Toyota Grand Prix of Long Beach – 13 aprile 1986 – Seconda gara del campionato 1986
Circuito
Streets of Long Beach
Tipologia
Cittadino
Lunghezza
1,67 mi – 3.183 km
Configurazione aerodinamica
Stradale
Record della pista
1.05.213 – Mario Andretti, Lola T84 Cosworth, 1985
Distanza di gara
95 giri – 189,96 mi
Vincitore uscente
Mario Andretti
Griglia di Partenza
Posizione
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Danny Sullivan
1,06,565
2
Al Unser Jr.
1,07,115
3
Mario Andretti
1,07,403
4
Emerson Fittipaldi
1,07,435
5
Raul Boesel
1,07,438
6
Roberto Moreno
1,07,561
7
Michael Andretti
1,07,575
8
Jacques Villeneuve
1,07,642
9
Rick Mears
1,07,83
10
Kevin Cogan
1,07,894
11
Arie Luyendyk
n.d.
12
Bobby Rahal
n.d.
13
Roberto Guerrero
n.d.
14
Geoff Brabham
n.d.
15
Tom Sneva
n.d.
16
Jan Lammers
n.d.
17
Randy Lanier
n.d.
18
Ed Pimm
n.d.
19
Josele Garza
n.d.
20
Dominic Dobson
n.d.
21
Johnny Rutherford
n.d.
22
Randy Lewis
n.d.
23
Rick Miaskiewicz
n.d.
24
Dale Coyne
n.d.
Mentre Guerrero accosta subito per problemi tecnici, alla partenza Al Unser Jr. supera di slancio Sullivan, prendendo il comando su Fittipaldi, Mario Andretti, Moreno, Michael Andretti, Boesel e Mears. Dopo aver brevemente studiato l’avversario, Sullivan riconquista il comando, imitato da Michael Andretti, che in pochi giri si porta in terza posizione superando il padre Mario e Unser Jr., già sopravanzato da Fittipaldi. Il testacoda di Randy Lanier al tornantino causa però la prima neutralizzazione, sfruttata tra gli altri da Michael e Mario Andretti per effettuare la prima sosta. Dopo un brutto incendio scoppiato durante il pit stop di Dale Coyne, la corsa riprende con Sullivan a condurre su Fittipaldi, Unser, Boesel, Mears, Brabham e il rimontante Michael Andretti. In rapida successioneiI problemi al motore Chevrolet di Mears e al Cosworth di Boesel causano però il ritiro di entrambi, facendo avanzare Andretti, che dopo la ripartenza ha subito la meglio su Brabham.
La seconda neutralizzazione per olio in pista è poi sfruttata da Sullivan, Fittipaldi e Unser Jr. per effettuare la prima sosta. I pit stop lanciano quindi in testa Michael Andretti, che al restart guida il gruppo davanti al padre Mario, oltre che a Moreno, Garza e Sullivan. Nella fretta di rimontare il pilota della Penske compie però un pasticcio al tornantino, centrando il messicano e danneggiando l’ala anteriore, proprio mentre Fittipaldi si ferma definitivamente in pit lane con problemi al turbo. Mentre le riparazioni costano a Sullivan un giro, nonostante problemi alla frizione Michael Andretti conduce davanti al rimontante Unser Jr., Mario Andretti, Luyendyk, Sneva e Moreno, fino alla seconda sosta del 55° giro. Imitato da Moreno e il padre Mario, Michael lascia la testa della corsa ad Unser Jr. e Luyendyk, riprendendola al 72° passaggio dopo aver superato Unser, rientrato in pista a gomme fredde dopo aver a sua volta effettuato l’ultimo pit stop. Con Sneva staccato al terzo posto, che deve poi cedere a Geoff Brabham nel finale per problemi di consumi, il finale di gara si trasforma in un duello tra i figli d’arte, con Unser in vantaggio grazie all’ultima sosta ritardata e quindi più metanolo da spendere. Più volte il vice campione in carica da l’impressione di potere portare l’assalto vincente, specie quando il doppiaggio di un Moreno in difficoltà sorprende Andretti, che si vede affiancato dal rivale in prossimità del tornantino. Il pilota della Pennsylvania resiste però fino all’ultimo, avendo la meglio quasi in volata sul giovane Unser per conquistare la prima vittoria in carriera. I due precedono sul traguardo Brabham, autore di una bella rimonta e beneficiario dei problemi di consumi di Sneva, che chiude comunque quarto davanti a Mario Andretti, afflitto da vari problemi ma comunque quinto in virtù dei guai al motore che colpiscono all’ultimo giro un più che positivo Moreno, classificato sesto.
8 ottobre 1904 – Long Island, New York: i piccoli costruttori americani escono duramente sconfitti dalle case europee nella prima Vanderbilt Cup, un copione che si ripeterà nei due anni successivi. Tra le cause, la mancanza di strutture adatte a provare intensivamente le vetture, le cui prestazioni sono ormai incompatibili con le strade dissestate e sempre più trafficate di molti stati. La pensa così anche Carl G. Fisher, impresario di Indianapolis di umilissime origini ma straordinario spirito di iniziativa, che alla fine del secolo dà vita a una fortunata rete di distribuzione di biciclette. Abilissimo nel campo pubblicitario e nello stringere solide relazioni commerciali, Fisher si afferma in breve anche nel nascente settore automobilistico come rivenditore ufficiale di numerosi marchi della zona, di cui avverte il bisogno di una struttura di collaudo adatta ai sempre più prestanti modelli immessi sul mercato. Nei primi anni del ‘900 inizia a maturare quindi in lui l’idea di un circuito, di 3 o 5 miglia, che possa fungere da banco di prova e terreno di gara per i costruttori alla ricerca di promozione. La difficoltà nel trovare l’appezzamento di terra adatto e i tanti investimenti paralleli fanno però slittare l’avvio del progetto fino al 1908, quando 80 acri di terra pianeggiante a 5 miglia a ovest della città diventano disponibili. Fisher non perde tempo, aggiudicandosi in breve il terreno grazie al sostegno economico dei soci in affari James A. Allison, futuro fondatore della Allison Engine Company; Arthur Newby, presidente della National Motor Vehicle Company e filantropo; Frank Wheeler, spregiudicato uomo d’affari e coproprietario della Wheeler-Schebler Carburetor Company, con cui fonda la Indianapolis Motor Speedway Company. Insieme all’ingegnere P.T. Andrews, Fisher successivamente mette nero su bianco il suo progetto ripiegando, per poter accomodare anche le tribune, su un ovale da 2,5 miglia da completarsi con un infield di pari lunghezza, idea poi abbandonata per le difficoltà subentrate in fase di realizzazione. Tra queste, la costruzione di un ponte sopra il ruscello che ancora oggi scorre sotto il rettilineo principale e la south short chute, nonché i problemi legati alla stesura del mix di roccia tritata, tar e macadam impiegato per la realizzazione del manto stradale, che prestò si dimostrerà inadatto a veicoli da competizione.
In ritardo con i lavori, il primo evento ospitato dallo Speedway è il concorso nazionale di mongolfiere, ma quando l’associazione nazionale motociclisti fa tappa a Indy per una serie di gare, i detriti e la inestinguibile nube di polvere sollevata dalle due ruote trasformano l’evento in un fiasco. La settimana successiva la prima due giorni di corse automobilistiche attira, oltre a un pubblico numerosissimo, alcuni dei più importanti nomi del motorismo americano, tra cui Barney Oldfield, Louis Chevrolet, Ray Harroun e Louis Schwitzer. Le precarie condizioni di sicurezza portano però a una serie di gravi incidenti, che costano la vita al pilota Wilfred Bourque oltre che al meccanico Claude Kellum e due spettatori. E’ chiaro che il proseguimento dell’attività può passare solo attraverso una nuova pavimentazione. Nell’autunno del 1909 ben 3.200.000 mattoni vengono quindi depositati sullo Speedway, permettendo la riapertura alle corse nel Memorial Day successivo, che registra un enorme successo di pubblico. Fortuna non incontrata però dagli eventi programmati per i mesi successivi, tanto da spingere Fisher e soci all’idea di una sola grande corsa annuale da tenersi il giorno del Memorial Day, dal ricco montepremi e di durata compatibile con le tipiche attività di una giornata festiva. Nasce così la Indianapolis 500, inizialmente denominata International 500 Mile Sweepstakes Race.
Il 30 maggio 1911 è lo stesso Carl Fisher a guidare sulla sua automobile personale il gruppo, disposto su file da 5 in base all’ordine di iscrizione. Dopo 6 ore e 43 minuti di gara la vittoria arride alla Marmon Wasp di Ray Harroun, ingegnere e inventore, che trionfa grazie alla strategia (procede a un passo fisso di 75 mph per minimizzare i lentissimi cambi gomme) e a un’invenzione semplice ma geniale: lo specchietto retrovisore, che gli permette di fare a meno del meccanico di bordo nonostante le proteste degli avversari. L’evento è un grandioso successo e tanta è l’esposizione ricevuta che la Marmon, soddisfatta, può ritirarsi dalle competizioni, imitata l’anno dopo dalla National, che nel 1912 coglie un insperato successo con il giovane Joe Dawson. Sospettose sulle corse yankee ma attirate dal ricco montepremi, le case europee fanno il loro debutto ufficiale a Indy nel 1913, con Joules Goux che porta a casa il successo per la Peugeot, non senza rinunciare a qualche rinfrescante bicchiere di champagne durante le soste, mentre nel 1914 è René Thomas a portare alla vittoria la Delage. Il vero grande personaggio dei primi anni della 500 miglia (e delle corse americane in generale) è però Raffaele “Ralph” De Palma. Nato in Puglia nel 1882 ed emigrato negli States 10 anni più tardi, l’italo-americano entra nella storia già nel 1912, quando domina la corsa ma viene abbandonato al penultimo giro dalla sua Mercedes, che spinge dalla curva 4 fino al traguardo, per poi andare a congratularsi con il vincitore Dawson, ricevendo l’ovazione del pubblico. La sorte lo ripaga comunque nel 1915, anno in cui ha la meglio sull’inglese di origine italiana Dario Resta, ritiratosi nel finale dopo una lunga lotta, ma vincente l’anno dopo su una Peugeot privata nell’ultima edizione pre conflitto, di distanza limitata a 300 miglia. La corsa chiude infatti i battenti nel biennio 1917-1918, in cui Fisher concede la struttura all’aviazione come centro di manutenzione e collaudo. Quando lo Speedway riapre alle competizioni nel 1919, il protagonista è sempre lui, De Palma, che domina fino a metà gara per poi essere tradito dal motore e lasciare spazio ad Howdy Wilcox, primo uomo a superare le 100 mph di media in prova, che vince su Peugeot.
Gli anni ’20 si aprono con l’ultima di una serie di modifiche regolamentari che vedono la cilindrata massima ridursi progressivamente dai 9,8 litri del 1911 fino ai 3 litri dei Gran Premi europei. Le qualifiche, in vigore dal 1913, passano poi da uno a quattro giri cronometrati. Il nuovo sistema premia subito Ralph De Palma, per la prima volta in pole, ma dopo una lunga fase comandata da Joe Boyer è il compagno di marca Gaston Chevrolet, il più giovane dei fratelli svizzeri, a conquistare il successo sull’auto di famiglia, la Frontenac. L’anno dopo è poi Tommy Milton a capitalizzare sulle sfortune di De Palma, superando un grave handicap visivo per bissare il successo per la famiglia Chevrolet, ancora in lutto per la scomparsa di Gaston, avvenuta alla fine della stagione precedente.
Reduce da uno storico trionfo al GP di Francia 1921, nel 1922 tocca poi a Jimmy Murphy entrare nella storia, primo a vincere dalla pole position a bordo di una Deusenberg spinta da un motore di Harry Miller, le cui successive iterazioni monopolizzeranno lo schieramento per decenni. L’inventore americano l’anno dopo si scopre anche telaista, realizzando una vettura completa che Tommy Milton porta al successo, diventando il primo plurivincitore della corsa, supportato da Howdy Wilcox, che fa a suo modo la storia guidando la corsa su due vetture diverse dopo essere brevemente subentrato a Milton a metà gara. Ancora pallino delle case europee, nella stessa edizione Indy scopre la sovralimentazione grazie alla Mercedes di Christian Lautenschlagen, ispirando i fratelli Deusenberg, che nel 1924 presentano una vettura dotata di compressori Roots, condotta in partenza da Lora Corum e portata poi alla vittoria dal subentrante Joe Boyer, il più veloce della squadra. Il successo è bissato nel 1925 da Peter De Paolo, nipote e meccanico di Ralph De Palma, che precede di meno di un minuto il duo Dave Lewis-Bennet Hill su una rivoluzionaria Miller a trazione anteriore. Soluzione che si dimostra efficace anche l’anno successivo nonostante la riduzione di cilindrata a 1,5 litri, quando Lewis è però beffato dalla più convenzionale Miller a trazione posteriore del velocissimo rookie Frank Lockhart, nella prima edizione accorciata causa pioggia. È solo un guasto a negare il bis nel 1927 al pilota dell’Ohio, che dopo aver segnato il nuovo record della pista in prova deve lasciare la vittoria a George Souders, il primo a vincere la corsa senza mai cedere la vettura.
Il 1928 segna una svolta epocale nella gestione dello Speedway. Ormai totalmente preso dai suoi investimenti in Florida, Carl Fisher ha perso ogni interesse per la sua creatura, che non è più in cima ai pensieri neanche del socio Allison. In cerca di un acquirente, il patron della potente Allison Engineering propone quindi l’affare a una vecchia conoscenza. Eroe di guerra e uno dei primi assi nella storia dell’aeronautica americana, al ritorno in patria dopo la prima guerra mondiale Eddie Rickenbacker è una celebrità, in grado di dar vita a una promettente casa automobilistica, che però non supera la depressione di metà anni ’20. Protagonista della 500 miglia nel 1916, Rickenbacker riesce comunque a entrare nel consiglio direttivo della AAA, l’ente sanzionatore della corsa, divenendone in breve presidente. Quando Allison, che morirà improvvisamente qualche mese più tardi colpito dalla polmonite, gli propone di rilevare lo Speedway, l’ex asso non perde tempo nel reperire i fondi necessari, prendendo il controllo della struttura con la sua nuova società, la Indianapolis Motor Speedway Corporation. Una delle prime iniziative dei nuovi gestori è la costruzione di un campo da golf, per metà interno alla pista, che insieme ai test privati permette di produrre introiti durante il resto dell’anno.
Dal punto di vista sportivo, la vigilia della 500 miglia 1928 è funestata dalla scomparsa di Frank Lockhart, venuto a mancare durante un tentativo di record di velocità a Daytona Beach, ultima di una serie di tragedie che ha il suo apice nel settembre 1923 con la scomparsa nel giro di due settimane di Joe Boyer, Howdy Wilcox e Dario Resta. La prima pole di una vettura a trazione anteriore, guidata da Leon Duray, precede la vittoria di un uomo che farà la storia della corsa, Louis Meyer, che sopravvive allo stillicidio di rotture cogliendo l’ennesimo successo per la Miller, replicato l’anno successivo da Leo Keech, morto incredibilmente due settimane più tardi nell’ovale di Altoona, già fatale a Boyer e Wilcox.
Due anni dopo aver rilevato lo Speedway, Rickenbacker introduce intanto le prime importanti innovazioni della sua gestione. Nel tentativo di coinvolgere nuovamente le grandi case automobilistiche e riallacciare il rapporto tra la corsa e la produzione, per 1930 il regolamento tecnico vede l’aumento della cilindrata massima a 6 litri ed il bando della sovralimentazione, permessa solo per i motori a due tempi. Viene inoltre introdotto un sistema di equivalenza tra peso e potenza delle vetture, che devono nuovamente accogliere il meccanico di bordo. Alcune storiche variazioni riguardano anche il regolamento sportivo: la bandiera verde, normalmente impiegata per segnalare l’ultimo giro, viene ora impiegata per dare il via alla corsa, prendendo il posto della bandiera rossa, da qui in poi impiegata in caso di sospensione della gara. L’edizione 1930 è totalmente dominata dalla Miller a trazione anteriore del 23enne Billy Arnold, che stabilisce un record tutt’ora imbattuto rimanendo in testa per ben 198 giri. Il pilota dell’Illinois va vicinissimo al bis nei due anni successivi, rimanendo però coinvolto in brutti incidenti con alcuni doppiati che lasciano campo libero a Louis Schneider nel ’31 e Fred Frame nel ’32, anno in cui Arnold cede alle suppliche della neo sposa lasciando le corse. Il 1933 vede le qualifiche passare da 4 a 10 giri cronometrati, cosa che estende le prove ufficiali a due giornate. Al termine di un mese di maggio funestato da 5 incidenti mortali, la vittoria va ancora alla Miller di Louis Meyer, primo plurivincitore dai tempi di Tommy Milton. Oltre al ritorno a 33 partenti e norme ancora più stringenti sulla quantità di combustibile disponile, il 1934 passa agli annali come la prima edizione condotta da una vettura a 4 ruote motrici, la Four Wheel Drive guidata da Frank Brisco, che però termina solo nona, con Bill Cummings vincitore sulla solita Miller a trazione anteriore dopo una dura battaglia con Mauri Rose.
Il sempre più pesante bilancio di vittime, non certo aiutato dal ritorno a vetture biposto, impone nel biennio ‘35-’36 importanti novità riguardo la sicurezza: nelle curve vengono costruiti nuovi muretti (perpendicolari alla pista e non al terreno) e il banking viene uniformato a circa 9° lungo tutto il raggio. Le porzioni di pista più rovinate vengono ricoperte di asfalto (i mattoni sopravvivono nel rettilineo principale fino al 1961) e si introducono un sistema di luci per segnalare i periodi di neutralizzazione della corsa, il rookie test per vagliare il livello dei debuttanti e l’obbligo di indossare il casco. Il meccanico di bordo viene invece eliminato nel 1937. L’edizione del ’35 vede la prima delle 4 pole position di Rex Mays, più giovane poleman di sempre a 22 anni, che passerà alla storia come uno dei migliori piloti a non portare a casa il successo, che arride invece a Michele Cavino “Kelly” Petillo, abile e controverso pilota di origine italiana che porta alla vittoria per la prima volta il motore Offenhauser, un 4 cilindri in linea a sua volta derivante dalle tante invenzioni di Harry Miller, che segnerà la storia della corsa. Nel ’36 è invece ancora Louis Meyer a portare a casa il successo, il terzo, in una corsa che vede molti concorrenti rimanere a secco nel finale a causa della nuova formula consumo. Oltre a essere il primo tre volte vincitore, Meyer introduce casualmente la tradizione del latte in victory lane, dissetandosi con un bicchiere di buttermilk. È inoltre il primo vincitore a ricevere in regalo la pace car e soprattutto è il primo neo campione a comparire sul Borg Warner Trophy, il nuovo trofeo realizzato dalla Spaulding-Gohran su progetto di Robert Hill, che riporta in basso rilievo il volto di tutti i vincitori.
Il 1937 vede il ritorno della sovralimentazione, che risulta subito nel nuovo record della pista fatto segnare da Jimmy Snider. È però Wilbur Shaw a centrare il successo su una Stevens dalla aerodinamica evoluta, tagliando il traguardo con 2 soli secondi di vantaggio sul duo Hepburn-Swanson dopo aver rallentato nel finale per via della bassa pressione dell’olio. Nel 1938 l’uniformazione al regolamento europeo sui motori (3 litri sovralimentati o 4.5 litri aspirati) vede poi prevalere in prova e in gara la Wetteroth di Floyd Roberts. Oltre che il positivo debutto di una vettura a motore posteriore, la Miller quattro ruote motrici di George Bailey, l’edizione 1939 è ricordata invece per la seconda affermazione di Wilbur Shaw, vincitore dopo aver visto una foratura negare il poker a Louis Meyer, che poco più tardi appende il casco al chiodo, rilevando insieme a Dale Drake la produzione del motore Offenhauser. Shaw si ripresenta invece ai nastri di partenza nel 1940, cogliendo il terzo successo personale e il secondo di fila per la Maserati di Mike Boyle, con cui manca lo storico tris consecutivo nel 1941 per un incidente in cui rimedia un brutto infortunio alla schiena. La vittoria va così a Mauri Rose, che su ordine del team manager Lou Moore rileva a metà gara un tutt’altro che compiacente Floyd Davies, dichiarato comunque co-vincitore.
Come in occasione del primo conflitto mondiale, l’entrata in guerra degli Stati Uniti porta alla chiusura delle operazioni dello Speedway, che nei tre anni successivi non riceve nessuna manutenzione, lasciando stupefatto Wilbur Shaw, divenuto nel frattempo manager e collaudatore della Firestone, che tornando a Indy per un test di gomme trova il circuito in stato di totale abbandono. Preoccupato dalle voci che vorrebbero la struttura lasciare il campo nel dopo guerra a un quartiere residenziale, Shaw vola a New York per incontrare Rickenbacker, che pur non escludendo una riapertura è disponibile a valutarne la vendita. Shaw non perde allora tempo nel cercare finanziatori e dopo vari contatti infruttuosi viene messo in comunicazione con Anton “Tony” Hulman Jr., imprenditore di Terre Haute con una profonda passione per la 500 miglia fin da bambino. Non ci vuole molto a trovare un accordo gradito a entrambe le parti. Nel novembre 1945 Rickenbacker accetta quindi di cedere lo Speedway per 750.000 $ (circa lo stesso prezzo da lui pagato 15 anni prima) a Hulman, che insieme al nuovo direttore generale Shaw comincia una corsa di sei mesi per rendere presentabile lo Speedway in vista del Memorial Day 1946.
Lo Speedway è ancora un cantiere a cielo aperto quando Ralph Hepburn conquista la pole spinto dal potentissimo motore Novi, un V8 sovralimentato terribile e sfortunato protagonista dei successivi 15 anni. In gara Hepburn conduce per un quarto di distanza, lasciando poi il successo alla Thorne di George Robson. Nonostante l’annuncio di un progressivo programma di innalzamento del montepremi, l’edizione 1947 è preceduta da una furiosa polemica tra gli organizzatori e l’associazione piloti sui premi, che porta a notevoli ritardi e a una griglia rimaneggiata. Per tutta la corsa la vittoria rimane un affare privato tra i piloti di Lou Moore, con il dominatore Bill Holland beffato dal compagno di squadra Mauri Rose, che nel finale ignora l’ordine di preservare l’auto andando a vincere in mezzo alle polemiche. L’anno dopo Rose si ripete, raggiungendo Meyer e Shaw a quota tre successi, approfittando delle sventure della Novi, temuta da tutti dopo l’incidente mortale di Hepburn in prova, ma portata in pole e poi quasi al successo dal giovane Duke Nalon, costretto a un rabbocco imprevisto nel finale. Nel ’49 è invece un cedimento meccanico a negare il successo al pilota dell’Illinois, gravemente ustionato nell’incendio che avvolge la pista dopo il violento impatto con il muro. La corsa si risolve quindi in un remake del 1947, con Rose che rompe però nel finale lasciando libero Holland di portare a casa il terzo successo consecutivo per patron Lou Moore.
Il 1950, anno in cui la 500 miglia assegna punti per il nascente mondiale di Formula 1 nonostante l’incompatibilità del regolamento tecnico (cilindrata per i motori sovralimentati di 3 litri a Indy contro 1,5 in F1), vede il dominio in prova del rookie Walt Faulkner, che centra pole e record della pista. In gara è però Johnnie Parsons a prendere il largo, trionfando con la sua Kurtis-Offy quando la pioggia obbliga la sospensione della corsa dopo 138 giri. Per la terza volta in pole, Duke Nalon e la Novi non vanno molto lontano neanche nel 1951 in una corsa dominata nella seconda parte da Lee Wallard, che trionfa nel tripudio generale nonostante un ammortizzatore rotto e varie abrasioni dovute alle fortissime vibrazioni. Il 1952 segna poi l’inizio di un’era tecnica, quella dei roadsters, che resisterà per quasi quindici anni. Così soprannominati da Bill Vukovich per una vaga somiglianza con le tipiche vetture stradali, si tratta di modelli di forma bassa e allungata, con il motore in posizione anteriore e disassato sulla sinistra, mentre l’abitacolo è normalmente posto sulla destra a fianco dell’albero motore, con lo scopo di abbassare il più possibile il centro di gravità ed assecondare le curve. È però un’altra grande novità tecnica a fare scalpore in qualifica. La pole va infatti a Fred Agabashian alla guida di una vettura a motore diesel della Cummins, tornata già nel 1951 grazie a una concessione di cilindrata di ben 6,5 litri rispetto ai 3 litri delle vetture sovralimentate a benzina/metanolo. Oltre a conquistare la prima (e unica) pole di una vettura diesel, la Cummins è anche la prima vettura dotata di turbocompressore, rispetto alla sovralimentazione meccanica usata dai concorrenti. Agabashian è però presto costretto al ritiro in una gara dominata da Bill Vukovich, che però finisce a muro nel finale per un problema allo sterzo, lasciando la vittoria alla vettura da dirt track del giovane Troy Ruttman, sopravvissuto anche a un principio di incendio durante una sosta. L’edizione vede anche l’unica partecipazione ufficiale della Ferrari, con Alberto Ascari che dice addio alla corsa dopo 40 giri per la rottura di una ruota, mentre occupa una rispettabile ottava piazza.
Pronunciato ufficialmente per la prima volta da Wilbur Shaw, il comando “Gentlemen, start your engines” nel 1953 porta bene a Vukovich, che conquista un meritato successo dopo aver dominato per 195 giri in una delle edizioni più calde di sempre. “Mad Russian” (in realtà di origine serba) concede poi il bis nel 1954, piegando il focoso rookie Jimmy Bryan, alle prese con un ammortizzatore rotto. Nel ’55 Vukovich potrebbe quindi centrare il traguardo sfuggito a Shaw, le tre vittorie consecutive, ma i due sono invece uniti a pochi mesi di distanza da un tragico destino. Il direttore dello Speedway muore infatti nell’ottobre del ’54 in un incidente aereo, mentre Vukovich perde la vita in gara volando fuori pista dopo essere rimasto coinvolto in un incidente a catena. La tragedia offusca la bella vittoria del grande pilota e meccanico Bob Sweikert, che centra la prima affermazione a Indy per il leggendario capo meccanico AJ Watson, bissata l’anno dopo dal veloce e spettacolare rookie Pat Flaherty, che parte in pole e capitalizza sulle solite sfortune della Novi di Paul Russo.
Le scomparse di Vukovich e di Manny Ayulo in prova si sommano nella stagione ‘55 agli incidenti che costano la vita a Larry Crocket, Mike Nazaruk, Jerry Hoyt e Jack McGrath, oltre al tremendo incidente che a Le Mans lascia sul terreno 80 vittime. Un bilancio inaccettabile per la AAA, che a fine stagione abbandona il mondo delle competizioni. Senza ente sanzionatore per la 500 miglia, Tony Hulman decide allora di fondare la sua organizzazione, il United States Auto Club (USAC), che nei decenni seguenti patrocinerà non solo la 500 miglia e il National Championship di cui essa fa parte, ma anche campionati midget, sprint car e stock car.
Dopo aver risollevato lo Speedway, nel biennio ’56-’57 Tony Hulman apporta inoltre il primo grande rinnovamento alla struttura, affrontando prima la riasfaltatura della pista (a eccezione del rettilineo principale, completato nel ’61), poi la costruzione del muretto divisorio tra lo stesso rettilineo e la pit lane e infine realizzando una nuova sede di uffici e direzione gara al posto della ormai decadente Pagoda, risalente agli anni ’20. Il ’57 vede anche una leggera riduzione di cilindrata (2,8 litri per i sovralimentati e 4,2 per gli aspirati), ma soprattutto un’evoluzione del concetto di roadster introdotta dal geniale ma squattrinato George Salih, che investe anche la sua casa su una vettura con motore inclinato di 72° rispetto all’asse verticale, nel tentativo di abbassare ulteriormente il baricentro. Il concetto è vincente, perché nel finale la migliore guidabilità consente al veterano Sam Hanks di avere la meglio sulla potentissima Novi di Paul Russo, centrando un successo da libro Cuore a ritiro ormai annunciato. La favola continua poi nel ’58 quando è Jimmy Bryan a trionfare in un’edizione ricordata anche per l’enorme incidente multiplo del primo giro che costa la vita a Pat O’Connor. Le tragedie proseguono purtroppo anche l’anno dopo, con le morti in prova di Bob Cortner e Jerry Unser (fratello maggiore di Bobby e Al) che spingono verso i primi modelli di tute ignifughe. La corsa va alla Watson-Offy di Rodger Ward, che ha la meglio su Jim Rathmann anche grazie a un’innovazione introdotta da AJ Watson, gli air jacks pneumatici per il sollevamento della vettura, che riducono notevolmente il tempo speso in pit lane.
La sfida tra i due si rinnova nell’edizione che apre il decennio forse più entusiasmante nella storia della corsa. Nella seconda metà gara Ward e Rathmann ingaggiano infatti un esaltante duello fatto di sorpassi e controsorpassi, fino a quando il campione uscente non comincia a vedere le tele dei propri pneumatici, lasciando strada nel finale a Rathmann, che dopo tre secondi posti coglie finalmente il meritato successo. Cinquant’anni dopo la prima edizione, nel 1961 la 500 miglia scopre due nuove leggende in Parnelli Jones, che da rookie conduce a lungo prima di perdere un cilindro, e AJ Foyt, rallentato da un rabbocco imprevisto nel finale e poi furiosamente in recupero sul poleman Eddie Sachs, che a due giri dal termine deve fermarsi per un cambio gomme d’emergenza, lasciando il successo a SuperTex. L’edizione passa alla storia anche per la scomparsa in prova di Tony Bettenhausen, favorito della vigilia e tra i più affermati piloti dell’epoca, oltre che per il debutto del due volte campione del mondo Jack Brabham, che con la sua Cooper-Climax ripropone il concetto di motore posteriore, conquistando un buon nono posto. Nel ’62 Parnelli Jones abbatte il muro delle 150 mph, dominando poi la corsa fino a quando un guasto ai freni lo lascia attardato durante le soste. Ad approfittarne è quindi Rodger Ward, che trionfa ancora precedendo di poco il compagno Len Sutton.
Ispirato da Brabham, Dan Gurney debutta intanto su una vettura a motore posteriore, sotto gli occhi di Colin Chapman, che nel ’63 iscrive due Lotus 25-Ford opportunamente adattate per lo stesso Gurney e Jim Clark. Lo scozzese si piazza in seconda fila sulla sua agile monoscocca inseguendo da subito Jones, che dalla pole va in fuga lasciando alle Lotus (molto più parche nei consumi) il comando durante le soste. Più che Clark, sempre all’inseguimento, nel finale la minaccia maggiore per Jones è una perdita d’olio che gli fa rischiare una bandiera nera, mai esposta. Tra le polemiche il californiano porta quindi a casa un successo comunque meritato, con Clark che si rifà comunque l’anno successivo, conquistando la pole in una griglia ormai divisa tra roadsters e imitazioni della Lotus. La corsa assume però subito connotati tragici quando nel gruppo Dave MacDonald va in testacoda in curva 4, innescando un incidente a catena e un enorme incendio in cui perde la vita insieme al popolarissimo Eddie Sachs. L’incendio porterà l’anno successivo all’impiego del metanolo come unico combustibile ammesso, in quanto estinguibile con l’acqua. La corsa, sospesa per la prima volta nella storia per un incidente, riprende due ore dopo e quando le Lotus di Clark e Bobby Marshman sono messe KO rispettivamente da una sospensione e una perdita d’olio, la lotta per la vittoria si riduce ai roadsters di Foyt e Jones, con il primo a prevalere quando un incendio in pit lane costringe il campione uscente al ritiro. In piena guerra delle gomme, con la Goodyear impegnata a rovesciare il regno quarantennale della Firestone, è a quest’ultima che Chapman si rivolge nel ‘65 per gommare la sua Lotus 38 e risolvere i problemi indotti dalle Dunlop impiegate nei due anni precedenti. Il risultato è il dominio totale di Clark, che si vede soffiare la pole da Foyt ma in gara poi comanda per 192 giri, centrando agevolmente il successo.
La griglia del ’66, ormai dominata da vetture a motore posteriore e divisa, oltre che tra Goodyear e Firestone, anche tra motori Ford e Offenahuser (in alcuni casi addirittura turbosovralimentati), è comandata dal rookie del ’65 Mario Andretti, che è però presto costretto al ritiro. Jim Clark, passato dal British Green al bianco rosso STP, è ancora protagonista, ma incappa in due testacoda che lasciano campo libero al veloce ma spesso sfortunato Lloyd Ruby, a lungo in testa ma tradito dal motore Ford dopo 150 giri. Il comando passa così alla Lola del giovane Jackie Stewart, che però è a sua volta costretto al ritiro a 8 giri dalla fine, lasciando la vittoria al compagno Graham Hill, che conquista così la famosa Triple Crown, avendo già vinto la 24 ore di Le Mans e il Gran Premio di Monaco. L’invasione di team e piloti europei prosegue nel 1967, ma a fare notizia è la Paxton schierata da Mister STP Andy Granatelli per Parnelli Jones. La vettura, spinta da una turbina da elicottero Pratt&Whitney montata alla sinistra dell’abitacolo in un telaio tubolare, è inoltre dotata di quattro ruote motrici e freno aerodinamico. Qualificatosi prudenzialmente in seconda fila, già al primo giro Jones non ha difficoltà nel superare il poleman Andretti e dominare la corsa fino a 4 giri dal termine, quando la rottura di un banalissimo cuscinetto a sfera lo costringe ad accostare sull’erba, lasciando il successo a Foyt, che entra nel novero dei tre volte vincitori slalomeggiando tra varie vetture incidentate all’ultimo giro.
Tutt’altro che scoraggiato, Granatelli unisce le forze con Colin Chapman, presentando nel ’68 tre Lotus 56 dotate di un’innovativa forma a cuneo e spinte dalla stessa turbina Pratt&Whitney, nonostante le limitazioni all’aspirazione imposte dall’USAC. In una delle 500 miglia più memorabili di sempre, che vede scontrarsi il meglio dei piloti europei e americani oltre alle più svariate tecnologie (motori aspirati, sovralimentati, turbocompressi, turbocompressi 4 ruote motrici, a turbina a 4 ruote motrici), la lotta per la vittoria si restringe alla Lotus del poleman Joe Leonard e alla Eagle-Offy Turbo di Bobby Unser, culminando in un’ultima ripartenza a 10 giri dalla fine che vede la Lotus parcheggiare ammutolita nell’erba della curva 1, vittima di un altro banale guasto, mentre il futuro Uncle Bobby conquista la prima vittoria a Indy di un motore turbocompresso, della Eagle e della famiglia Unser. Il ritiro di Leonard regala il secondo posto a Dan Gurney, che fa a sua volta la storia diventando il primo pilota a usare un casco integrale in gara. Il ’68 è anche l’ultimo anno al via di una vettura a motore anteriore, la Mallard dell’indomabile Jim Hurtubise, che per anni si opporrà alla dittatura delle “posteriori” cercando in vano di qualificare il suo roadster. Il decennio si chiude infine nel 1969 con la vittoria di Mario Andretti, che dopo aver distrutto la sua Lotus in prova beneficia dei problemi ai rivali principali, Foyt e Ruby, portando al successo la vecchia Brawner Hawk. In victory lane Mario è poi protagonista di uno degli scatti più iconici nella storia della 500 miglia, “subendo” il wet kiss di patron Andy Granatelli.
Il ritiro della Lotus, successivo al clamoroso incidente in prova di Andretti, segna l’inizio del reflusso dell’ondata europea abbattutasi sullo Speedway negli anni ’60. Sempre meno piloti di F1 si cimentano infatti nella corsa, che a metà degli anni settanta torna ad essere un evento strettamente nord americano in termini di partecipanti, raccogliendo comunque l’interesse della McLaren, che per buona parte del decennio si spartisce il grosso della griglia con la Eagle di Dan Gurney. Dopo le prime avvisaglie del ’69, nel 1970 molte vetture cominciano a mostrare dei dispositivi aerodinamici applicati al corpo vettura. Tra queste la PJ Colt-Ford del team Vel’s Parnelli, gestita dal leggendario capo meccanico George Bignotti e affidata ad Al Unser, che conquista la pole in una griglia di soli motori turbo, egualmente divisi tra Ford e Offenhauser. La gara, disturbata inizialmente dalla pioggia, non ha storia, con Unser che conduce ben 191 giri, precedendo Mark Donohue, rookie of the year uscente con il team Penske. Il 1971 vede il debutto della nuova McLaren M16, che chiude definitivamente l’era delle monoposto a sigaro ispirandosi chiaramente alla Lotus 72 di F.1. La vettura, che aggira il bando agli alettoni collegando una vistosa appendice aerodinamica posteriore al cofano motore, domina le prove con Donohue, anche se è il pilota ufficiale Peter Revson a centrare la pole. Dopo un incidente in pit lane che vede incredibilmente la pace car investire dei fotografi, Donohue domina la corsa fino alla rottura del cambio, lasciando spazio ad Al Unser, che concede il bis dopo il ritiro del compagno di squadra Leonard.
Con la liberalizzazione degli alettoni e l’avvento delle gomme slick, nel ‘72 le prestazioni cominciano però a diventare inquietanti: Bobby Unser, in pole su una Eagle-Offy a 195.9 mph di media, migliora infatti di oltre 17 mph il record di Revson. In gara però il vincitore ’68 non va oltre il 31° giro e quando anche il dominatore Gary Bettenhausen (figlio dell’indimenticato Tony) si ritira a 20 tornate dal termine, è il compagno Donohue a raccogliere il comando, andando a conquistare il primo successo per Roger Penske e la McLaren. Con ali sempre più grandi e potenze che superano ormai i 1000 cavalli, l’edizione ’73 potrebbe vedere battuto anche il muro delle 200 mph, ma in realtà passa alla storia come l’edizione più buia nella storia della 500 miglia. Dopo la morte in prova di Art Pollard, un clamoroso incidente in partenza vede infatti la McLaren di Salt Walther finire contro le reti, prendere fuoco e poi concludere la sua corsa capovolta. L’incidente causa diversi feriti tra gli spettatori, costando serie ustioni e lesioni alle mani al pilota che però, incredibilmente, sopravvive. Dopo un rinvio di ben due giorni per pioggia, è Al Unser a comandare la corsa quando Swede Savage va in testacoda in curva 4, impattando contro il muretto interno, che fa esplodere letteralmente la sua Eagle. Nella confusione che segue Armando Teron, addetto alla tabella del californiano, muore subito dopo investito da un mezzo dei commissari mentre si reca sul luogo dell’incidente. La corsa riprende un’ora più tardi e dopo il ritiro di Unser è Gordon Johncock a trovarsi in testa quando la pioggia interrompe definitivamente la gara al 133° giro. Savage sopravvive incredibilmente all’incidente, morendo un mese più tardi per complicazioni subentrate ai numerosi interventi subiti.
Drastiche misure si rendono necessarie per calmierare le prestazioni delle vetture, cui viene imposto un controllo della sovralimentazione tramite valvola pop off, oltre a una riduzione nelle dimensioni degli alettoni e dei serbatoi. Il muretto esterno viene inoltre alzato da 91 a 163 cm mentre il muro interno all’uscita della curva 4 viene reso parallelo al rettilineo principale. Nel ’74, ultimo anno di guerra delle gomme per via dell’abbandono della Firestone, AJ Foyt parte dalla pole sulla sua Coyote-Foyt (motore turbo derivato dal Ford ’64), ma il più veloce è Rutherford, che recupera dalla 25° piazza e va definitivamente in testa quando il texano abbandona per una perdita d’olio, centrando il successo per il team McLaren. Foyt si ripete in prova nel 1975, raggiungendo Rex Mays a quota quattro pole position. Dopo aver guidato le prime fasi di gara però nulla può contro la Wildcat-DGS (una versione più aggiornata del turbo Offy) di Wally Dallenbach, che domina fino al 162° giro, tradito da un pistone. Bobby Unser, in lotta con Johnny Rutherford per la vittoria, emerge quindi in testa dall’ultimo pit stop ed è dichiarato vincitore quando un nubifragio si abbatte poco dopo sullo Speedway.
La pioggia è ancora protagonista nell’edizione ’76, che vede il poleman Rutherford superare Foyt poco prima di metà gara, quando la corsa viene sospesa al 103° giro e un nuovo scroscio di pioggia impedisce qualche ora dopo la ripresa delle ostilità, consegnando il successo al pilota McLaren. Per SuperTex l’appuntamento con la quarta, storica affermazione è comunque solo rimandato. Nel 1977 Tom Sneva entra nella storia, sfondando ufficialmente il muro delle 200 mph, complice anche la riasfaltatura della pista. È però Johncock a guidare la corsa più a lungo di tutti, per poi ritirarsi al 179° giro e lasciare il comando a Foyt, che controlla Sneva fino al traguardo conquistando sulla sua Coyote il tanto atteso trionfo. A festeggiarlo nel tripudio generale anche Tony Hulman, all’ultima grande gioia legata allo Speedway prima di venire a mancare nell’ottobre seguente per un improvviso malore.
La prima edizione dell’era post Hulman vede Tom Sneva centrare un’altra pole a oltre 200 mph di media sui quattro giri, dovendosi però ancora accontentare della seconda piazza in gara, beffato questa volta dalla Lola di Al Unser, che conquista il terzo successo personale, il primo per il motore Cosworth DFX (versione turbo del celeberrimo DFV di F.1) e per Jim Hall, al debutto a Indy. Dopo il primo anno di rodaggio, il geniale ex pilota e ingegnere texano nel ’79 decide però di schierare una sua monoposto, la Chaparral 2K, prima Indycar a seguire la strada dell’effetto suolo introdotta in F.1 dalla Lotus 78. In un’edizione che vede al via ben 35 vetture (il numero più alto dal 1933) per via di una diatriba sulla valvola pop-off, Al Unser domina la prima metà gara, prima di incontrare problemi al cambio e lasciare strada al fratello Bobby, che incalzato dal giovane compagno di squadra Rick Mears nel finale accusa a sua volta un guasto alla trasmissione. Con Foyt staccato quasi di un giro, Mears ha quindi gioco facile nel controllare la situazione e cogliere il primo successo allo Speedway, che coincide con la prima affermazione di un telaio Penske e la seconda del motore Cosworth, all’inizio di un dominio che durerà un decennio.
La fine degli anni ’70 segna anche una rivoluzione nella situazione politica attorno all’USAC e alla 500 miglia. L’antiquata, se non addirittura assente, strategia di gestione e promozione del National Championship comincia infatti a non essere più tollerata dalle squadre, alle prese con costi in continua ascesa contrapposti a montepremi striminziti e scarsa appetibilità per gli sponsor, a causa di un’esposizione mediatica inesistente al di fuori della Indy500. Tale malcontento, riassunto in una serie di punti e possibili correttivi, viene espresso inequivocabilmente nel 1978 nel White Paper di Dan Gurney, rigettato però dall’USAC, sempre più sorda alle richieste dei proprietari, che a fine stagione prendono la storica decisione di riunirsi in un’associazione, la CART, e fondare un omonimo campionato in opposizione all’USAC. Nel giro di pochi anni la nuova serie si afferma, potendo contare su tutti i grandi nomi del panorama motoristico, cui si aggiungono progressivamente squadre e piloti della morente Can-Am. Di converso, il campionato USAC affronta un calo verticale di prestigio, partecipanti e corse in calendario, riducendosi dopo il 1985 alla sola 500 miglia. Le due organizzazioni raggiungono quindi nell’83 un compromesso: la Indy500 continua ad essere un evento organizzato dall’USAC con regole indipendenti dal campionato CART, che però può annoverare la corsa nel suo calendario. Una situazione che si manterrà grosso modo stabile fino al 1995.
Dopo i problemi di affidabilità del ‘79 la Chaparral si ripresenta nel 1980 con i favori del pronostico, grazie anche alle vittorie a raffica mietute nel campionato CART. Johnny Rutherford, passato alla corte di Jim Hall dopo l’abbandono di Al Unser e la chiusura del programma McLaren, domina prove e gara, entrando nel ristretto cerchio dei tre volte vincitori, che presto deve fare però spazio a un nuovo membro. Bobby Unser replica infatti a Lone Star, aggiudicandosi la doppietta pole-gara nel 1981 a bordo di una Penske PC9B dalle minigonne finalmente efficaci. La vittoria è però poco limpida, perché all’uscita da un pit stop sotto regime di bandiera gialla Unser, in testa, supera tutte le vetture davanti a se posizionandosi dietro la pace car, una manovra non permessa dal regolamento e che viene punita dall’USAC nei risultati ufficiali del giorno dopo, in cui Unser viene retrocesso al secondo posto dietro Mario Andretti. Al termine di una lunga battaglia legale, in ottobre l’USAC rovescia però la decisione, giudicata eccessiva, perché non punendo Unser durante la corsa la direzione gara ne avrebbe di fatto avallato la condotta.
Vinta a tavolino l‘edizione ’81, la Penske perde invece in pista la 500 miglia del 1982. Dopo un incidente in partenza innescato da Kevin Cogan che elimina tra gli altri Foyt e Andretti, la corsa si risolve in un lungo confronto tra Rick Mears e Gordon Johncock. In un finale infuocato in cui le urla del pubblico arrivano a coprire il rombo dei motori, negli ultimi 10 giri il campione ’79 recupera ben 11” all’avversario, non riuscendo però a passare un determinatissimo Johncock, che al volante di una Wildcat precede la Penske di 16 centesimi nel finale più ravvicinato fino ad allora. Le delusioni per la Penske continuano nell’83 quando è Tom Sneva, due volte campione nazionale non confermato dal Capitano nel ’79, a conquistare una popolarissima vittoria per George Bignotti e il telaio March, che colma il vuoto lasciato dalla McLaren, riaffermando la bontà delle monoposto inglesi. L’edizione, che vede la pole position del rookie Teo Fabi, passa agli annali anche per il debutto di Al Unser Jr., che nel finale ostacola a più riprese Sneva nel tentativo di ritardare l’inevitabile sorpasso sul padre Al Senior. Accantonato momentaneamente il proprio telaio, Roger Penske si rifà però nel biennio successivo, quando Rick Mears conquista un successo schiacciante su una March nei colori Pennzoil, mentre a Danny Sullivan sono necessari due tentativi nel 1985 per passare definitivamente Mario Andretti e andare a vincere nonostante un testacoda, nell’edizione passata alla storia per lo “spin and win”.
La March si conferma poi vincente anche nel 1986, quando al termine di una entusiasmante battaglia a tre con Kevin Cogan e Rick Mears, Bobby Rahal prende il comando in una ripartenza all’ultimo giro, conquistando un commovente successo per Jim Trueman, patron del team Truesports, che nove giorni più tardi perde una lunga battaglia con il cancro. Dopo il successo del ’69 e l’illusione del 1981, l’87 sembra invece l’anno buono per il ritorno al successo di Mario Andretti, che su una Lola spinta dal nuovo e potente motore Ilmor conquista la pole e domina la gara, potendo contare su un giro di vantaggio quando una valvola lo pianta in asso a 23 giri dalla fine. Il comando è quindi rilevato da Roberto Guerrero, che però fa spegnere il motore durante l’ultima decisiva sosta, regalando il successo ad Al Unser, che raggiunge Foyt a quota quattro successi in una gara che né lui, sostituto dell’infortunato Ongais, né la sua March 86C, ritirata in fretta e furia dalla hall di un albergo, avrebbero dovuto disputare. Dopo una vittoria per certi versi fortuita Roger Penske, ormai davanti a Lou Moore come proprietario più vincente della storia, domina il campo nel 1988 anche nelle vesti di costruttore, con Rick Mears che sulla nuova PC17 domina la seconda parte di gara dopo aver recuperato un giro, centrando il terzo successo personale. Nel 1989 il californiano entra poi ulteriormente nella storia arrivando a quota cinque pole position, una più di AJ Foyt e Rex Mays. La gara è però dominata da Emerson Fittipaldi su una Penske del team Patrick, che negli ultimi giri se la deve vedere però con un agguerrito Al Unser Jr., con cui ingaggia un feroce duello nel traffico. L’epilogo arriva a tre miglia dalla fine, quando un contatto ruota a ruota in curva 3 spedisce Unser contro il muro, consegnando al due volte campione del mondo un diamante preziosissimo nella sua collezione di successi.
Il brasiliano, passato al team Penske insieme alla Marlboro, si candida al bis l’anno successivo, dominando per 92 giri prima di incontrare problemi di gomme e lasciare spazio ad Arie Luyendyk. Superato Rahal nel finale l’olandese coglie infatti un insperato successo per Vince Granatelli Jr., segnando anche un record di gara che resisterà ben 23 anni. Il biennio successivo apre invece un nuovo capitolo dell’Andretti Curse, la maledizione degli Andretti, ormai entrata di diritto tra le tradizioni della 500 miglia. Michael Andretti domina infatti l’edizione 1991 tenendo a bada Fittipaldi, che però è costretto ad abbandonare nel finale da problemi al cambio. Dopo l’ultimo pit stop, Michael si ritrova così dietro all’altra Penske di Rick Mears, che supera in ripartenza, all’esterno, con una manovra che manda in visibilio i 400.000 presenti. Sembrerebbe finita, ma al giro seguente Rick restituisce il favore, superando Michael all’esterno della curva 1 a una velocità impossibile. Dopo di che il californiano se ne va, sfruttando solo alla fine tutto il potenziale della sua vettura e raggiungendo di diritto AJ Foyt e Al Unser nel circolo dei quattro volte vincitori. Nel 1992 invece Andretti è semplicemente intoccabile, dominando la corsa sulla sua Lola motorizzata dalla rientrante Ford Cosworth, che annichilisce la concorrenza…fino a 11 giri dalla fine, quando un banale guasto costringe Michael alla resa, lasciando basiti Paul Newman e Carl Haas, che a distanza di 5 anni rivivono la terribile delusione patita con papà Mario nel 1987. Senza più il giovane Andretti a rubare la scena, la corsa si risolve in un duello finale in cui la Galmer di Al Unser Jr. ha la meglio sulla Lola di Scott Goodyear per soli 43 millesimi, ad oggi il margine di vittoria più ridotto di sempre. Oltre ad aggiungere un altro membro della famiglia Unser sul Borg Warner Trophy, Al Jr. fa la storia anche in victory lane, spiegando a Jack Arute le sue lacrime con un “you just don’t know what Indy means” che, dopo il muro colpito nel 1989, lascia pochi dubbi sul posto occupato dalla 500 miglia nel cuore di Little Al.
Il 1992 passa agli annali anche per il nuovo record della pista fatto segnare da Roberto Guerrero su una Lola spinta da un motore Buick stock block, ovvero derivato dalla serie. Sempre restìa al cambiamento, dopo aver accettato giocoforza il pensionamento del mitico 4 cilindri Offenhauser ad opera del DFX Cosworth, che domina ininterrottamente dal ’78 all ’87, per incentivare la partecipazione di piccoli team e costruttori americani l’USAC ammette unità di derivazione di serie con distribuzione ad aste e bilancieri e due sole valvole per cilindro, cui garantisce un largo vantaggio in termini di pressione di sovralimentazione rispetto alle unità a doppio albero a camme in testa. Nonostante le potenze clamorose raggiunte, che già 7 anni prima di Guerrero permettono a Pancho Carter di conquistare pole e record nel 1985, la cronica mancanza di affidabilità non permette però a questi motori, in larga parte prodotti dalla Buick, di essere competitivi in gara prima con i Cosworth DFX e poi con i più moderni Ilmor-Chevrolet, che monopolizzano la scena dall’88 fino al ’93, creando una netta separazione della griglia in quanto inizialmente disponibili solo per i top teams. Il ritorno della Cosworth con il suo potente XB cambia in parte le carte in tavola, ma dopo la delusione del ’92 la casa americana dovrà aspettare ben tre anni per arrivare al successo. In pole nel 1993 con Arie Luyendyk, la Ford sfiora la vittoria con il campione del mondo in carica Nigel Mansell, che riporta l’attenzione internazionale sulla 500 miglia ma è beffato dalla Penske di Emerson Fittipaldi in una ripartenza nel finale.
Penske che fa ancora la storia nel ’94, sfruttando l’apertura a propulsori ad aste e bilancieri non più solo di serie per presentare tre vetture spinte da un potentissimo motore realizzato in gran segreto dalla Ilmor (poi targato Mercedes), con cui Emerson Fittipaldi sfiora il terzo successo personale, che arride invece al poleman e neo compagno di squadra Al Unser Jr., premiato da un errore del brasiliano negli ultimi giri. Sommersa di ordini per il ’95, la Ilmor viene poi gelata dalla decisione dell’USAC di ridurre drasticamente la pressione massima per i motori di tale tipologia. Mossa che segna il punto più basso nei rapporti tra le due organizzazioni, con l’USAC e la dirigenza dello Speedway, passata nel ’90 a Tony George, nipote di Tony Hulman, sempre più indisposti verso la CART e i contratti di leasing sui motori, che di fatto garantiscono il controllo della griglia a Ilmor e Ford. L’eterno conflitto di personalità tra George e i proprietari di team appesantisce poi la lunga discussione per un regolamento tecnico più sostenibile, sfociando nella creazione a partire dal ’96 di un nuovo campionato concorrente alla CART, la Indy Racing League, basato su vetture più semplici ed economiche e incentrato sulla 500 miglia.
L’edizione del ’95, l’ultima quindi a far parte anche del calendario CART, vive subito un incredibile shock quando le Penske di Unser e Fittipaldi, private del potentissimo motore Mercedes, mancano incredibilmente la qualificazione. La corsa è poi un susseguirsi di colpi di scena, dal solito calo delle Menard ex-Buick, in pole con Scott Brayton, agli incidenti che tolgono di mezzo Andretti, Vasser e Pruett, fino alla penalizzazione di Scott Goodyear, che getta al vento una vittoria storica anche per la Honda e la rientrante Firestone, superando la pace car all’ultima ripartenza e lasciando il successo alla Reynard-Ford del giovane Jacques Villeneuve, penalizzato di due giri in precedenza per la stessa infrazione.
In attesa delle nuove vetture in arrivo nel ’97, la prima edizione della corsa sotto le insegne IRL vede impegnate le stesse vetture dell’anno prima ma diversi piloti, a causa del boicottaggio delle squadre CART, indignate dalla decisione di Tony George di riservare 25 dei 33 posti in griglia ai piloti stabilmente impegnati nel suo campionato. La riasfaltatura invernale permette ad Arie Luyendyk di segnare nuovi record sul giro e in qualifica, ma la pole va ancora a Scott Brayton. La gioia dura poco però per il team Menard, sconvolto qualche giorno più tardi dalla scomparsa del suo pilota in un incidente in curva 2 causato da una foratura. Tony Stewart, promettentissimo rookie e compagno di Brayton, è protagonista delle prime fasi sotto una pressione spaventosa. Quando anche lui come altri attesi protagonisti rimane però attardato da vari contrattempi, è Alessandro Zampedri a far sperare nel primo successo tricolore dai tempi di De Palma. Tradito da un ammortizzatore, l’italiano è però costretto a lasciare spazio nel finale a Buddy Lazier, che trionfa nonostante un recente infortunio alla schiena. Un violentissimo incidente multiplo all’ultimo giro costa invece caro a Zampedri, che finendo contro le reti della curva 4 subisce gravi infortuni agli arti inferiori. Il bresciano è comunque ai nastri di partenza nel 1997, quando l’arrivo dei nuovi di motori stock block 4 litri aspirati pone fine all’era dei turbo, in vigore con poche variazioni dalla fine degli anni ’60. La griglia, composta da 35 vetture in seguito al ripescaggio di due esclusi risultati più veloci di alcuni qualificati “di diritto”, vede impegnati veterani, giovani speranze delle ruote scoperte e semi sconosciuti piloti delle divisioni Midget e Sprint Car. Non sorprende quindi che la vittoria vada al campione ’90 Arie Luyendyk, che dopo aver conquistato la pole (15 mph più lenta del ’96, lo scarto più grande dal ‘72) ha la meglio nel finale sul compagno di squadra Scott Goodyear, ancora una volta vicinissimo al successo.
Dopo la prima vittoria del telaio G Force, nel ’98 tocca però alla Dallara imporsi con Eddie Cheever, che dopo aver chiuso miracolosamente il budget alla vigilia della corsa, sopravvive a un contrattempo iniziale per poi contenere d’autorità gli attacchi di Buddy Lazier negli ultimi giri. La casa italiana si ripete poi nel ’99, quando un’incomprensione con il doppiato Carlson spedisce contro il muro il poleman Luyendyk, lasciando campo libero a Kenny Brack. In un finale da brivido lo svedese si ritrova però a inseguire Robby Gordon, in disperata attesa di una bandiera gialla che però non arriva, lasciando il californiano a secco all’inizio dell’ultimo giro. Lo svedese riporta quindi in victory lane patron Foyt 22 anni dopo l’ultimo trionfo su Coyote, oltre alla Oldsmobile, al terzo successo consecutivo.
Dopo tre anni di guerra, piccoli segnali di distensione tra CART e IRL arrivano nel 2000, anno in cui la lega di Tony George adotta motori aspirati 3,5 litri non più derivanti dalla produzione. Il team Ganassi, tricampione CART, partecipa infatti all’evento con Juan Pablo Montoya e Jimmy Vasser. Nell’atteso duello tra i campioni delle due serie in qualifica è Greg Ray a spuntarla sul colombiano, che dopo l’uscita di scena del rivale è però il dominatore della corsa, portando al successo la sua G Force Aurora dopo aver condotto per ben 167 giri. La sfida sale di livello l’anno successivo, quando oltre al team Ganassi anche Roger Penske fa il suo ritorno con due vetture, imitato da Barry Green, che schiera una Dallara Oldsmobile per Michael Andretti. Scott Sharp conquista la pole, ma è solo il primo dei big IRL ad abbandonare la corsa, complicata dalle difficili condizioni atmosferiche. Determinato a lavare l’onta del ’95 e chiudere la bocca a quanti lo avevano deriso nel debutto IRL della sua squadra a Phoenix, Roger Penske centra uno storico 1-2, con Helio Castroneves a prendere il comando su Gil De Ferran dopo l’ultima sosta. La Dallara centra anche il terzo posto con Michael Andretti, che precede quattro vetture del team Ganassi in una classifica dominata dai team CART. Due sconfitte di fila sono troppe per la lega di Tony George, che nel 2002 può però contare tra le sue fila lo stesso team Penske, fuoriuscito clamorosamente dalla CART a fine 2001. Dopo la pole di Junqueira, pilota CART di Chip Ganassi, la corsa è dominata dal rookie Tomas Scheckter, che getta però tutto alle ortiche con un banale errore in curva 4. In un remake del ’99 Castroneves, mai protagonista, evita l’ultima sosta e prende il comando nella speranza di una bandiera gialla. La neutralizzazione questa volta arriva, ma proprio quando Paul Tracy affianca il brasiliano in curva 3 con la bandiera bianca ormai in vista. Nonostante l’assenza di prove certe su chi fosse davanti al momento della bandiera gialla, il brasiliano viene dichiarato vincitore e a nulla valgono le proteste del team Green, vittima probabilmente di una decisione più politica che sportiva.
Dopo 6 anni di dominio quasi incontrastato Oldsmobile/Chevrolet, nel 2003 l’arrivo di Toyota e Honda insieme ai migliori team di una serie CART ormai al collasso cambiano le carte in tavola. Nonostante i migliori sforzi di Scheckter e Kanaan, Roger Penske coglie il terzo successo consecutivo, impresa centrata in precedenza solo da Lou Moore ma che non riesce a Castroneves, che su Dallara è preceduto dalla G Force del compagno De Ferran nella prima vittoria di un costruttore giapponese, la Toyota. Dopo il successo sfiorato nel ’95 e i trionfi in CART è però la Honda negli anni successivi a fare la voce grossa, interpretando meglio dei rivali la nuova formula 3 litri. Nel 2004 è infatti Buddy Rice a regalare al colosso nipponico il primo successo, piazzando la sua G Force del team Rahal davanti alle Dallara di Tony Kanaan e Dan Wheldon. L’inglese si rifà però l’anno successivo, superando nelle ultime fasi un altro pilota del team Rahal, la rookie Danica Patrick, beniamina del pubblico e in testa nel finale per via di una diversa sequenza di rifornimenti.
A dieci anni dall’inizio della guerra IRL-CART(che dopo il fallimento del 2003 sopravvive sotto il nome ChampCar) è chiaro a tutti come l’unico risultato del conflitto sia stato lo svilimento di una corsa il cui primato di popolarità è ormai seriamente minacciato dalla Daytona 500 Nascar, al punto che a fine 2005 Chevrolet e Toyota abbandonano il campo, lasciando alla sola Honda l’onere, più che l’onore, di fornire i motori ai 33 partenti del 2006. Dan Wheldon, passato dal team di Michael Andretti alla corte di Chip Ganassi, domina la corsa, rimanendo però attardato nel finale, deciso da una ripartenza a 5 giri dalla bandiera a scacchi che vede il rientrante Michael Andretti comandare sul figlio Marco, strepitoso rookie. La fine della Maledizione degli Andretti sembra a un passo, ma entrambi non fanno i conti con il poleman Sam Hornish, che dopo un contrattempo in pit lane si fa largo a ruotate nel traffico dell’ultimo restart, avventandosi in volata sul giovane Marco, che precede per 63 millesimi. Il rookie of the year è protagonista anche dell’edizione 2007, condizionata dalla pioggia, che alla fine vede prevalere Dario Franchitti, bravo a recuperare da un contrattempo iniziale e trovarsi al posto giusto quando la pioggia rifà capolino sullo Speedway a 34 giri dal termine.
Il 2008 vede invece il dominatore della stagione Scott Dixon centrare la doppietta pole-vittoria, avendo la meglio su un coriaceo Vitor Meira e Marco Andretti. L’edizione conta alla partenza solo telai Dallara e motori Honda, determinando una forzata condizione di monomarca, lontana anni luce dal concetto ispiratore della corsa. Piuttosto che un livellamento dei valori in campo, il binomio Dallara-Honda promuove un duopolio Penske-Ganassi che domina l’edizione 2009, con il poleman Helio Castroneves che approfitta dei guai di Dixon e Franchitti per conquistare il terzo liberatorio successo allo Speedway, arrivato a cancellare una difficile diatriba legale con l’agenzia delle entrate nell’inverno precedente.
Nel 2010 è invece lo scozzese a candidarsi a una vittoria che non appare a rischio fino agli ultimi giri, giocati sui consumi, in cui Franchitti evita l’ultimo rabbocco incalzato da Wheldon, finché il brutto incidente che chiude la stagione di Mike Conway non provoca la neutralizzazione della corsa con la bandiera a scacchi ormai in vista. Il tre volte campione IndyCar conduce a lungo anche l’edizione successiva, quella del centenario, alternandosi con il compagno Dixon. In un finale fotocopia del 2010 Franchitti è però costretto questa volta a una sosta d’emergenza, lasciando il comando al rookie Hildebrand, che sembra lanciato verso una facile vittoria quando all’ultima curva finisce incredibilmente a muro nel tentativo di doppiare Kimball. Pur riuscendo a tagliare il traguardo, il californiano si vede sfilare il comando negli ultimi metri da Dan Wheldon, al secondo successo in carriera, il primo per il minuscolo team di Bryan Herta. Lo sfortunato pilota inglese, scomparso qualche mese più tardi nell’ovale di Las Vegas, da il nome al nuovo telaio Dallara, il DW12, che inaugura una nuovo pacchetto tecnico comprendente anche nuovi motori 2,2 turbo prodotti da Chevrolet, Honda e Lotus, con quest’ultima che abbandona al termine della prima stagione. Dopo un dominio Chevy in prova è però la Honda a dominare nel 2012 una corsa che, a differenza delle edizioni precedenti, offre un altissimo numero di sorpassi per via della poderosa scia prodotta dalle nuove vetture. Alla fine a spuntarla è ancora Franchitti, che dopo una lunga battaglia con il compagno Dixon resiste all’avventuroso attacco dell’arrembante Takuma Sato, a muro all’ultimo giro.
L’edizione 2013 è invece un festival Chevrolet, con le vetture dei team Andretti, Penske, KV e ECR a scambiarsi continuamente il comando fino all’ultima ripartenza, in cui il leader Hunter-Reay non può nulla contro Tony Kanaan e il giovane Munoz. Il successivo botto a muro di Franchitti obbliga poi al definitivo intervento della pace car, che sancisce la popolarissima vittoria del brasiliano, in testa in 8 delle 11 500 miglia disputate. Lo scontro tra motoristi torna d’attualità nell’edizione 2014, decisa da uno spettacolare duello tra la Chevrolet di Castroneves e la Honda di Ryan Hunter-Reay, con quest’ultimo che prendendo definitivamente il comando all’inizio dell’ultimo giro riporta alla vittoria gli Stati Uniti 8 anni dopo Sam Hornish. L’ equilibrio tra i due marchi viene però sconvolto nell’edizione 2015 degli aerokits, le vesti aerodinamiche prodotte dai costruttori con lo scopo di ampliare la varietà tecnica, che sono però protagonisti di una serie di allarmanti incidenti nelle prove. Dopo gli opportuni correttivi la gara scorre poi relativamente liscia, riducendosi a un dominio delle vetture Chevrolet dei team Penske e Ganassi, con Juan Pablo Montoya che sale in cattedra nel finale, avendo la meglio su Will Power e Scott Dixon e centrando il secondo successo personale (a 15 anni dal trionfo con il team Ganassi), il 16° per Roger Penske.
L’intervento equilibratore della serie ribalta però la situazione nel 2016, che vede la Honda protagonista in prova con James Hinchcliffe, in pole 12 mesi dopo un incidente quasi fatale in prova, e poi vincente in gara con il rookie Alexander Rossi, bravo a evitare l’ultimo rabbocco e tagliare il traguardo a motore spento, per regalare un altro successo al team di Bryan Herta nella 100° edizione della corsa. Ancora sugli scudi nel 2017, la Honda può contare anche sui servigi di Fernando Alonso, che due mesi prima della corsa decide di saltare il Gran Premio di Monaco per tentare l’assalto alla Indy500 su una vettura del team Andretti. Dopo i tremendi incidenti di Bourdais in prova e del poleman Dixon nei primi giri, la corsa vede il ritiro di diverse vetture Honda, tra cui lo stesso Alonso, osannato dal pubblico, risolvendosi in un duello finale in cui Takuma Sato si riprende il successo mancato nel 2012, negando a Helio Castroneves la tanto agognata quarta vittoria, quattro anni dopo la sconfitta patita da Hunter-Reay. Il successo del giapponese porta inoltre a 4-2 il totale di vittorie Honda rispetto a Chevy dall’introduzione della formula turbo 2,2 litri.
Data e luogo di nascita: 21 marzo 1966, Arkiva (Svezia)
Nazionalità: Svedese
Ruolo: Pilota
Kenny Brack è un pilota dall’adattabilità sorprendente. Dopo essersi costruito una buona reputazione in Europa, nel 1997 è stato buttato nella mischia degli ovali americani senza alcuna esperienza. Un anno dopo era già campione, due aveva fatto sua la Indy 500. Non pago, è passato nella CART, facendo vedere che le antiche doti di “stradalista” non erano scomparse, anche se gli ovali a quel punto erano diventati il suo terreno di conquista. Un pilota intelligente, equilibrato, capace di controllare un temperamento aggressivo e lasciare che la corsa gli venisse incontro. Forse è per questo che ha capito gli ovali fin da subito.
Kenny cresce in un paese di 40 anime, Glava, e come spesso accade ai piloti scandinavi fa le sue prime esperienze sul ghiaccio, col padre che già a sei anni lo porta a guidare sui laghi ghiacciati. Il rally sarebbe ovviamente la disciplina ideale per dare sfogo alla passione per le corse, ma dopo varie scorribande e poche gare col kart, fresco di patente si reca con macchina e rimorchio a Snetterton per acquistare una vecchia Van Diemen appartenente a David Hunt, fratello del campione del mondo James. Armato di tanta passione e pochissimi soldi, Kenny è un pilota a tutto tondo, nel senso che guida, fa da meccanico e anche da manager, cercando disperatamente qualche sponsor disposto a supportare un ragazzino che sogna di correre in macchina. Un aiuto finalmente arriva da un’azienda produttrice di patatine, che gli appioppa scatole e scatole di prodotto finito da rivendere. Facendo il giro di metà degli autogrill della Svezia, Kenny porta a casa le 1500 sterline che gli servono per dare un primo impulso alla sua carriera. Per tre anni è impegnato nella F.Ford svedese, che riesce a fare sua al terzo tentativo, per poi concentrarsi sulla più competitiva serie britannica nel 1987, avventura affrontata usando il vecchio van per trasportare l’auto anche come dormitorio nei week end di gara. Nonostante le risorse siano ridotte all’osso riesce comunque a mettersi in mostra, guadagnandosi un’offerta di Ralph Firman per un impegno ufficiale.
Per il 1988 Kenny si è però gia accordato per gareggiare nella F.3 svedese e dopo un inizio stentato la seconda parte lo vede vincere una corsa e portare a casa altri podi. L’anno successivo fa solo tre corse nella serie di casa, vincendole tutte, concentrando gli sforzi sul campionato britannico, che è però affrontato ancora una volta con pochi mezzi e, conseguentemente, minori risultati. Per il 1990 Kenny decide di fare un passo indietro, partecipando alla F. Open Lotus, in cui si scontra con piloti del calibro di Barrichello, Sospiri, De Ferran e Coulthard. Il brasiliano conquista il titolo davanti al forlivese mentre Kenny, più concentrato a chiudere il budget che sulla guida, è 8° e lontano dal compagno Michael Johansson, facendo peggio l’anno successivo, quando finisce 9° nella serie vinta da Pedro Lamy. Contrariato dalla mancanza cronica di risorse e dalla pochezza di risultati, per il 1992 Kenny abbandona la strada delle monoposto concentrandosi su un campionato più a portata delle sue tasche, la neo nata Clio Cup Scandinava. Brack domina, conquistando 9 corse su 10 che gli fruttano dei buoni premi in denaro, la considerazione della Renault e un invito all’appuntamento della serie sulle strade di Monaco, dove arriva col suo van scalcinato conquistando la pole e chiudendo al terzo posto dopo aver guadagnato e perso più volte il comando sul bagnato.
Il 1993 è l’anno del ritorno alle monoposto, questa volta in America nella Formula Barber Saab, serie propedeutica che paga cospicui premi e un assegno di 100.000 $ al campione, da investire in IndyLights. Dopo aver cominciato quasi per scherzo, i premi di ogni vittoria finanziano l’avanti e indietro sull’Atlantico, che frutta a Kenny il titolo. Una stagione di IndyLights costa circa 1 milione di dollari e Kenny, appoggiato dalla Renault, decide di tornare in Europa per tentare la carta F.3000. Dopo aver convinto Skip Barber a consegnargli il premio di 100.000$ pur non continuando in IndyLights, Kenny si accorda con il team Madgwick per il 1994. Nel frattempo la stessa Renault gli procura un test con la Williams campione del mondo al Paul Ricard. Nonostante l’asfalto bagnato Kenny si comporta bene, facendo ancora contenta la casa francese nella Clio Cup Europa, dove conquista due successi su quattro partecipazioni.
Il 1994 però è un altro anno no, la squadra non ingrana e per Kenny arrivano solo due piazzamenti nei punti, un buon terzo posto a Spa sul bagnato e un sesto nell’appuntamento successivo all’Estoril, per un totale di 5 punti che gli valgono l’11° posto finale. Il suo compagno Mikke Van Hool non riesce a portare a casa nessuno punto. Nel 1995 Kenny rimane al team Madgwick e con un anno di esperienza alle spalle le cose cominciano a girare: la vittoria all’ultimo appuntamento di Magny Cours, altri due podi e 5 arrivi in top5 su 8 corse gli garantiscono il terzo posto in campionato (primo dei motorizzati Judd) dietro i piloti del team SuperNova, il dominatore Sospiri e Ricardo Rosset. Ed è proprio la squadra inglese che offre a Kenny finalmente una concreta possibilità di puntare al titolo nel 1996. Il campionato, per la prima volta corso in regime di monomarca Lola-Judd, si rivela subito un affare privato tra Kenny e Jorg Muller. I due il più delle volte monopolizzano infatti i primi due gradini del podio, lottando gomito a gomito fino all’ultimo appuntamento di Hockenheim, dove il tedesco si presenta con tre punti di vantaggio sul rivale. In una sfida in cui chi vince porta a casa il titolo, il duello si trasforma in scontro quando a vetture appaiate un scarto improvviso di Kenny porta al contatto, costringendo Muller al ritiro. Brack invece prosegue, tagliando per primo il traguardo nonostante la bandiera nera impostagli dai commissari. La squalifica è inevitabile e il titolo va a Jorg Muller.
L’amara chiusura di una stagione esaltante si somma alla rottura dei ponti con la Formula 1. Dopo alcuni contatti con McLaren e Benetton per un ruolo da collaudatore con poche speranze di correre, Kenny sigla un accordo con Tom Walkinshaw, che nel ’96 sembra intenzionato ad acquistare la Ligier, per poi ripiegare sulla Footwork. Dopo alcune prove con il motore Yamaha Kenny capisce però che la vettura non ha futuro, riuscendo dopo varie dispute a interrompere la relazione con il manager inglese.
Più interessato alla possibilità di vincere che alla categoria in sé, Kenny accantona i sogni sulla F1, cominciando a pensare a un ritorno negli States. Inizia così a frequentare i paddock di CART e IRL con la speranza di procurarsi almeno un test, ma con scarsi risultati. Quando però Davy Jones si fa male a Orlando, il team Galles decide di dare a Kenny una possibilità, pur chiarendo di essere alla ricerca di un pilota esperto. Il test va però così bene da far vacillare Rick Galles, che alla fine ingaggia lo svedese pagandogli anche un discreto ingaggio. All’esordio sugli ovali Kenny riesce a mettersi in mostra in diverse occasioni, come al debutto a Phoenix, dove parte nono, risale gradualmente il gruppo e a metà gara conduce agevolmente la corsa davanti a Stewart e Guthrie quando perde il controllo in curva 3 terminando contro il muro. Un mese di maggio terrificante a causa dell’inesperienza sua e dell’ingegnere sui super speedway, è coronato da una immediata uscita di scena a Indianapolis. Qualificatosi all’esterno della quinta fila, Kenny si aggancia infatti con Affonso Giaffone e Stephan Gregoire prima della bandiera verde.
Nonostante un delirante sistema di qualifica che prevede tre giri lanciati e un pit stop per cambio gomme, lo svedese si qualifica in terza piazza nell’appuntamento successivo in Texas, dove si mantiene stabilmente in top 5 fino a quando il motore non lo abbandona ad un quarto di gara. Alle prese con un’auto sovrasterzante, naviga costantemente tra la decima e la quinta posizione a Pikes Peak prima di finire a muro con il traguardo ormai in vista. Partito nelle retrovie, a Charlotte perde subito un giro ma migliora sosta dopo sosta, tenendosi fuori dai guai e portando a casa un buon quinto posto. Nonostante un incidente in prova, piazza poi la sua G-Force in prima fila a Loudon e dopo aver spento il motore durante una sosta recupera fino a condurre la corsa, ma nel finale non ha la velocità per giocarsi la vittoria, chiudendo ancora quinto. Vittoria che potrebbe però arrivare a Las Vegas, dove Kenny recupera dal centro gruppo e conduce la corsa a metà distanza quando un semiasse lo costringe alla resa. In sei gare (4 in meno dei piloti impegnati full time) lo svedese mette quindi insieme due arrivi in top 5 che gli valgono il 19° posto finale.
Kenny non ha programmi certi per il 1998, fino a quando non riceve una chiamata inaspettata. E’ AJ Foyt che, intenzionato a confermare Billy Boat, cerca un sostituto per Davey Hamilton. Quando dall’altro capo del telefono sente la leggenda texana, Brack quasi non crede alle sue orecchie e dopo una breve contrattazione acconsente ad accasarsi al team di Foyt, accettando anche una discreta decurtazione di ingaggio rispetto a quanto percepito da Rick Galles.
L’inizio però non è dei migliori: problemi tecnici rallentano infatti una prova positiva ma non spettacolare al debutto col team a Orlando, mentre a Phoenix un duello tesissimo con Boat per il podio sfuma per un contatto evitabile con il doppiato Mike Groff. A Indy Kenny parte in prima fila e prende il comando dopo i ritiri di Ray e Stewart. E’ quindi terzo attorno a metà gara quando rimane a secco nel giro di rientro, cosa che gli costa due giri e manda su tutte le furie Foyt che, in una scena passata agli annali, sbatte malamente un computer sul tavolo del telemetrista, maledicendo la tecnologia. Il team si rifà comunque in Texas, dove Boat porta a casa la vittoria con Kenny che chiude terzo, tutt’altro che soddisfatto. Lo svedese accusa infatti platealmente la vettura di non essere in grado di vincere contrariando Foyt, che però una volta a casa fa personalmente tutte le verifiche del caso, realizzando la non totale apertura dell’acceleratore. L’episodio segna un punto di svolta nel rapporto tra i due, nonostante le corse successive non siano propriamente positive. Un testacoda al primo giro a Loudon e un decimo posto dopo lunghissima sosta nelle prime fasi a Dover lasciano infatti Kenny al sesto posto in classifica a oltre 70 punti da Scott Sharp, ma dall’appuntamento successivo di Charlotte le cose cambiano radicalmente. Kenny approfitta infatti dei ritiri del campione ’96 e Stewart e nonostante problemi in diverse soste guida la corsa più a lungo di tutti, riprendendo definitivamente il comando a 20 giri dal termine dopo un infuocato duello con Ward nel traffico. Arriva così la prima vittoria in IRL e come spesso accade ai campioni, una volta rotto il ghiaccio i successi arrivano a ripetizione. A Pikes Peak dopo l’incidente dello stesso Ward la corsa si trasforma in un duello strategico tra i team Menard e Foyt, con Kenny che conduce le ultime fasi e a differenza di Buhl e Stewart riesce a tagliare il traguardo senza rabbocco, conquistando il secondo successo consecutivo che lo porta a un solo punto da uno Sharp in difficoltà.
Ad Atlanta è poi protagonista di una prova perfetta, che lo vede mettere costantemente pressione al leader di turno, salvo poi avventarsi su Hamilton e Ward negli ultimi giri, andando a conquistare un altro successo e il comando del campionato con 23 punti su Hamilton e 25 su Stewart. La sequenza di vittorie si ferma al penultimo appuntamento in Texas, ma a Kenny basta tenersi fuori dai guai per allungare in classifica considerando i problemi di Hamilton e i ritiri di Stewart e Sharp. Lo svedese si presenta quindi all’epilogo di Las Vegas con 31 punti di vantaggio sul pilota dell’Idaho e 41 sul campione in carica. Problemi al motore, sia in prova che in gara, mettono in allarme il team Foyt, ma l’apprensione dura poco. Stewart soffre infatti dello stesso contrattempo ed Hamilton, mai competitivo, è coinvolto in un incidente a metà gara. Le tre vittorie consecutive e qualche piazzamento in più dei rivali garantiscono quindi a Kenny il titolo IRL 1998.
Campione a sorpresa, nel 1999 la difesa del titolo non inizia però bene per Kenny, che nel primo appuntamento di Orlando naviga ai margini della top ten fino a metà gara, quando finisce a muro non potendo evitare Gualter Salles, che rallenta improvvisamente con il motore rotto. Incredibilmente a Phoenix succede l’opposto: Kenny recupera dal fondo ma in una ripartenza manca una cambiata e viene tamponato da Boesel, innescando un incidente che fa fuori anche Steve Knapp. Dopo l’annullamento della corsa di Charlotte per un incidente che costa la vita a tre spettatori, la IRL si sposta a Indianapolis, dove Kenny parte in terza fila, prende il comando dopo un quarto di gara e sembra aver la corsa in pugno quando i principali rivali abbandonano uno dopo l’altro. Memore del disastro del ’98 però Foyt decide di giocare prudente con i consumi, lasciando l’azzardo a Robby Gordon, che non rabboccando durante l’ultima neutralizzazione prende il comando. Liberatosi a fatica di Ward, negli ultimi 14 giri Kenny porta il suo distacco da 4 secondi a circa 1, quando in vista della bandiera bianca Gordon rimane a secco lasciandogli il comando. A Kenny non resta quindi che completare il 200° giro per conquistare il successo più importante della sua carriera, il quinto a Indy per AJ Foyt tra abitacolo e muretto.
Passata la sbornia del Brickyard, il campionato prosegue però a rilento. Come a fine ’98 infatti le alte temperature del Texas giocano brutti scherzi alle gomme Goodyear, che presentano un consumo anomalo costringendo Brack a collezionare pit stop e chiudere fuori dai primi dieci. Dopo un poco entusiasmante settimo posto a Pikes Peak, Atlanta segna poi una parziale inversione di tendenza. Kenny parte dalle retrovie ma recupera fino alle prime posizioni, dovendosi però arrendere nel finale a Sharp e Robby Unser. Un altro terzo posto a Dover lo mantiene poi in corsa per il titolo, ma dopo la vittoria del ’98 Pikes Peak si dimostra ancora amara per lo svedese, che termina solo 10° mentre Greg Ray bissa il successo di giugno e sembra prendere lo slancio decisivo. A Las Vegas però il pilota di John Menard si tocca con Dismore e poi è tradito dal motore, mentre Kenny perde un bel duello con Schmidt ma chiude comunque secondo, presentandosi all’ultimo appuntamento in Texas con 15 punti da recuperare. Dopo l’incidente di Goodyear i due contendenti si alternano al comando fino a tre quarti di gara, quando Brack è costretto ad una lunghissima sosta per un problema alla sospensione posteriore destra che consegna il titolo a un meritevole Ray. Lo svedese chiude comunque al secondo posto una stagione condizionata da incidenti e problemi di gomme ma comunque resa indimenticabile dal successo alla Indy500.
Conquistato tutto in IRL, Kenny lascia malinconicamente AJ Foyt, consapevole che il passo successivo della sua carriera non può che essere la CART. Accetta quindi l’offerta di Bobby Rahal, che lo sceglie per guidare la Reynard Ford sponsorizzata Shell al posto di Bryan Herta. Alle prese con una macchina molto più potente e sofisticata, lo svedese non fa una piega, mettendosi subito in mostra nella prova di apertura di Homestead, dove guida il gruppo prima di ritirarsi per problemi al motore. Un incidente con Kanaan pone fine ad un solido ritorno sui cittadini a Long Beach, ma la successiva sequenza di ovali lo vede costantemente protagonista. Solo il motore spento all’ultima sosta gli nega un possibile successo già nel terzo appuntamento di Rio, dove guida a lungo la corsa dopo aver piegato la resistenza di Tracy e Fernandez. Un buon quinto posto a Motegi precede poi il primo podio a Nazareth davanti a Montoya, cui segue un buon quarto posto a Milwaukee.
Il campione IRL rispetta quindi in pieno le aspettative, inserendosi subito tra i migliori sugli ovali, ma il momento positivo si arresta a Detroit, dove finisce contro il muro dopo pochi giri. Nonostante un errore in partenza che complica la vita a diversi avversari, Kenny conquista quindi un discreto 6° posto a Portland, mettendo a segno una bella rimonta nell’appuntamento successivo di Cleveland, dove centra un eccellente secondo posto partendo dalla 7° fila. Un errore mentre battaglia con Tagliani per la top 5 lo relega poi solo in decima posizione a Toronto, ma torna subito protagonista a Michigan, almeno finché Fittipaldi non decide di spremerlo contro il muro, innescando un contatto che per puro miracolo non fa decollare la Reynard dello svedese.
Brack si segnala tra i più veloci anche sull’ovale corto di Chicago, ma perde il contatto coi primi facendo spegnere il motore durante una sosta e alla fine è solo quarto. Un altro piazzamento in top 5 arriva poi a Mid Ohio, al termine di un lungo confronto per il podio con Fittipaldi e il compagno Papis, per poi tornare sul podio a Road America al termine di una corsa dalla selezione durissima. La lunga sequenza di piazzamenti mantiene Kenny pienamente in corsa per il titolo, con 23 punti da recuperare su Andretti. Fatto salvo il quinto posto di Laguna Seca però, nelle corse successive lo svedese va incontro a una flessione che ha il suo punto più basso a Houston, dove si ritira dopo essere rimasto incolpevolmente coinvolto in un contatto multiplo.
Si presenta quindi al penultimo appuntamento di Surfers Paradise al settimo posto in classifica, staccato di 35 punti da De Ferran e con poche speranze di lottare per il titolo dopo essersi qualificato in sesta fila. La gara è però tra le più bizzarre della storia della serie. Tutti i contendenti al titolo sono infatti coinvolti in incidenti e Kenny, su una strategia alternativa data la posizione di partenza non favorevole, nelle ultime fasi si ritrova in terza posizione dietro Fernandez, sulla stessa tattica e in grave crisi di consumi, e il combattivo Alex Barron. Dopo aver visto l’americano fermarsi tristemente col motore in fumo, all’ultimo giro di una corsa accorciata per il superamento del limite delle due ora Kenny mette pressione al messicano, accontentandosi comunque di un secondo posto vitale in chiave titolo. Lo svedese arriva infatti a Fontana staccato di 19 punti da De Ferran e in gara è tra i più veloci, ma a metà distanza è costretto ad abbandonare la compagnia col motore in fumo.
Nonostante la vittoria gli sfugga in più di un’occasione, per Kenny si tratta comunque di una stagione d’esordio aldilà delle aspettative. Lo svedese è quindi nel novero dei favoriti per il 2001, stagione in cui il team Rahal prosegue con il motore Ford, passando però al telaio Lola, in grande crescita e più a suo agio sugli ovali rispetto alla Reynard tradizionale. Continua anche il rapporto con l’esperto ingegnere Don Halliday, che a inizio stagione da i suoi frutti anche su stradali e cittadini.
Nella prova di apertura a Monterrey, Kenny conquista la pole davanti a Da Matta, controllando le prime fasi prima che un problema elettronico e una successiva escursione lo releghino al quinto posto finale. Lo svedese si ripropone tra i protagonisti a Long Beach, dove nelle prime fasi incalza il polesitter Castroneves, dovendo però ritirararsi dopo le prime soste per un problema alla frizione. La vittoria sembra avvicinarsi ancora di più nell’appuntamento successivo di Nazareth, dove Kenny da spettacolo nel traffico e comanda a lungo la corsa, mettendo pressione al rookie Dixon fino al traguardo. A Motegi finalmente si rompe un digiuno che va avanti da due anni. Kenny è l’unico a tenere il passo dei piloti Honda, riuscendo addirittura ad allungare tutti gli stints grazie al miglior consumo del motore Ford, cosa che gli permette di evitare l’ultimo rifornimento e portare a casa il primo successo in CART. Si presenta così a Milwaukee da capoclassifica, posizione che consolida sopravvivendo al primo giro a un improbabile assalto di Castroneves e battendo Andretti in un lungo duello per la vittoria.
Dopo di che il calendario si concentra su stradali e cittadini, segnando il ritorno delle Penske. Detroit va a Castroneves, con Kenny in difficoltà e nono alla fine. Dopo un 11° posto nella bagnatissima Portland, lo svedese è poi protagonista di una bella prova in rimonta a Cleveland, chiudendo sesto, mentre a Toronto è messo fuori causa dal motore dopo aver lottato con le Penske nelle prime fasi. Si presenta comunque ancora da capo classifica alla Michigan500, gara totalmente dominata dalle Lola ma che incredibilmente vede le vetture del team Rahal entrare in contatto ed eliminarsi nelle fasi finali, lasciando la vittoria alla Reynard di Carpentier, senza che gli altri contendenti al titolo, De Ferran, Castroneves e Andretti, riescano ad approfittarne. Il riscatto arriva subito a Chicago, dove Kenny vince beffando ancora i piloti Honda con una guida aggressiva e i minori consumi.
Mid Ohio segna però un’altra battuta d’arresto a causa di un errore di Papis che conduce al secondo disastro interno al team Rahal, mentre le Penske colgono una doppietta, con Castroneves che passa a condurre la serie. Non va meglio a Road America, dove Kenny conquista la pole ma la gara è stravolta dalla pioggia torrenziale, portando a diverse strategie. Quella del team Rahal non si dimostra vincente, relegando lo svedese al 13° posto, cui segue un ottava piazza nelle strade di Vancouver, in cui Brack si produce in un altro scambio di ruotate con Castroneves al primo giro. La costanza di risultati premia però De Ferran, che si presenta al comando della serie nella trasferta europea del campionato, disputata in condizioni climatiche ed emotive difficili dopo i fatti dell’11 settembre. Al Lausitzring Kenny comanda le prime fasi prima di essere spedito in testacoda da un contatto con il rookie Junqueira. Sopravvissuto al contrattempo, lo svedese è poi superato dalle veloci Reynard Honda del team Nunn, afflitte però da maggiori consumi. Kanaan e Zanardi sono infatti costretti a un rabbocco nel finale, lasciando il comando a Brack, che potrebbe forse finire la corsa senza ulteriori soste. La bandiera a scacchi arriva però in anticipo per il tremendo incidente del bolognese, che interrompe la corsa regalando al team Rahal una doppietta.
Kenny è quindi nuovamente al comando della classifica, scambiandosi più volte la testa della corsa con De Ferran nel successivo appuntamento di Rockingham, che si conclude con uno spettacolare duello tra i due. Il brasiliano conduce le ultime fasi, ma un’incomprensione con il doppiato Papis apre la porta per il sorpasso di Brack a due giri dalla fine. La corsa sembrerebbe chiusa, ma De Ferran all’ultimo giro trova lo spunto per affiancare lo svedese, finalizzando la manovra con un fantastico sorpasso esterno all’ultima curva. Kenny è battuto, ma una volta sceso dalla vettura va molto sportivamente a congratularsi per la splendida manovra del rivale. Lo svedese conserva un piccolo margine in classifica, ma dopo Rockingham l’inerzia sembra tutta dalla parte del campione in carica, che fa punteggio pieno sulle strade di Houston (Kenny è solo settimo) e chiude virtualmente la questione a Laguna Seca, dove Kenny è costretto al ritiro da un contatto con Gugelmin.
Un buon quinto posto a Surfers Paradise non basta quindi allo svedese per negare al brasiliano il secondo titolo CART. La stagione ha poi un finale inglorioso a Fontana, dove Brack finisce a muro dopo pochi giri, mantenendo comunque la seconda piazza in classifica e chiudendo con più vittorie di tutti, 4.
Nonostante un finale di stagione non entusiasmante, Kenny si è comunque affermato come uno dei top drivers della categoria, uno dei pochi a poter garantire a un buon team una campagna per il titolo. La pensa così anche Chip Ganassi, che mette sotto contratto lo svedese nel finale del 2001, convinto di aver trovato in Brack il nuovo pilota dominante, l’erede di Zanardi e Montoya. Kenny prende quindi i comandi della vettura numero 12, seguita da Julian Robertson, facendo coppia con Junqueira, reduce da una buona stagione d’esordio.
Nell’inverno l’accoppiata Brack-Ganassi fa paura, specie dopo la defezione del team Penske, ma già dalle prime gare si capisce che qualcosa non funziona. Incidenti e problemi tecnici condizionano l’inizio stagione, in cui Kenny non mette però in mostra il potenziale tanto atteso. Il primo spiraglio positivo si intravede al 5° appuntamento di Laguna Seca, dove Kenny manca d’un soffio la pole, chiudendo terzo dopo aver a lungo battagliato con Christian Fittipaldi. A Portland lo svedese deve ancora arrendersi a Da Matta in prova ma in gara mette in mostra una grinta da leone, strappando il comando al brasiliano alla prima curva e controllando la gara fino alla seconda sosta, quando la squadra vanifica tutto rispedendolo in pista con una ruota mal fissata.
La pressione per i risultati che non arrivano sale, ed è forse questa che gioca un brutto scherzo a Kenny nell’appuntamento successivo di Chicago, dove lo svedese tenta di risolvere una brutta qualifica lanciandosi in un 5 wide alla prima curva che rovina la sua gara e quella di un incolpevole Vasser. L’altalena prosegue a Toronto con un buon secondo posto dietro l’intoccabile Da Matta, cui segue una solida quarta piazza a Cleveland. Dopo un altro incolpevole ritiro al primo giro a Vancouver e un anonimo 6° posto a Mid Ohio, una discreta prova a Road America si conclude nella sabbia in un avventato sorpasso a Paul Tracy. Non va meglio a Montreal, dove Kenny è ancora incolpevolmente fuori alla prima curva, mentre Denver frutta solo un settimo posto che stona, considerando che Junqueira e Dixon, che si è unito al team a Milwaukee, colgono una doppietta.
A Rockingham però si rivede il Brack Oval Master. Lo svedese centra infatti la pole e domina la corsa fino all’ultima sosta collettiva, quando un problema alla posteriore sinistra lo fa precipitare nel gruppo, relegandolo all’ottavo posto finale. Alla bella ma sfortunata prova inglese segue poi una Miami incolore, mentre Surfers Paradise frutta un quarto posto nel caos scatenato da pioggia e incidenti. Un altro ritiro per problemi tecnici a Fontana precede infine la prova conclusiva di Mexico City, che regala finalmente un sorriso. Dopo aver gravitato ai margini del podio, un’ultima sosta velocissima spedisce Kenny al comando. Rintuzzato un attacco di Da Matta in ripartenza, lo svedese costruisce poi un buon margine negli ultimi giri, conquistando la prima vittoria su stradale dai tempi della F.3000.
Nonostante l’intenzione di Chip Ganassi di approdare definitivamente in IRL, categoria di cui Kenny è stato uno dei principali protagonisti, le parti decidono di prendere strade separate per il 2003. Ganassi conferma Dixon e ingaggia Scheckter mentre Brack ritorna alla corte di Bobby Rahal, che schiera una Dallara-Honda nella stessa IRL. Lo svedese riprende quindi la collaborazione con il fidato ingegnere Don Halliday, ma le prestazioni non saranno all’altezza di quanto fatto vedere nel biennio 2000-2001, a causa dell’inesperienza del team nella categoria, aggravata dallo schierare una sola vettura, oltre che dal deficit di potenza pagato dalla Honda rispetto a Toyota e, nella seconda parte della stagione, Chevrolet. La prima corsa di Homestead non è positiva, con Brack che si qualifica in mezzo al gruppo e naviga ai margini della top ten per chiudere 11°. Va un po’ meglio a Phoenix, dove Kenny si mantiene attorno alla top 5 nelle prime fasi, finisce in fondo al gruppo con una strategia sfalsata e nel finale riesce a riconquistare il quinto posto beneficiando del brutto incidente che coinvolge Andretti e De Ferran. Il miglioramento prosegue a Motegi, con Kenny che combatte da subito nelle prime posizioni, si porta brevemente al comando e dopo aver perso e riguadagnato posizioni durante le soste, beneficia di vari ritiri e ha la meglio su Giaffone proprio prima dell’ultima neutralizzazione, che gli consegna il secondo posto dietro Scott Sharp. Una seconda fila a Indy non ha invece seguito in gara, a causa di una sosta lenta, un innocuo testacoda in regime di bandiera gialla e problemi alla trasmissione.
Una corsa convincente in Texas conduce ad un buon quarto posto, seguito da una striscia di quattro piazzamenti ai margini della top 5, che confermano la consistenza della squadra, cui manca però il guizzo per inserirsi nella lotta al vertice. Un incidente per cedimento meccanico a Michigan, problemi elettrici a St. Louis, dove parte in prima fila, e una perdita d’olio con relativo principio di incendio in Kentucky, interrompono però la serie di risultati utili. Punti pesanti arrivano invece a Nazareth, dove lo svedese chiude quinto recuperando dopo una sosta lenta a inizio gara. A Chicago un’altra buona prova vissuta a ridosso delle prime posizioni si chiude invece con un incidente a metà gara, forse per un cedimento meccanico. La prima fila di Fontana farebbe poi ben sperare per un buon finale di stagione, ma un problema al bocchettone di rifornimento costringe lo svedese a rimanere in pit lane per 12 giri.
Si arriva così all’epilogo in Texas, in cui Kenny parte in quarta fila e lotta a ridosso del gruppo di testa nelle prime fasi. Una strategia alternativa lo lascia però attardato, rispedendolo nelle posizioni di vertice dopo l’ultima neutralizzazione, grazie anche ai guai incontrati da Hornish, Kanaan e Castroneves. A 13 giri dal termine lo svedese si trova in quarta piazza e in piena lotta per il podio, quando nel tentativo di seguire aggressivamente la scia di Dixon, in seconda posizione, percorrendo il rettilieno di ritorno si avvicina troppo alla vettura di Scheckter, che protegge le spalle al neozelandese. L’anteriore destra di Brack si aggancia con la posteriore sinistra del sudafricano, causando il decollo della Dallara, che punta verso l’alto impattando con il fondo contro le reti di contenimento esterne. L’impatto è devastante, tanto da strappare via dal telaio tutti gli elementi esterni, compresi cambio e motore. Gli accelerometri a bordo vettura misurano una decelerazione di 214g. Rimane integra solo la cellula di sopravvivenza, che impazzita rimbalza sull’asfalto ruotando su se stessa innumerevoli volte, prima di arrestarsi tra le curve tre e quattro. Incosciente, Kenny viene rapidamente estratto dalla vettura e trasportato all’ospedale di Dallas, dove gli vengono riscontrate fratture a entrambe le caviglie, allo sterno e varie costole, al femore destro, oltre a tre vertebre lombari. L’infortunio alla schiena si dimostra particolarmente critico, avendo comportato lo stiramento e l’uscita dalla sede dei nervi. Dopo alcune lunghe e complesse operazioni, Kenny è autorizzato a tornare a Indianapolis dove può cominciare il percorso di riabilitazione, complicato da una pericolosa embolia polmonare che lo costringe nuovamente in terapia intensiva. Complessivamente lo svedese passa 3 mesi in ospedale, in cui perde 25 kg di peso per l’inattività.
A marzo la nuova stagione IRL è ormai alle porte e Bobby Rahal sceglie Buddy Rice in sostituzione dell’ancora convalescente Brack. La grinta del giovane americano, unita al telaio Panoz e al nuovo, dominante motore Honda 3 litri, sbaragliano la concorrenza a Indianapolis, conquistando altre due vittorie nel corso della stagione. Ancora sulle stampelle, a giungo Kenny si sente pronto per infilarsi nell’abitacolo della Panoz, arrivando a pochi decimi dal record della pista di Richmond. Quello della Virginia è però anche uno degli ovali più impegnativi fisicamente, tanto che lo svedese è costretto a farsi estrarre dalla vettura dopo pochi giri. Si preferisce quindi rimandare un eventuale rientro, dando a Kenny il tempo di continuare la riabilitazione.
All’inizio del 2005 il team Rahal annuncia un programma di tre vetture, ma al fianco dei confermati Rice e Meira la squadra decide di schierare Danica Patrick. L’occasione di tornare in IRL per Brack arriva comunque a maggio, quando viene richiamato per sostituire proprio Buddy Rice, che durante le prove della Indy500 si infortuna alla schiena in un brutto incidente in curva 2. Kenny non prende parte al primo fine settimana di qualifiche, ma riesce comunque a entrare in griglia, facendo segnare i quattro giri più veloci dell’intero schieramento. Partito in ottava fila, la sua progressiva rimonta termina però a metà gara, quando un problema allo sterzo lo costringe al ritiro. Il ritorno, seppur passato un po’ sotto traccia per via del ciclone Patrick, frutta a Kenny una marea di complimenti e attestati di stima. Non smuove però in lui la voglia di tornare a correre a tempo pieno, tanto da indurlo a rifiutare un’offerta del team Newman Haas per il 2006.
Abbandonata la carriera professionistica, Kenny si dedica al mondo degli affari avviando, tra le varie attività, un programma di supporto a giovani talenti scandinavi. Diventa così il manager di diversi piloti, tra cui Marcus Ericsson, che segue dai kart fino alla Formula 1. Tra i finanziatori dei suoi progetti c’è Andreas Eriksson, titolare della scuderia Olsberg MSE, che dopo lunghe insistenze lo convince nel 2010 a guidare la sua Ford Fiesta Rallycross all’X Games XV, in cui Kenny porta a casa l’oro dopo una serrata battaglia con Travis Pastrana. Oltre ad altri rally su asfalto e sterrato, lo svedese non disdegna anche qualche uscita nelle corse storiche, tra cui Goodwood, dove vince nel 2011 in coppia con l’amico/rivale Tom Kristensen ed è poi protagonista nel 2013 di una memorabile qualifica sul bagnato, al volante di una Ford GT40 del ’65 divisa con Adrian Newey. Dopo aver guidato una McLaren F1 GTR coda lunga al Festival of Speed 2014, viene ingaggiato dalla casa inglese come collaudatore ufficiale, stabilendo nel 2017 il record del Nurburgring e della salita di Goodwood alla guida di una McLaren P1 LM.
Miller High Life 150 – 31 ottobre 1981 – 11° prova stagionale
Circuito: Phoenix International Raceway
Tipologia: Ovale corto
Lunghezza: 1 mi – 1.609 km
Configurazione aerodinamica: Ovale corto
Record della pista: 24.210, Bobby Unser – Lightning/Offenhauser, 1977
Distanza di gara: 150 giri – 150 mi
Vincitore uscente: Tom Sneva
Griglia di partenza – Phoenix #2
P
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Bobby Unser
24.211
2
Johnny Rutherford
3
Mario Andretti
4
Gordon Johncock
5
Tom Sneva
6
Al Unser
7
Chip Mead
8
Rick Mears
9
Pancho Carter
10
Josele Garza
11
Bob Lazier
12
Mike Mosley
13
Dennis Ferguson
14
Greg Leffler
15
Herm Johnson
16
Tony Bettenhausen
17
Tom Bigelow
18
Dick Simon
19
Johnny Parsons
20
Bill Alsup
21
Phil Krueger
22
Gordon Smiley
23
Vern Shuppen
24
Jerry Sneva
Al via Bobby Unser mantiene il comando su Rutherford e Johncock, ma dopo una breve bandiera gialla per detriti il campione in carica passa all’attacco, superando la Penske nel traffico per poi prendere il largo. Unser se la deve quindi vedere con la Wildcat di Johncock, che passa in seconda posizione poco prima che la corsa sia nuovamente interrotta per recuperare la vettura di Al Unser, fermo per problemi di accensione. Un motore rotto e problemi al cambio avevano già posto fine poco prima alla corsa rispettivamente di Leffler e Mosley. Rutherford è il primo del gruppo di testa a precipitarsi in pit lane, ma la sua travagliata stagione ha un epilogo ugualmente negativo quando una fuoriuscita di carburante arriva all’abitacolo, che prende fuoco mentre la Chaparral imbocca la corsia di accelerazione, costringendo Lone Star a parcheggiare la vettura e uscire di tutta fretta con la tuta annerita.
Alla ripartenza Bobby Unser conduce nuovamente la corsa, dovendosi però a lungo guardare da un aggressivo Sneva, con Johncock poco lontano. Il testacoda in curva 1 di Phil Krueger interrompe le ostilità, arrivando provvidenziale per Unser, che oltre a rifornire può rimediare a una foratura. Sneva rimane invece in pista prendendo il largo su Andretti e Johncock, che si contendono a lungo il secondo posto. Il recupero di Unser, risalito fino al quarto posto, è poi agevolato quando Mears, mai in gara, striscia contro le barriere della curva 2 causando l’ennesima neutralizzazione, subito sfruttata dai primi, Unser compreso, per effettuare l’ultima sosta. Urtando prima il cavo dell’aria compressa e poi una gomma, Andretti riesce a tornare in pista davanti a Sneva, che alla bandiera verde precede Johncock e Unser. Sneva non perde però tempo a liberarsi di Andretti, cosciente che il suo unico avversario per la vittoria è Unser, che riesce a sopravanzare Johncock poco prima che Dick Simon impatti contro le barriere al giro 101.
Alla ripartenza Unser ha poi la meglio su Andretti, ingaggiando finalmente un serrato duello con Sneva per la vittoria. Negli ultimi giri i due procedono a stretto contatto nel traffico, ma pur quasi affiancando il rivale, Unser non ha lo spunto giusto per issarsi al comando, dovendosi accontentare della piazza d’onore. Per Sneva arriva quindi la seconda affermazione stagionale, mentre il pilota del New Mexico rimane a secco di successi nel campionato CART, pur avendo portato a casa la Indy 500. Johncock riesce a precedere Andretti per il terzo posto mentre due giri più indietro Carter risolve a suo favore un duello con Garza, che chiude la top 5 davanti a Ferguson. Solo settimo il campione Mears, sopravvissuto al contatto con le barriere ma in difficoltà per tutto il fine settimana. Il californiano, staccato di 5 giri, termina davanti alla Eagle di Johnson, con Smiley, Bigelow e Jerry Sneva a chiudere la zona punti.
Los Angeles Times 500 – 30 agosto 1981 – 6° corsa stagionale
Circuito: Riverside International Raceway
Tipologia: Stradale permanente
Lunghezza: 3.3 mi – 5.31 km
Configurazione aerodinamica: Stradale
Record della pista: Corsa inaugurale
Distanza di gara: 95 giri – 313.5 mi
Vincitore uscente: Corsa inaugurale
Griglia di Partenza – Riverside
P
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Geoff Brabham
1.31.696
2
Al Unser
3
Rick Mears
4
Bobby Unser
5
Gordon Johncock
6
Johnny Rutherford
7
Tom Sneva
8
Kevin Cogan
9
Michael Chandler
10
Bill Alsup
11
Josele Garza
12
Herm Johnson
13
Vern Schuppan
14
Pancho Carter
15
Gordon Smiley
16
Hurley Haywood
17
Larry Dickson
18
Dennis Ferguson
19
Jerry Karl
20
Scott Brayton
21
Steve Chassey
22
Dick Simon
23
Bob Lazier
24
Bill Tempero
25
Phil Krueger
26
Ken Hamilton
27
Roger Rager
28
John Mahler
Alla partenza Brabham prende subito il comando precedendo Al Unser, Mears, Rutherford e Johncock, mentre Bobby Unser perde terreno. L’australiano fa in breve il vuoto dietro di sé, con il solo Unser a tenerlo a vista, mentre più indietro Johncock e Carter hanno ragione di Rutherford. Il primo colpo di scena arriva al 17° giro, quando il battistrada effettua la prima sosta, dovendo però subito riportare la vettura in pit lane a causa di una ruota rimasta lenta. Un banale ma irrisolvibile problema al sistema di fissaggio costa incredibilmente il ritiro al futuro campione CanAm, negando l’ennesima vittoria certa alla Eagle. Il comando passa quindi ad Al Unser, che dopo le soste continua a precedere Mears e Rutherford. Peggio va al fratello Bobby, che perde 12 giri in pit lane per un problema tecnico.
Un brutto incidente tra il campione in carica e Jerry Karl obbliga però alla neutralizzazione della corsa, sfruttata da molti per effettuare la seconda sosta. Allo sventolare della bandiera verde Al Unser continua a condurre su Mears, Alsup, Garza e Johncock. Mentre il messicano supera il pilota Penske per il terzo posto e Schuppan è protagonista di un brutto incidente in curva 1, Unser conduce con ampio margine su Mears, tanto da rimanere al comando dopo la seconda sosta, effettuata al 43° giro. Peccato che proprio nel giro di rientro sia abbandonato dal cambio, che lo costringe al ritiro consegnando il comando a Mears.
Completata la sua sosta, il californiano prende così saldamente il controllo della gara, mentre alle sue spalle Alsup e Johncock si contendono il secondo posto, precedendo Chandler, Carter e Garza, con le posizioni che cambiano in continuazione in base alle soste. Tra il 52° e il 63° giro gli ultimi due sono però costretti ad abbandonare a causa di problemi al motore. Più avanti intanto la battaglia per il secondo posto si infiamma quando Johncock, recuperato il tempo perduto in una precedente escursione nella sabbia, corona un lungo inseguimento strappando ad Alsup il secondo posto all’80 giro. Il duello si rinnova però poco più tardi, quando Johncock si ferma per l’ultima volta mentre Alsup rimane in pista cercando di evitare l’ultima sosta. Il pilota del Michigan non ha però problemi a replicare la stessa manovra in curva 8, appropiandosi definitivamente del secondo posto a 3 giri dalla bandiera a scacchi.
All’ultimo giro Johncock supera anche Mears, ma il sorpasso gli permette solo di tornare nel giro del leader. Il californiano, unico sopravvissuto tra i piloti partiti nelle prime due file in una corsa durissima a causa del gran caldo, porta quindi a casa il successo davanti allo stesso Johncock, con Alsup che chiudendo al terzo posto centra il miglior risultato in carriera. Dopo aver rischiato di rimanere a secco in pista, Mike Chandler centra invece un buon quarto posto, precedendo Bob Lazier, sopravvissuto a un fuori pista a metà gara. Dick Simon è invece sesto davanti a Herm Johnson, in testacoda nelle prime fasi, che precede Scott Brayton e Bobby Unser, ultimo dei piloti in pista fino alla bandiera a scacchi. La zona punti è completata da Carter, Cogan e Garza.
Kraco Twins 125 – 28 giugno 1981 – 4° e 5° corsa stagionale
Circuito: Atlanta Motor Speedway
Tipologia: Ovale
Lunghezza: 1.522 mi – 2.449 km
Configurazione aerodinamica: Ovale
Record della pista: 26.975 – 1979 – Bobby Unser, Penske PC7 – Cosworth
Distanza di gara: 83 giri – 125 mi
Vincitore uscente: Rick Mears
Griglia di Partenza gara 1
P
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Johnny Rutherford
27.326
2
Bobby Unser
27.578
3
Mario Andretti
27.631
4
Pancho Carter
27.999
5
Al Unser
6
Gordon Johncock
7
Rick Mears
8
Bill Alsup
9
Kevin Cogan
10
Scott Brayton
11
Tony Bettenhausen Jr.
12
Larry Cannon
13
Jerry Karl
14
Larry Dickson
15
Dennis Firestone
16
Steve Chassey
17
Josele Garza
18
Herm Johnson
19
Spike Gehlhausen
20
Phil Caliva
21
Jim Buick
22
Bill Tempero
23
Bob Lazier
Al via Rutherford prende subito il comando, distanziando Bobby Unser, Andretti, Al Unser, Johncock e Carter. Mentre Chassey è fermo ai box per problemi al motore, al 7° giro un testacoda di Bob Lazier causa la prima neutralizzazione. Alla ripartenza Rutherford mantiene il comando, ma la bandiera verde lascia subito il posto alla gialla quando un contatto tra Karl e Johnson conduce al ritiro entrambi, oltre che a un pugno sul casco del primo. Johncock approfitta della neutralizzazione per effettuare un rabbocco, poco prima che la pace car si faccia da parte al 15° passaggio. Rutherford ricostruisce in breve il suo vantaggio, comandando su Bobby Unser e Andretti, inseguiti da Mears, in rimonta dopo una partenza prudente. Al Unser e Pancho Carter battagliano invece per il quinto posto. La bandiera gialla fa però di nuovo capolino quando la vettura di Bobby Unser rallenta in pista, raggiungendo a fatica la pit lane. Tutti i principali protagonisti approfittano dell’interruzione per effettuare la prima sosta, cosa che permette a Josele Garza di guidare il gruppo alla ripartenza, inseguito da Lazier, Dickson, Cogan e Johncock. L’impatto di Dennis Firestone con il muro della curva 3 riporta però ancora in pista la pace car.
Quando anche il gruppetto di piloti provvisoriamente in testa effettua la sosta, Rutherford riprende il comando davanti a Mears, che nel frattempo si è liberato di Andretti e Al Unser. Con 30 giri da completare e un vantaggio di svariati secondi, il campione in carica sembrerebbe avere la corsa in tasca, ma Mears inizia progressivamente a ridurre le distanze. Alle sue spalle intanto Andretti e Johncock si danno battaglia per il terzo posto, precedendo Al Unser, Pancho Carter e Tony Bettenhausen, che dopo una lunga lotta riesce a portare la sua McLaren alla larga da una battaglia serrata che vede coinvolti Dickson, Alsup, Cogan e Brayton.
Davanti intanto Rutherford, in difficoltà nel traffico, vede il suo vantaggio ridursi nei confronti di un Mears velocissimo, che a 10 giri dalla bandiera a scacchi è ormai in coda alla Chaparral. Per diverse tornate il californiano pressa il campione in carica tra i doppiati, ma quando a 4 giri dal termine i due hanno pista libera Mears si affianca all’esterno in curva 2, sfilando facilmente Rutherford per poi staccarlo nettamente negli ultimi chilometri di gara. Per Rocket Rick arriva quindi il primo successo stagionale a coronare un ritorno in grande stile dopo il fuoco di Indianapolis, in barba alle voci che lo volevano propenso al ritiro. Rutherford coglie comunque un buon secondo posto al termine di una gara dominata, precedendo Andretti e Johncock, con Carter e Al Unser più staccati. Tony Bettenhausen regola invece il gruppo dei doppiati, avendo la meglio su Alsup e Brayton, mentre un giro più indietro Dickson risolve a suo favore una lunga battaglia con Cannon e Garza. Bobby Unser, rimasto a secco a metà gara, è solo tredicesimo.
Pos.
Pilota
Squadra
Vettura
N.
Tempo
1
Rick Mears
Penske
Penske PC-9B/Cosworth
6
83 giri in 51:29 – 147.22 mph
2
Johnny Rutherford (P) (L)
Chaparral
Chaparral 2K/Cosworth
1
3.0
3
Mario Andretti
Patrick
Wildcat/Cosworth
40
4
Gordon Johncock
Patrick
Wildcat/Cosworth
20
5
Pancho Carter
Morales
Penske PC-7/Cosworth
5
6
Al Unser
Longhorn
Longhorn LR-02/Cosworth
8
7
Tony Bettenhausen Jr.
Bettenhausen
McLaren/Cosworth
16
1 giro
8
Bill Alsup
Penske
Penske PC-9/Cosworth
7
1 giro
9
Scott Brayton
Brayton
Penske PC-7/Cosworth
37
1 giro
10
Larry Dickson
Machinists Union
Penske PC-7/Cosworth
31
2 giri
11
Larry Cannon
Cannon
Penske PC-7/Cosworth
99
2 giri
12
Josele Garza
Garza
Penske PC-9/Cosworth
55
2 giri
13
Bobby Unser
Penske
Penske PC-9B/Cosworth
3
2 giri
14
Spike Gehlhausen
Leader Card
Watson/Cosworth
22
3 giri
15
Bill Tempero
Tempero
McLaren/Chevrolet V6
15
8 giri
16
Kevin Cogan
O’Connell
Phoenix/Cosworth
32
pistone
17
Bob Lazier
Fleher
Penske PC-7/Cosworth
35
11 giri
18
Dennis Firestone
Rhoades
Wildcat/Cosworth
12
incidente
19
Phil Caliva
Alsup
McLaren/Chevrolet V6
47
problemi elettrici
20
Jim Buick
Buick
Eagle/Chevrolet V6
86
vibrazione
21
Jerry Karl
Karl
Karl/Chevrolet V6
38
incidente
22
Herm Johnson
Menard
Lightning/Chevrolet V6
28
incidente
23
Steve Chassey
Jet Engineering
Eagle/Chevrolet V6
64
motore
L’ordine d’arrivo di gara 1 determina lo schieramento di partenza della seconda frazione, che alla bandiera verde vede Rutherford passare Mears, portandosi dietro anche Andretti e Johncock. Mentre Bobby Unser in mezzo al gruppo avvia una lenta rimonta, Rutherford ripete il copione visto in gara 1, costruendo inizialmente un ampio margine su Andretti e Mears, che dopo qualche giro recupera il tempo perduto, lasciando Johncock a difendersi dagli attacchi di Pancho Carter. Rientrato in zona podio, il californiano non ha intenzione di nascondersi come nella prima corsa, andando subito all’attacco di Andretti per poi chiudere in breve il divario costruito da Rutherford nelle prime fasi. Il sorpasso arriva inesorabile al 22° passaggio, replicato poco più tardi dallo stesso Andretti, determinato a non perdere il contatto dall’ex compagno di squadra. La bandiera gialla per recuperare la vettura incidentata di Ross Davis riazzera però la situazione, permettendo ai principali protagonisti di effettuare il rifornimento.
Al termine della lunga neutralizzazione, la corsa riprende al 46° giro con Andretti che attacca subito Mears, che però riesce a controllare la situazione e rimanere al vertice. Alle loro spalle intanto Rutherford, a suo agio con il pieno, si installa al terzo posto superando Johncock. Una penalità per infrazione in pit lane lascia invece attardato Al Unser, in quel momento quinto. Con venti giri da completare Mears conduce la gara, guidando un terzetto ravvicinato che comprende Andretti e Rutherford, con Johncock poco più staccato. Nelle ultime fasi il campione ’79 sembra in grado di costruirsi un piccolo vantaggio nel traffico, ma una volta a pista libera Andretti ricuce il divario, installandosi sulla coda della Penske senza però riuscire a impostare il sorpasso.
Mentre Rutherford perde contatto, a due giri dal termine Mears sembra avere la corsa in tasca, ma proprio in vista della bandiera bianca il duo di testa si imbatte in un gruppetto di doppiati. In curva 2 il californiano rimane per un attimo intruppato dietro Dickson, permettendo il rapido ritorno di Andretti, che tenta il sorpasso arrivando fin sotto la riga bianca all’ingresso di curva 3. Lo stesso fa però Mears, che prendendosi un discreto rischio supera Buick con la ruote anteriore sinistra sull’apron, lasciando indietro il rivale, bloccato dai doppiati. Mears centra quindi il bottino pieno ad Atlanta aggiudicandosi entrambe le corse. Per Andretti un positivo secondo posto davanti a Rutherford, in difficoltà alla fine di ogni stint. Johncock chiude quarto, precedendo Carter e Bobby Unser, ultimo dei piloti a pieni giri. Un competitivo Al Unser è il primo dei doppiati a causa della penalità rimediata a metà gara, chiudendo al settimo posto davanti ad Alsup, Lazier, Brayton, Tony Bettenhausen e Dickson.
Record della pista: 34.060 mph – 1978, Tom Sneva – Penske PC6-Cosworth
Distanza di gara: 250 giri – 500 mi
Vincitore uscente: Prima 500 miglia di Michigan
Ultimo vincitore su questa pista: Mario Andretti
Griglia di Partenza
P
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Tom Sneva
35.757
2
Johnny Rutherford
3
Rick Mears
4
Pancho Carter
5
Steve Krisiloff
6
A.J. Foyt
7
Bill Alsup
8
Bill Whittington
9
Bobby Unser
10
Al Unser
11
Kevin Cogan
12
Mike Mosley
13
Gordon Johncock
14
Mike Chandler
15
Bill Engelhart
16
Larry Cannon
17
Bob Lazier
18
Gary Bettenhausen
19
Josele Garza
20
Tony Bettenhausen Jr.
21
Tom Bigelow
22
Jerry Karl
23
Herm Johnson
24
Larry Dickson
25
Vern Schuppan
26
Billy Vukovich II
27
Dick Ferguson
28
Salt Walther
29
Chip Mead
30
Dick Simon
31
Scott Brayton
32
Roger Rager
33
Cliff Hucul
34
Steve Chassey
35
Bill Tempero
36
Harry MacDonald
37
Phil Caliva
Dopo un rinvio di una settimana causa pioggia, la prima Michigan 500 può finalmente iniziare con Tom Sneva subito a prendere il comando su Johnny Rutherford e Steve Krisiloff, sostituto di Andretti al team Patrick, che sorprende al via Rick Mears. La corsa è però subito interrotta quando Larry Cannon va in testacoda in curva 2, riuscendo comunque a evitare danni per poi riportare la vettura ai box. Il copione si ripete quasi uguale alla ripartenza: Rutherford prende il comando su Sneva ma la bandiera gialla fa di nuovo la sua comparsa quando Bill Whittington perde il controllo in curva 2, confermando la scarsa aderenza garantita dall’asfalto poco gommato. Il pilota della Florida non è però fortunato quanto Cannon, non riuscendo a evitare il contatto con i rails oltre a coinvolgere l’incolpevole Johncock, che piega una sospensione dopo aver investito un detrito. Quando la gara riprende Rutherford guida brevemente il gruppo, prima che sia Sneva ad assumere il comando. Poco più indietro, mentre Mears perde lentamente il contatto coi primi, si assiste alla rimonta di Mike Mosley, che giro dopo giro guadagna stabilmente posizioni avvicinandosi alla vetta. Dopo aver fatto fuori Krisiloff e Rutherford, la Eagle del team All American Racers mette infatti nel mirino la March di Sneva, ingaggiando nel traffico una lunga battaglia ruota a ruota in cui la superiorità dell’innovativo telaio americano è compensata dall’apparente vantaggio di potenza del motore Cosworth sul V6 Chevy aspirato di Mosley.
Le ostilità sono nuovamente interrotte al 23° giro, quando l’esplosione del motore di Tempero inonda d’olio la pista, mandando in testacoda Carter e Dickson, che però riescono a evitare seri danni. Tutti approfittano della neutralizzazione per effettuare la prima sosta, ma la gara è presto interrotta con la bandiera rossa quando un incendio divampato durante il pit stop di Herm Johnson si estende a diverse piazzole, mandando nel caos la pit lane. Grazie al massiccio intervento dei vigili del fuoco dopo qualche decina di minuti la situazione torna più o meno alla normalità, cosa che permette di riprendere la corsa con Sneva a condurre su Rutherford, Mosley, Bobby Unser e Mears. Mosley non ci mette molto a tornare alla carica, superando subito Rutherford per ingaggiare nuovamente una bella battaglia ruota a ruota con Sneva. Questa volta però il due volte campione USAC non può opporsi a lungo alla Eagle, che una volta al comando semina in breve gli inseguitori: lo stesso Sneva e il duo Rutherford-Bobby Unser, in continua lotta per il terzo posto. Il motore rotto di Salt Walther al 53° giro interrompe però la marcia di Mosley, richiamando in pista la pace car e dando a tutti la possibilità di effettuare la seconda sosta.
Mears prende brevemente il comando dopo i pit stop, ma alla bandiera verde è ancora Mosley a comandare d’autorità la corsa, staccando subito gli inseguitori, capitanati da Rutherford, che comanda un gruppetto composto anche da Sneva, Bobby e Al Unser, Krisiloff e lo stesso Mears. Intorno al 70° giro Mosley può contare su un vantaggio di oltre 7” su Rutherford, ma i suoi sforzi sono ancora vanificati quando prima Cogan e poi Dickson si fermano lungo il percorso con il motore fuori uso. Tutti approfittano della neutralizzazione per rifornire, evitando un altro disastro quando tutte le vetture riescono a evitare la ruota persa dalla vettura di Harry MacDonald. La girandola delle soste porta in testa Tony Bettenhausen, che alla bandiera verde dell’81° giro conduce su Bobby Unser, Mears, Rutherford e Sneva. La corsa viene però subito interrotta dal brutto incidente che vede A.J. Foyt impattare con violenza contro i rails della curva 2. Inizialmente incosciente, Foyt viene estratto a fatica dalla sua vettura e poi elitrasportato in ospedale, dove gli viene riscontrata una frattura al braccio destro e una profonda ferita alla gamba sinistra che lo terrano lontano dalle gare per il resto della stagione.
La corsa riprende al 96° giro, con Rutherford a condurre incalzato da Bobby Unser, mentre Sneva perde terreno dai primi ed è presto costretto a fermarsi per problemi al cambio. Poco dopo lo stesso Unser è costretto a una lunga sosta ai box per sostituire parte della sospensione anteriore destra, forse danneggiata in un contatto col muro. Contemporaneamente anche Mosley deve dire addio alle speranze di vittoria per problemi al suo stock block Chevrolet. Con Mears in difficoltà, Rutherford sembrerebbe avere la corsa in pugno, conducendo con tranquillità sulla Longhorne di Al Unser, impegnato a controllare un inedito gruppetto composto da Alsup, Josele Garza, Bob Lazier e Tony Bettenhausen. Al 112° giro però la gara di Rutherford finisce incredibilmente quando un detrito causa l’esplosione della gomma posteriore destra nel rettilineo di ritorno, mandando in testacoda la Chaparral, prontamente controllata dal campione in carica che si salva dal muro ma non può far altro che riportare la sua malconcia vettura ai box.
La corsa riprende intorno al 120° giro, comandata da Al Unser davanti ad Alsup, che precede Garza e Lazier, a lungo impegnati in una bella battaglia per il terzo posto che premia il pilota americano. La corsa del messicano non è però destinata a proseguire per molto, dato che il suo motore cede al 141° giro, poco prima di aver subito l’attacco di Pancho Carter, autore di un bel recupero dopo i guai iniziali. Recupero aiutato poco dopo dalla rottura del motore di MacDonald, che richiamando in pista la pace car permette a Carter di effettuare la sosta sotto bandiere gialle a differenza di Unser e Lazier, in pit lane pochi giri prima. Il pilota del team Morales guida quindi il gruppo alla bandiera verde, controllando a lungo Unser, che fatica ad accorciare le distanze mentre Tony Bettenhausen, Alsup e Lazier danno vita a una bella battaglia per il terzo posto…che diventa secondo quando Unser al 191° giro è costretto ad abbandonare la compagnia col motore in fumo, proprio dopo essere riuscito a prendere il comando. Stessa sorte tocca poco più tardi allo sfortunato Lazier mentre anche Aslup perde il contatto coi primi, lasciando campo libero a Mears per il terzo posto. Le varie bandiere gialle aiutano Bettenhausen a ricucire lo strappo con Carter e i due danno vita a un intenso duello negli ultimi giri, in cui la vecchia McLaren da spesso l’impressione di poter entrare in scia alla non troppo giovane Penske. Carter è però bravo a gestire il traffico, riuscendo a mettere tra se e l’avversario diversi doppiati negli ultimi due giri, permettendosi di tagliare con margine il traguardo per conquistare la prima vittoria CART/IndyCar della carriera. Per Bettenhausen arriva un secondo posto che vale comunque oro, precedendo un Mears mai competitivo ma premiato dall’aver portato a casa la macchina in una corsa che ha fatto strage dei potenziali avversari per il titolo. Il californiano precede un Alsup in crisi nel finale ma comunque in grado di difendere il quarto posto da Bigelow e Gary Bettenhausen, staccati di tre giri. Phil Caliva e Larry Dickson, staccatissimi, chiudono rispettivamente in ottava e nona piazza mentre Lazier, Al Unser e Larry Cannon sono gli ultimi classificati in zona punti.
Texaco Havoline 200 – 23 agosto 1992 – 12° gara stagionale
Circuito: Road America
Tipologia: Stradale
Lunghezza: 4 mi – 6,436 km
Configurazione aerodinamica: Stradale
Record della pista: 1.37.090 – 1990 – Bobby Rahal, Lola – Chevrolet
Distanza di gara: 50 giri – 200 mi
Vincitore uscente: Michael Andretti
Nonostante un brutto incidente nelle ultime fasi delle qualifiche, Paul Tracy riesce a beffare il compagno Fittipaldi facendo segnare per primo un tempo uguale al millesimo. Il vantaggio delle vetture bianco rosse, già imprendibili a Cleveland, si deve in parte a un’evoluzione al motore Ilmor B, arrivata per contrastare la maggior potenza del Ford XB. Anche Rahal beneficia di aggiornamenti per il suo motore Ilmor Chevy-A, concentrati nell’area del collettore di aspirazione. Grossi problemi in prova per Eddie Cheever, mentre il compagno Gordon continua a impressionare su una Lola del ’91. Un guasto al cambio nel pre gara impedisce a Ross Bentley di prendere il via.
Pos.
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Paul Tracy
1.38.2105
2
Emerson Fittipaldi
1.38.2113
3
Michael Andretti
4
Bobby Rahal
5
Mario Andretti
6
Scott Goodyear
7
Scott Pruett
8
Al Unser Jr.
9
Danny Sullivan
10
John Andretti
11
Robby Gordon
12
Raul Boesel
13
Scott Brayton
14
Stefan Johansson
15
Ross Cheever
16
Ted Prappas
17
Eddie Cheever
18
Christian Danner
19
Brian Till
20
Jacques J. Villeneuve
21
Eric Bachelart
22
Buddy Lazier
23
Mike Groff
24
Hiro Matsushita
25
Vinicio Salmi
26
Ross Bentley
Dopo un primo tentativo abortito per una partenza anticipata di Fittipaldi, alla bandiera verde Tracy mantiene con i denti il comando della gara, precedendo il brasiliano e gli Andretti. Unser riesce invece a passare davanti a Rahal per il quinto posto, con Pruett, John Andretti e Goodyear a seguire. Ross Cheever è il primo ritirato della gara dopo essere finito contro le gomme della prima curva. Inizialmente Tracy sembra poter controllare la corsa, ma al sesto giro Fittipaldi rompe gli indugi e senza troppa fatica soffia il comando al giovane compagno di squadra. Una volta in testa il brasiliano incrementa progressivamente il vantaggio, mentre un’escursione sulla sabbia lascia attardato Tracy, che riesce a tornare in gara solo dopo essere precipitato ai margini della top ten. L’errore del canadese promuove Michael Andretti al secondo posto, ma gli occhi sono rivolti alle sue spalle, dove a dare spettacolo è il gruppetto composto da Unser e Rahal, che insidiano il terzo posto di Mario Andretti. Dopo una lunga battaglia, il capo classifica riesce a liberarsi del vincitore di Indianapolis, avendo poi ragione di Andretti con una bella staccata in curva 5. I tre sono seguiti da vicino da Pruett, a sua volta tallonato da John Andretti, Goodyear e Tracy. Superato il pilota di Jim Hall, i due canadesi proseguono la loro battaglia, fino a quando un estremo tentativo di sorpasso alla Canada Corner non vede Tracy bloccare le ruote posteriori e finire nella sabbia, dalla quale riuscirà a uscire solo dopo quattro giri. Fittipaldi, Rahal e Unser effettuano la prima sosta al 16° passaggio, mentre Michael Andretti riesce a percorrere una tornata in più, uscendo dalla pit lane davanti al brasiliano, che però torna davanti sfruttando le gomme già in temperatura.
Sventata la minaccia, Fittipaldi ricomincia a costruire progressivamente un margine di sicurezza su Andretti, a sua volta inseguito da Rahal, mentre Unser è ancora alle prese con Mario Andretti, che dopo aver ceduto il quarto posto deve guardarsi dal ritorno di Pruett e Goodyear. I due danno vita a una bella battaglia, fino a quando il canadese non riesce a passare all’esterno alla staccata della terza curva. Nel tentativo di resistere Pruett tocca la gomma posteriore sinistra della Lola, rovinando la sua ala anteriore, i cui detriti provocano la prima neutralizzazione. Alla ripartenza Fittipaldi sorprende Andretti, che deve invece guardarsi le spalle da un aggressivo Rahal. Davanti si forma quindi un gruppetto con il brasiliano a condurre e il trio Andretti-Rahal-Unser a meno di un secondo l’uno dall’altro. Poco più indietro un trenino ancora più bellicoso vede coinvolti Mario Andretti, Goodyear, Gordon e Sullivan. Quando il canadese e il giovane americano hanno ragione di Andretti, al gruppo si unisce anche Johansson, che si fa minaccioso alle spalle di Sullivan.
Al Unser Jr. apre il secondo turno di soste all 33° passaggio, seguito dagli altri protagonisti nella tornata successiva. La confusione data dalle piazzole adiacenti dei team Rahal e Newman Haas gioca un brutto scherzo a Michael Andretti, che manca la sua postazione, ostruendo per qualche secondo l’ingresso anche a Rahal. Il campione in carica è così costretto a percorrere un altro giro prima di poter effettuare la sosta, ma in suo aiuto arriva la neutralizzazione per Goodyear, finito violentemente contro le barriere nel velocissimo tratto della curva Kink. A soste ultimate, dopo una lunghissima operazione di pulizia la corsa riprende, con Fittipaldi a condurre su Unser, Rahal, Mario Andretti, John Andretti, Sullivan e Michael Andretti. Nei primi giri Unser è molto aggressivo nei confronti del brasiliano, che però riesce a controllare la situazione. Quando Michael Andretti si libera delle vetture che lo precedono, compreso il padre Mario, il finale di gara vede la ricomposizione del quartetto di testa tradizionale.
Inizialmente Andretti sembrerebbe avere il passo per tentare l’attacco su Rahal, ma il suo ritmo cala nettamente negli ultimi giri. In testa rimane quindi un terzetto ravvicinato, con Unser che però manca della necessaria velocità di punta per attaccare Fittipaldi, dovendosi invece guardare fino all’ultimo da un minaccioso Rahal. Il brasiliano può quindi controllare la situazione, andando a centrare la seconda vittoria consecutiva, a testimonianza della ritrovata competitività della Penske. Per Unser un secondo posto estremamente positivo davanti a Rahal, penalizzato dal disguido in pit lane ma comunque in grado di guadagnare punti su Andretti, quarto sul traguardo. Oltre a ridurre il peso dell’errore di Michael in pit lane, la neutralizzazione per l’incidente di Goodyear ha aiutato gli altri Andretti, Mario e John, ad avere la meglio su Sullivan, settimo al traguardo davanti a Boesel, Pruett, Prappas, il rookie Till e Scott Brayton. La rottura del motore ha invece privato Robby Gordon di un possibile posto in top 5. Sorte simile è toccata poi a Johansson, che dopo essere rimasto a secco nel giro di rientro ha dovuto abbandonare per problemi al cambio.
Budweiser Grand Prix of Cleveland – 9 agosto 1992 – Undicesima gara stagionale
Circuito: Burke Lakefront Airport
Tipologia: Stradale – aeroporto
Lunghezza: 2.369 mi – 3.812 km
Configurazione aerodinamica: Stradale
Record della pista: 1.00.553 – 1991, Emerson Fittipaldi, Penske PC20-Chevrolet
Distanza di gara: 85 giri – 201.4 mi
Vincitore uscente: Michael Andretti
Griglia di partenza
Pos.
Pilota
Tempo
Pilota
Tempo
1
Emerson Fittipaldi
59.732
2
Michael Andretti
3
Bobby Rahal
4
Paul Tracy
5
Al Unser Jr.
6
Raul Boesel
7
Scott Pruett
8
Mario Andretti
9
Stefan Johansson
10
Danny Sullivan
11
Robby Gordon
12
Scott Goodyear
13
Scott Brayton
14
John Andretti
15
Ted Prappas
16
Jimmy Vasser
17
Eddie Cheever
18
Christian Danner
19
Brian Till
20
Ross Cheever
21
Hiro Matsushita
22
Eric Bachelart
23
Buddy Lazier
24
Jacques J. Villeneuve
25
Ross Bentley
26
Tero Palmroth
La prima partenza vede Fittipaldi scattare con troppo anticipo, cosa che obbliga Nick Fornoro a ritirare la bandiera verde e far compiere al gruppo un altro passaggio, subito fatale a Tracy, che perde 4 giri per problemi al cambio. Quando finalmente la corsa ha inizio, Michael Andretti infila immediatamente Fittipaldi alla prima curva, prendendo il comando mentre Sullivan si gira nel gruppo. Alle loro spalle si installa Unser, che inizialmente precede Rahal e un gruppetto composto da Mario Andretti, Boesel, Pruett e Gordon. Conscio della superiorità della Penske, Fittipaldi nelle prime fasi lascia sfogare Andretti, decisamente al limite per mantenere la vetta, tanto che la coppia di testa è presto raggiunta anche da Rahal, presto liberatosi di Unser. Quando poi al 15° giro Michael è frenato all’ultima curva da Villeneuve, al rientro in IndyCar dopo 6 anni, Fittipaldi non ha problemi a sfilare sul traguardo la Lola per prendere il comando.
Una volta davanti, il brasiliano va subito in fuga, lasciando Andretti a difendersi dagli attacchi di Rahal, che dopo numerosi tentativi è il primo del gruppo di testa a effettuare la sosta, con Unser subito dietro. Il capo classifica manca però la sua piazzola, vedendosi costretto a tornare in pista e percorrere un altro giro, prima di poter effettuare il pit stop. Dopo le soste Fittipaldi si mantiene quindi saldamente in testa, con circa 10 secondi di vantaggio, mentre Andretti deve guardarsi da un aggressivo Unser, che dopo una breve battaglia sorprende il rivale installandosi in seconda piazza. Rahal, attardato dal contrattempo ai box, inizia invece una lenta rimonta, precedendo il sorprendente Gordon, che con una Lola del ’91 controlla agevolmente Boesel, Mario Andretti, Pruett e John Andretti, che dopo aver superato Goodyear deve guardarsi dal rimontante Johansson.
Unser e Fittipaldi inaugurano il secondo turno di soste, che vede Michael Andretti fermarsi per ultimo. Questa mossa permette all’americano di rientrare in pista sulla coda di Unser che, in difficoltà con la vettura pesante, è presto costretto a cedere la piazza d’onore nel traffico. Mentre Andretti prende margine, rimanendo comunque nettamente staccato da Fittipaldi, Gordon è attardato da problemi ai freni, che lentamente lo fanno scivolare ai margini dalla top ten. La lunga battaglia tra Johansson e John Andretti per il 9° posto finisce invece con la Penske in testacoda, tamponata alla prima curva dall’americano dopo un problematico incrocio di traiettoria. Negli ultimi giri Rahal si avvicina minacciosamente ad Unser, che a sua volta recupera il tempo perduto su Andretti. Il capo classifica spreca però l’occasione di tornare sul podio con un dritto all’ultima curva mentre Unser, frenato da qualche doppiato di troppo, non riesce mai a portarsi a distanza di sorpasso da Andretti. Davanti Fittipaldi non ha di questi problemi, conquistando agevolmente il secondo successo stagionale. Andretti e Unser completano il podio, precedendo un Rahal che con qualche errore in meno avrebbe probabilmente terminato davanti ai connazionali. Mario Andretti porta a casa la quinta piazza, avendo la meglio su Boesel e Pruett. Nonostante i problemi ai freni, Robby Gordon ha avuto modo di mettersi in mostra, portando a casa l’ottavo posto davanti a Johansson, Goodyear, Cheever e John Andretti.