Chi mi conosce sa che l’automobilismo è la mia grande passione e l’IndyCar la mia serie preferita. Ho sviluppato un’attrazione per questa categoria fin dal lontano ’96, quando vidi per la prima volta la 500 miglia di Indianapolis, trasmessa su Telemontecarlo. Negli anni successivi, pur concentrando la mia attenzione sulla rincorsa al titolo di Schumacher e della Ferrari, il seme della passione piantato quel 26 maggio 1996 è lentamente cresciuto, superando le difficoltà dettate da una copertura quasi inesistente nelle tv in chiaro e dall’assenza di altre fonti di informazione oltre Autosprint, che compravo saltuariamente e che nel corso degli anni aveva sempre più ridotto la propria attenzione verso le corse americane.
Dopo quella Indy 500 non avevo più avuto modo di vedere gare IndyCar, ma quelle sensazioni di eccitazione, velocità, rischio condensate in quella frase – “entrano in curva a 370 all’ora” – sentita in telecronaca, continuavano a farmi considerare quelle corse come qualcosa di esotico, divertente e intrinsecamente “cool”. Sfogliando Autosprint avevo anche scelto, semplicemente sulla base dei loro nomi, i miei piloti preferiti, tali Greg Moore e Helio Castroneves, di cui non conoscevo neanche la faccia. Per capire quanto strampalato potesse essere il mio tifo, ricordo di aver festeggiato a lungo nell’estate 2000 per una vittoria di Castroneves in un posto chiamato Mid Ohio. Risultato di cui venni a conoscenza per caso grazie al televideo. Greg, che ho poi imparato ad apprezzare per qualità ben più importanti di un nome simpatico, perse la vita sull’ovale di Fontana nel ’99, cosa che scoprii solo qualche anno dopo.
Dopo quel primo contatto del ’96, mi riavvicinai seriamente all’IndyCar (in quel caso alla CART) nel 2001, quando Italia Uno trasmise in diretta le corse di Lausitzring e Rockingham, le prime in Europa dopo oltre vent’anni. La pioggia e i recenti attentati terroristici di New York e Washington avevano messo a rischio la disputa dell’evento tedesco, senza però smorzare il mio entusiasmo verso un appuntamento che avevo tanto atteso. L’eccitazione per la gara fu poi ulteriormente amplificata dalla bella prestazione di Alex Zanardi, rovinata nel finale da una strategia che sembrava averne compromesso la vittoria. Avevo lo sguardo un po’ perso nel vuoto nel momento in cui le telecamere inquadrarono la sua vettura fuori controllo e centrata poco dopo da Tagliani. Nei mesi successivi ho seguito attentamente il recupero del bolognese, sviluppando una venerazione che dura tuttora. Parallelamente, pur sostenendo con passione imprese e cadute di un giovane Montoya in Formula 1, continuavo ad approfondire il mio interesse per le corse americane, seguendo il mio “pupillo” Castroneves, già da allora fonte della mia disperazione, dopo aver perso il titolo contro Sam Hornish nel 2002 e Scott Dixon nel 2003. Ricordo in particolare l’ultima gara di quella stagione, che cercai di decifrare in qualche modo guardando per un po’ il segnale incomprensibile del canale Tele+, che trasmetteva l’evento sul satellite.
La svolta, quella vera, è arrivata nel 2004, quando Sportitalia ha acquisito i diritti della Indy Racing League, permettendomi di assistere finalmente all’intero campionato. Da quel momento la mia passione è decollata, raggiungendo vette ossessive che mi spingevano a registrare tutte le corse e riguardarle più volte nel giro di pochi mesi. Contemporaneamente portavo avanti una convinta opera di conversione, alla stregua dei vegani tanto di moda oggi, esortando appassionati o meno di motosport a interessarsi al mio campionato preferito. Col tempo, il passaggio all’università e la maggiore indipendenza conquistata hanno poi fatto sviluppare nella mia mente un’idea, apparentemente irrealizzabile ma naturale sviluppo della mia passione: andare a vedere l’IndyCar dal vivo, nel suo luogo sacro:
Indianapolis
Avevo ricevuto un cospicuo assegno dalla Regione Sardegna come premio per aver conseguito il diploma a pieni voti, investendo la somma nel mio sostentamento quotidiano ma con una promessa da parte dei miei genitori: “quando vorrai andare da qualche parte, quei soldi saranno lì”. Gli anni però passavano, più veloci dei miei progressi all’Università, che con mille sforzi nel 2012 hanno però portato finalmente al conseguimento della laurea triennale. Ero a metà del percorso, avevo raggiunto il primo obiettivo e avevo davanti due mesi, agosto e settembre, di totale libertà. Eppure non feci nulla, a parte grandi giri in bici e giornate passate a guardare le Olimpiadi.
Tante volte in quegli anni avevo detto frasi tipo: “una volta laureato vorrei andare a Indianapolis” o, “un giorno andrò a Indianapolis” e ancora, “se devo fare un viaggio non mi interessano le grandi città, io voglio Indianapolis, e poi Le Mans”…ma ammettiamolo, suonavano vere e realistiche quanto i proclami di Coulthard e Barrichello a inizio anno: “questa sarà la mia stagione”. Non lo era mai.
Sembrava qualcosa più grande di me, che al massimo ero andato in gita a Barcellona e non avevo mai viaggiato da solo. Una sortita a Le Mans invece poteva anche starci, da un punto di vista organizzativo ed economico appariva sicuramente più abbordabile e sarebbe stata una buona palestra nel caso avessi mai tentato il “piano A”. Ma non ero convinto, anche a causa di una crescente disaffezione per il motorsport, con un ambiente europeo sempre più finto e corroso dai soldi e un’IndyCar affetta da una disorganizzazione avvilente.
Eppure dopo alcuni mesi di avvisaglie, un giorno di metà gennaio 2013 la scintilla si è accesa, nel più improbabile dei modi. Avevo passato la mattinata a casa di alcuni colleghi, dove il mio gruppo di lavoro si era riunito per la più classica e inutile delle esercitazioni universitarie. In un momento di pausa il discorso era caduto sul motorsport e, come spesso accadeva, le mie invettive sulla Formula 1 e gli elogi all’IndyCar venivano accolti con prese in giro e derisione da parte dei miei colleghi, monotematici adepti della “massima serie”, incapaci di formulare un pensiero o un giudizio vagamente indipendente da quello del resto della massa istruita dai media. Finito il lavoro ero tornato a casa riflettendo sulla discussione, che in breve generò in me un unico pensiero, di rivalsa: un “adesso vi faccio vedere io”, che ha poi preso la forma di un viaggio fino a quel momento solo sognato.
Un esame era imminente e avrei dovuto studiare per tutto il pomeriggio, ma il tarlo era ormai entrato nella mia testa e non potevo far altro che assecondarlo, riprendendo le mie ricerche su costi dei biglietti aerei, hotel ancora disponibili, costi di soggiorno, biglietti della pista per tutto il fine settimana, attività nel week end di gara, macchine esposte nel museo, mezzi di trasporto e itinerari da seguire.
Prima di cena avevo poi parlato con mia madre, una telefonata lunghissima in cui il suo immediato supporto l’aveva costretta, suo malgrado, a subire il riassunto di quanto da me appreso nella serata, con la voce che tremava dall’emozione per qualcosa che sembrava impossibile e invece stava accadendo.
Mi immaginavo a chiacchierare con i piloti durante le sessioni di autografi, speravo di vedere le Penske bianco rosse nel museo, sognavo di fare una foto e scambiare due battute con Rick Mears e parlare in italiano con Mario Andretti che chissà, magari colpito dal viaggio mi avrebbe procurato un pass per la zona dei garages. Mi vedevo baciare la linea d’arrivo, quella iarda di mattoni ultimo ricordo dei tempi eroici in cui tutta la pista era ricoperta dei rossi “bricks” (da cui il soprannome “Brickyard” della pista). Insomma, nelle settimane successive ho avuto modo di dare ampio spazio alla mia immaginazione, cominciando però anche a curare gli aspetti più pratici e concreti della questione.
La prima cosa da fare era bloccare una stanza d’albergo, in quanto i posti alla portata dei comuni mortali diminuivano di ora in ora, oltre a prenotare il volo. Con internet ormai chiunque sarebbe in grado di organizzare una vacanza, ma francamente mi sono stancato in fretta di ricerche incrociate hotel+volo e confronti vari, per cui ho deciso di affidarmi a un’agenzia, opzione che mi dava più sicurezza oltre a permettermi di instaurare un’assicurazione su ritardi e possibili inconvenienti.
Dopo mille considerazioni basate su costo, distanza dalla pista, mezzi di trasporto disponibili e ovviamente recensioni di altri viaggiatori, ho preso un rischio finendo per scegliere un hotel chiamato Econo Lodge, parte di un complesso di strutture alberghiere nei pressi dell’aeroporto di Indianapolis, che non godeva di grande fama ma chiedeva “solo” 300€ per un soggiorno di 5 notti.
Avevo infatti deciso di arrivare il giovedì sera (23 maggio, la gara era fissata per il 26) e ripartire il martedì mattina, in modo da avere un giorno in più in caso di pioggia la domenica della gara. Oltre a una questione di costi, la durata del mio soggiorno era ovviamente legata anche a problemi scolastici, cadendo Indianapolis in un periodo, fine maggio, abbastanza critico in quanto pieno di pre-esami per i quali avrei studiato tutto il trimestre. Anche per il volo avevo accettato quello che appariva un buon compromesso tra costi e tempo trascorso in aeroporto. Sarei arrivato a Indianapolis seguendo il percorso Cagliari-Roma-Boston-Indy, mentre al ritorno sarei passato per New York, dove era prevista una lunga attesa. I biglietti andata e ritorno mi sono costati in tutto 760€, una tariffa più che favorevole per un viaggio così lungo e frenetico.
Contemporaneamente avevo ordinato anche i biglietti per la gara e gli altri giorni in pista. Scegliere il posto da cui seguire la 500 miglia significa sempre rinunciare a qualcosa e decidere quale aspetto dell’evento attrae di più. Chi è affascinato dalla storia e dalla pomposità della manifestazione di solito cerca di stare sul rettilineo d’arrivo, il più vicino possibile alla iarda di mattoni, sacrificando un po’ la visione del tracciato. Chi è più interessato alla gara vera e propria cerca invece un posto in curva, il più in alto possibile, in modo da vedere la maggior parte della pista. Considerando che, incredibilmente, questa sarebbe stata la mia prima corsa dal vivo, ho privilegiato la competizione. I posti migliori in curva 1 erano partiti da parecchio, per cui avevo scelto di accomodarmi in curva 3, da cui avrei potuto osservare praticamente ¾ di pista. La spesa totale non ha superato i 120€, alla faccia di chi va a Monza a regalare metà del suo stipendio a Ecclestone e complici.
C’erano poi diverse pratiche burocratiche da sbrigare. Non essendo mai uscito dall’Unione Europea non avevo il passaporto, per l’ottenimento del quale è stato necessario un esborso, tra bolli e tasse varie, di circa 90 euro, oltre a un passaggio in questura per la raccolta delle impronte digitali e della retina. L’ultimo tassello, l’autorizzazione a entrare nel suolo americano (detta ESTA, costo 14 euro), ha segnato il punto di non ritorno, il viaggio era programmato e non restava che sopportare l’attesa e concentrarsi sullo studio. Solo quando tutto era ormai pronto, a fine febbraio, ho lasciato trapelare ad amici e colleghi le miei intenzioni, un po’ come chi va a fare l’esame di guida senza dirlo a nessuno per non attirarsi malasorte e dover sopportare i commenti di un eventuale fallimento. Già da allora, il terrore di fare una cazzata ed essere rispedito a casa da Roma mi perseguitava.
L’arrivo a marzo del passaporto e ad aprile dei biglietti per la gara hanno scandito le tappe di avvicinamento, insieme ai miei esami, in particolare uno di Sistemi di lavorazione andato particolarmente bene. Peccato che qualche settimana prima della partenza il professore abbia fissato il secondo parziale proprio nei giorni del mio viaggio, spostandolo dietro mia insistenza al giorno successivo il mio ritorno, cosa che mi costringe incredibilmente a far conoscere il suolo americano anche ad alcuni quaderni, che potrei aprire nelle tante ore di attesa nei vari aeroporti.
Raccolti incoraggiamenti e raccomandazioni familiari nell’ultima visita a casa, i giorni precedenti alla partenza sono passati nella trepidazione, tra qualche sessione di shopping, il ritiro in agenzia di biglietti e documenti vari, la conversione di 70€ in dollari (in modo da aver un po’ di contante nel malaugurato caso in cui la mia carta prepagata non sia accettata in America), l’acquisto di un adattatore per la presa di corrente e un ultimo atroce dubbio, subito fugato, sulla possibilità che il mio vetusto cellulare non funzioni negli States, dove sono attivi solo telefoni tri-band o superiori.
Sistemato tutto, sono pronto a partire.
Programma viaggio d’andata | |||||
Aeroporto partenza | Giorno | Ora Partenza | Aeroporto arrivo | Giorno | Ora Arrivo |
Cagliari – Elmas | 23/05/2013 | 06.30 | Roma – Fiumicino | 23/05/2013 | 07.35 |
Roma – Fiumicino | 23/05/2013 | 11.00 | Boston – Logan | 23/05/2013 | 14.20 (20.20 italiane) |
Boston Logan | 23/05/2013 | 20.35 | Indianapolis | 23/05/2013 | 23.05 |
Programma viaggio di ritorno | |||||
Aeroporto partenza | Giorno | Ora Partenza | Aeroporto arrivo | Giorno | Ora Arrivo |
Indianapolis | 28/05/2013 | 09.20 | New York – La Guardia | 28/05/2013 | 11.30 |
New York – JFK | 28/05/2013 | 21.30 | Roma – Fiumicino | 29/05/2013 | 12.05 (06.05 americane) |
Roma – Fiumicino | 29/05/2013 | 13.20 | Cagliari – Elmas | 29/05/2013 | 14.30 |
- IL VIAGGIO
Ed eccoci qui, dopo oltre 100 giorni di attesa, sogni, speranze, paure, incertezze, eccitazione, arriva il momento della partenza, mattina del 23 maggio 2013. Il giorno prima vado a lezione e di sera faccio le valigie e ultimo i preparativi. Prenoto un taxi per le quattro e mezza, indeciso se sia troppo presto o meno, compro medicine contro la diarrea e il raffreddore, ultima chiamata a casa, cena leggera, saluti, doccia e a letto, senza ancora aver deciso cosa mettermi!
Mi sveglio come previsto verso le tre e mezza. Non mi piace uscire senza essermi appena lavato e, consapevole della lunghissima giornata che mi attende, mi do una rinfrescata ai punti nevralgici, pur sapendoli perfettamente puliti. Ci metto più del previsto, un problema dovendo ancora risolvere l’enigma della vestizione. Il giorno prima faccio una lavatrice in extremis, pioveva un po’ a sprazzi tutta la settimana. Tra le cose lavate opto per una tuta leggera con le scarpe da tennis e la fida Nike rossa sotto. Scelgo la comodità, ma poche ore dopo me ne pentirò amaramente. Alle quattro e mezza, mentre proseguo nell’interminabile e più volte ripetuta verifica di ciò che mi porto appresso, squilla inaspettato il cellulare. È il tassista, che mi dirà chiama tutti i suoi clienti mattinieri perché spesso hanno bisogno di essere svegliati. Il telefono squilla quando stavo per uscire, cosa che faccio di fretta per non svegliare i coinquilini, ho già fatto abbastanza casino.
La strada è sgombra, dandoci la possibilità di chiacchierare del loro lavoro poco fortunato a Cagliari, dell’orario strano, del mio viaggio. In aeroporto trovo un posto semideserto, con pochissima gente ai check in. Non sono pratico della trafila aeroportuale, sono in grande anticipo e non so neanche se il mio check in è iniziato, tanto prima c’è un volo per Milano. Faccio quindi un giro dell’aeroporto. Quando torno indietro verso gli sportelli, quindici minuti dopo, è appena arrivato un folto gruppo di turisti venezuelani, probabilmente in Sardegna per partecipare a qualche convegno. La situazione mi appare ancora più confusa, staranno andando a Milano? Resto lì a guardarli qualche minuto, facendo finta di stare in fila. Chiedo poi ragguagli a una signora di colore, che praticamente non mi caga.
A un certo punto sbuca provvidenziale Francesco (mio ex conquilino e addetto al check in all’aeroporto di Elmas). Sapeva del mio viaggio, ma non quando sarei partito, non ci eravamo più sentiti da febbraio. Me la sarei cavata comunque, ma sono contento di vederlo. Mi dice subito che l’orda di venezuelani è diretta a Roma…e già lì mi sento un po’ coglione. Contravvenendo un po’ alle regole, sbriga prima la mia pratica e poi apre il suo sportello a tutti gli altri. Qui ho finalmente il primo sospiro di sollievo, i miei documenti e l’ESTA sembrano essere validi. Non so perché ma era questa la mia preoccupazione principale, che il passaporto elettronico funzionasse e che io non avessi fatto cazzate con l’ESTA. Ci salutiamo, ma lo rivedrò all’imbarco. Più leggero, nella mente e nel fisico, avendo mollato lì il trolley, mi dirigo verso l’area d’imbarco con consapevole anticipo, ma tanto non c’è niente da fare.
Eseguo la classica trafila della sicurezza. Inizialmente non mi tolgo le scarpe, sono di plastica penso, ma sarò costretto a levarle. Attendo poi per più di un’ora l’imbarco nell’area di attesa, dove sono circondato da persone di ogni estrazione e colore. Venezuelani certo, ma anche africani e nord europei. Penso che, seppur a pochi chilometri da casa, il mondo mi sembra d’improvviso molto più grande. E la nostra isola molto meno isolata.
L’attesa è a dir poco noiosa, sono consapevole di essere solo all’inizio della mia avventura. Mi chiedo, ma senza troppa ansia, cosa farò a Roma. Troverò subito la via giusta? Il mio incubo rimane quello di essere bloccato all’imbarco per aver saltato qualche passaggio della procedura, di aver dimenticato qualcosa. Forse ho l’inquietudine stampata in faccia, una signora venezuelana mi guarda e ci sorridiamo a vicenda. Lo stesso accade col marito poco dopo. Non so se vedano in me solo un giovane un po’ ansioso che affronta la sua prima avventura, o il sorriso sia solo un segno di intesa tra viaggiatori alzatisi troppo presto per le loro abitudini.
L’aeroporto inizia a prendere vita, ma troppo tardi per fare qualunque cosa, ormai è iniziato l’imbarco. Saluto Francesco ed entro nell’aereo. Su tutti i voli d’andata avrò degli ottimi posti, quasi sempre solo e in coda. Il mio amico mi aveva detto che l’agenzia non aveva prenotato un posto in particolare, non so se sia merito suo ma penso di si.
Volare non mi ha mai impressionato negativamente, per cui non ho nessuna preoccupazione quando prendo il mio posto. A fianco a me siedono due signori, penso continentali, che viaggiano in Sardegna per lavoro. L’aereo decolla alle 6.30, poco prima riesco a scattare una foto al motore destro, ce l’ho proprio di fianco. Come detto decollo e atterraggio non mi impressionano per niente. Rimango però sorpreso, e sarà così per tutti i voli, da come i motori sembrino andare sempre al massimo dal decollo fino alle fasi di avvicinamento alla destinazione. In aereo ci servono degli snacks e qualche bibita che accetto volentieri, avevo preferito non far colazione. Mi sorprendo di quanto sia breve la traversata: dei 45 minuti totali solo 20-25 sono di volo effettivo. Appena raggiunta la quota di “crociera”, è già tempo di scendere. Non mi aspettavo l’effetto della depressurizzazione, che mi induce un po’ di dolore al collo, oltre a tapparmi l’orecchio destro.
Come previsto e come Francesco mi aveva confermato, non devo ritirare i bagagli a Roma. Dall’aereo una navetta ci conduce all’interno del terminal. Qui dai tabelloni vedo quale dovrò raggiungere per il volo successivo, quello che mi condurrà a Boston. Rimango sorpreso dell’efficienza delle navette che permettono di muoversi da un terminal all’altro. Puoi arrivare ovunque in pochissimi minuti. Nell’attesa sono ancora in compagnia dei venezuelani, ma ascolto anche la conversazione di alcuni italiani. Una ragazza dice di non aspettare altro che essere a Times Square a sorseggiare un drink e guardare la gente che passa. Sorrido a questa affermazione, magari penso a quanto diverse possano essere le nostre vite. “Comunque martedì prossimo un giro a TS lo farò anch’io”, mi dico.
Vedendo tante persone, così diverse e così simili, è inevitabile chiedersi che vita facciano. Se come me stanno prendendo aerei per fare un viaggio tanto atteso, una semplice vacanza o, come la gran parte, semplicemente come parte ordinaria della loro vita, imposta dal lavoro.
Dopo aver attraversato altri sportelli della sicurezza trovo un’edicola, dove compro Autosprint, che mi auguro tratterà in maniera decente la gara che sto andando a vedere. Le due commesse sono tipicamente romane, parlano degli affaracci loro non degnandomi di uno sguardo, senza nemmeno rispondere al mio saluto di commiato. “La maleducazione di Roma colpisce ancora”, penso.
Arrivo al mio terminal, con almeno tre ore di anticipo. L’imbarco inizia più o meno alle 10 e mezza. Ho tutte le carte d’imbarco che mi servono ma non sono sicuro di essere a posto con i documenti, per cui chiedo delucidazioni alla prima hostess che vedo. Lei mi rincuora, ma ancora non sono del tutto convinto. Rimango nel dubbio fino all’imbarco e tiro un sospiro di sollievo quando mi fanno passare senza problemi.
L’attesa è snervante, non per la tensione ma per la noia pazzesca. Non ho neanche gran voglia di leggere Autosprint. Entro in quello stato di svogliatezza totale che sembra affliggermi in ogni aeroporto. Mi faccio un giro, ma inizio a capire che gli aeroporti sono tutti uguali e c’è poco da scoprire. Anche i negozi sono poco interessanti. Mi siedo, ancora una volta attorniato da stranieri di ogni estrazione, anche se stavolta sono gli americani, ovviamente, in superiorità numerica. Ancora una volta mi sento uno straniero nel mio paese. Ascolto la conversazione tra due americane, dicono che una hostess è una stronza perché sembra non le abbia aiutate per niente. Ci rivedremo sull’aereo.
Inizio ad accorgermi di aver sbagliato indumenti. La maglietta rossa è troppo vecchia e non regge al mio sudore nervoso. So che sto un po’ puzzando ma penso che la situazione sia sotto controllo. Al momento dell’imbarco noto personaggi particolari, una bella donna mora con indosso una tuta (solo noi due forse siamo vestiti così), un anziano signore campano che prende a male parole il nipote (inizio a vergognarmi di loro già da Roma). Come sempre, gente di ogni tipo. Saliamo finalmente a bordo e con grande gioia scopro che il sedile a fianco al mio è vuoto. Non dovrò preoccuparmi troppo delle mie ascelle e potrò mettermi un po’ come mi pare.
Dal finestrino noto che gli addetti hanno difficoltà a far aderire i bagagli al rullo che li trasporta in stiva. Ad un certo punto noto che ne prendono uno e lo sbattono con forza sul rullo, guardo bene ed è proprio il mio. “Sei fortunato che non abbia avuto il tempo di filmarti”, penso dell’addetto. Se riscontrassi dei danni sarebbe stata una prova perfetta. Il decollo prende un po’ di tempo, ci sono un sacco di aerei in fila, di vari tipi, compagnie, dimensioni. Vedo anche un 747 con i suoi 4 impressionanti motori. Il nostro Airbus 330 ne ha “solo” due. Alla vigilia non credevo che aerei da tratte così lunghe potessero avere solo due propulsori, ma il 330 fa egregiamente il suo lavoro. Mi appare un aereo medio, ovviamente un po’ più curato del 320 che ci ha portato a Roma.
Ci viene servito il pranzo, finalmente si mangia, anche se la situazione particolare non mi porta chissà quale appetito. Vedo scorrere sotto di noi un po’ di Italia, Mediterraneo, tanta tanta Francia. Poi inizia l’oceano. Saliamo sopra i banchi di nuvole, incredibilmente fitte. La luce esterna è meravigliosamente limpida, tanto che per aiutare i passeggeri a prendere sonno ci viene chiesto di chiudere le tendine. La cosa non mi fa molto piacere, dal momento che mi impedisce di fare un po’ tutto, leggere e, se mai ne avessi trovato la forza, studiare col tablet o dal quaderno. Incredibilmente ci metto un po’ a capire dove cavolo vada infilato lo spinotto delle cuffie, rischio quasi di fare danni. Mi guardo un film, Django Unchained, che a tratti mi diverte molto e fa passare almeno due ore…ma il viaggio è veramente interminabile.
Non ci sono parole per descrivere la noia, anche perché è quasi impossibile dormire per più di 10 minuti consecutivi. I giochini sullo schermo dopo un po’ stufano, non c’è nessuna voglia di studiare, guardare un altro film con lo schermo così vicino mi ammazza gli occhi. Bisogna resistere. Ho un alito terribile, vado in bagno a darmi una rinfrescata, cosa non facile considerando che la pressione dell’acqua è comprensibilmente bassissima. Le hostess ci danno il documento della dogana, che stupidamente vado a restituire compilato. Mi fanno notare che dovrò essere io a esporlo all’accettazione.
In un modo o nell’altro il viaggio si conclude quando in Italia sono le 20 e a Boston solo le due del pomeriggio. L’atterraggio è un po’ duro ma niente di che. Fino all’ultimo la hostess più carina, alta con un caschetto di capelli marroni, sta a fare l’oca con un palestrato che già da Roma avevo etichettato come un idiota. Lei mi sembra un po’ troia. L’equipaggio, gentile ed efficiente, è come sempre caratterizzato da qualche pettegolezzo o antipatia interna, abbastanza malcelati, tanto da farmi pensare che, anche a 15.000 metri di quota, tutto il mondo è paese.
A Boston posso finalmente muovermi, recupero il trolley (arricchito di nuove colorate etichette) e procedo verso l’accettazione. Un italiano trapiantato qui ci indirizza nella fila giusta. Parte un’attesa interminabile e snervante. Il caldo è a tratti insopportabile, anche se sembro l’unico a soffrirne davvero. Ci sono dei ventilatori sul soffitto troppo deboli e lontani tra loro, sembra una punizione per aver messo piede nel loro paese. Sono sempre più sudato e maleodorante ma non posso più tenermi addosso la giacca della tuta, me ne frego e vado avanti a maniche corte con la giacca annodata a vita e il leggero giubbotto in mano. Alcuni italiani mi guardano come un profugo e anch’io mi sento un po’ come un passeggero della Mayflower.
Nella noia dell’attesa prendo l’iniziativa e parlo con due tizi lombardi che non si dimostrano troppo loquaci. Il più anziano (non so in che rapporti fossero), mi dice che li attende un viaggio in macchina verso non ricordo dove, che non era la prima volta che vengono negli States e che lavorano in un azienda di macchine utensili che aveva collaborato con un istituto di Oristano. Rimane sorpreso dal fatto che io stia ancora studiando, chissà quanti anni mi da. Il compagno non proferisce parola, mi guarda come un bambino al cospetto del suo incubo peggiore, un terrone. In effetti il mio abbigliamento, il mio accento e il mio odore potrebbero rispettare in pieno le sue aspettative sul sardo tipo.
Rimango basito dallo scarso numero di sportelli aperti, che rendono la fila interminabile. Onestamente non mi sarei aspettato una situazione del genere, circa un’ora di fila lungo un serpentone infinito. Mi sembra una scena troppo familiare, tipicamente italiana. Comincio a pensare che sia davvero tutto voluto. Assisto poi a una scena poco simpatica con una signora italiana che, inseritasi nella fila sbagliata, viene trattata con molta sufficienza da due corpulente donne di colore, addette dell’aeroporto. Chiedono se tra i presenti c’è qualcuno che parla italiano. Sto per intervenire quando arriva l’addetto italiano di prima a “salvare” la signora. Mentre aspetto in fila parlo con un signore anziano che non sembra capire granché di inglese. Lo indirizzo nello sportello corretto e una signora di origini asiatiche, una delle responsabili, mi ringrazia per la collaborazione e mi dice di aiutarlo ancora nel caso ci fosse bisogno. Quando arriva il mio turno (avevo osservato attentamente tutta la procedura di lettura della retina e delle impronte) faccio tutto bene, ma mi rendo conto che l’inglese di tutti i giorni è un po’ più duro da digerire di quello usato da Bob Jenkins e Leigh Diffey nelle telecronache. Ho bisogno di più ripetizioni per capire cosa l’addetto cerca di dirmi. A un certo punto, tra le domande classiche, mi chiede quanti contanti sto portando con me. Gli rispondo “molti meno dei 10.000 dollari massimo concessi”. Appone il timbro sul passaporto (“è fatta coi documenti” mi dico) e mi saluta con un “have a nice day”. Mi ci vogliono parecchi secondi di riflessione per spiccicare un “you to”.
Una volta dentro l’aeroporto decido che è il caso di darsi una ripulita. Non posso lavarmi le ascelle, sarebbe un po’ imbarazzante. Mi fiondo in bagno, uso la provvidenziale salvietta umida dataci da Alitalia e con quella mi do una pulita, dopodiché mi metto l’antiodorante, scelgo una maglietta bianca, pensiono per sempre la rossa e sono pronto ad affrontare la prossima tappa, non proprio fresco come una rosa ma almeno non mi si sente da lontano. Mi sento rinato e sopravvissuto a una prova difficilissima, chissà poi quale.
Ora arriva il casino, si fa per dire. Devo rifare il check in e non so dove andare. Chiedo al banco informazioni, dove mi risponde un giovane di colore in giacca e cravatta che non capisce una cippa di quello che dico, e a ragione. Cerco di spiegarmi e con molta fatica, e un po’ di seccatura da parte sua, riesco a farmi dire dove devo andare. Tra scale e lunghissimi corridoi, con utili tappeti mobili (scena che ho rivisto in The Departed!) arrivo al Terminal. Nel tragitto ho una brutta sorpresa, provo la carta prepagata in un terminale ATM e non funziona. Allarmato ma non troppo chiamo casa e parlo con mia madre per almeno venti minuti. Ci eravamo tenuti in contatto per messaggio ma è bello e divertente parlare in italiano in mezzo a gente che non capisce niente…posso dire tutte le parolacce che voglio! Durante la chiamata provo un altro ATM e funziona! Prelevo 60 dollari che si sommano alla settantina che mi portavo dall’Italia.
Compro subito una bottiglietta d’acqua, (due dollari!), faccio un breve giro del terminal ma capisco subito che c’è poco da vedere, rassegnandomi a un’altra impossibile attesa. Indeciso sul da farsi, parlo con una carina e gentile signora che mi da alcune dritte. È troppo presto per il check in, quando sarà il momento non dovrò far altro che presentare i documenti e la prenotazione elettronica risolverà i miei problemi. Così faccio, presentandomi di nuovo alla sicurezza.
Fuso come non mai, resto fermo un po’ troppo a uno sportello, con l’addetta indispettita che mi dice “ID! ID!”. Realizzo che quell’ID sta per “identification”, quindi per documento. Maledico me che dormo a occhi aperti, ma anche loro che non sono capaci di dire mezza parola per esteso anche se ti vedono moribondo. Entro quindi nell’area duty free, dove ho una lunga e piacevole conversazione con una signora, titolare di un negozio di libri. Mi dice che è stata molto in Italia, dalle parti di Trieste. Non ha i libri sul motorsport che cercavo ma parliamo dell’Italia, di Berlusconi, delle differenze tra le lingue. Essere riuscito a sostenere una discussione lunga e non banale mi da fiducia.
Anche qui c’è comunque poco da vedere, anche se a pensarci bene un souvenir della città potevo prenderlo. Mi dirigo verso la mia uscita per Indianapolis. In mezzo ad americani nudi e crudi non sono spaesato, anche se sembrano intuire che non sono “uno di loro”. Vedo gente seguire il classico notiziario americano con partecipazione, sembra davvero di stare in un film. Una signora bionda e con gli occhiali ride alle parole di un bambino, nel notiziario per qualche motivo curioso. Si parla di un condannato a morte che potrebbe ricevere la grazia, tutti sembrano prestare attenzione, dev’essere un fatto di rilevanza nazionale. Di nuovo mi sorprende quanta gente usi l’aereo tutti i giorni. La maggior parte di coloro che attende il volo per Indy sono lavoratori che tornano a casa, come se stessero prendendo l’autobus. Degli aeroporti mi colpisce la pulizia e la “tecnologia”. Funziona tutto, i dispensatori di carta sono elettrici e fanno ruotare il rotolo appena avvicini le mani. Anche i rubinetti sono particolari. Quando tornerò a Fiumicino mi sembrerà di essere nel Medioevo.
È già tardi, le nove passate (ero arrivato alle due!) e l’aereo è in ritardo. “Perfetto” penso, “arriverò in albergo a un orario assurdo”. Sento un annuncio sul nostro volo, un cambio di uscita. Chiedo all’addetto, che conferma. Non resta che aspettare. Quando finalmente l’aereo compare, l’imbarco è rapido e mi ritrovo di nuovo da solo nei posti di fondo. L’aereo è più piccolo di quelli presi in Italia, un Embraer per spostamenti di medio-corto raggio. Il volo dura circa due ore, con un mal di pancia crescente. Ho anche fame però e prendo quello che ci viene offerto, tutta roba che al massimo fa crescere qualche brufolo ma non placa certo l’appetito. Le hostess si allarmano perché non vedono la mia cintura allacciata, lo è in realtà ma dalla loro posizione è difficile vedere. “E’ magia”, dico loro.
Finalmente si tocca terra. Mentre mi fiondo verso il recupero bagagli passo davanti alla March-Penske vincitrice di Indy nell’87, quasi senza degnarla di uno sguardo, “non è il momento” mi dico. Normalmente l’avrei ispezionata in ogni sua parte. Preso il bagaglio mi precipito fuori e chiamo un taxi con il sistema elettronico. Spingi un pulsantone rosso e dal parcheggio arriva una macchina. Quando dico al tassista dove devo andare, questi mi convince che sicuramente ci sarà una navetta che serve la zona, che potrei fare la tratta gratuitamente piuttosto che pagare lui 20 dollari. Io, stanco e confuso, pur sapendo che nessuna navetta serve il mio hotel, penso che magari lui si riferisca a quelle degli alberghi vicini, delle quali potrei comunque approfittare. Mi lascio convincere e lo ringrazio per l’aiuto. In realtà a lui non fregava niente dei miei soldi, voleva solo qualcuno che dovesse andare più lontano. Mi pento quasi subito della scelta fatta, è tardi e non ho voglia di aspettare shuttles. Giro l’aeroporto, chiedo in giro e trovo il fantomatico punto di approdo delle navette. Tutte però hanno sù scritto “employees only”. Il fatto che non capisca la scritta è un buon indicatore del mio stato psico-fisico. Chiedo a ogni autista che si ferma se serve la zona del mio hotel, loro ovviamente mi rispondono che non ci passano proprio. Sono infatti tutte navette del personale…chi mai abiterebbe in una zona di alberghi vicini all’aeroporto?!
Non si vedono altre navette, confusione e stanchezza, oltre alla certezza di essermi fatto prendere per il culo, cominciano a mandarmi fuori dai gangheri. Parlo brevemente con una coppia di anziani, che aspettano una navetta “vera” verso un hotel lontano in tutti i sensi dal mio. Li saluto e riguadagno, incazzato come non mai, la zona dei taxi, salendo sul primo che mi si para davanti. Qui la barriera linguistica appare insormontabile. Il tassista non è americano, gli dico il nome dell’hotel in cui devo andare, non lo conosce minimamente. “Andiamo bene”, penso. Gli indico la zona, gli dico l’indirizzo giusto, ma non capisce. Lì sono io a realizzare che la pronuncia è importante, che tu pensi di dire qualcosa bene ma che loro sono tutt’altro che flessibili. Dopo qualche chilometro ci capiamo finalmente, anche se l’hotel è molto più lontano delle due miglia scarse che Google Maps mi aveva prospettato. Quando vedo l’insegna, Econo Lodge, più tutti gli altri che avevo imparato a conoscere nel periodo della ricerca, mi dico che ce l’ho fatta, finalmente. Pago la corsa, 21 dollari più due di mancia, salutando il tassista. Nella reception, che mi sembra quasi un miraggio, mi accoglie un giovane di colore con gli occhiali. Anche qui la barriera linguistica si fa sentire, non riesco neanche a fargli capire il mio nome e non trova la prenotazione. Ho però la lucidità di fargli vedere per bene il voucher, che già gli avevo proposto all’inizio, prendo la chiave e mi dirigo verso la camera, senza aver più voglia di vedere niente e nessuno.
La stanza si trova al piano terra, il complesso mi appare come il più classico dei motel americani. È mezzanotte passata quando entro. La camera mi fa tutto sommato una buona impressione. Avevo letto commenti terribili sull’albergo e mi aspettavo il peggio. C’è un po’ odore di chiuso, ma il letto è pulito, la moquette in condizioni accettabili (chissà cosa tutto avrà visto), il bagno in ordine. C’è un televisore vecchio e enorme con telecomando, una scrivania con un vassoio e due bicchieri di carta, un telefono, una sorta di griglia con grucce per appendere i vestiti. Sul comodino campeggia la Bibbia, e qui mi sento davvero in America. Leggo l’informativa sulla porta, dice di non portare estranei in camera per nessun motivo e altre cose.
Il bagno non è male, è pulito, ci sono un sacco di asciugamani e la doccia mi sembra spartana ma utilizzabile. Il water ha il classico sciacquone americano, una levetta laterale. Si riempie d’acqua molto più in alto dei nostri, “pressione idrostatica permanente” penso. Certo quando caghi non dev’essere un bello spettacolo. Lo battezzo subito, dando sollievo alla mia pancia, ma è quasi tutta aria. Mi sorprende l’assenza di un frigo bar. Ho fame e tanta sete, ma per stasera dovrò resistere.
Alcune cose mi scocciano. La porta è durissima e difficile da chiudere. Riesco ad aprirla una volta, ma al secondo tentativo resta incastrata e non c’è modo di uscire. “Ci penserò domani a mente fresca” mi dico. Le finestre, per proteggersi dai furti immagino, sono fisse. Questo spiega in parte l’odore di chiuso. Niente di trascendentale, la mazzata però arriva subito dopo. Provo a caricare i miei dispositivi, il cellulare, il tablet, ma l’adattatore non funziona. Faccio tentativi di ogni tipo, uno fa addirittura saltare il salvavita del bagno. Non c’è verso, l’adattatore universale che mi dava tanta sicurezza è una fregatura. Mi incazzo di brutto e mi sento uno stronzo per non aver caricato per bene il telefono prima di partire. “Tanto ho l’adattatore” pensavo. Mi pento anche della lunghissima telefonata con mia madre a Boston, che mi è costata parecchia batteria. Avverto con un messaggio i miei del mio arrivo e, corredato il letto con il coprimaterasso che mi ero portato da casa, provo a dormire. Il letto è insolitamente comodo, un’altra sorpresa dato che in molti avevano sottolineato come “sarebbe stato meglio dormire in macchina”. Come spesso accade la stanchezza invita a dormire ma respinge il sonno, che so già non potrà essere troppo lungo, perchè domani dovrò alzarmi presto per prepararmi e arrivare in pista verso le otto e mezza. Dopo almeno 40 minuti di tentativi, riesco finalmente a dormire.
Mi sveglio dopo 3 o 4 ore. Non sono troppo stanco, solo un po’ incazzato per l’adattatore. Non sembro soffrire per niente del fuso orario, il recupero sorprende anche me. Alle prime luci dell’alba, saranno le sei, provo ad aprire la porta, invano. È ancora bloccata. Mi faccio la doccia, mi preparo e ci riprovo. Niente. La cosa inizia a diventare ridicola, un ingegnere che non capisce come aprire una porta. La tiro con tutte le forze, quasi mi stiro i muscoli delle mani nel tentativo di sbloccare la serratura. Niente. Solo la vergogna mi impedisce di chiamare la reception, ma lo sto per fare. Poi l’illuminazione. Do una spinta decisa alla porta, che scatta immediatamente chiudendosi in modo corretto. Sblocco la serratura, giro la maniglia e lei si apre naturalmente, senza sforzo. È una liberazione, ma mi sento un po’ stronzo. Se qualcuno dal Candlewood, l’hotel di fronte, stava guardando le mie acrobazie, si starà facendo grasse risate.
Esco finalmente, respirando la frizzante aria mattutina. Voglio fare colazione ma so che l’hotel non la serve più, per cui vado alla reception in cerca di delucidazioni. Non trovo nessuno, ma dalla vetrina vedo una tavola calda e, affamato e assetato, la raggiungo in breve. Alla reception dell’Econo Lodge mi sfugge però un particolare che noterò solo l’ultimo giorno. Non essendoci più il servizio colazione, gli ospiti hanno diritto a un 15% di sconto da Denny’s, verso cui sono diretto.
Entro nel locale, che appare tipicamente americano, come si vedono nei film. Mi viene in mente Scemo e più scemo. Un cartello dice di aspettare lì fino all’arrivo di una cameriera. Aspetto un po’, poi da italiano ignorante penso che forse è solo un formalismo che non segue nessuno. Non è così. Chiedo a una cameriera se posso avere un tavolo e lei mi ci conduce subito, sottoponendomi il menu. Lo leggo in lungo e in largo alla ricerca di una colazione “normale”, ma la mia normalità è diversa dalla loro: mi rassegno, mangerò carne e uova. Rispondo alla bell’e meglio alle domande della cameriera, alla quale confido la mia diffidenza verso quel tipo di colazione: “In Italia mangiamo diversamente” le dico, “tipo latte e corn flakes?” mi fa, “qualcosa del genere”. Nel frattempo mi porge un enorme bicchiere di succo d’arancia Minute Maid, gelato e squisito. Mi guardo attorno, abbottato di sonno ma finalmente pulito, contento, impaziente per la giornata che sta per cominciare e incuriosito da un ambiente così diverso.
Arriva la colazione. “Enjoy” mi dice la cameriera. La guardo un po’, poi la divoro. Il giudizio iniziale “strano”, si tramuta presto in “buono”. Sarà la fame, non so, ma penso di potermi adattare in fretta alla colazione americana. Le uova sono squisite, le migliori che abbia mai mangiato, di un colore giallo omogeneo, non sembrano neanche vere. Il mitico bacon è saporito e croccante come tutti lo immaginano, le salsicciotte ci stanno a meraviglia. Trangugio tutto, anche le due fette di pane simil tostato con una strana roba bianca e dolce sopra, che innaffio con una specie di sciroppo d’acero. Sul finire mi sento pieno, ma ripulisco il piatto. Mi alzo soddisfatto ma pesante, non so se potrò ripetere la performance l’indomani, di sicuro non mangerò nulla per molte ore.
Qui mi sorge un dubbio atroce, la mancia. La devo lasciare? Quanto devo lasciare? La cameriera mi da il conto al tavolo, io mi presento alla cassa dandogli 11 e passa dollari. Uno e mezzo in più di quanto pattuito. Lei mi guarda stralunata, “devo lasciare una mancia, no?” le dico, “si, ma è troppo” mi risponde. 15% mi sembrava il giusto, realizzerò poi che è proprio quanto avrei dovuto risparmiare come cliente dell’Econo Lodge.
Sistemata la colazione provo a chiamare un taxi, prima col telefono in camera, poi col mio, ma invano. Sembrava prestissimo ma comincia a farsi tardi. Vado alla reception dove mi accoglie una ragazza carina, che però ha la faccia di chi mangia qualche porcheria di troppo. È lei che mi chiama il taxi, che arriverà un quarto d’ora dopo. Scambio due battute con il personale. Si sincerano che tutto fosse in ordine, mi chiedono le solite cose, da dove vengo ecc. Tutto a posto, dico loro, ed è vero, sono contento anche se la storia dell’adattatore mi rode ancora. Arriva il taxi, una berlina gialla tipicamente americana guidata da una ragazzone di colore. È simpatico e chiacchieriamo per tutto il tragitto, che ancora una volta è più lungo di quanto mi aspettassi. Parliamo del mio viaggio, di quanto sia importante per me essere lì: “E’ un traguardo raggiunto” mi dice, e ha ragione.
Parliamo del posto, che a me sembra bellissimo. Le strade sono costeggiate da alberi, tratti verdi, giardini più o meno curati. A me piace, lui mi fa notare che siamo in periferia e non è niente di che, ci sono case fatiscenti e altri segnali di degrado. Ha ragione ma non mi sembra così male. Uno scoiattolo ci attraversa la strada e la cosa mi fa ridere, forse è il primo che vedo in vita mia e qui ti attraversano la strada come se niente fosse. Purtroppo lungo il tragitto ne vediamo molti altri meno fortunati.
Quando gli dico la mia destinazione mi verrebbe da dire Indianapolis, perché per me la città è sempre stata solo sinonimo di pista. Stando lì invece ti accorgi che è molto di più e probabilmente c’è un sacco di gente che del circuito e della gara se ne frega altamente. Devo quindi specificare meglio e dire “devo andare al Motor Speedway”. Guardando la loro tv percepisci però che l’evento è sentito e rappresenta comunque la manifestazione annuale più importante che si vive da queste parti. A livello nazionale la gara ha perso molta dell’attenzione che le era abituale, ma nello Stato e in particolare in citta è ancora “the big race”. Ci avviciniamo alla pista. Io non riesco a credere che di lì a poco vedrò il leggendario Indianapolis Motor Speedway. Arriviamo a un incrocio ed eccolo, vedo le immense tribune della curva 1 e sento chiaramente il rombo possente di motori girare in pista. La corsa è di 14 dollari, pago con un biglietto da 20 lasciando l’autista libero di prendersi la mancia, ormai sono confuso sul da farsi in questi casi. Lui, molto onestamente, mi da indietro tutto il resto che mi spetta. Mi da il suo biglietto da visita con la raccomandazione di richiamarlo nel pomeriggio, magari per fare una visita al centro.
Mi dirigo verso un semaforo dove sono raccolti numerosi tifosi, ben armati di borse frigo, birra, sandwich e tutto l’armamentario per le grandi occasioni. Probabilmente delle corse non gliene frega un bel niente e sono lì solo per il concerto, ma fanno colore e anche questo è il Carb Day, l’ultimo giorno di prove, che mi appresto a vivere. Finalmente varco i cancelli, passo sotto la grande insegna col simbolo della pista, mi sento come nel paese delle meraviglie. Fin da subito iniziano bancarelle di ogni tipo, con gadget che avevo visto solo su internet e cappellini di ogni pilota. “Sono in paradiso”, penso. Gli addetti convalidano il biglietto e controllano che non abbia appresso niente di vetro. Dopo di che mi salutano con un “have a nice day”, dandomi il programma del week end.
Mi guardo attorno meravigliato, è presto ma sento rombi provenire dalla pista e voglio vedere. Prendo la prima scala di accesso per le tribune e mi ritrovo in curva 1. Mi si apre un panorama che conosco a memoria ma che vedo in realtà per la prima volta. La Pagoda mi si staglia davanti, la torre delle posizioni, il traguardo, la torretta, le tribune imponenti, la corsia box, la sala stampa, la pista. Tutto è come lo avevo visto e immaginato.
Appena entrato sento Alex Zanardi parlare nell’altoparlante. Non riesco a credere che sia lì anche lui, anche se ci speravo. Sono arrivato appena in ritardo, saprò poi che era lì a ritirare una vecchia macchina e a far visita all’amico Jimmy Vasser. Se mi fossi presentato prima l’avrei incrociato di sicuro, ma chi poteva saperlo? Chiedo a due appassionati se fosse davvero lui, dico che è il mio mito, mio compatriota. Mi siedo e aspetto, ammirato per lo spettacolo. Vedo altre scale che portano più in alto e mi ricordo delle tribune superiori; è l’unica volta che potrò sedere in curva1 e voglio farlo nei posti migliori, salgo anch’io. La tribuna lentamente si riempie, da qui il panorama è ancora più esaltante, si vedono tre quarti di pista, anche il museo in lontananza.
Mi sono vestito leggero ma all’ombra il freddo è quasi pungente. Vicino a me c’è qualcuno vestito più pesante che batte i denti, altri in pantaloncini non mostrano il minimo segno di disagio. Inizialmente la cosa non è grave, col passare delle ore mi congelerò anche io. Come sempre gente di ogni tipo. Super appassionati armati di radio per ascoltare le conversazioni pilota-box, giovani, vecchi, americani e non. Semplici curiosi, c’è di tutto. Scatto foto all’impazzata mentre ascolto le Camaro che mi sfrecciano davanti con a bordo qualche vip da scorrazzare. Per un attimo mi fermo a pensare quanto avevo aspettato questo momento, quanto desideravo raggiungere la mia Mecca, l’emozione di essere in questo tempio. Le lacrime mi riempiono gli occhi.
Anche qui non manca una lunga attesa. Finalmente le macchine vengono portate ai box, lentamente preparate e poi, alle 11, si parte. Il momento dell’accensione dei motori è bellissimo, accompagnato da tutto il pubblico, così come emozionante è la bandiera verde. Mi vedo passare davanti tutto il serpentone. Le macchine sono tali e quali a come sono abituato a vederle, ma dal vivo i colori sono ancora più belli e intensi. Vedo i piloti muovere le mani nell’abitacolo, noto particolari mai visti. Mi sembra stranissimo essere nello stesso posto, a pochi metri, da persone che fino a ieri consideravo semi Dei. La velocità non mi impressiona particolarmente, quando ti passano sotto sono veloci ma non i missili che mi aspettavo. Se non li conoscessi sarebbe difficile anche per me distinguere i numeri, eppure mi aspettavo qualcosa di più. In lontananza le vetture appaiono molto più rapide, allontanandosi dalla vista sul rettilineo opposto con molto slancio. Neanche il rumore è assordante come lo aspettavo, tanto da farmi pensare che i tappi che mi ero portato non sono poi così necessari. E’ forte ma assolutamente sopportabile. Mi sorprende invece quanto corrano vicini, vediamo davvero manovre ravvicinate a velocità altissime. Alettoni che sfiorano le ruote come se fosse la cosa più normale del mondo. Lo vedo sempre in tv, ma dal vivo fa tutta un’altra impressione.
Scambio qualche battuta con altri spettatori, in particolare una signora di origine asiatica che mi dice di non conoscere nessuno. È la prima volta che viene ad assistere alla corsa. Faccio foto e ammiro le macchine passare per un’ora, poi la sessione finisce. È una liberazione, non perché lo spettacolo non mi sia piaciuto, ma perché stare fermo due ore all’ombra su quelle fredde panche metalliche mi ha congelato. La grande bevuta di succo d’arancia unita al freddo intenso mi spinge a cercare un bagno prima di ogni altra cosa. Sono tutti pieni ma ne becco uno rialzato completamente deserto. Piscio anche l’anima e la soddisfazione è immensa.
Il prossimo obiettivo è riscaldarsi, perché batto ancora i denti e da come mi guardano tutti devo avere un aspetto cadaverico. Incurante della visuale non ottimale, mi porto nella tribuna più battuta dal sole, sul traguardo, per assistere alla corsa delle IndyLights. Finalmente ho il sole che mi batte a picco, ma il freddo è tale che tengo addosso il mio giubbotto-pannello solare per parecchio tempo. Il sole che comincia a cuocermi la testa non mi preoccupa, tutto il tepore che posso ricavare è cosa buona e penserò dopo a comprarmi un cappellino. È fantastico essere così vicini alla Pagoda. La ammiro in tutta la sua maestosità, cosi come faccio con l’altro simbolo della pista, la torre delle posizioni, una sorta di obelisco attorno a cui tutta il nastro d’asfalto si snoda. Vedo da vicino anche la iarda di mattoni, la famosa Brickyard. Tutte cose che conosco a memoria ma che emozionano comunque. Tra il pubblico noto un gruppo di ragazze intente a tifare un loro amico pilota, parlo anche con due tizi di colore che si godono l’esperienza pur sapendo poco della corsa. Per la prima volta assisto all’inno americano dal vivo, fortemente applaudito da tutti. Poi è il momento del comando di accensione dei motori. Parte la corsa. Sono troppo in basso per godermi davvero la gara, ma il freddo mi fa fare questo e altro. Sacrifico la gara per il mio benessere, per una volta. La corsa è combattuta ma non troppo interessante. Le macchine in pista sono poche e anche dal vivo ci si accorge che guidare queste IndyLights non dev’essere poi così impegnativo. Il loro ruggito invece non è male.
La corsa va via senza particolari scossoni ma, improvvisamente, si crea un finale epico. Vedo la bandiera bianca dell’ultimo giro sventolare a pochi metri da me e ci alziamo tutti in piedi, seguendo la battaglia dal mega schermo. Tre macchine si presentano affiancate in curva 3, una cosa difficilissima a Indy. Rimangono così anche all’uscita di curva 4, ma sul traguardo il quarto si affianca e li beffa tutti. Un foto finish incredibile, proprio davanti a me, accompagnato dal colossale ruggito della tribuna. Miglior finale non poteva esserci. Non faccio foto ed è un bene, lo spettacolo andava vissuto senza distrazioni.
Dopo la premiazione è in programma la pit stop competition. Mi sposto verso curva 4, allontanandomi dal traguardo e portandomi in una zona d’ombra. Il casino è totale, tantissima gente, musica altissima, il falchetto delle Firestone che incita la folla e con un cannoncino portatile spara magliette dove il casino è maggiore. Lo speaker carica il pubblico inneggiando agli Indiana Pacers, che proprio in questi giorni si giocano l’accesso alla finale NBA. Ci sono anche le loro Cheerleaders.
Tutt’a un tratto vedo, incredibilmente, Alex Zanardi in compagnia di Chip Ganassi, dall’altra parte del rettilineo. Sono vicinissimi alla rete che separa i box dalla tribuna opposta. Con lucidità e determinazione inusitate, individuo in un lampo la strada per raggiungerli. Mi dirigo all’uscita, percorro il sottopassaggio e mi porto direttamente dietro di loro, davanti ad una immensa tribuna colma di gente. Mi fa sorridere l’agilità e la precisione con cui raggiungo la mia meta, sembro a mio agio come a casa.
Il caldo comincia a farsi sentire e infilo il giubbotto nello zaino. È pieno di gente che fa avanti indietro, la birra scorre a fiumi. Gran parte di questi è qui solo per una colossale bevuta e il concerto dei Poison, che comincerà subito dopo.
Io me ne frego della birra e del concerto, voglio vedere macchine, piloti, personaggi e…Zanardi. Da dietro la rete, ne seguo ogni passo. Parla con tutti. Noto tanti personaggi che sono abituato a vedere in tv. Da una parte mi sembra la cosa più normale del mondo, dall’ altra ho un sorriso ebete stampato in faccia, sono incapace di proferire parola. Vedo a pochi metri da me Scott Dixon e Dario Franchitti. Ci sono i meccanici dello scozzese, li conosco tutti. C’è Mike Hull, che parla con un sacco di gente davanti a me. Probabilmente mi vede da dietro i suoi occhiali scuri, chissà che pensa di questo pelato dalla testa scura che lo guarda incantato. Già perché intanto il sole comincia a fare i suoi effetti. Se all’inizio un po’ di abbronzatura poteva far piacere, la mia testa comincia a sembrare una lampadina. Se uniamo questo alle inevitabili occhiaie e i segni della stanchezza che mi porto in giro, non devo certo essere un bello spettacolo. Ma me ne frego, sono nel posto più bello della Terra a vivere un sogno iniziato molti anni fa.
Vedo Roger Penske, mio idolo assoluto, che scherza con Ganassi. Domenica saranno rivali come sempre. Zanardi parla con tutti, scherza con Andretti, Power, Franchitti, Hinchcliffe. Vorrei salutarlo, ma non voglio farmi notare troppo. Chiaramente un ossimoro, specie in un casino del genere. Quando sembra guardare dalla mia parte gli rivolgo un pollice verso l’alto, che ritiro ben presto, accorgendomi della mia stupidità. Lui non mi caga neanche di striscio. Ad un certo punto mi sembra di scorgere Rick Mears, un altro degli idoli che speravo di incontrare. È vestito tutto di giallo e sembra aver avuto un tracollo, ma d’altronde non lo vedo da un po’. Mi convinco che sia lui e lo faccio notare anche ad altri, solo dopo mi accorgerò che si trattava di un addetto della pista. Come posso aver preso un granchio del genere non me lo spiego…sarà stato il caldo.
Mi imbatto anche in personaggi particolari, come il falchetto della Firestone, che ora si aggira tra noi tifosi, Ci scambiamo un pugno amichevole e poco dopo do anche il cinque al sosia di Stig. Certo che per entrambi, con quel sole, la giornata non dev’essere stata facile. Mi pento amaramente di non aver fatto foto, solo dopo scoprirò di non averli immortalati. Mi passa davanti Ryan Briscoe in golf car con famiglia al seguito, li guardo andare via con un tizio seduto dietro che mi sorride, forse cogliendo il mio stupore.
La pit stop competition va avanti con Castroneves e la sua squadra che ne escono vincitori, ancora una volta. Helio raccoglie a sé i suoi uomini e all’improvviso scalano tutti la rete davanti a me. Il mio idolo di infanzia a un metro e mezzo di distanza! Gli scatto tre foto perfette e mi riesce solo di gridare “GO Helio!!!”. Parlo con un’addetta della pista. Mi dice “al posto giusto nel momento giusto”, parliamo di come Helio sia comunque un ragazzo coi piedi per terra, molto simpatico. “Anche Dario” le dico. Lei mi risponde che la moglie, Ashley Judd, aveva dei comportamenti da reginetta, ma lui è senz’altro un ragazzo a posto. Mi chiede da dove vengo e se è la prima volta che vado a Indy, poi ci lasciamo quando mi fa notare che Dario è lì vicino. Cerco di seguire Zanardi, ma scappa con Franchitti su un golf cart e non lo beccherò più per tutto il fine settimana, un gran peccato.
Mentre molti si recano al concerto in un altro punto della pista, io esploro le tante aree a noi accessibili. Visito tutti i negozi, ovviamente molto simili gli uni agli altri. Ci lascerei tutto il budget ma alla fine compro solo il programma ufficiale. Vedo tutto, cerco anche di salire sui piani rialzati ma mi fanno notare che senza pass non posso accedervi. Il posto è davvero grande e l’interno bellissimo.
Sembra un paese, con una piazza, un enorme sezione con tavoli e sedie, negozi tutt’attorno. Vedo anche gli stands delle squadre e adocchio alcune cose che mi porterò a casa i giorni seguenti. Limito gli acquisti in previsione della fiera della memorabilia in programma l’indomani, dove troverò di tutto di più, penso. Intanto la batteria della fotocamera comincia a esaurirsi e devo scegliere i soggetti con attenzione. Percorro tutto il fan village, con un sacco di attrazioni per tutti, ma penso che fare certi giochi da solo non avrebbe senso quindi non mi lascio prendere più di tanto. Vedo lo stand Chevrolet dove ammiro numerose Corvette, Camaro e la vettura di Hunter Reay, la prima volta che vedo un’IndyCar da vicinissimo. Davvero bella.
Altre vetture, stavolta d’epoca, erano in esposizione nell’area dei garages. Ne fotografo una con Stig dentro che mi saluta. Scoprirò poi che quelle vetture avevano girato in pista mentre io litigavo con la porta o facevo colazione.
Mi dirigo al museo, tappa fondamentale del mio viaggio. C’è un sacco di gente, tutti quelli che come me non sono lì per il concerto e magari visitano lo Speedway per la prima volta. Pagato l’ingresso, scopro che il museo si compone di due sale principali e una più piccola, dedicata a Parnelli Jones, l’eroe celebrato in questa edizione della corsa. Onestamente rimango un po’ deluso, il museo è grande ma mi aspettavo di più. Le macchine presenti sono le solite, quelle che sapevo ci sarebbero state. Speravo in un po’ di ricambio, specie sapendo che sotto di noi, nelle “segrete”, sono custodite tantissime altre vetture, che magari mi avrebbero interessato di più. Vengo preso da una specie di raptus del fotografo, senza godermi a pieno ciò che vedo. Fotografo di tutto perdendomi il meglio e la batteria esala l’ultimo respiro proprio prima che possa immortalare il Borg Warner Trophy, lo storico trofeo che raccoglie in basso rilievo il viso di tutti i vincitori. Il dolore è ancora più grande perché so che la coppa rimarrà in esposizione solo per oggi. Nel resto del week end sarà sballottata in giro in tutti i vari eventi. La guardo avidamente, cercando di stampare nella memoria tutti i suoi dettagli e le sue particolarità. Scatto due foto con il telefono, sapendo di non dover esagerare dato che non so quando lo potrò ricaricare. Comunico con casa mia solo attraverso sms, tenendo sempre il telefono spento per preservare la batteria.
Sono circa le 17.30, non mangio dalla mattina. Non ho fame, ma mi sembra di avere un calo di zuccheri. Probabilmente tutta la fatica si fa sentire in un colpo solo, perché d’un tratto voglio solo tornarmene a casa. Do un’ultima occhiata generale, anche se so che farò un’altra visita al museo, ed esco. Il sole è sempre più basso ma la mia testa lo ha visto anche troppo. Comincia seriamente a darmi fastidio. Decido quindi, finalmente, di comprarmi un cappellino. Lo faccio in un negozio esterno dove non posso neanche guardarmi, prendo il primo che mi sembra decente. Guadagno l’uscita velocemente, goccia di una marea di gente che lascia la pista in preda all’alcol. Nel sottopasso c’è come sempre un gran vociare, un gran casino, non capisco cosa urlano in coro. Pensavo di tornare a casa con lo stesso taxi della mattina, ma sono troppo stanco per chiamare e mi infilo nel primo che risponde al mio richiamo.
Il tassista si rivela subito poco simpatico, sembra fumato e passa tutto il tragitto scatarrando. Gli chiedo, senza troppa convinzione, se nei paraggi c’è un negozio di elettronica per comprare un nuovo adattatore. Lui vorrebbe portarmi ad un Kmart chissà dove. Lascio perdere, gli do quanto gli spetta e lo liquido. Entro in camera distrutto e assetato. Vado da Denny’s sperando che vendano bevande da portare via. La commessa mi guarda basita e mi rifila con fare scocciato un bicchierone che mi porto in camera. Lo scolo quasi tutto e mi metto a letto, alle sette di sera, in stato confusionale.
Mi sveglio nel cuore della notte, annoiato e senza riuscire più a chiudere occhio. Guardo un po’ di televisione e uso il tablet per guardare le foto scattate il giorno prima. Così facendo ricarico anche la macchina fotografica, cosa che mi permetterà di usarla anche oggi, almeno per un po’. Faccio anche un giro su internet, dopo essermi fatto dare il giorno prima il codice di accesso, ma la linea è pessima. Inizia a farsi mattina e comincio la preparazione. Devo essere in pista presto, per non perdere la sessione di autografi. Purtroppo non andrà cosi. A colazione ho molta fame e scelgo un mix ancora più esplosivo del giorno precedente. Ci sono delle specie di fettine impanate, patate a scaglie e altre robe strane. Il tutto risulta piuttosto pesante.
Mi faccio chiamare dall’hotel lo stesso taxi del giorno prima, cosa che mi costa ancora più tempo. Il mio fidato tassista poi me ne fa perdere anche di più, non avendo il resto e dovendosi fermare in un distributore a cambiare soldi e comprare il pranzo. Distributore frequentato da personaggi che non sembravano troppo raccomandabili. Morale, arrivo in pista quando la sessione di autografi sta per finire. Non faccio in tempo a mettermi in fila che le linee vengono chiuse. Avrei voluto salutare Castroneves, fargli autografare il suo libro che mi porto appresso come inutile zavorra, ma non ci riesco.
Conosco un appassionato, un signore più grande di me, che ha un annuario del 2001 che vorrebbe farsi firmare. Gli autografi sono finiti ma mi dice di mostrare il libro a Helio, vedendolo lui lo firmerà. Ma il brasiliano è impegnato in un intervista e non si volterà più verso di noi, per cui niente autografo. Avrei voluto salutare Kanaan, dirgli che ero lì per vederlo vincere, ma niente da fare.
Almeno li vedo andare via tutti, mi passano davanti. Castroneves, Hunter Reay, Andretti. James Jakes dice che stava seguendo le qualifiche di Monaco. Mi verrebbe da dirgli “sei a Indianapolis, chissenefrega di Monaco”, ma evito. Bourdais fa una smorfia mentre va via. Saavedra sale sul suo mezzo e aspetta di poter andare. Sarà a un metro e mezzo di distanza, nessuno lo nota, quasi mi dispiace. A sessione di autografi finita Hinchcliffe intanto continua a firmare roba lanciatagli dai tifosi. Può sembrare una cazzata ma si conferma un grande. Insomma li vedo quasi tutti, fino a Ed Carpenter, il poleman, che mi ritrovo a mezzo metro. Ci guardiamo in faccia per qualche secondo, ma non riesco a dire niente. Non che fossi emozionato, non avevo niente da dire. Ero solo contento di essere lì. “Chissà se a Monaco uno spettatore qualunque potrebbe vedere le stesse cose”, mi chiedo. La libertà che ci viene lasciata, la disponibilità dei piloti, non smettono mai di sorprendermi. A parte in pista, si è liberi di andare praticamente ovunque ed esplorare in lungo e in largo questo posto magnifico.
Ho un problema però, un problema grosso. Già salendo sul taxi sentivo una certa pressione in pancia. La cosa si era aggravata nell’avvicinamento alla pista, perché per entrare all’interno del circuito ho dovuto percorrere un lunghissimo tratto a piedi. Per farla breve, mi sto cagando di brutto, una cosa terribile. Pago tutte insieme le due smisurate colazioni, col mio intestino che mentre ero a casa non aveva dato particolari segnali di malessere. Li da tutti ora, in modo allarmante. È però il momento del drivers meeting sul traguardo, l’evento principale della giornata. Decido di resistere e a fatica mi piazzo in un posto a media altezza nella tribuna cui davo le spalle ieri pomeriggio. Un‘esperienza agro dolce a causa del mio stato. Dalle tribune si levano voci di ogni tipo verso i piloti, anche quelli non presenti. Qualcuno inneggia a Briscoe, che un po’ imbarazzato deve salutare a più riprese. Come sempre Kanaan, Castroneves, Carpenter sono i più apprezzati. Davanti a me si siede un gruppetto di gnocche niente male, che già avevo notato alla sessione di autografi. Non mi sorprenderebbe se fossero delle specie di groupies, di certo è evidente che non sono troppo interessate al talento di guida. Il loro preferito sembra Marco Andretti, “quanto è carino” dice una di loro. C’è anche un grassone che cita rumorosamente i piloti, in particolare Bourdais, che chiama col soprannome SeaBass. Insomma, il solito colorito casino.
Tra i tanti “notabili” scorgo Max Papis, che da sotto il palco dà una specie di pizzicotto all’amico Franchitti. Mi sembra di vedere la sorella di Dan Wheldon, Holly e forse la moglie Susie. Ieri avevo visto anche la moglie di Dixon, la bellissima Emma. C’è l’inossidabile Bobby Unser, c’è ovviamente il direttore di gara, Beaux Barfield, che prima di prendere la parola sorseggia un tazzone di caffè e sembra una rock star. C’è Gian Paolo Dallara, che tanto avrei voluto salutare. C’è l’amministratore delegato, Mark Miles. Tutti i pezzi grossi insomma. La cerimonia va avanti tranquillamente, senza grossi momenti topici. Per fortuna c’è la mascotte del team Panther a tenerci svegli. Non sono mai stato un grande sostenitore di questi show ma era molto divertente. A volte tocca alzarsi, l’ultima cosa che vorrei fare in queste condizioni di precario equilibrio intestinale. Quando la cerimonia finisce, tutti lasciano la tribuna. Mi piacerebbe seguire Max Papis e scambiarci due parole, ma onestamente sto troppo male.
Vado più in fondo possibile nel lungo “corridoio” parallelo al rettilineo principale, cercando il bagno meno trafficato. C’è gente ovunque. Poi ne trovo uno un po’ più “isolato”, si fa per dire. Quasi tutti i bagni sono dei pisciatoi con in più qualche cesso con le porte. Mi fiondo in uno di questi, vincendo la mia resistenza a farla nei bagni pubblici, non posso davvero farne a meno. Mi lascio andare e finalmente mi svuoto. L’esperienza ha del tragicomico. Rimango in bagno almeno mezz’ora, durante la quale dimezzo un enorme rotolone della classica carta di bassa qualità. Non esco fino a quando non sono assolutamente certo di essere “in ordine”.
Finalmente mi rilasso e penso sia stata la decisione più giusta mai presa nella mia vita. Torno sulle tribune e mi godo la pista vuota. Poi è ora degli altri appuntamenti della giornata. Le sessioni di autografi con i piloti “storici” e la fiera della memorabilia. Ho una sete bestiale e acquisto una bottiglia d’acqua da mezzo litro che mi costa lo sproposito di 4 dollari! Di meno non si trova. La fila per gli autografi è così lunga che non si capisce dove inizi. Decido di usare diversamente il mio tempo, pensando ingenuamente di poter tornare verso la fine. Cerco la fantomatica fiera. Ero sempre stato convinto che si sarebbe tenuta all’aperto, per cui la cerco in tutti gli spazi più grandi. Chiedo ai vari addetti sparsi per tutta la pista, ma ognuno dà indicazioni diverse. Il tutto è piuttosto deludente e mi sarei aspettato molta più coordinazione e assistenza per gli spettatori. O forse gli organizzatori non credevano che si potesse arrivare a certi livelli di stupidità. Insomma, giro la pista in lungo e in largo, ma la fiera non si trova. Vado verso curva 4, faccio la cosa più utile della giornata raccogliendo una roba caduta a un membro dell’organizzazione, risparmiandogli una lunga camminata. Quasi fuori dalla pista chiedo agli ennesimi addetti. Un signore anziano mi indica la Pagoda e me ne parla come se non sapessi dove mi trovo. Gli dico che so tutto della Pagoda, voglio sapere esattamente dove si trova la fiera. Sulla via del ritorno becco Mark Miles, l’amministratore delegato, che sta salendo su un’auto probabilmente per andare alla parata in città. Penso di chiedere lumi anche a lui: “Dove cazzo è la fiera Mark?!”, ma desisto. Torno alla zona della Plaza e va a finire che la fiera era dentro degli uffici vetrati, che non lasciavano trasparire granché dall’esterno. Mi sento un perfetto idiota. Di certo ho bruciato ogni tipo di caloria, però il posto non è per niente ben segnalato.
La fiera è come me l’aspettavo, c’è di tutto. Non trovo quello che cerco di più però, il libro su Greg Moore. Ci sono magliette, gadget, foto, modellini in quantità industriale. Alla fine acquisto due annuari che avevo adocchiato su internet da anni e un modellino autografato di Montoya, da regalare a mio padre. La famigliola che mi vende i libri è molto simpatica, marito moglie e un ragazzino timido, che mi guarda con occhi sorpresi, non saprei dire se per l’importanza che do a due libri che magari avevano buttati a casa e a cui non dava nessun valore, o per il lungo viaggio che ho dovuto fare per essere qui. Il padre fa delle battute sicuramente divertenti, che però il mio inglese non mi permette di capire a pieno. Prima scherza sul prezzo, entrambi i libri costavano 10 dollari, poi paragona il mio modo di parlare agli abitanti del Mississippi. “Non sembro abbastanza italiano?” gli chiedo con un sorriso. Soddisfatto degli acquisti tento ingenuamente di mettermi in coda per gli autografi, ma mi viene fatto notare che le file sono chiuse e sono già iniziate quelle della nuova sessione, in cui ci sarà anche il grande Mario Andretti.
La fila è interminabile. Arrivato in fondo, faccio una delle più piacevoli conoscenze del viaggio. Incontro Jim, un signore della Florida con cui ho una lunghissima conversazione, che dura più di un’ora. Mi dice che sono decenni che viene a Indianapolis, segue tutte le gare che può. Mi racconta della sua esperienza nello Speedway, quando ha guidato delle vetture con motori di motociclette, dei suoi svariati incontri con Andretti e altri personaggi dei tempi eroici. Mi dice che un suo amico pochi giorni prima ha incontrato il grande Rick Mears in Florida. Gli ha detto che sarebbe venuto a Indy solo la domenica. Mi mangio le mani quando dice che Rick era alla sessione d’autografi proprio l’anno scorso.
Io gli racconto del mio viaggio, di cosa significhi per me essere lì. Parliamo di tutto e per me è una gioia avere finalmente qualcuno con cui conversare alla pari sul mio argomento preferito. Qualcuno che, come dimostrato, può anche insegnarmi qualcosa. A volte mi sembra quasi indispettito dal mio parlare troppo o dal fatto che lo interrompo. Cerco di limitarmi, ma penso capisca, se non capisce glielo spiego, che in Italia conversazioni del genere sono quasi impossibili. Parliamo anche di Zanardi, che come me ammira tantissimo. La discussione si estende anche ad altri appassionati, ma quando parlano tra americani mi è difficile stare al passo col discorso. Giudica comunque il mio inglese eccellente, il complimento che, a ogni longitudine, più mi inorgoglisce, anche se lo so essere una mezza verità. Nei discorsi non motoristici le cose non sono così semplici, anche se ho dimostrato di sapermela cavare. E la cosa mi da molta soddisfazione. Ci facciamo poi una grossa risata nel momento in cui un venditore di birra invita all’acquisto con la motivazione che, “la birra rende la fila più breve”. Sono però un po’ deluso quando veniamo informati che Mario Andretti ha dovuto lasciare il banco degli autografi per impegni già previsti. La fila praticamente si dimezza. Saluto quindi calorosamente Jim, che cerca autografi di piloti diversi da quelli che interessano me. Un addetto poi ci fa trasalire quando, scherzando, ci annuncia che il tempo è scaduto.
Quando finalmente mi trovo dinnanzi ai piloti, la faccia da ebete colpisce ancora. Li conosco quasi tutti, ma non riesco ad andare oltre un sentito “thank you”. Molti mi chiedono “how are you doing?”, che realizzo dopo (non che ci volesse tanto) significa più o meno, come andiamo? Certo se parlassero un po’ più piano e senza contrarre tutto sarebbe più facile. Per non fare brutta figura a volte, bloccato, non rispondo, facendone una peggiore. Per far capire la mia situazione dovrei camminare con una maglietta “non sono americano”, ma va bene lo stesso. Mi trovo al cospetto di Bill Simpson, al quale riesco a dire “è un onore”, ma è un po’ vecchio e non mi sta a sentire. Ci sono Robby McGhee, Eliseo Salazar, Billy Roe, Soldana e molti altri, non leggende, ma comunque meritevoli di rispetto e ammirazione per aver corso in questo posto. C’è anche Hiro Matsushita, al quale vorrei rispondere “thank you King”, ma non ho mai capito quanto il soprannome fosse ironico, per non rischiare problemi evito. La fila finisce con Jaques Lazier, Kenny Brack, Stefan Johansson e Derek Daly. Brack è il pilota che più tenevo a vedere, in altre circostanze avrei tante cose da dirgli, ma non spiccico parola e mi firma il cartoncino praticamente senza guardarmi in faccia. Ringrazio Johansson in italiano con un “grazie mille”, sapendo che per due anni ha corso alla Ferrari. Lui mi guarda strano, gli dico in inglese ”parli italiano, no?”, lui risponde nella nostra lingua: “pochissimo”. Rido. A Daly dico che mi ha insegnato un po’ d’inglese. Di fronte al suo “how?” rispondo, “con i tuoi commenti”. Mi dice “ah, buono a sapersi”.
Saluto e mi dirigo verso le tribune, dalle quali dovrei assistere ad un evento della Hot Wheels, contento per la splendida giornata, anche se speravo di cavarmela meglio con i piloti. Nell’attesa sfoglio i libri appena acquistati. Si sta benissimo, il cielo è stato coperto tutto il giorno, impedendo al sole di continuare l’opera di cottura portata avanti ieri. La temperatura è perfetta, si può camminare tranquillamente a maniche corte senza sciogliersi in un bagno di sudore. Vedo Mario Andretti, che si era assentato proprio per partecipare alla corsa delle Hot Wheels, che si rivela una noia mortale. Al termine dell’evento spero di incrociare Mario, di poterci scambiare due parole in italiano. Sarebbe il ricordo più prezioso del viaggio. Niente foto, la macchina si è esaurita da parecchio. Lo vedo impegnato in varie interviste che sembrano interminabili. Vado a farmi un giro senza vedere nulla di significativo e un quarto d’ora più tardi torno a cercarlo.
Non si trova, fino a quando lo vedo, a pochi passi da me, intento a firmare autografi. Stupidamente cerco nello zaino qualcosa da fargli firmare. Quando mi rialzo se ne sta andando sul suo motorino e non posso fermarlo. Era già stato fin troppo gentile a fermarsi con gli altri, più svegli di me. Giro un po’ nell’area dei garages, guardo i meccanici al lavoro su alcune macchine, ma di Mario non c’è traccia.
La pista comincia a svuotarsi e inizia a piovigginare. Me ne vado anch’io. Trovo subito un taxi, guidato da un ragazzo eritreo molto simpatico. Si dimostra subito disponibile. È l’ultimo giorno in cui posso trovare un adattatore, così gli chiedo di portarmi in qualche negozio. Mi conduce da Radioshack, dove mi dice di aver recentemente acquistato un caricatore da auto che però funziona quando gli pare. Le premesse non sono buone ma non m’interessa. Entro nel negozio e vengo assistito da una ragazza, a cui spiego la mia situazione relativamente all’adattatore. Ce ne sono di due tipi. Dopo mille elucubrazioni sulla forma della presa, sulla possibilità che il mio adattatore non funzioni per colpa delle prese vetuste dell’hotel, scelgo quello più semplice. Lo pago una decina di dollari, la ragazza non mi fa pagare le tasse. La testa bruciata, le occhiaie, l’inglese zoppicante, le incertezze sulla presa giusta devono averle fatto pena. Torno a casa, parlando con l’autista di quanto l’Italia abbia pesato sulla cultura del suo paese. Una volta giunti a destinazione, lo saluto caldamente.
Appena varcata la soglia provo l’adattatore e con mia somma gioia funziona! La giornata si trasforma in un trionfo. Sento che potrei restare in America per sempre. Per completare l’opera vado ad una stazione di servizio, dove già mi ero recato stamattina per prelevare dal bancomat. In America sono disseminati ovunque. Acquisto una tanica da un gallone di acqua, che in tre giorni non riuscirò a finire, più un gustosissimo sandwich. Ho appena appetito, ma lo mangio in pochi morsi perché è troppo buono. Nonostante la difficile esperienza coi bagni di Indianapolis, la colazione mi ha tenuto in forze per più di dieci ore! Mi sembra una giornata perfetta, quasi l’apice della mia vacanza. Penso di aver già vissuto tutto, non riesco a credere che quanto visto fin’ora sia solo il preludio di ciò che accadrà domenica. Mi ero quasi dimenticato che il giorno dopo ci sarebbe stata la gara! Guardo un po’ di tv ma mi addormento in fretta. Domani devo uscire di casa molto presto per evitare il traffico, che dopo le nove può diventare terribile.
Foto Secondo Giorno
Mi sveglio verso le 5. Chiamo subito a casa, dove sono sorpresi di sentirmi. Per due giorni avevamo comunicato solo tramite sms. La conversazione dura decine di minuti, ho così tante cose da raccontare! Poi inizio a prepararmi. Verso le 7.30 vado da Denny’s, dove faccio la stessa colazione con uova, bacon e salsicce del primo giorno. Il parcheggio dell’hotel è sicuramente più animato rispetto ai giorni scorsi e anche il locale è pieno di appassionati. Mentre torno verso la camera un taxi mi si accosta e l’autista mi chiede se ho bisogno di un passaggio. Gli chiedo se è disposto ad aspettare una mezz’oretta, lui acconsente. Non voglio ripetere l’esperienza del giorno prima, così cammino e saltello sul posto per 20 minuti, cercando di stimolare qualcosa nel mio intestino. Sembra tutto a posto però, così decido di partire, sperando di non avere brutte sorprese.
Come mi aspettavo, molti giardini sono stati adibiti dai proprietari a parcheggi a pagamento. In giro c’è un sacco di polizia per gestire il traffico, che però sembra ancora ordinato. Chiedo all’autista se è possibile fermarsi in qualche stazione di servizio. Ci fermiamo a un distributore, dove acquisto per meno di un dollaro un bottiglione d’acqua. Non voglio farmi fregare di nuovo 4 dollari al circuito. Il tassista si premura di sapere dov’è il mio posto in tribuna, così da lasciarmi nel punto d’accesso più vicino. Arriviamo a destinazione e con mia sorpresa il conto è di una quarantina di dollari. Non avevo mai pagato più di venti. Il tassametro era spento e il tassista mi spiega che per il “race day”, la tariffa è fissa. Ha ragione, pagherò lo stesso importo anche al ritorno. Anche lui ovviamente mi lascia il numero per chiamarlo al pomeriggio, cosa che al solito sarò troppo stanco per fare.
Scopro subito il bidone che mi ha rifilato. Mi ha infatti lasciato dalla parte opposta rispetto alla mia tribuna. Non è una cosa negativa però, dato che mi permette di andare in biglietteria e ritirare il cartoncino giallo che garantisce l’accesso alla garage area nel dopo gara. Ho qualche difficoltà a spiegare alla signora allo sportello la mia esigenza, ma in breve posso uscire trionfante col mio pass. Come sempre c’è la convalida del biglietto e gli addetti verificano che nessuno porti con sé oggetti di vetro. C’è molta più gente rispetto ai giorni precedenti, cosa che rende il tutto più lento, ma sono libero in breve. Mi prendo un mezzo spavento al bancomat quando il terminale mi da solo 4 delle 5 banconote da 20 che avevo chiesto. Faccio quasi per andare a chiedere aiuto quando spunta l’ultimo bigliettone. Tiro un sospiro di sollievo, ridendo insieme ai ragazzi in fila dopo di me.
È elettrizzante trovarsi dentro lo Speedway il giorno della gara. Si respira un’aria particolare e l’enorme folla amplifica tutto ciò. Comincio ad avvertire cosa significherà per me questa giornata e questa esperienza. Il sentimento di far parte di qualcosa di grande. 300.000 persone che accorrono nello stesso posto per assistere ad uno spettacolo che si ripete, rinnovandosi, uguale nello spirito da un secolo. I piloti dicono spesso che correre a Indy è prima di tutto un orgoglio e un privilegio. Penso che il tutto si possa estendere anche agli spettatori. Essere in questa cattedrale della velocità è per me un privilegio.
Entro dal sottopasso principale all’interno della pista, dove si muove un mare di folla. È presto, ma c’è già tantissima gente. Più tardi, stento a crederlo, sarà molta di più. Giro in lungo e in largo la zona dei garages, la Plaza, la zona intorno alla Pagoda. Tutto ormai mi è molto familiare. Sul rettilineo principale sono già iniziate tutte le manifestazioni. Vorrei poterle vedere, ma il mio biglietto vale solo per la curva 3. La gente è così tanta che in certi punti le direzioni di spostamento sono obbligatorie. Ci si inizia a disporre intorno alla Gasoline Alley per veder passare macchine, piloti e celebrità varie, anche se è ancora molto presto. Dietro la tower terrace osservo la banda musicale suonare le tipiche cornamuse. Dopo un po’ mi stufo e comincio lentamente a dirigermi verso la “mia” zona. Passo davanti agli stands delle squadre e osservo un po’ di mercanzia del team Penske. Parlo con un’inserviente e chiedo a che ora chiuderanno. “Non posso portarmi appresso gli acquisti tutto il giorno” le dico. Lei concorda, dicendomi che rimarranno aperti almeno fino a un’ora dopo la fine della corsa.
Continuo a camminare, vagando senza una meta precisa per far passare il tempo, tenendomi alla larga dal fiume di gente della Plaza. Percorro un prato, adibito solo per oggi a parcheggio, è poi a ritroso il rettilineo di ritorno dello stradale, la Hulman Boulevard. È ancora troppo presto per andare in tribuna, mancano almeno tre ore alla partenza. Vedo per la prima volta aperti gli ingressi per il campo da golf interno alla pista. Non ero mai stato su un prato del genere e non mi faccio scappare l’occasione. L’ambientazione è rilassante, da un certo punto di vista agli antipodi con una corsa automobilistica. Percorro prati, colline, aggiro laghetti dove soggiornano papere e vari animaletti. Continuo l’esplorazione di questo tratto per me inedito lasciando il campetto e percorrendo la parte interna del rettilineo opposto a quello dei box. Qui osservo la cultura delle corse americane in tutta la sua più pura ed esplicita essenza: borse frigo piene di birre, griglie con sopra la carne, sedie sdraio, asciugamani sull’erba, giochi di vario tipo. Un’autentica festa paesana a indispensabile corollario della corsa più sacra del panorama automobilistico. Molti di loro conoscono giusto i 3-4 piloti più famosi e non seguono minimamente il campionato. Sono solo qui per onorare una tradizione e passare una piacevole giornata in compagnia con i motori in sottofondo. Il clima di festa diventa ancora più palpabile quando arrivo allo Snake Pit, dove il tutto raggiunge l’apice. Una festa all’aperto sulle collinette interne alla curva 3, dove la birra scorre a fiumi, i palloni da football volano nell’aria e magari scoppia anche qualche rissa.
Percorro il sottopasso della Nord Chute e mi ritrovo fuori, alla ricerca della mia tribuna. Come in tutto il resto della pista, ci sono innumerevoli venditori di cibo tipicamente americano, carne cucinata in tutti i modi possibili e nessuna traccia di verdura! Mi incuriosisce in particolare la cosidetta Turkish Leg, un coscione preparato arrosto di un animale non meglio identificato, che ti viene venduta avvolta in un pezzo di carta. Da mangiare rigorosamente a morsi. Durante la giornata mi ritroverò più volte a schivare pezzi di questo ammasso di carne persi da affamati acquirenti. Normalmente mi piacerebbe provare un po’ di tutto, senza dubbio squisito, ma la mia colazione impegnerà il mio apparato digerente per molte ore ancora. Le bevande partono come sempre dai soliti 4 dollari, indipendentemente dal grado alcolico. Ci sono numerosi chioschi per affittare delle seggiole con cuscini. 10 dollari per tenere il sedere contro una superficie morbida, dopo la corsa vanno riconsegnati.
Arrivo finalmente alla tribuna, ancora semideserta. Non mi è difficile trovare il mio posto. Mi compiaccio subito della scelta, sapevo di aver preso degli ottimi posti ma la visuale va quasi oltre le mie aspettative. Si vede tutto quello che volevo. Scambio due battute con una signora arrivata prima di me: “Gran bei posti” le dico, “sicuri”. È sorpresa da questa mia affermazione. Se potesse si toccherebbe le palle. Non nego che una delle mie preoccupazioni erano i possibili detriti derivanti dagli incidenti. “Sono molti anni che prendiamo questi posti” mi dice. Mancano ancora due ore e mezza alla partenza e non mi sono portato niente da leggere. L’ennesima, lunghissima attesa di questo viaggio. Penso che gli organizzatori potrebbero rendere più interessante queste ore per chi non è sul traguardo. Succede tutto lì. Non che non immaginassi la cosa ma almeno non c’è caldo e questo rende il tutto più sopportabile. Passo le ore successive a chiedermi se sia il caso di procurarmi un sediolo con cuscino. La gran parte di chi arriva ne ha uno in affitto o di proprietà. Alla fine mi dico che ce li hanno soprattutto gli anziani, resisterò. Si rivelerà una buona scelta dato che non soffrirò nessun fastidio dalle panche metalliche, pur rimanendoci seduto almeno 5 ore. Sarà l’effetto della gara, chissà.
Pian piano le tribune si riempiono. In cielo passano numerosi aerei con messaggi pubblicitari. Si sono moltiplicati rispetto alle giornate precedenti. Osservo i giochi nello Snake Pit e dal mega schermo di fronte vedo le vetture che vengono portate in pista. L’emozione cresce. Le tribune sono sempre più piene. Non bisogna dimenticarsi che oltre alla corsa si festeggia il Memorial day. Gli amici americani me lo ricordano fin troppo bene, con un’interminabile parata di eroi dell’arma che ci tiene in piedi ad applaudire per almeno un quarto d’ora. Non sono mai stato un sostenitore della politica imperialista americana e spesso ho trovato ridicolo il loro “amore” per le forze armate. In questa situazione mi sento comunque in dovere di applaudire questi uomini e queste donne che, a torto o a ragione, sono sicuro hanno agito nel rispetto di un ideale vero. La bandiera verde si avvicina e le parate si susseguono. In precedenza erano sfilate Miss di ogni tipo. È ora la volta di diversi vincitori del passato, tra i quali Bobby Unser, Tom Sneva, Kenny Brack e l’onnipresente Parnelli Jones. La prima comparsata la fanno alla guida delle vetture con cui hanno vinto le loro edizioni, la seconda a bordo di alcune storiche pace car Corvette, tra cui la splendida Sting Ray.
In un attimo di relativa quiete, sento levarsi sempre più forte un applauso dalla tribuna a fianco alla mia. Le reti e la gente in piedi mi impediscono però di capire cosa succede. Poi vedo Lui, Rick Mears, che come se nulla fosse attraversa la tribuna sorridente, mentre incassa gli applausi di chi l’ha riconosciuto, recandosi sul piano rialzato degli spotter. Sarà lui infatti l’angelo custode all’orecchio di Castroneves, almeno per il lato Nord della pista. Quando lo vedo applaudo con forza e prima che sparisca gli scatto una foto. Jim aveva detto giusto, è venuto solo per la gara. Non ci avrò parlato, ma almeno i miei idoli li ho visti tutti. Potendo però sarei andato ad abbracciarlo.
Ormai ci siamo. I piloti vengono presentati al pubblico. Fila per fila salgono su un palco nel traguardo, raccogliendo il tributo della folla. Come ieri i più acclamati sono Castroneves, Kanaan e Carpenter. Franchitti riceve applausi ma anche qualche fischio, frutto del contestato ultimo giro dell’anno scorso. Dopo le tante canzoni in rispetto della tradizione, è il momento dell’inno. Tutti ci alziamo, gli americani si mettono la mano sul cuore. Con mia sorpresa, nessuno canta. È un momento solenne, che diventa euforico quando verso la fine la cantante, come al solito, lancia un acuto lunghissimo pronunciando la strofa “the land of the free”, apprezzato fragorosamente da tutti i 300.000. Io sorrido, emozionato e divertito. Dopo di che è la volta dell’inno ai caduti, suonato con un assolo di tromba e accompagnato dagli spari a salve dei cadetti.
Arriva poi il momento magico, il primo almeno. Jim Nabors canta “Back home again in Indiana”, di cui conosco ogni parola. Non ho il coraggio di cantarla, ma il vuoto è colmato dal resto dei presenti. Registro la performance di Nabors con la fotocamera e un po’ me ne pento, perché ho l’impressione di non prestare la dovuta attenzione. Con un po’ di ritardo mi accorgo infatti del librarsi in aria della tradizionale, enorme nuvola di palloncini colorati, che rimarranno sospesi per parecchi minuti prima di diradarsi. Mi aspettavo che vivere questi momenti mi avrebbe fatto venire i brividi, emozionato fino alle lacrime. Come per il resto degli eventi topici di questo viaggio invece, mi limito a sorridere, assaporando il momento e osservando le reazioni di chi mi sta attorno. Lo stesso accade per il più sacro dei momenti: il comando. Ne registro solo l’audio perché voglio cogliere tutto. Mary Hulman George attende il segnale e poi pronuncia le sei magiche parole: “Ladies and Gentlemen, Start your Engines!”.
Il silenzio dell’attesa si trasforma in un boato collettivo. “Finalmente si parte” mi dico. Le macchine cominciano a muoversi, insieme a un corteo di pace car e la biposto guidata da Mario Andretti, che scorrazza un fortunato passeggero. Faccio delle foto al serpentone. Alcuni piloti salutano, non posso non contraccambiare. Al secondo giro di riscaldamento Mario si sgancia dal gruppo e comincia a spingere. Ci passa davanti fortissimo, resto di sasso. Poi lo fermano ma sono certo che, fosse per lui, cercherebbe di correre anche con quella biposto! Al terzo giro il gruppo si presenta a file di tre. Quante volte avrò visto questa scena? Quante volte l’avrò immaginata? Scatto le ultime foto e metto a posto tutto. Il gruppo passa curva 4 e poi, bandiera verde!
Rimaniamo tutti in piedi per i primi due giri. La folla esulta quando l’idolo di casa, Ed Carpenter, si presenta al cospetto della curva 3 in testa. Lo stesso accade nelle altre curve. Dopo soli 3 giri, arriva però il primo incidente, JR Hildebrand che si è schiantato in curva 1. Con il mio occhio proverbiale, seppur il megaschermo non sia chiarissimo, lo riconosco prima di tutti gli astanti che, un po’ orbi o probabilmente poco abituati, hanno bisogno che sia lo speaker a informarli. Ogni bandiera gialla è un’occasione per osservare tutto l’ambiente. Non sono claustrofobico e non avverto nessun disagio, ma è la prima volta che mi ritrovo nella pancia di una folla così grande. Siamo tutti vicini, ma c’è un minimo di spazio vitale. Gli americani, come sempre, mi sorprendono per la cortesia, tanto da farmi pensare che sia un atteggiamento più formale che sincero. Appena ti arrecano, o pensano di arrecare, un minimo disturbo, ti chiedono scusa. Attorno a me ho un signore occhialuto, evidentemente grande appassionato dato l’armamentario radio che si porta dietro, accompagnato da un bambino che sembra già un tifoso esperto. Sulla destra ho tutta una famiglia, la madre sembra tifare per Will Power, il ragazzo ha una maglietta verde di Kanaan. Tony è senza dubbio il maggior catalizzatore di pubblico, come era noto e come mi è stato confermato dalla calorosissima accoglienza riservatagli durante la presentazione dei piloti. Nelle file più in basso non mancano personaggi stravaganti, vestiti in modo improbabile e palesemente sotto l’effetto dell’alcol. Per fortuna “ai piani alti” sta soprattutto gente realmente interessata alla gara.
Tutti in piedi, nuovamente, per la ripartenza. Dopo due giri Kanaan porta a termine una rimonta che lo ha visto recuperare almeno dieci posizioni e, proprio davanti a noi, prendere la testa della corsa. Il pubblico, io per primo, va in delirio, ma è solo l’inizio. Vedo che Josef Newgarden non va bene come mi aspettavo, perde terreno e a un certo punto, proprio davanti a noi, corregge una spettacolare sbandata. Esclamo qualcosa, l’uomo-radio a fianco si toglie le cuffie per sentire ciò che ho da dire. “Newgarden era tutto di traverso!” gli dico, “Si si ho visto” mi fa lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La corsa viene interrotta brevemente nei giri successivi. Ancora una volta avvisto il responsabile dell’interruzione con grande anticipo. Un incidente ci capita quasi davanti, Saavedra che colpisce il muro in curva 4, sparendo dietro gli edifici. Le bandiere gialle si concentrano nei primi 100 giri, l’ultima la fa uscire Sato verso metà gara, girandosi all’uscita di curva 2 quasi sotto i nostri occhi. Poi c’è un lunghissimo tratto di bandiera verde che arriverà quasi al finale.
Non è il tipo di gara che mi aspettavo. Credevo che col passare dei giri il gruppo si sarebbe sgranato e avremmo visto passarci davanti le vetture senza soluzione di continuità. Invece le prime 20-25 macchine rimangono attaccate in un serpentone lunghissimo. A parte qualche ritardatario quindi il gruppone si alterna a una pista quasi deserta. Meglio per lo spettacolo perché vediamo più sorpassi e la corsa è apertissima, però non nego che a volte concentrandoti sul mega schermo quasi ti dimentichi che ti stanno passando davanti. Sarà l’effetto dell’assuefazione da divano e tv, penso sorridendo. Come nelle prove certe manovre millimetriche mi lasciano di stucco, si sfiorano come se nulla fosse. Anche in gara le vetture mi appaiono “opportunamente” veloci, ma non straordinariamente veloci. Eppure entrano in curva a 370 all’ora. Chissà che pretendevo.
Gli amici americani cominciano a dare un perché alle varie borse frigo che si portano dietro. Tirano fuori sandwiches di ogni tipo e bevande varie. Probabilmente i 4 dollari pagati per un mezzo litro d’acqua in qualche edizione passata hanno insegnato qualcosa. Passano i giri, si susseguono le soste. A volte capire bene il gioco delle strategie è difficile, anche perché ogni tanto mi dimentico chi è già entrato e chi no, anche se lo speaker aiuta. A un certo punto ho una sensazione simile a quanto mi succede guardando la corsa da casa. È un evento che aspetto tutto l’anno, però non nego che verso metà gara mi ritrovo puntualmente a pensare: “certo che è lunga questa corsa”. Non oso chiamarla noia, diciamo che è una lontana parente. Incredibilmente anche qui, dal vivo, ho la stessa sensazione. Come sempre però, passa velocemente, e se i primi 110-120 giri possono sembrare lenti, gli ultimi 80 vanno via troppo in fretta. Quando ne mancano 40 o giù di lì infatti comincio a pensare: “Oh no, ci siamo, sta per finire tutto”. In parte però sono contento, la corsa è combattutissima e non vedo l’ora di assistere al gran finale, perché sarà uno spettacolo. Intanto il sole si è timidamente affacciato tra le nuvole, leggero ma sufficiente a infastidire la mia sensibile testa, che proteggo col cappellino.
Ormai faccio il conto alla rovescia: -20, -15, arriviamo a -10 dal termine. Sono contento, non è una corsa sui consumi, ognuno ha carburante per arrivare e sarà una battaglia all’ultimo sangue. Già da un po’ si sentiva l’eccitazione crescere, ma ora il circuito sta diventando una bolgia, il pubblico freme e anche chi è qui solo per una sbornia vuole conoscere il nome del nuovo campione. Poi tutto si ferma. Non succedeva da così tanto che ci sembra quasi strano. Graham Rahal perde la macchina in curva 2, lontano ma comunque davanti a noi, causando una bandiera gialla. Mancano una decina di giri, c’è tutto il tempo di ripartire. Anzi, questa bandiera gialla li farà avvicinare ancora di più, sarà un finale da ricordare. Faccio le ultime foto prima della ripartenza. Ne ho fatte un sacco durante la corsa, ma scoprirò che in molte c’è sempre qualche rompicoglioni un po’ bevuto che occupa l’obiettivo incitando maldestramente i suoi “pupilli”.
Mancano tre giri e ormai ci siamo. Hunter Reay si presenta davanti a noi al comando, dietro di lui l’idolo del pubblico, Tony Kanaan. Spero tanto che ce la faccia, non gliel’ho potuto dire ieri, ma voglio che vinca lui. Tutti in piedi, casino incredibile, si riparte. Tutti guardiamo il megaschermo, Kanaan passa in testa portandosi dietro il giovane Munoz. Dalle tribune si leva un boato, anzi due, perché subito dopo Franchitti colpisce il muro in curva 1, causando un’ultima, decisiva bandiera gialla. Sappiamo tutti cosa vuol dire: le posizioni sono congelate e non c’è tempo per provare a finire la corsa in bandiera verde. Kanaan ha vinto. Il pubblico è diviso tra la gioia per Kanaan e il dispiacere di non poter assistere fino alla fine allo spettacolo che si stava per compiere. L’unico contento sembro io, che festeggio come un ossesso e lascio partire un “Yeaaahh!”, che sorprende persino me. Sono a dir poco raggiante per Tony, quando ci passa davanti agito all’impazzata il cappellino, la folla lo acclama come un Re. Lo stesso accade all’ultimo giro, Tony e gli altri sfrecciano dietro la pace car per l’ultima volta, poi il traguardo.
Il boato è colossale. Lo festeggiamo ancora quando ci passa davanti nel giro d’onore, con tutti i piloti che lo affiancano per congratularsi. Vorrei fare una foto, ma preferisco godermi il momento e salutare Kanaan col cappellino, come tutti. Rimaniamo tutti lì a vederlo scendere dalla vettura e festeggiare. Si ride di gusto quando dice “finalmente metterò la mia brutta faccia sul trofeo”. Sono combattuto se rimanere in tribuna e aspettare che Tony faccia il giro di saluto sulla pace car scoperta o andare in fretta e furia verso la garage area, dove mi dovrò comunque dirigere, per vedere macchine e piloti lasciare la pista, prima che non ci sia più nessuno. L’entusiasmo per la corsa è ancora grande però e mi convince a rimanere. Ascolto le interviste e osservo lo svuotamento delle tribune e del prato. Una guerra nucleare avrebbe fatto meno danni, la quantità di mondezza sparsa in giro è impressionante. Agito ancora il cappellino verso Kanaan che ci saluta con partecipazione dalla Camaro decapottabile, faccio le ultime foto alla pista e al circondario da questa prospettiva per me inedita e scendo dalla tribuna dalle scale posteriori, che mi porteranno direttamente ai piedi degli spalti. Una volta giù devo fare il percorso inverso a quello tenuto per arrivare. Ho fretta e cavalco il mare di folla, schivando pezzi di pollo e lattine disseminate ovunque.
Sulla via del ritorno vedo scene di tutti i tipi, gli effetti dell’alcol si fanno sentire e nel sotto passo i tifosi fanno un casino infernale. Vanno via tutti, sono uno dei pochi che cerca di rientrare. Ad un certo punto si alza potentissimo un coro USA-USA-USA che, nonostante per i colori americani non sia stata poi questa gran giornata, evidentemente ci sta sempre bene. L’alcol mostra ancora i suoi effetti quando vedo una mezza rissa, con due energumeni che si scambiano parole sicuramente poco cortesi. Uno dei due ha certamente fatto apprezzamenti sulla ragazza dell’altro, con lei che tenta di fare da paciere. Arrivo a passo di record agli stands delle squadre, che temevo avessero già chiuso. Sono rosso in volto e sudato ma non mi importa, è il momento di fare i miei acquisti. Mi porto a casa la biografia di Rick Mears, che da tanto volevo acquistare, oltre a una maglietta nera del team Penske. Medito se provare anche una giacca ma desisto, un po’ incazzato perché qualcuno più furbo si è già fregato un bellissimo modellino di Castroneves che, essendo della macchina vecchia, costava solo 30 dollari invece dei 60 della nuova.
Mi reco quindi con le mie buste nella garage area. Come previsto, i piloti e i big se la sono già squagliata. Ci sono però parecchie macchine presidiate dai rispettivi meccanici, che aspettano il proprio turno per affrontare le verifiche tecniche. Possiamo girare dappertutto e avvicinarci alle vetture oltre ogni immaginazione. Mi ritrovo a 20 cm da quella di Castroneves. La osservo in ogni dettaglio, faccio diverse foto. Vorrei toccarla, probabilmente i meccanici non mi direbbero niente, dato che sto in parte pagando il loro stipendio con gli acquisti che ho appena fatto. Per decenza mi limito a guardare. Certo le vetture appaiono meno linde e splendide di come le avevo osservate per esempio venerdì. Hanno l’aspetto vissuto di chi si è appena fatto 800 chilometri, con moscerini attaccati e macchie di olio misto ad acqua. Osservo anche l’usura delle gomme, specie nella macchina di Andretti.
Ad un certo punto passa Vautier, molti si avvicinano per fare un autografo o una foto. Io gliene scatto una in lontananza ma non ho voglia di corrergli dietro. Una foto l’avrei invece fatta volentieri con Rick Rinaman, lo storico capo meccanico colonna portante del Team Penske. È però impegnato a vigilare sulle verifiche tecniche delle vetture di Power e Allmendinger, per cui non disturbo. Ad un certo punto compare la vettura vincitrice di Kanaan, portata verso le verifiche dai meccanici dopo aver completato tutte le cerimonie. Un applauso si leva spontaneo da tutti i presenti. Li seguo per un po’, poi comincio a stancarmi.
Onestamente non c’è più molto da vedere. Sono circa le 16:30 ed è troppo presto per tornare a casa anche se sono stanco. Mi aggiro come un fantasma tra la Pagoda, la Plaza e qualche negozio. Vado poi verso l’area del museo mentre comincia a piovere con una certa insistenza. Do un rapido sguardo alle varie Corvette in esposizione, un’ultima occhiata alla pista agli sgoccioli del race day e infine esco, come sempre dal sottopasso del museo, insieme a molti altri. Incredibilmente, sembra più difficile degli altri giorni trovare un taxi. C’è polizia ovunque. Percorro la strada parallela alla South Chute e ne avvisto due fermi in un viale secondario. Sono lì in attesa di clienti per cui salgo e me ne torno a casa. Sono un po’ stanco per conversare, anche se scambio comunque qualche battuta col tassista. Sono una quarantina di dollari anche al ritorno.
Entro finalmente in camera, mezzo stravolto. Decido però di chiudere in bellezza e, indossando la maglietta del Team Penske, vado da Denny’s a provare una specialità che mi incuriosisce fin dal primo giorno: la banana split. Mi si presenta un piattone con tre banane tagliate a metà, gelato alla fragola, cioccolato e panna. È naturalmente buonissima, però dopo un po’ la mangio più per dovere che altro. È davvero enorme e alla fine ne lascio un po’ nel piatto. Mentre faccio per andarmene noto che un signore davanti a me lascia dei soldi sul tavolo e, con colpevole ritardo, capisco. La mancia la devi lasciare lì, non alla cassa. Chissà quanto volte avrò visto la scena nei film americani, eppure non mi era minimamente saltato in mente. Lascio 1 dollaro, pago e me ne torno in camera a tracannarmi un litrozzo d’acqua. La generosa colazione dopo dieci ore mi aveva lasciato senza troppo appetito ma un po’ a corto di energie. La banana split colma la lacuna e non considero neanche l’idea di prendere qualcosa per cena. In tv danno la corsa Nascar di Charlotte, che guardo per un po’ disteso a letto. Il sonno però avanza inesorabile, a metà gara mi ritrovo mezzo addormentato. Spengo tutto e dormo per parecchie ore, tanto domani posso fare quello che mi pare.
Foto Terzo Giorno
Mi sveglio abbastanza presto e impegno il tempo controllando i miei acquisti e facendomi un giro su internet col tablet. Poi mi preparo per la quarta giornata vissuta a Indy. Oggi è il Memorial Day, festa nazionale, per cui non mi aspetto di trovare chissà che in giro. Il programma della giornata è però ugualmente interessante. Tornerò in pista per fare un giro del circuito, andrò a fare visita alla sede della Dallara e nel pomeriggio dovrei fare un giro in città. Mi presento da Denny’s verso le nove e mezza, ordinando la solita, buonissima colazione a base di uova e bacon. Certo, otto uova in quattro giorni farebbero impallidire qualunque nutrizionista, ma non ci faccio troppo caso, specie considerando cosa ingurgita chi sta nei tavoli circostanti. Energumeni di estrazioni diverse che però mangiano in media due porzioni di quello che ho ordinato io. Molti parlano ancora della gara di ieri, probabilmente essendo festa hanno deciso di partire con calma passando la notte in città. Io mi gusto la colazione, osservando il comportamento di altri clienti, specie riguardo la solita mancia, che ormai sta diventando un’ossessione.
Lascio due dollari sul tavolo e mi avvio trionfante alla cassa, dove ho una sorpresa. Il titolare mi chiede se sto in quell’albergo laggiù. Poi mi dà lo scontrino con un 15% di sconto. Gli chiedo spiegazioni e mi dice che chi alloggia lì ha diritto alla riduzione. Mi chiedo se me l’abbiano fatto notare solo oggi che ho lasciato la mancia. Probabilmente però è solo una coincidenza. Dopo di che mi faccio chiamare un taxi, che dovrebbe portarmi alla sede della Dallara, nelle vicinanze dello Speedway. Ho un po’ di difficoltà a spiegarlo al tassista, che in più si dimostra un furbastro, trattenendo dai 20 dollari che gli consegno una mancia ben più larga di quanto gli avrei dato. Raggiungo la sede della Dallara, che però aprirà solo tra qualche ora, contrariamente a quanto scritto sul sito. Condivido la frustrazione con un’anziana coppia.
Decido allora di andare prima allo Speedway, una discreta camminata. Sul tragitto trovo la sede del team Fisher, ugualmente chiusa. Osservo l’interno dalle enormi pareti di vetro, poi proseguo. Certo che tutta la zona, lontano dal week end di gara, non appare certo florida. Classico panorama di periferia americana.
Entro nel circuito dall’ingresso principale in curva 1, il posto è quasi deserto, ogni tanto trovo degli spazzini, che poi sono ragazzini delle medie coinvolti in un progetto ecologico. Raccogliere tutte quelle lattine…non li invidio. Percorro la via parallela alla South Chute e osservo tutte le bancarelle chiuse. Arrivo finalmente all’ingresso nei pressi del museo e ho una sorpresa. Il cancello è chiuso, sarei dovuto passare dall’esterno. Medito un attimo se sia il caso di tornare indietro o trovare una via qui dentro. Poi realizzo che il cancello non è poi così insuperabile e riesco a scavalcarlo. Sorrido, pensando che sono sempre stato una frana in queste cose. Lo Speedway mi fa fare questo e altro. Al museo trovo una fila piuttosto lunga e disorganizzata. Siamo tutti lì per fare un giro di pista con l’autobus. Dopo un po’ di attesa sono fortunato a essere inserito nel primo gruppo. Salgo sul mezzo e trovo un posto in fondo, in mezzo a turisti di ogni tipo.
Partiamo dirigendoci verso curva 1. Nel tragitto troviamo il camion del team di Kanaan che sta lasciando il circuito, anche qui ci scappa l’applauso. Una volta in pista, mi sorprendo di quanto le curve siano sopraelevate, nonostante la pendenza sia di soli 9 gradi. È anche parecchio stretta. L’ho percorsa milioni di volte nei videogiochi e sembra proprio uguale. Osservo gli spalti, il muro con i segni delle gomme di qualcuno che ci è finito contro, i ragazzini che buttano giù le lattine. Le raccoglieranno dopo. Mentre ci dirigiamo verso curva 3 mi sorprendo ancora di quanto sembri stretta. Passiamo di fronte a dove ero seduto ieri. L’altoparlante racconta i classici aneddoti per turisti, nulla di nuovo. Poi arriviamo sul traguardo. È un emozione essere in pista nel posto sacro, la iarda di mattoni. Vorrei baciarla ma mi sentirei un po’ stupido. Vedo però che lo fanno tutti per farsi immortalare e a quel punto viene meno ogni freno inibitore e mi lancio in un bacio appassionato. Sono l’unico a farlo senza una macchina fotografica a puntarmi. È un momento significativo. La tocco, la osservo in ogni particolare. Vedo che si estende fin dentro la Pagoda e la Plaza. Osservo con reverenza la torre delle posizioni e la torretta dei commissari. Faccio poi diverse foto alla mitica curva 1. Sul finire della scampagnata un ragazzo di origini asiatiche mi chiede di fargli una foto sulla striscia di mattoni e davanti alla Pagoda. Acconsento e gli chiedo di restituirmi il favore.
Dopo di che tutti a bordo e di ritorno verso il museo, al quale abbiamo accesso grazie allo spillone consegnatoci in precedenza. Di nuovo vengo preso dal raptus del fotografo. Mi sembra più importante fotografare che osservare e cogliere lo spirito di tutto, poi mi do una calmata e mi impongo di leggere tutte le targhe che spiegano la storia di ciascun veicolo. Leggere velocemente e in inglese non è facile, ma la mia conoscenza della storia dello Speedway ne esce certamente rinvigorita. Continuo a fare foto, cogliendo particolari all’apparenza inutili ma che a un malato di corse come me possono interessare. Violando ogni regola, mi appoggio sul finestrino della poderosa stock car di Richard Petty, scattando alcune foto degli interni. È un colossale pezzo di ferro, non posso fargli niente. Continuo il mio giro osservando e fotografando di tutto. Rimango minuti ad ammirare i ritratti dei vincitori e delle personalità che hanno fatto la storia.
Osservo con grande attenzione tutta l’ala dedicata a Parnelli Jones, dove campeggia anche un grosso pick up da corse nel deserto. Passo poi molto tempo ad osservare la vettura vincitrice della prima edizione del 1911, la Marmon Wasp di Ray Harroun, insieme alla vincitrice del 2011, la Dallara-Honda del grande Dan Wheldon. La vettura dello sfortunato pilota inglese è quella che, scusandomi con il leggendario Harroun, raccoglie gran parte della mia attenzione. La osservo in ogni suo particolare. Rimango comunque deluso per l’assenza del Borg Warner Trophy, che ovviamente sarà in giro insieme a Kanaan. Dopo qualche ora penso di aver visto tutto e mi faccio un giro nei negozi del museo. Sono combattuto se comprare un poster che mi appare però insolitamente caro. Il giorno prima avevo comprato una moto per mio fratello, c’è ancora mia madre da sistemare. Non prendo niente e, rivolgendo un’ultima affezionata occhiata, saluto lo Speedway e mi dirigo verso la sede Dallara. Sono circa le due del pomeriggio e c’è un caldo quasi insolito, visto il meteo dei giorni scorsi.
Arrivo alla meta un po’ sfatto. Una delle inservienti parla italiano, anche se c’è poco da dire. Non rimango per niente impressionato dal posto. C’è qualche macchina in esposizione, souvenirs carissimi, simulatori non troppo in forma. Giro in lungo e in largo, poi dopo un’oretta decido di andarmene. Sotto il sole cocente, vado alla ricerca di un taxi, ma nelle vie attorno alla pista non ve n’è traccia. Inizio un po’ a preoccuparmi, perché tornare a piedi all’hotel sarebbe folle, per la distanza e perché non saprei esattamente dove andare. Mi ricordo di averne visto qualcuno nel parcheggio del museo. Mi reco di nuovo lì, anche perché ho bisogno di un bancomat. Arrivo di nuovo sudato da far schifo. Pensavo già di tornarmene a casa ma vedo un taxi e chiedo all’autista: ”aspetti qualcuno?”, “aspettavo te” mi risponde. Si rivela molto simpatico. Parliamo a lungo, coinvolgendo nella conversazione due turisti canadesi che raccogliamo nel tragitto. Io voglio andare in centro, loro in albergo. Parliamo della corsa, di Schumacher, della delusione per Hinchcliffe che non è andato bene e di Tagliani che non combina mai niente.
Scendo nella via principale del centro, Meridian Street, salutando i canadesi e prendendo il biglietto da visita del tassista, che si chiama Gabriel e che ovviamente mi dice di chiamarlo quando vorrò tornare a casa. Passo davanti ad una gigantesca banca dalle pareti vetrate e poi la mia attenzione è rapita da un monumento enorme che sta al centro di una via circolare di colore rossastro. Una scalinata porta ai piedi di una specie di altissimo obelisco con delle statue ai lati, in onore del contributo in termini di vite umane dato dallo Stato dell’Indiana in occasione delle storiche guerre combattute dal paese. Gli scatto diverse foto, anche a grande distanza per poterlo prendere in tutta la sua altezza. Ai lati della strada è parcheggiato un calesse trainato da un cavallo bianco.
In giro non c’è tanta gente, mi sarei aspettato più movimento per una festa così importante, ma anche gli altri posti che ho visitato non erano poi così affollati. Mi aggiro nei dintorni di Meridian Street, leggendo targhe su targhe di numerosi monumenti. La gran parte sono stati eretti a ricordo dei sacrifici fatti dallo Stato in occasione della Guerra Civile e a celebrazione del Governatore di allòra, un tale Oliver Morton. Attraverso una grande piazza, con una bella fontana al centro. Una coppia passeggia con la loro bambina. Sul lato della piazza ci sono diverse panchine coperte, in fila. Su alcune riposano dei barboni, cosa che mi fa un po’ tornare alla realtà rispetto al paese incantato che mi sembrava di aver visto fino a quel momento. Inizio ad avere fame incredibilmente, è il segno che forse il mio corpo si sta abituando alla colazione americana. Attraverso strade su strade, locali su locali. In un sottopassaggio noto il classico tombino dal quale fuoriesce vapore, quanto volte li avrò visti nei film. Noto anche il famoso Lucas Oil Stadium, la casa degli Indianapolis Colts, l’attrazione sportiva più importante della città.
Quando ormai mi sento un po’ sperduto, allontanatomi un po’ troppo dal centro, noto un’insegna familiare, la catena di fast food White Castle, portata alla mia attenzione da un film demenziale americano dove i protagonisti sognano per tutto il tempo di andare a mangiare degli hamburgers. Con tutti i locali che ho visto, decido di consumare lì la mia merenda. Non c’è un cane, nessuno mangia alle 5 del pomeriggio sembra. Devo addirittura attirare l’attenzione del personale, che è tutto concentrato nella parte non visibile della cucina. Ne emerge un ragazzo che stancamente mi fa un riassunto dei menu. Alla fine nei vari tabelloni scorgo un piatto di quattro mini hamburger e patatine che sembrano squisiti. Aspetto qualche istante e mi si presenta davanti un sacchetto con 4 cosi morbidi con dentro dei pezzi di quella che, se non l’avessi letto, difficilmente direi sia carne, insieme ad un pezzo di verdura non meglio identificata, forse cetriolo. I due sono divisi da un quadrato giallo che secondo loro è formaggio. Ho fame e trangugio tutto, patatine e bicchierone di Coca-Cola compresi. Non dico che facessero totalmente schifo, ma di certo Harold e Kumar, i protagonisti di quel film, avevano ben altre aspettative…e così io. Prima di andare faccio un salto in bagno. Vengo pervaso da un odore che è un miscuglio di tutti i peggiori fetori di origine organica che si possano immaginare. Mi lavo le mani con un intruglio marronastro che dovrebbe essere sapone, mi asciugo le mani con della specie di carta, con la quale apro la porta. Non voglio toccare nulla di quel tugurio.
Appena metto il becco fuori dalla porta, comincia a piovere, sempre più forte. Sono ovviamente sprovvisto di ombrello e mi dico che, se riesco a trovare un taxi in mezzo a questo deserto, me ne torno dritto a casa. Riguadagno a passo veloce la via dalla quale ero arrivato e ad un incrocio vedo due taxi. Mi fiondo sul primo, di colore verde, iniziando la solita discussione col tassista, che ovviamente non capisce e/o conosce la via del mio albergo. Come quasi sempre, faccio lo spelling per permettergli di usare il navigatore. Smette quasi subito di piovere, non sono neanche le sei e comincio a pentirmi della scelta. Sto tornando a casa troppo presto, ero stanco ma c’era ancora molto da vedere. Sono anche pentito di non aver comprato qualcosa in più al museo della Speedway. Mi dico che probabilmente troverò quello che cerco domani all’aeroporto. Entro in camera un po’ sconsolato, perché la giornata non è andata come speravo, perché pensavo di rimanere in giro più a lungo, invece di ritrovarmi alle sei in camera e senza niente da fare. In verità lo sconforto è anche dovuto alla consapevolezza che ormai la mia vacanza è agli sgoccioli e al ritorno mi aspetta pure un esame. “C’è ancora un giorno, anzi due”, mi dico per consolarmi.
Comincio a pensare ai bagagli e nel frattempo accendo la tv. Giro qualche canale e poi becco, a sorpresa, la diretta del banchetto di premiazione della 500 miglia. Mi distendo sul letto e la seguo tutta. Passo due ore piacevoli, con i piloti che mi fanno ridere tantissimo, tra frecciatine e prese in giro al naso di Kanaan. Il vincitore poi è protagonista di un lungo, divertente e a tratti commovente discorso. Ancora una volta mi sento coinvolto in qualcosa di grande, sento di cogliere appieno tutti i significati e i retroscena di questa corsa. Lo show televisivo mi restituisce il buon umore. Continuo a preparare i bagagli, rendendomi conto che far stare tutto nel trolley non sarà semplice. Era già piuttosto pieno all’andata ma tra libri, regali e altro sarà un’impresa chiuderlo. Il volo è previsto per le 9:30, per cui svegliandomi in anticipo avrò il tempo domani per sistemare tutto a dovere.
Foto Quarto Giorno
Come previsto mi sveglio molto presto, cominciando subito a litigare con le valigie. Mi preparo e poi metto a posto la stanza, cercando di farla tornare come l’avevo trovata e stando attento a non lasciare niente sparso nell’enorme letto matrimoniale. L’ordine non è sicuramente stato una caratteristica della mia permanenza in albergo. Raccolgo tutto però e, tra biancheria infilata nelle scarpe, numerosi tentativi di disposizione, equilibratura dei carichi tra zaino e valigia, riesco a infilare tutto nei bagagli. Il trolley però ha un peso davvero proibitivo, mi sorprende che la cerniera possa sopportare tanta pressione. Vado alla reception per chiedere un taxi per l’ultima volta. Trovo la solita ragazza paffuta. Mi aveva detto che forse non ci sarebbe stata questa mattina, invece è lì e ne sono contento, dato che sembra la più pratica in questo tipo di operazioni. “20 minuti” mi dice. Torno in camera e ricontrollo tutto per la 80° volta. Guardo con cura la stanza, il bagno. Ho fatto tante foto, ma voglio conservarne un ricordo chiaro. Arriva il taxi, per la prima volta guidato da un signore bianco. Riconsegno la chiave alla reception ringraziando i presenti per il supporto durante la mia permanenza.
Il tassista si rivela molto simpatico e parliamo per tutto il viaggio. Mi conferma che c’è gente in città che magari non è mai andata alla corsa. Parliamo di come la 500 miglia non sia più l’enorme evento di una volta. Mi fa ridere quando mi racconta di come tutti fossero preoccupati, qualche anno fa, sulle possibilità della città di gestire un evento come il Superbowl: “Si sono dimenticati che ogni anno la Indy500 faceva 500.000 spettatori”. Si dice poi rammaricato per la dipartita della F1 dallo Speedway, per i taxi significava affari garantiti. “La Moto GP”, mi dice, “non è la stessa cosa”. Mi faccio lasciare al terminal della Delta, il vettore che copre le tratte americane del mio viaggio. Lo saluto con una promessa: ”tornerò presto”. Una volta al terminal parlo con una signora di colore che è lì per aiutare i passeggeri col check in. Dopo un attimo di incomprensione le faccio capire quale sarà il mio programma, cioè il cambio di aeroporto a New York, completando rapidamente i documenti. Come mi aspettavo e come è ovvio dovrò ripetere il tutto al JFK.
Rimango a lungo a girare per i negozi dell’aeroporto. Mi fiondo subito su quello affiliato allo Speedway, mi guardo intorno e acquisto il famigerato poster e una cartolina. Nel frattempo parlo con il titolare, che mi racconta come ieri, alla stessa ora, con sorpresa ha riconosciuto tra i suoi clienti Max Papis. “Peccato non sia rimasto un giro in più” dico. Saluto anche lui, dandogli appuntamento ad un futuro spero non troppo lontano, continuando a girare per negozi di abbigliamento sportivo, libri ecc. Poi decido che è ora della colazione. Non sono andato da Denny’s perché “oggi voglio fare una colazione europea”, mi ero detto. Vado quindi in un chiosco di Starbucks, dove parlo con due commesse che non hanno troppa voglia di stare a capire quello che dico. Ordino un caffè e una ciambella. Pago 5 dollari per un fondo di bicchiere di un liquido scuro e insapore e una specie di cosa salata con un buco in mezzo. Impallidisco quando dandomi il tutto mi rifilano anche una vaschetta di Philadelphia. “E che ci dovrei fare con questo?!” mi dico. Lo spalmo sulla “ciambella”, consumando la colazione più triste e improbabile della storia e rimpiangendo le uova e il bacon di Denny’s, che erano disponibili anche nei bar dell’aeroporto peraltro. Ma io volevo la colazione europea, quindi…
Finita la colazione bidone mi presento al metal detector, dove cerco di aiutare il personale a rintracciare una signora che si è persa qualcosa. Giro poi per negozi nel duty free, senza trovare niente di interessante. Per il ritorno non ho Francesco a scegliermi i posti migliori, dovrò sperare nella sorte. Sono sorpreso e divertito quando sento il mio nome all’altoparlante. Gli americani sono incapaci di legare il suono “gio”. Ne deriva un Giovanni Satta un po’ sbilenco…Francesco (il mio secondo nome), non sapevano nemmeno chi fosse. Vado allo sportello dove mi viene integrata la carta d’imbarco con il posto sull’aereo. Ennesima noiosa attesa e poi finalmente saliamo a bordo. Finisco a fianco di una ragazza con un cerchietto rosso tra gli occhi. È sicuramente indiana. Ci salutiamo, poi lei legge per tutto il tragitto delle riviste. Il viaggio è più breve rispetto all’andata da Boston. Rimango sempre sorpreso dal numero di campi da baseball che si possono notare dall’aereo. Nell’avvicinamento a New York la loro densità cresce notevolmente, stessa cosa per quelli di football, calcio, basket e golf. Vedo un porto infinito e una costa particolare, che non invita troppo al bagno. Noto un’infinità di ponti. Per me ognuno di questi potrebbe essere quello di Brooklyn, o di Verrazzano, ma sono solo “piccoli” ponti di periferia.
Dopo numerose manovre di allineamento atterriamo al La Guardia. Con disappunto noto che il tempo non è bello come a Indianapolis, c’è caldo e pioviggina. L’aeroporto mi appare piccolo ma curato. Raggiungo in breve la zona dei bagagli, recupero la refurtiva e inizio a informarmi su come arrivare a Times Square, la mia meta designata. Inizialmente vorrei prendere un taxi, poi scopro che per una quindicina di dollari ci sono autobus che con cadenza regolare portano ai punti nevralgici del centro città. Decido per questa soluzione, convinto da un’opportunisticamente simpatica signora di origine latina. Ancora una volta non posso non osservare come i lavori per certi versi meno altolocati siano quasi totalmente appannaggio di immigrati o esponenti delle varie minoranze etniche. Nella lunga attesa dell’autobus, mi porto avanti col lavoro cercando di prelevare dagli ATM del La Guardia. Con disappunto scopro che non accettano la mia carta, cosa che mi mette un po’ in allarme. Ho alcune decine di dollari ma potrebbero non essere sufficienti per una corsa in taxi fino al JFK.
Finalmente arriva l’autobus da cui emerge un energumeno, anche lui ispanico, che ci chiede la nostra destinazione e poi va a sedersi su un gradino a consumare il suo pranzo, in effetti è già mezzogiorno passato. Ha l’aria provata, durante il tragitto capirò il perché. Certo che col senno di poi mi fa un po’ incazzare. Quando chiede la mia destinazione gli ripeto Manhattan, Times Square e lui dice qualcosa che alle mie orecchie appare come un “Porto Porti”…io annuisco, affidandomi a lui. In realtà lui intendeva Port Authority. Capirlo allora non avrebbe minimamente cambiato le cose, ma infastidisce questo rimanere barricati sulla loro pronuncia perfetta, nonostante siano coscienti delle difficoltà del povero interlocutore ignorante. Ci vorrà una vita a partire e un’eternità sarà passata quando usciremo, finalmente, dall’aeroporto. La nostra infatti era solo una delle numerose fermate interne, con l’autobus che raccoglie passeggeri da ogni terminal. La signora latina nel frattempo vende e controlla biglietti con l’efficienza e la rigidità di un kapò. La lunghissima attesa mi fa maledire la scelta dell’autobus, ma il taxi non mi avrebbe certo fatto risparmiare il traffico, anche se non avrei dovuto attendere i comodi di mezzo mondo. Sopra il conducente leggo un’insegna che recita: “le mance all’autista sono fortemente apprezzate”. ”Anche qui!” penso.
La periferia newyorkese non mi impressiona per niente. Mentre ci avviciniamo verso il centro tutto diventa più grande, più pulito e accattivante, anche se non mancano scorci particolari. Alcune vie, alcune piazzette, mi ricordano Sassari. Arriviamo finalmente a Port Authority e subito intravedo vie, luci e insegne familiari. Il clima però non collabora, come detto caldo e acqua la fanno da padrone. Inizialmente la pioggia è leggera, ma col passare del tempo si farà insopportabile. La mia priorità iniziale è trovare un bancomat. Riesco a prelevare all’interno di un piccolo negozio con merce di ogni tipo, gestito da personaggi che non mi impressionano troppo positivamente. Camminare col trolley e lo zaino è una fatica immane. Mi sento quasi un carcerato con la palla al piede. La fame comincia a farsi sentire e nel mio peregrinare senza una metà trovo un chiosco e acquisto il più classico degli hot dog, su cui faccio mettere ketchup e mostarda. Entro in una stazione e in una panchina improvvisata mi avvento sul mio pranzo. L’hot dog sarebbe anche buono, ma la mostarda rovina tutto. È troppo piccante. Con una sensazione di incendio in atto che dura per circa mezz’ora, mi aggiro per la stazione, dove compro il regalo per mia madre. Due foulards nel negozio di una signora ispanica. Torno poi in strada e comincio la mia esplorazione.
Vedo in lontananza l’Empire State Building da una parte e le luci di Times Square dall’altra. Posso raggiungerli entrambi ma opto per la seconda meta, che mi appare più interessante e accessibile con la zavorra che mi porto dietro. Tutto è come lo immaginavo, o almeno come lo ricordavo dalle immagini viste qua e là. Megaschermi pubblicitari giganti, intere pareti di edifici adibite a cartelloni con qualche marchio stampato sopra. La cosa più impressionante è la gente. Un fiume di turisti, solo turisti. Hanno facce di tutti i generi, ogni tipo di cultura sembra rappresentata. Becco anche i classici ebrei con le treccine. Scopro l’esistenza di una Little Brazil, vedo un ingresso della metropolitana nella 42° strada che poi ritroverò in un episodio di CSI. Negozi giganteschi delle marche più prestigiose di vestiario, gioielli e chi più ne ha più ne metta.
Tutto è grande, tutto è illuminato e fatto per impressionare…eppure non sono così preso. Sarà il caldo, sarà la pioggia che non accenna a diminuire, sarà il trolley che mi affligge, ma New York non mi affascina come pensavo. Non ci vedo nulla di straordinario in questo casino colossale. Cammino a passo incredibilmente spedito, nonostante il peso e l’acqua. Ho addosso gli stessi pantaloni beige del primo giorno a Indy, che con l’acqua non sono il massimo. Supero pozzanghere di ogni dimensione. Le strade non sono curate e lisce come ci si aspetterebbe nella più grande città del mondo.
Vago senza una meta, sospinto dalla furia crescente. L’acqua si mischia al sudore. Cerco di scattare qualche foto, dovendo ogni volta cercare riparo dalla pioggia per non bagnare la fotocamera. Riesco a immortalare anche il mitico studio del David Letterman Show, uno dei pochi momenti lieti della gita odierna. Ad un certo punto mi fermano due tipi di colore, che sembrano appena usciti da uno squallido video hip hop. Mi chiedono da dove vengo, come mi chiamo. Vogliono rifilarmi un loro cd. Inizialmente penso me lo vogliano regalare, “vorranno pubblicità” penso. Poi capisco che chiedono qualcosa in cambio. Personalmente il loro cd è l’ultima cosa che voglio in questo momento. In tasca ho un dollaro, glielo porgo proprio per levarmeli dai coglioni. Loro mi rispondono con sentito e, forse, giustificato sdegno, pronunciando parole poco comprensibili. “Nessuno vi aveva chiesto il vostro inutile cd” penso. Li mando a cagare e li mollo lì a sbraitare un po’, continuando il mio peregrinare per le vie di New York. Alla fine arrivo ad un enorme spiazzo, con un grosso monumento al centro. Gli faccio qualche foto senza prestare troppa attenzione, piove sempre più forte e mi riparo sotto degli alberi. Mi rendo presto conto di aver raggiunto il lato ovest di Central Park. “Almeno qualcosa di caratteristico l’ho visto”, mi dico.
Riposo qualche minuto, poi riprendo la marcia, nella speranza di vedere qualcosa di interessante ma con la sempre più concreta prospettiva di prendere un taxi e andare all’aeroporto. Piove sempre di più, vorrei raggiungere la stazione a Port Authority, da cui parte un altro autobus verso il JFK, ma mi sono allontanato troppo. Scoprirò di aver percorso oltre due chilometri, con zaino in spalla e trolley in mano. Uno sforzo disumano, alimentato dalle energie dell’hot dog, che mi ha incenerito l’esofago ma mi sostiene per diverse ore. In un gioco di parallele e incroci, mi illudo di poter riguadagnare la via perduta ma alla fine, stanco, bagnato, sudato e soprattutto incazzato, alzo bandiera bianca e mi convinco a montare sul primo taxi disponibile. Ne fermo uno, che però si rifiuta di accompagnarmi all’aeroporto. Col secondo sono più fortunato, metto il trolley nel portabagagli e partiamo. Il tassametro è spento, cosa che mi allarma. Chiedo spiegazioni e il tassista mi dice che la corsa per il JFK è a tariffa fissa, una sessantina di dollari più mancia. Mi specifica bene quest’ultimo punto, spiegandomi che il viaggio durerà almeno un’ora e che nel frattempo lui avrebbe potuto caricare molti clienti se fosse rimasto a Manhattan. La cosa mi fa un po’ sorridere, considerando la mole di taxi in giro per le strade.
Intavoliamo una conversazione a intermittenza. Le nostre due lingue, il suo inglese e il mio, non vanno troppo d’accordo, però bene o male ci capiamo, se no fa lo stesso. È un immigrato del sud est asiatico, vive in America da qualche decina d’anni ormai. Mi dice che nel suo paese lavorava fin da ragazzo, che in America ha fatto molti lavori e infine il tassista. Mi parla della città, dei quartieri, del Bronx dove difficilmente accetta chiamate. Vive nel Queens e mi indica il posto, quando ci passiamo davanti. Come altri, mi parla con apprensione dell’assistenza sanitaria e mi chiede come funziona da noi. Mi racconta dei figli, che vanno al college, di come è dura mandare tutto avanti col costo della vita di New York. Ad un’uscita è segnalato il ponte di Verrazzano, che non vedrò mai. Passiamo sopra un corso d’acqua, gli chiedo se si tratta dell’Hudson, ma pare sia solo una specie di affluente. Non posso evitare di chiedermi quanto sarà grande allora il principale. Come nel tragitto dal La Guardia, la periferia newyorkese non mi impressiona per niente. Non è troppo diversa da quella che può essere Viale Marconi a Cagliari.
Fuori si scatena il nubifragio. Il taxi prosegue rapido, sembra cavalcare le onde. L’amico ha chiaramente fretta e lo capisco, gli ci vorrà davvero un’altra ora per tornare indietro. Sono circa le 4 ma il traffico in certi punti è piuttosto fitto. Finalmente arriviamo, mi faccio portare direttamente al terminal dell’Alitalia e in generale delle compagnie europee. Quanto il posto sia immenso lo percepisci solo dagli innumerevoli svincoli che portano all’aeroporto, perché il terminal non ha nulla di diverso da quello di Boston. Alla fine pago una settantina di dollari, salutando il tassista con un “Buon ritorno”.
Sono circa le 16:30, l’aereo parte tra 5 ore, forse l’attesa più snervante di tutto il viaggio. I check in inizieranno tra due ore e non c’è molto da fare. Mi giro tutto il terminal, che è su due piani, con i ristoranti in quello superiore. Comincio ad avvertire un po’ di pesantezza all’addome, ma niente di allarmante. Mi trovo una panchina, dove mi adagio per un bel po’ facendo finta di studiare. A fianco a me una signora americana, che deve partire per Vienna, aspetta con ansia il marito. Il loro check in chiuderà tra pochissimo, arriva appena in tempo.
Mi ritrovo vicino ad una numerosa famiglia di origine sud est asiatica. Fanno un casino infernale e mi sorprende che i grandi lascino i bambini soli per un lungo lasso di tempo. Poi finalmente si aprono i check in, voglio liberarmi al più presto del trolley. Dopo parecchi giorni ho nuovamente davanti qualcuno che parla italiano. Una “sportellista” discute animatamente con la responsabile, che assomiglia a una puttana d’alto borgo un po’ in là con gli anni. Il check in è molto rapido, mollo il trolley nei nastri trasportatori e torno alla solita panchina. Vicino a me siedono tre tipi sospetti di origine latina. Sembrano i membri di qualche gang di Miami. Prima di passare al metal detector decido per un azzardo. Ho un po’ di fame e voglio far fruttare fino all’ultimo l’esperienza americana. Giro vari ristoranti, fermandomi poi in uno che si spaccia per italiano. Guardando i piatti dovrei fargli causa per pubblicità ingannevole. Dopo una lunga discussione con gli addetti, dove metto in mostra la mia ignoranza lessico-culinaria, ordino un trancio di pizza Made in Usa che sembra un buon mix tra gusto e leggerezza. Fin dal primo morso mi accorgo del tragico errore. La pizza contiene anche aglio. Sembra una tavola, sta dritta da sola. Il sapore non è male ma l’aglio rovina tutto. Sedute al tavolo vicino al mio stanno delle ragazzine di una qualche squadra sportiva.
Completato il pasto, mi lavo i denti come meglio posso e mi reco al metal detector, passato il quale mi aspetta l’ultima parte di attesa al duty free. Come sempre tanti negozi tutti uguali. Li giro uno per uno e faccio l’ultimo acquisto del viaggio, la classica boccia con effetto nevicata sulle principali attrazioni della città. Comincio a capire che la pizza non è stata una grande idea, passo l’ultima oretta a chiedermi se sia il caso di andare in bagno, ma decido di resistere. Mi siedo nell’area della mia uscita, dove sento discorsi in italiano che avrei preferito non ascoltare. Provo una sorta di repulsione per i miei conterranei, che come prevedibile sono anche parecchio rumorosi, tanto che quando le loro voci coprono un annuncio incrocio lo sguardo con una signora americana, altrettanto infastidita, alla quale dico: “parlano troppo rumorosamente”. Lei annuisce.
Prima dell’imbarco un giovane addetto dell’aeroporto mi sottopone un questionario da compilare su un tablet. Oltre a essere pieno di domande inutili, è pure lunghissimo. Quando finalmente lo finisco mi mostro stravolto, facendo finta di lamentarmi. Lui ride con la collega e mi dice: ”non ti avevo accennato che era noiosissimo?”. Seguo alla tv la finale di conference NBA tra Miami Heat e Indiana Pacers. Mi sento coinvolto, potendo festeggerei ad ogni canestro dei miei “concittadini”, ma cerco di darmi un contegno. M’imbarco guardando gli ultimi scampoli di primo tempo. Trovo il mio posto occupato da un ragazzo che parla con un signore, mi dispiace disturbarli ma i biglietti parlano chiaro. Il signore è molto simpatico, è un professore americano di lettere con parenti in Toscana. Gli racconto del mio viaggio e tutta la trafila. Io parlo in inglese, lui in italiano. Ci capiamo abbastanza, non saprei dire chi è più bravo. Viaggia con la moglie, che siede dietro di noi, la figlia e il fidanzato, che stanno in un’altra zona. Certo non lo invidio: non bevo da parecchio e nonostante mi sia lavato i denti il mio alito all’aglio dev’essere letale.
Parliamo ancora un po’, poi prende un sonnifero per cercare di dormire. Mi sento un idiota quando lo vedo sorseggiare una bottiglia d’acqua. Credevo non fossero ammesse a bordo. Lui mi dice che, se acquistata nel duty free, si può portare tranquillamente. Finalmente capisco in toto il senso di quest’area, mi ci sono voluti solo 5 viaggi. La discussione mi ha almeno in parte distratto dalla mia situazione intestinale, che sembra aggravarsi di minuto in minuto. Avrei bisogno di andare in bagno e svuotarmi, ma non sono sicuro che il piccolo wc dell’aereo possa sopportare un carico del genere. Stoicamente, resisto. Ci viene servita la cena, che mangio nonostante l’intestino in disordine. Dato che è già notte e che viaggiamo verso il sole, la luce tornerà presto per cui a maggior ragione vengono spente le luci e chiusi i finestrini. Fino a quel momento avevo cercato di fare qualche esercizio per l’esame, ma ora qualunque attività mi viene preclusa. È tardi e sono sveglio da oltre 20 ore, ma non ho sonno e comunque non potrei permettermi di rilassarmi troppo, considerata la pressione nel mio colon.
Non ho ne la voglia, ne la forza di guardare film o giocare con lo schermo interattivo. Chiudo gli occhi per qualche minuto, ma non c’è modo di dormire. Anche il mio amico, nonostante sonnifero e mascherina, ha i suoi problemi a riposare decentemente. Non so come, ma arrivo al vedere il nuovo giorno, anche se mancano ancora diverse ore all’atterraggio. Riesco finalmente a guardare un film, Argo, che mi interessa. Vengo però bloccato dalla colazione e altri contrattempi, per cui non riuscirò a finirlo. Intanto il sonnifero sembra aver fatto effetto, dato che il signore al mio fianco non accenna a svegliarsi. Nelle ultime ore è un continuo via vai di gente verso il bagno, io non ho il coraggio.
Il viaggio è stato così lungo da rendermi contento che il fuso orario ci spedisca sei ore più vicino alla nuova notte di quanto il corpo sia convinto. Sorvolata di nuovo tanta tanta Francia e il Mediterraneo, finalmente atterriamo a Roma. Raccolgo le mie cose, saluto il simpatico signore e mi reco alla navetta che ci porterà al terminal. Lì ho due priorità: arrivare alla mia uscita e trovare un bagno. La seconda è più pressante della prima. Penso di non essere mai stato così male per la pancia in vita mia. Non riesco a credere di aver resistito così a lungo. Rallento solo davanti ad un negozio ufficiale Ferrari dove è esposta la F1 del ’96. La osservo per qualche secondo, poi riprendo la mia marcia sofferente. Arrivo nei pressi dell’uscita, ma non la trovo. È solo una svista, dopo qualche avanti-indietro la raggiungo. Cerco un bagno isolato, perché mi servirà un po’ di privacy. Sono tutti strapieni però. Alla fine vinco ogni riserva e mi infilo nel primo che trovo libero. Con sorpresa e un po’ di disperazione, non riesco a fare niente. Quando vado a lavarmi le mani e non trovo ne carta ne sapone, mi sento nel medioevo, per fortuna ne ho un po’ nello zaino.
Torno nella zona di attesa, dopo essere passato in un’edicola per leggiucchiare Autosprint. In lontananza assisto a un litigio in romanesco tra un cliente e i titolari. Ancora una volta mi chiedo come possiamo avere lo stesso passaporto. Finalmente inizia l’imbarco. Mi ritrovo seduto nel primissimo posto, proprio dietro la cabina di pilotaggio. A fianco a me sta una bella ragazza bionda, che legge la biografia di Amanda Knox, in inglese. “L’avrà comprata in America” penso. Abbandono subito ogni tentativo di instaurare una conversazione. Sono semplicemente troppo stanco, tanto che più volte rischio di addormentarmi. Il decollo è ritardato da qualche contrattempo con la stiva. “Ce l’hanno tutti con la mia pancia” penso divertito e preoccupato allo stesso tempo. Il viaggio è comunque molto breve. Giunto a Cagliari vivo quella che sembra l’ultima, non troppo inattesa sorpresa. Non ci sono i miei bagagli. Sto lì almeno un quarto d’ora, aspetto che li scarichino tutti. Quando comincio a ricordarne perfettamente la sequenza è evidente che il mio trolley non c’è. Sto per andare a fare reclamo quando appare una signora a farci notare che i bagagli dei voli internazionali sono in un’altra zona, alla dogana. Tiro un sospiro di sollievo quando vedo il mio trolley che porto via in fretta, dopo aver seccamente risposto “No” alla classica domanda: “ha qualcosa da dichiarare alla dogana?”.
Giro tutto l’aeroporto in cerca di un’indicazione sull’area di sosta dei pullman, ma niente. Chiedo informazioni sui biglietti, tutti parlano di uno sportello automatico al piano terra, che a me pare invisibile. Chiedo al centro informazioni, dove mi dicono che il biglietto costa 4 euro. Sapendo la lunghezza del percorso, guardo l’addetto con una faccia tra lo sdegno e l’odio, ma faccio il biglietto e aspetto, ancora, il pullman. Dopo almeno 20 minuti, il mezzo compare e presto si riempie di turisti spagnoli e nordici. Con ancora la testa in “modalità Usa”, mi faccio scappare un “sorry” quando sono d’intralcio a una coppia di olandesi. Una volta arrivato in Piazza Matteotti, io e la mia pancia pronta a esplodere schiviamo tassisti tesserati e non, dirigendoci verso la fermata del 5, l’ultimo mezzo di una giornata infinita. Sono quasi 30 ore che sono sveglio ormai.
Arrivo a casa, con l’unica ambizione di infilarmi in bagno. Saluto brevemente i presenti, poi mi fiondo sul wc a dare sollievo ad almeno 10 ore di sofferenze. Dopo di che tra bagagli da disfare e biancheria da lavare posso finalmente guardare indietro, triste perché tutto è finito ma felice di aver portato a compimento la prima grande avventura della mia vita.
Foto New York e Ritorno a Casa