stagioni difficili, si attendono certamente progressi, ma le prestazioni di Sebring potrebbero non essere del tutto veritiere. Chilton, poco convincente dopo quattro anni in IndyCar , limiterà il suo impegno a stradali e cittadini, lasciando il sedile sugli ovali a Conor Daly, già protagonista di alcune buone uscite con il team nel 2019, che disputerà così l’intera stagione seppur con due squadre diverse. Tra i candidati per la seconda vettura Felipe Nasr, chiamato in extremis a Sebring e subito velocissimo, che sarà al via a St. Pete e forse in alcuni appuntamenti non concomitanti con il suo programma principale in IMSA.
Pilota
Max Chilton (ENG)
Feliper Nasr(BRA)
Conor Daly (USA)
NA
Vettura
#59 Gallagher
#31
Motore
Chevrolet
Chevrolet
Ingegnere
NA
NA
Stratega
NA
NA
Capo meccanico
NA
NA
Fallito il tentativo di rifondazione, culminato con la perdita dello storico sponsor ABC Supply, il team Foyt ritorna con una vettura full time per Charlie Kimball, mentre sulla storica #14 si alterneranno tre piloti. Il californiano ritorna in pianta stabile nella serie, sperando soprattutto in qualche buona prova sugli ovali. La stessa speranza di Tony Kanaan, all’ultima stagione in IndyCar, che sarà protagonista di un programma ridotto ai catini, puntando tutto sulla Indy500. Sugli stradali il posto del brasiliano sarà preso come detto da Bourdais, brillante a sprazzi nei test, in alternanza con Dalton Kellet, che cercherà di ben figurare e non fare danni dopo alcune stagioni non esaltanti in Indy Lights.