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Rio de Janeiro – 3° gara stagione 2000

Terza gara della stagione 2000 – CART Rio 200 – 30/4/2000

Circuito: Emerson Fittipaldi Speedway

Tipologia: Ovale corto

Lunghezza: 1.854 mi – 2.983 km

Banking curva 1: 2.7°?

Banking curva 2-3: 3°

Banking curva 4: 4°?

Configurazione aerodinamica: ovale corto con Handford device mk.II

Record della pista: 38.565 – 1999, Christian Fittipaldi – Swift Ford

Distanza di gara: 108 giri – 200.3 miglia

Vincitore uscente:  Juan Pablo Montoya

Prima pole della carriera per Tagliani, davanti a tutti per gran parte del fine settimana, con Montoya che deve “accontentarsi” della seconda piazza e Tracy che azzecca finalmente una buona qualifica. Herta continua a sostituire Nakano, così come Gidley prende ancora il posto di Carpentier.

Griglia di partenza – Rio
1 Alex Tagliani 38.587
2 Juan Montoya 38.696
3 Paul Tracy 38.843
4 Kenny Brack 38.876
5 Christian Fittipaldi 38.879
6 Jimmy Vasser 38.943
7 Helio Castro-Neves 38.985
8 Dario Franchitti 39.026
9 Tony Kanaan 39.101
10 Max Papis 39.227
11 Memo Gidley 39.246
12 Roberto Moreno 39.265
13 Gil de Ferran 39.298
14 Oriol Servia 39.306
15 Michael Andretti 39.340
16 Adrian Fernandez 39.391
17 Cristiano da Matta 39.419
18 Norberto Fontana 39.504
19 Takuya Kurosawa 39.590
20 Bryan Herta 39.620
21 Mauricio Gugelmin 39.682
22 Michel Jourdain Jr. 39.856
23 Mark Blundell 40.073
24 Gualter Salles
25 Luiz Garcia Jr.

Il primo tentativo di partenza è annullato perché Tagliani scatta troppo presto, ma questo non impedisce a Servia di perdere il controllo in accelerazione, colpire il muro interno e ritirarsi. Dopo 6 giri di neutralizzazione, alla bandiera verde Tagliani controlla Montoya mentre dalle retrovie Andretti risale quattro posizioni, portandosi ai margini della top ten. Dietro il duo di testa si forma subito una lunga fila di vetture in perenne battaglia. Brack pressa da vicino Tracy, con Vasser e Castroneves poco lontano. Nei primi giri il meglio piazzato dei brasiliani resiste poi ad un attacco di Kanaan, coinvolto a sua volta in una lunga battaglia con Fittipaldi, Papis e Gidley nella parte bassa della top 10.

Mentre davanti il vantaggio di Tagliani su Montoya supera il secondo, al 16° giro Brack e Tracy si scambiano più volte le posizioni tra le curve 4 e 1, ma alla fine è lo svedese ad prevalere, con il leader della classifica che deve guardarsi le spalle da Vasser. Poco più tardi Castroneves abbandona la compagnia per problemi al cambio, mentre Fittipaldi ha ragione di Kanaan. Al 30° giro il vantaggio di Tagliani su Montoya supera i due secondi, ma la corsa del colombiano termina prematuramente per un problema al cambio che manda su tutte le furie il campione in carica. Il più prossimo inseguitore del canadese diventa quindi Brack, staccato di una decina di secondi quando iniziano le soste. Mentre Franchitti si gira nel lasciare la piazzola, senza comunque perdere il giro, Tagliani attiva inavvertitamente il limitatore di velocità dopo la sua sosta, dilapidando il vantaggio su Brack, che gli piomba addosso e lo mette sotto pressione nei doppiaggi.

Alle loro spalle continua il lungo confronto tra Tracy, Vasser e Fittipaldi, con Andretti più staccato. Mentre Gugelmin si ritira ai box per problemi di motore, guai simili costringono Herta a fermarsi in pista, causando al 55° giro l’ingresso della pace car. Tutti si fermano eccetto Tagliani, Andretti, Gidley e Blundell, che alla ripartenza conducono il gruppo di inseguitori capitanato da Fernandez e Brack. Nella battaglia in mezzo al gruppo Tracy tampona Papis, che buca una gomma e perde un giro, con Kurosawa fermo ai box per problemi meccanici.

Con la solita aggressività, dietro i primi Brack riesce a superare Fernandez in curva 1 nonostante la chiusura del messicano, mentre a 39 giri dal termine anche la bella corsa di Kanaan è rovinata da problemi al cambio. Poco più tardi Blundell apre la sequenza di pit stop dei primi, seguito da Andretti e Gidley. Un’incomprensione porta il campione ’91 a ripartire in anticipo e urtare un meccanico, cosa che gli costa una penalità. Dopo le soste Brack prende il comando della gara davanti a Fernandez, Vasser, Tracy, Da Matta, Moreno e Jourdain.

Purtroppo è proprio la vettura ferma del messicano a causare la terza neutralizzazione, mentre anche De Ferran e Papis si ritirano con problemi meccanici. Tutti rientrano per l’ultimo rabbocco, evitando il cambio gomme, con Brack che butta al vento un sicuro podio spegnendo il motore al momento di ripartire. Il comando torna quindi nelle mani di Tagliani, a posto coi consumi dopo la sosta precedente. Alla ripartenza il canadese conduce su Fernandez, Vasser, Tracy, Da Matta e Fittipaldi, ma incredibilmente finisce in testacoda all’uscita di curva 1, coinvolgendo Brack, Franchitti e Andretti, con Tracy che sopravvive al contatto col connazionale.

La ripartenza arriva a 2 giri dal termine ma è ancora Tagliani, girandosi in curva 4, a causare l’ennesima neutralizzazione, guadagnandosi i fischi del pubblico, privato di un arrivo in bandiera verde. Fernandez coglie quindi la prima vittoria stagionale davanti a Vasser, mai spettacolare ma consistente, Tracy, che consolida la leadership in campionato, Da Matta, al primo risultato utile dell’anno e un buon Fittipaldi. Alle sue spalle chiude il connazionale Moreno, poi Blundell, Gidley, Andretti, Brack e Franchitti, con Garcia che chiude la zona punti.

Ordine d’arrivo
P Pilota Squadra N Vettura Tempo
1 Adrian Fernandez Patrick 40 R/F 108 giri in 1:37:12.490 – 124.256 mph
2 Jimmy Vasser Ganassi 12 L/T 0.931
3 Paul Tracy Green 26 R/H 1.338
4 Cristiano da Matta PPI Wells 96 R/T 1.581
5 Christian Fittipaldi Newman Haas 11 L/F 2.356
6 Roberto Moreno Patrick 20 R/F 3.687
7 Mark Blundell PacWest 18 R/M 5.079
8 Memo Gidley Forsythe 33 R/F 6.504
9 Michael Andretti Newman Haas 6 L/F -1 Lap
10 Kenny Brack Rahal 8 R/F -1 Lap
11 Dario Franchitti Green 27 R/H -1 Lap
12 Luiz Garcia Jr. Arciero 25 R/M -4 Laps
13 Alex Tagliani (P) (L) Forsythe 32 R/F incidente
14 Gualter Salles Coyne 34 L/F motore
15 Michel Jourdain Jr. Bettenhausen 16 L/M pressione olio
16 Max Papis Rahal 7 R/F cambio
17 Gil de Ferran Penske 2 R/H scarico
18 Tony Kanaan Nunn 55 R/M cambio
19 Takuya Kurosawa Coyne 19 L/F problema tecnico
20 Bryan Herta Walker 5 R/H cambio
21 Mauricio Gugelmin PacWest 17 R/M motore
22 Juan Pablo Montoya Ganassi 1 L/T cambio
23 Norberto Fontana Della Penna 10 R/T problema tecnico
24 Helio Castro-Neves Penske 3 R/H cambio
25 Oriol Servia PPI Wells 97 R/T incidente
Classifica
1 Paul Tracy 48
2 Jimmy Vasser 42
3 Roberto Moreno 28
4 Max Papis 20
5 Adrian Fernandez 20
6 Alex Tagliani (R) 18
7 Gil de Ferran 18
8 Helio Castro-Neves 16
9 Christian Fittipaldi 16
10 Cristiano da Matta 13
11 Mark Blundell 11
12 Bryan Herta 10
13 Patrick Carpentier 10
14 Oriol Servia (R) 8
15 Memo Gidley 5
16 Shinji Nakano (R) 5
17 Michael Andretti 4
18 Dario Franchitti 4
19 Tony Kanaan 3
20 Mauricio Gugelmin 3
21 Kenny Brack (R) 3
22 Michel Jourdain Jr. 2
23 Luiz Garcia Jr. 2
24 Juan Montoya

1

 

Rick Mears

Nome: Rick Ravon Mears

Data e luogo di nascita: 3 dicembre 1951, Wichita (Kansas, USA)

Nazionalità: Statunitense

Ruolo: Pilota, Driver’s Coach, Consulente

Rick Mears nasce a Wichita, Kansas, il 3 dicembre 1951. Quella di Rick è una famiglia da corsa: suo padre Bill è infatti un pilota stock car di successo in un’epoca irripetibile, in cui la vita si divide tra le giornate passate a lavorare e le notti a gareggiare, con in mezzo poche ore di sonno. Bill,  meccanico in un rivenditore di auto usate, negli anni ‘50 arriva a correre anche 5-6 gare a settimana, ottenendo i primi ingaggi. In un fine settimana di vacanza passato in California, Bill e sua moglie Skip decidono per il classico cambio di vita all’americana, trasferendosi a Bakersfield, cittadina non lontana da Los Angeles. La California, oltre a offrire prospettive di vita migliori, da anche a Bill la possibilità di continuare a dare sfogo alla sua passione per le corse, oltre ad essere il miglior terreno possibile per le prime scorribande dei suoi due rampolli, Roger e Rick, che ci mettono poco a seguire le orme del padre, armeggiando con qualunque cosa abbia un motore. Roger si dà subito al kart, per poi passare a midget e stock car mentre Rick si innamora delle moto, diventando un promettente crossista. Fin dalle prime esperienze, il più giovane dei fratelli Mears si fa notare per uno stile paziente ed efficace. Come ricorderà Roger: “poteva metterci dei giorni ad imparare qualcosa che magari io padroneggiavo in poche ore. Procedeva sempre con prudenza, a piccoli passi. Una volta imparato però faceva quella cosa meglio di chiunque altro”.

Alcune brutte cadute convincono però Rick ad accettare la proposta del padre di concentrarsi sulle quattro ruote. Gareggiando con mezzi autocostruiti, Rick e Roger si danno allora alle corse su sterrato e nel deserto con i dune buggy, che talvolta vedono partecipare lo stesso Bill. È qui che nasce la Mears Gang, che all’inizio degli anni ‘70 domina la scena del corse californiane e non solo. I due fratelli si spartiscono infatti le vittorie sia nei circuiti di terra, in una continua sequenza di duelli all’ultima curva, che nel deserto, partecipando inoltre a importanti competizioni come Pikes Peak e la Baja 1000 in Messico. Roger è infatti uno dei primi a introdurre i buggy nella famosa corsa del Colorado, raccogliendo numerose vittorie di classe e battagliando con personaggi del calibro di Parnelli Jones, leggenda del motorismo USA, che diventa una sorta di mentore per i due fratelli, i cui orizzonti si allargano sempre più. Roger costruisce insieme al padre una stock car, cercando di sfondare nei campionati regionali della Nascar, mentre Rick ha l’occasione di debuttare in pista con una monoposto. Guidando una Formula Vee di alcuni amici, ottiene a Riverside la licenza SCCA per poter disputare le prime corse, passando subito ad una più prestante Super Vee. La rapidità con cui la sua carriera si sviluppa da questo punto in poi, considerando l’esperienza su pista praticamente inesistente, ha dell’incredibile, ma non è poi così sorprendente nell’ambiente ancora per certi versi pioneristico delle corse americane degli anni ’70.

Rick approfitta di ogni occasione per fare esperienza e migliorare la propria tecnica di guida, pur senza ambizioni di professionismo. Le corse, nonostante i successi mietuti nel deserto, sono ancora solo un hobby e l’unica sicura fonte di sostentamento è costituita dal lavoro nell’azienda del padre Bill, che nel frattempo ha messo su un’attività nel settore del movimento terra. Rick si divide quindi tra le auto e il lavoro con l’escavatore, disertando di nascosto ogni tanto il dovere per andare a provare qualche nuova macchina nei vari autodromi della zona, fino a quando non riceve una chiamata che gli cambierà la vita. Bill Simpson, pilota e fondatore dell’omonima azienda di abbigliamento da gara e dispositivi di sicurezza, offre a Mears la possibilità di provare una F.5000 a Willow Springs. Alla prima presa di contatto con una monoposto di grande potenza, Mears si comporta bene, risultando nettamente più veloce di Simpson che, impressionato dal giovane americano, gli fa disputare due corse in F.5000 per poi farlo debuttare in IndyCar, come seconda guida del suo team, al volante di una Eagle vecchia di due anni.

La 500 miglia di Ontario del 9 settembre 1976 vede quindi l’esordio di Rick Mears, non solo nel campionato IndyCar/USAC, ma anche su un ovale estremamente veloce come il super speedway californiano. In realtà la sua partecipazione è in dubbio fino alla vigilia, in quanto l’USAC è preoccupata per la scarsa esperienza di Rick sulle monoposto. A sua insaputa, Simpson offre la propria casa a copertura di eventuali danni procurati ad altri concorrenti. Rick fuga ogni dubbio qualificandosi 20° e, seppur doppiato numerose volte non solo dal vincitore Bobby Unser ma anche dal “capo” Simpson, al volante di una ben più prestante McLaren, si comporta bene, completando la gara in ottava posizione senza ostacolare i più veloci e facendo preziosi chilometri. La prestazione convince sempre più Simpson delle potenzialità del 25enne californiano, tanto da garantire a Mears il sedile per due delle ultime tre corse in calendario. Simpson vende infatti la Eagle ad Art Sugai, impresario appassionato di corse, a patto che a guidare sia proprio Rick. Al volante di una vettura imbarazzante come velocità e colore (un rosa che le vale il soprannome di “pink lady”), Mears raccoglie due noni posti al Texas World Speedway e all’ultima corsa di Phoenix.

Nonostante i mezzi limitati e la assoluta non competitività della vetusta Eagle, Rick decide di proseguire l’avventura col team Sugai anche nel 1977, raccogliendo solo delusioni nelle prime corse della stagione, fino alla mancata qualificazione alla Indy 500. Mears si presenta allo Speedway con la moglie Dina, i figli Clint e Cole e una roulotte, che è praticamente tutto ciò che possiede. Nonostante gli sforzi e i grossi rischi presi nel tentativo di qualificarsi, Rick si ritrova senza vettura e prospettive, in quanto il team Sugai è prossimo alla chiusura. Lo stile di Mears non è però passato inosservato. Roger Penske ha infatti seguito attentamente i progressi del giovane pilota americano, rimanendo impressionato dal suo cercare di qualificarsi senza mai sbagliare o mettere a rischio la vettura. Con l’aiuto di Bill Simpson, Rick intanto approda nell’abitacolo della McLaren-Offy schierata dal leggendario Teddy Yip, proprietario del Theodore Racing che a Indy aveva fatto correre Clay Regazzoni. Con la ben più competitiva vettura inglese, Mears ha finalmente l’occasione di ben figurare, cogliendo 4 arrivi in top ten su sei gare, col quinto posto di Milwaukee come miglior risultato. Roger Penske ha così le risposte che cercava e contatta Simpson, titolare di un contratto decennale con Mears. Consapevole dell’importanza della proposta del Capitano per la carriera di Rick, Simpson ne cede gratuitamente il “cartellino” a Penske, che per il 1978 impegna Mears in un programma parziale: Indianapolis e tutte le corse in cui Mario Andretti non sarà disponibile a causa dell’impegno Lotus in F1. È la svolta di una carriera, perché Mears si inserisce senza troppa fatica tra i big dell’IndyCar, realizzando che non gli è richiesto nulla più di quanto fatto fino a quel momento con vetture decisamente meno competitive.

Mears Gang al gran completo con Rick (a destra), Bill (al centro) e Roger (sinistra). fourwheeler.com
Mears Gang al gran completo con Rick (a destra), Bill (al centro) e Roger (sinistra). fourwheeler.com
Mancata qualificazione a Indy '77. pinterest.com
Mancata qualificazione a Indy ’77. pinterest.com
Dopo Indianapolis Rick passa finalmente a un'auto competitiva, la McLaren di Teddy Yip.
Dopo Indianapolis Rick passa finalmente a un’auto competitiva, la McLaren di Teddy Yip.

Al debutto col team Penske a Phoenix, Rick ottiene un discreto quinto posto, rientrando poi in azione a Indianapolis, dove nonostante gli inviti alla cautela del team, piazza la sua vettura all’esterno della prima fila, cancellando il ricordo dell’anno precedente e posando il primo mattone di un rapporto con lo Speedway che diverrà felicissimo. La corsa non va altrettanto bene, terminando con un ritiro per problemi tecnici verso metà gara, ma Rick si rifà in breve, cogliendo un ottimo secondo posto a Mosport alle spalle di Danny Ongais, per poi centrare la prima vittoria in IndyCar nella corsa seguente, Milwaukee. Mears si dimostra velocissimo, ma la sua vittoria è chiaramente favorita dai problemi che affliggono gli avversari, in particolare Al Unser, che si ferma per un rabbocco negli ultimi giri nel bel mezzo del loro duello. Soddisfatto a metà per il modo in cui l’affermazione è scaturita, Rick discute con AJ Foyt questa sensazione. L’esperto texano non si fa pregare nel sottolineare una delle leggi più sacre delle corse :”devi prendere tutte le gare che puoi, perché saranno molte più quelle che perderai in questo modo di quelle che vincerai”. Tra il giovane Mears e la leggenda Foyt si instaura un buon rapporto, dopo un’iniziale incomprensione e relative spiegazioni che chiariranno molto agli occhi di Rick il ruolo di Foyt nel paddock. Come dirà più avanti Mears “AJ è un grande “teddy bear”, quando ci discuti capisci che il suo abbaiare è molto più forte del suo morso”.

L’impegno part time per Mears prosegue tra ritiri per guasti tecnici e podi, fra i quali svettano le vittorie di Atlanta e nella trasferta europea di Brands Hatch, dove Rick ottiene il terzo successo stagionale ereditando la testa della corsa dal dominatore Ongais, fermo per un guasto. Mears si conquista così un posto da titolare per il 1979, al fianco del nuovo arrivo Bobby Unser. Con una mossa a sorpresa infatti Penske decide di dare il benservito a Tom Sneva, campione nazionale negli ultimi due anni ma mai entrato nelle grazie del patron, optando per uno schema che diventerà un classico, con un capo squadra affermato e un giovane da far crescere.

In lotta con AJ Foyt. 500legends.com
In lotta con AJ Foyt. 500legends.com
Davanti a tutti a Brands Hatch. motosportretro.com
Davanti a tutti a Brands Hatch. motosportretro.com

Il 1979 è anche l’anno della prima grande spaccatura in seno alle ruote scoperte americane. Dan Gurney, spalleggiato da Penske,  Pat Patrick e Jim Hall, scrive una lettera indirizzata ai vertici di USAC e Indianapolis, chiedendo una sostanziale modernizzazione della gestione commerciale della serie, sulla falsariga di quanto fatto da Bernie Ecclestone in Formula 1. Il patron della Eagle denuncia in particolare l’inconsistenza dei premi in denaro e la difficoltà nel reperire sponsor, data la totale assenza di un’attività di marketing da parte degli organizzatori. Fortemente contrariati dall’atto di accusa delle squadre, USAC e IMS rigettano le proposte dei team, che formano quindi un loro campionato, denominato CART (inizialmente sanzionato dalla SCCA), che nel ‘79 comprenderà, per decisione del tribunale dell’Indiana, anche la Indy500, nonostante il tentativo dell’USAC di escludere i team ribelli. In questo clima di “guerra” il team Penske spadroneggia nel nuovo campionato, vincendo nove corse su 14, 6 con Unser e 3 con Mears. Sarà però il giovane della squadra ad avere la meglio nella lotta per il titolo, grazie ai migliori piazzamenti ottenuti nelle varie 500 miglia, che assegnano un punteggio maggiore. Tra queste, spicca per Mears la prima vittoria a Indianapolis.

Snobbato da pubblico e media, più concentrati sui soliti nomi, Mears ottiene la pole e batte i fratelli Unser su quello che, data la maggiore esperienza, dovrebbe essere il loro punto di forza, la visione di gara, adottando un modo di correre che farà scuola. Fin dalla partenza Mears si defila dalle prime posizioni, utilizzando i primi 150 giri come una sessione di test in cui sviluppare l’assetto della vettura in funzione delle condizioni di pista e atmosferiche, oltre che del potenziale espresso dai diretti rivali. Il tutto con l’obiettivo di presentarsi al momento decisivo, le ultime 50 miglia, nelle migliori condizioni possibili per puntare alla vittoria. Un po’ per sfortuna, un po’ per aver spinto troppo, prima Al sr. e poi Bobby Unser rimangono però attardati da problemi tecnici, così Mears non deve far altro che subentrare loro al comando e andare a conquistare, dopo 4 anni dai primi passi in monoposto e alla seconda partecipazione, la corsa più ricca e importante del mondo. Solo più tardi Rick realizzerà quanto importante per la sua carriera sarà quell’affermazione ma, forse a causa della sua preparazione atipica e lontanissima dalle ruote scoperte, per il Mears del 1979 vincere a Indianapolis non è poi tanto diverso che vincere a Michigan o ad Atlanta.

Seppur non entusiasmante, seppur non spettacolare, il poco appariscente Mears in un solo anno porta quindi a casa titolo e Indy 500, ripagando in pieno la fiducia accordatagli due anni prima da Roger Penske. Non tutto è però rose e fiori all’interno dell’organizzazione. Bobby Unser è infatti un personaggio difficile da gestire, un vulcano di idee, grazie alla sua esperienza non solo come pilota ma anche come costruttore e ingegnere “autodidatta”. Col tempo saranno numerosi i contrasti su aspetti tecnici tra Unser e la squadra e anche tra i piloti, pur non arrivando mai ad alcuno scontro, la sintonia è tutt’altro che perfetta, con Unser che cerca per quanto possibile di sviare il compagno e nascondere assetti e dati tecnici, accusando Mears di poco impegno in fase di sviluppo e messa a punto. Nonostante le nozioni tecniche imparate nella costruzione dei buggy siano in parte adattabili alle ChampCar, Mears ha ancora molto da imparare delle corse su pista, sia da un punto di vista tecnico che di guida, specie sugli stradali. Pur partecipando attivamente allo sviluppo in virtù di una eccezionale sensibilità, Rick è sempre il pilota giovane della squadra, che tende a fidarsi maggiormente di Unser, grazie anche alla sua forte personalità. Anche per questo motivo, Mears disputa la prima parte della stagione con la Penske PC6 dell’anno prima, mentre ad Unser è affidata subito la nuova PC7, che ben presto diventa il nuovo termine di paragone.

A Indy Mears piazza la sua PC7 in pole davanti all’ex compagno di squadra Tom Sneva. espn.com
All’inseguimento dei fratelli Unser. pinterest.com
Penske, Dina e il resto della famiglia in festa per il primo trionfo al Brickyard
Rick beve il latte per la prima volta
In azione a Watkins Glen, dove chiude secondo. motorsportmagazine.com

Il dominio del 1979 lascia il posto nell’80 alle briciole concesse da Johnny Rutherford e il suo “yellow submarine”, la Chaparral 2K, già competitiva con Unser sr. nel ’79, che sfrutta appieno le lezioni sulle minigonne insegnate in F1 dalla Lotus. Rick chiude quarto una stagione mediocre in cui conquista 5 podi, tra cui la vittoria sullo stradale di Mexico City, mentre Bobby Unser si segnala come il più credibile rivale di Rutherford, vincendo quattro corse contro le 5 del rivale della Chaparral, che ovviamente si aggiudica anche Indy. La nuova PC9 è un grande passo avanti rispetto alla PC7, ma la sua messa a punto risulta molto problematica. Con il finire della stagione, grazie anche al grande lavoro di sviluppo di Unser, la Penske dimostra però di aver ormai raggiunto la Chaparral, seppur troppo tardi per impensierire Rutherford. Se Unser rende giustizia alla PC9, Mears, che inizialmente guida ancora la PC7, non si adatta mai completamente alla macchina, anche a causa del ridotto numero di test effettuati.

Nota positiva del 1980 sono le prove svolte da Rick a bordo della Brabham BT49 di F1, sulle piste di Le Castellet e Riverside. In Francia, alla prima presa di contatto e mantenendo un certo margine di sicurezza, il pilota americano si tiene a circa mezzo secondo dai tempi di Nelson Piquet, adattando la sua guida ad una vettura leggera e reattiva come la F1. Di quel test Mears ricorderà come “la macchina si guidava in modo completamento diverso dalla ChampCar. Con questa non potevi frenare e curvare contemporaneamente, dovevi frenare a ruote dritte e stare alla larga dai cordoli. Con la F1 invece potevi davvero attaccare, frenare più tardi, essere aggressivo, colpire i cordoli. All’inizio andavo piano perché la guidavo come una ChampCar, poi ho capito che bisognava andare sempre a tutto gas”. Nel secondo test di Riverside, svolto dalla squadra inglese in preparazione della corsa di Long Beach, Mears è addirittura più veloce di Piquet. Il pilota americano si guadagna la stima dei tecnici per la velocità mostrata e le interessanti doti tecniche, oltre a uno stile simile a quello del brasiliano. Ecclestone offre a Mears un volante per il 1981, ma l’americano declina l’offerta in quanto, seppur allettato dalla sfida, non è disposto a trasferirsi in Europa, considerando anche l’evidente crescita del campionato CART, che presenta numerose corse su ovali, un tipo di sfida di cui la F1 è sprovvista.

Rick sulla PC9, una vettura con cui non si troverà troppo bene. pinterest.com – home.comcast.net
Alla guida della BT49 a Riverside. John Rettie

Imparate le lezioni sulle minigonne, che diventeranno fisse in questa stagione, la Penske torna in grande stile nel 1981 con la PC9B, evoluzione del modello precedente, cogliendo l’accoppiata Indy-campionato. Unser si aggiudica Indy dopo un’eterna polemica con Mario Andretti su presunti sorpassi in bandiere gialle, col vincitore decretato dal tribunale dopo diversi mesi. Il campionato però è completamente dominato da Mears, che si aggiudica 6 gare su 11, tra cui gli stradali di Mexico City, Watkins Glen e Riverside, oltre a una memorabile sfida sull’ovale di Michigan, in cui Rick conquista una vittoria da sogno infilando all’ultima curva niente meno che il suo idolo Mario Andretti. Una stagione perfetta con un unico neo, il ritiro a Indianapolis per un brutto incendio scoppiato durante una sosta, che costa a Mears diverse ustioni al volto, sulle quali saranno necessari dei piccoli interventi di ricostruzione. Sull’incidente Rick ricorderà:” tutti si erano concentrati sui meccanici ma fu mio padre il primo ad accorgersi che stavo andando a fuoco. Mi conosce, sa che sono pigro e che per niente al mondo mi muoverei così in fretta. Sono uscito dall’abitacolo e sentivo le fiamme che mi entravano dentro il casco. Le ustioni non sono state un grande problema, la cosa peggiore era il non poter vedere e respirare, oltre al calore assorbito dalle vie respiratorie”.

Sulla PC9B non ha rivali, tranne a Indy dove un incendio in pit lane lo estromette dalla corsa. 500legends.com, pinterest
Sulla PC9B non ha rivali, tranne a Indy dove un incendio in pit lane lo estromette dalla corsa. 500legends.com, pinterest
Lotta in casa Penske alla Michigan 500
Lotta in casa Penske a Michigan

Il 1982 segna un’altra novità in casa Penske, con l’allontanamento di Unser e l’ingaggio di Kevin Cogan al fianco di Rick Mears, prima guida indiscussa. Unser, in eterna polemica con il team manager Derrick Walker soprattutto per questioni riguardanti sospensioni e aerodinamica della nuova PC10, viene licenziato dopo aver litigato addirittura con Roger Penske. Se fino a questo momento Rick era considerato il giovane della squadra, nonostante i due campionati vinti, l’uscita di scena di Unser obbliga Mears al ruolo di caposquadra, sia come risultati che da un punto di vista tecnico. Questo comporta anche un salto in avanti in qualifica. Se come pilota giovane del team la regola principale era stata “non fare danni ed entrare in gara”, ora spetta a Rick elevare il suo livello di guida quando è richiesta la massima prestazione. Da un punto di vista tecnico e dello sviluppo,  grazie agli anni al fianco di Unser, al suo atteggiamento riflessivo e alla sua grande curiosità per la meccanica, Mears è invece pronto a prendere le redini del lavoro di sviluppo, sempre pesante in una squadra come la Penske che costruisce i propri telai. Negli anni le doti di sensibilità di Mears diventeranno un’arma essenziale per la squadra del Capitano. Annate difficili come il 1980 sono servite a Rick per approfondire la meccanica delle vetture, studiare il funzionamento delle minigonne e migliorare il proprio rapporto con gli ingegneri, ai quali affida analisi sempre più precise e accurate. Rick ingaggia una vera e propria sfida con i tecnici, applicando la sua sensibilità nell’individuare prima di loro i problemi che affliggono la vettura, accelerando così la messa a punto.

Parallelamente, prosegue l’affinamento della tecnica di guida, soprattutto sugli stradali. Noto per una pulizia assoluta nel condurre la vettura, con traiettorie sempre rotonde e uscite di curva mai oltre le righe, per Rick il primo strumento per leggere le reazioni della macchina non è il fondoschiena, ma il volante. Al variare della resistenza opposta da questo, Mears interpreta il comportamento della vettura, cosa che gli consente tempi di reazione rapidissimi, specie sugli ovali, dove si segnala come uno dei migliori nel condurre un’ auto “loose”, sovrasterzante. Nella lotta per il titolo 1982, Mears controlla senza troppi problemi l’arrembante rookie Rahal, conquistando quattro vittorie, più di tutti ma poche considerando le otto pole positions su 11 gare, che iniziano a valergli il soprannome di “Rocket Rick”.

Il terzo titolo in quattro anni è però offuscato dall’esito della 500 miglia di Indianapolis, evento che come l’anno precedente non assegna punti per il campionato, in quanto ancora oggetto di scontro tra USAC e CART. Dopo aver conquistato la pole, Mears si gioca la corsa negli ultimi giri con la Wildcat di Gordon Johncock. All’ultima sosta il team riempie totalmente il serbatoio della Penske, nonostante fosse necessario solo un rabbocco parziale, costando a Mears tempo prezioso sia ai box che in pista. La sua vettura è però molto più in forma della Wildcat di Johncock. A 10 giri dal termine, il distacco tra i due è di circa 10”, con Mears che recupera al ritmo di un secondo al giro. In una 500 miglia ricordata per il rombo dei motori coperto dal boato del pubblico, l’inseguimento di Mears è frenetico e arriva al culmine allo sventolare della bandiera bianca, quando Rick e  Johncock entrano fianco a fianco in curva 1. Il sorpasso sembra cosa fatta ma il veterano americano, uno dei più duri e coraggiosi piloti degli anni ’70-’80, tiene giù all’esterno e rintuzza l’attacco di Mears, che in vano ritenta l’assalto sul traguardo, transitando sotto la bandiera a scacchi con una lunghezza di ritardo rispetto alla Wildcat, vincitrice nel finale più infuocato visto a Indy fino a quel momento. In molti accusano Rick di arrendevolezza, ma il pilota americano non ammetterà mai il minimo rimpianto per l’esito della corsa. In realtà, forse anche a causa del suo “background” non pistaiolo, Rick nell’82 è in una fase della carriera in cui non è ancora disposto a rischiare tutto, anche per una corsa come Indianapolis. Nove anni dopo, come vedremo, andrà diversamente.

Il duello con Johncock a Indy. indianapolismotorspeedway.com
Il duello con Johncock a Indy. indianapolismotorspeedway.com
La bandiera a scacchi è in vista... indianapolismonthly.com, IMS
La bandiera a scacchi è in vista… indianapolismonthly.com, IMS
…e Johncock resiste nel finale più ravvicinato mai visto fino ad allora.
Davanti a Rahal e all'inseguimento di Cogan a Riverside. johnhartephoto.wordpress.com
Davanti a Rahal e all’inseguimento di Cogan a Riverside. johnhartephoto.wordpress.com

Il 1983 per Rick è una stagione da dimenticare. Sesto in classifica e vincitore solo di una corsa a Michigan, Mears accumula numerosi ritiri per problemi tecnici, risultando complessivamente meno efficace di Al Unser sr., ingaggiato da Penske al posto di Cogan, lasciato libero dalla squadra dopo una stagione deludente, con l’incidente causato alla partenza della Indy 500 come punto più basso. Pur vincendo a sua volta la sola corsa di Cleveland, Al sr. mette insieme  un’ottima sequenza di piazzamenti in top 5, che gli permettono di vincere il titolo tenendo a bada la rimonta dello strepitoso rookie Teo Fabi, che alla guida di una March del team Forsythe conquista la pole a Indy e soprattutto coglie 4 vittorie. Il costruttore inglese soffia alla Penske anche la vittoria a Indianapolis e la beffa è totale per il Capitano, perché  a vincere è quel Tom Sneva allontanato misteriosamente dalla squadra al termine del vittorioso 1978, che precede sul traguardo Unser e Mears.

Come detto, Unser basa il suo campionato sulla consistenza, con la Penske che dopo metà stagione è costretta ad abbandonare il fallimentare modello PC11, ripiegando su una versione aggiornata della PC10, denominata B e rispondente alle nuove limitazioni sull’altezza delle minigonne. Proprio alla guida della B, Mears  vive una delle giornate più amare della stagione alla Michigan 500 dove, dopo aver a lungo dominato, vede la propria vettura divenire sovrasterzante a causa della rottura di un ammortizzatore posteriore. Questo favorisce la rimonta di John Paul Jr., abile all’ultimo giro a sfruttare un doppiaggio per infilare Mears all’ultima curva. Nel tentativo di incrociare la traiettoria e tornare in testa, Rick investe però la turbolenza della March di Paul, che manda la Penske in testacoda e contro il muro, non prima di essere centrata da Chris Kneifel, il doppiato che costa a Rick la corsa. Il 1983 è comunque da ricordare per Mears come la stagione del passaggio agli storici colori Pennzoil, che lo accompagneranno fino al 1990. Dopo 5 anni di successi con la bellissima livrea bianco-blu della Gould, la Penske di Rick sposa la livrea gialla della casa petrolifera americana, che diventerà presto un simbolo per la CART.

A Laguna Seca sulla PC10B. wildhirt.com
A Laguna Seca sulla PC10B. wildhirt.com

L’inizio del 1984 è ancora peggiore di quanto accaduto la stagione precedente, con la nuova PC12 che si dimostra non competitiva sia a Long Beach che a Phoenix. Poche settimane prima di Indianapolis, Roger Penske decide quindi di abbandonare il proprio telaio in favore dello chassis March, che comincia a spopolare tra i team della CART. Come accadrà anche 15 anni dopo con la Reynard, la Penske stravolge completamente il telaio inglese, facendo valere la propria superiorità ingegneristica rispetto ai rivali. Il risultato è una prestazione dominante di Mears a Indianapolis, vinta con 2 giri di vantaggio sul secondo, Roberto Guerrero. In realtà la corsa è ben più combattuta di quanto il risultato possa far pensare, con Rick che lotta a lungo con il polesitter Sneva e il giovane Al Unser jr. Little Al si ritira però a metà gara, mentre Sneva abbandona a 30 giri dal termine,  consegnando a Mears la seconda vittoria in carriera al Brickyard.

Dopo Indy, Rick entra nella lotta per il titolo, infilando una lunga serie di piazzamenti che lo avvicinano al leader del campionato Mario Andretti, il cui cammino è un continuo alternarsi di vittorie e ritiri. A Milwaukee, Rick rompe il motore all’ultimo giro, consegnando la vittoria a Sneva, mentre a Pocono è beffato da Danny Sullivan per pochi decimi in una corsa basata sui consumi. La rincorsa di Mears si arresta però bruscamente sull’ovale di Sanair, dove il pilota americano è protagonista dell’incidente più brutto della sua carriera. In mezzo a un gruppo di macchine, Mears è ansioso di avere pista libera per provare alcuni giri in vista delle qualifiche. Sul traguardo tenta quindi una manovra azzardata, uscendo dalla scia delle due macchine che lo precedono senza però aver superato del tutto la March di Corrado Fabi. La ruota posteriore sinistra di Mears entra così in contatto con il muso della vettura di Fabi, che spedisce la March Pennzoil frontalmente contro i guard rails che delimitano la pista. L’impatto divelle il muso della March fino alla pedaliera,  che si imprime perfettamente nei piedi  di Mears, che presentano terribili traumi da compressione. Nel destro in particolare non rimane illeso un solo osso. Dopo essere stato estratto con difficoltà dall’abitacolo, Mears viene elitrasportato d’urgenza all’ospedale di Montreal, dove si parla apertamente di amputazione. Roger Penske, devastato dalle terribili ferite riportate dal suo pilota, rivive il dramma di Mark Donohue. Una volta dichiarato il pericolo di amputazione, il Capitano organizza il trasferimento di Mears al Methodist Hospital di Indianapolis, dove Rick potrà essere curato da una coppia di medici che negli anni salveranno la vita di numerosi piloti: Terry Trammell e Steve Olvey.  I due scongiurano subito il rischio relativo alla perdita degli arti, ma Mears va incontro a una lunga serie di operazioni per ridurre le fratture e ricostruire i piedi osso dopo osso, legamento dopo legamento.

Due fattori concorrono al sereno recupero di Rick: la presenza costante della fidanzata Chris e il supporto di Roger Penske. Qualche anno prima Mears deve affrontare il divorzio dalla moglie Dina, che non riesce più a sostenere la vita perennemente in viaggio del pilota, anche per dare stabilità alla crescita dei figli. Pochi mesi dopo Rick conosce Chris, che lavora saltuariamente al bar dell’hotel di Reading, cittadina delle Pennsylvania in cui si trova la sede del team Penske. I due si sposeranno nel 1985 e anche grazie ai suoi studi da infermiera Chris è una  presenza fondamentale durante tutta la riabilitazione. Penske non fa mai mancare nulla al suo pilota, invitandolo a rispettare i tempi previsti per il recupero, rincuorandolo sul fatto che, quando sarà pronto, la sua macchina sarà lì ad aspettarlo. Il Capitano riderà per anni poi del fatto che Rick, una volta risvegliatosi dopo l’incidente, riesce a riconoscere lui ma non Chris! Qualche camera più lontano, anche Derek Daly recupera dalle fratture riportate in un brutto incidente sull’ovale di Michigan. I due, una volta ristabilitisi, diventano presto l’incubo del reparto, ingaggiando furiose gare sulle sedie a rotelle. La degenza di Rick al Methodist Hospital dura tre mesi e mezzo. Bill Simpson nel frattempo prepara, insieme a Terry Trammel, delle scarpe speciali per aiutare Mears a riprendere a guidare, con i piedi che per molto tempo continueranno a sanguinare e causare terribili sofferenze al pilota americano.

La nuova PC12 si dimostrerà presto inefficace. pinterest
La nuova PC12 si dimostrerà presto inefficace. pinterest
Seconda vittoria allo Speedway. autosport.com
Seconda vittoria allo Speedway alla guida della March 84C modificata dalla Penske. autosport.com

Nel febbraio 1985, 5 mesi dopo l’incidente, Rick può a malapena camminare con le stampelle, ma si sente pronto per tornare a guidare. Il team organizza allora un test sul difficile ovale di Phoenix, dove l’apprensione di tutti è palpabile. Dopo un inizio cauto, Mears ritrova pian piano gli automatismi e a fine giornata viaggia sugli stessi tempi di Danny Sullivan, autore di un ottimo 1984 e ingaggiato da Penske per la stagione successiva.  Il rapporto tra i due nei 5 anni di convivenza alla Penske sarà eccellente, in un clima di grande collaborazione, come del resto è sempre stato con Al Unser, molto più uomo squadra del fratello Bobby. Proprio Al sr. sostituirà Rick per buona parte della stagione ’85. Mears infatti completa un programma di sole 5 gare, comprendente Indianapolis e gli altri ovali in calendario, non essendo i suoi piedi in grado di sopportare l’azione frenetica richiesta dagli stradali.

L’incidente di Sanair compromette in parte la mobilità del piede destro, ma i danni maggiori per l’abilità di Rick sugli stradali verranno dalla lunga inattività su questo tipo di piste. La seconda metà degli anni 80’ è un periodo di cambiamento per l’IndyCar, che segna il tramonto dei grandi campioni degli ovali come Foyt, Rutherford, Johncock, Sneva ecc., portando alla ribalta giovani affamati come Rahal, Michael Andretti e Al Unser Jr, che si affiancano agli intramontabili Mario Andretti ed Emerson Fittipaldi. Mears, il primo vincitore di Indianapolis nato dopo la seconda guerra mondiale, è preso nel mezzo di questa guerra generazionale e, considerando la sua formazione del tutto atipica per un pilota di formula, il suo è un processo formativo continuo, che con Sanair si arresta bruscamente. Rick rimarrà quindi un po’ in “ritardo” rispetto ai giovani protagonisti delle stagioni successive, pur riuscendo a mettere a segno alcune grandi prestazioni su stradali e cittadini. Sugli ovali invece sarà sempre il maestro indiscusso.

Pur correndo solo 5 gare in quel 1985, Mears riesce comunque a togliersi delle soddisfazioni, conquistando la vittoria alla Pocono 500 e altri due podi, un secondo posto a Michigan e un terzo a Milwaukee. Un po’ di rammarico ci sarà solo per Indianapolis in cui Rick, partito con il muletto dalla decima posizione, rimane in contatto coi primi fino a che un problema alla trasmissione lo costringe al ritiro dopo metà gara. Nonostante una corsa in meno dei suoi rivali, Al Unser riesce a ripetere l’exploit del 1983, vincendo una sola volta ma collezionando una lunga sequenza di piazzamenti che, unita all’inconsistenza degli avversari, gli permette di conquistare il titolo con un solo punto di vantaggio sul figlio Al Unser jr.

Nel 1985 Rick si sposta nel paddock su questa sedia a rotelle motorizzata per non affaticare i piedi infortunati a Sanair
Ritorno alla vittoria a Pocono, dopo essere partito dalla seconda fila. motorsportmagazine.com, pinterest
Ritorno alla vittoria a Pocono, dopo essere partito dalla seconda fila. motorsportmagazine.com, pinterest

Dopo due anni passati a sviluppare in proprio il telaio March, Roger Penske decide per il 1986 di riprovare con le proprie macchine, dando al nuovo progettista Alan Jenkins (sostituto di Geoff Ferris, concentrato sul gruppo trasmissione) carta bianca per riorganizzare il reparto tecnico della squadra. Nasce quindi la Penske PC15, pensata per alloggiare il nuovo motore Ilmor-Chevrolet, che dovrebbe contrastare lo strapotere del Cosworth DFX. Il progetto si dimostra però poco efficace fin da subito. Il motore ha inizialmente grossi problemi all’albero a gomiti, costringendo la squadra a ripiegare sul Cosworth fino a Indy, mentre la PC15 si rivela una monoposto mediocre, con uno sterzo poco sensibile che rende difficile capire il comportamento della vettura. Rick si alterna per tutta la stagione tra i due telai, guidando la Penske su alcuni stradali e la March sugli ovali, mentre Sullivan guida quasi sempre la vettura inglese. A loro si unisce Al Unser per le varie 500 miglia. A Indy, Mears piazza la March in pole e guida a lungo la corsa, subendo però il ritorno di Rahal e dello scatenato Cogan nelle ultime battute. Negli ultimi giri Rick cerca di tornare davanti ma la sua March, velocissima a pista libera ma molto instabile nel traffico, non gli consente di replicare. Mears chiude terzo e incollato a Cogan, superato a due giri dal termine da Rahal, che ottiene un trionfo storico per il team Truesports. Rick chiude ottavo una stagione modesta, la prima senza vittorie, con i podi di Road America e Miami come uniche note positive. Sullivan invece, seppur distante dal campione Rahal, porta a casa un terzo posto finale e due vittorie.

A Long Beach alla guida della PC15. pinterest
A Long Beach alla guida della PC15. pinterest
Ancora alla Indy500, dove chiude terzo. indycar.com
Ancora alla Indy500, dove chiude terzo alla guida di una March 86C. indycar.com
Due anni dopo l’incidente Rick torna a Sanair sulla March
Due anni dopo l’incidente Rick torna a Sanair sulla March

Il 1987 non si discosta particolarmente dalla stagione precedente. La Penske inizia l’annata con la nuova PC16, sempre progettata da Alan Jenkins, che sfortunatamente non risolve i problemi che affliggevano la PC15. La nuova vettura, spinta dal finalmente collaudato Ilmor-Chevrolet, verrà ancora alternata alla March 87C, con la quale Rick torna alla vittoria, dominando la Pocono 500. Per Mears una stagione discreta, chiusa al 5° posto grazie ad alcuni buoni piazzamenti raccolti nella seconda parte della stagione, come i terzi posti di Laguna Seca e Nazareth. Sullivan finisce nono in classifica, senza vittorie, ma è il buon vecchio Al Unser a portare a casa la vittoria dell’anno per la Penske, conquistando la Indy500 al volante di una March 86C-Cosworth. “Big Al”, subentrato all’infortunato Ongais e alla guida di una vettura vecchia di una anno, trionfa dopo aver visto tutti i piloti motorizzati Chevrolet, compresi Mears e Sullivan, uscire di scena per noie al motore. La beffa sarà atroce soprattutto per Mario Andretti, che domina tutto il mese ma viene messo KO a 20 giri dalla fine da una valvola che si rompe perché…Mario va troppo piano! I tecnici della Ilmor si accorgeranno infatti più tardi che Andretti, nel tentativo di preservare la meccanica, va ad una velocità che manda le valvole in risonanza, cosa che non sarebbe accaduta ad un ritmo superiore. Nonostante le stagioni deludenti e offerte più remunerative ricevute da altre squadre, Rick rimane fedele alla Penske, fiducioso che il suo momento possa nuovamente arrivare.

Pit stop a Portland, dove guida la Penske PC 16. motorsportretro.com
Pit stop a Portland, dove guida la Penske PC 16. motorsportretro.com

 

A Indy Rick inizia le prove con la nuova Penske PC16...

A Indy Rick inizia le prove con la nuova Penske PC16…
In prima fila a Indy con la March, al fianco delle Lola di Andretti e Rahal. wired.com
…per poi passare alla March 87C, che piazza al fianco delle Lola di Andretti e Rahal. wired.com

Nel 1988 arriva l’ennesima svolta al reparto tecnico della Penske, con l’ingaggio di Nigel Bennett, il progettista delle Lola di Andretti e Rahal, campione anche nel 1987. Fin dai primi test di Phoenix, Mears e Sullivan capiscono che la nuova PC17-Chevy sarà la vettura che riporterà il team al successo. Sullivan ha un inizio di stagione difficile, ma dopo Indianapolis vince quattro corse, chiudendo sempre in top 5, cosa che gli permette di conquistare il titolo con una gara di anticipo. Mears non riesce a tenere il passo del compagno sugli stradali, pur mettendo insieme diversi podi in piste difficili come Mid Ohio, Meadowlands e Miami. Ciò che lo estrometterà  dalla lotta per il titolo saranno i ritiri per problemi tecnici a Michigan e Pocono e un incidente a Phoenix, dove viene eliminato dal doppiato Randy Lewis. Tre probabili vittorie sfumate che relegano il pilota americano al quarto posto finale, dietro anche ad Unser jr. e Rahal.

Rick porta comunque a casa la vittoria dell’anno, trionfando a Indianapolis dopo essere partito dalla pole position, la quarta al Brickyard. Le Penske sono chiaramente le vetture da battere, ma la pioggia caduta il giorno prima della gara cambia totalmente le carte in tavola. Nelle prime battute Sullivan prende il comando mentre Rick cede numerose posizioni, lamentando un forte sovrasterzo. Nonostante le numerose correzioni su ali e pressione delle gomme effettuate durante le soste, la PC17 resta ingovernabile, con Rick che rimane attardato di quasi due giri. Con l’aumentare della gommatura depositata sull’asfalto però, Mears capisce che i problemi principali sono costituiti dalle ruote lenticolari usate dalla squadra per tutto il mese, utili nel rendere neutro il comportamento della vettura in tutta la fase di percorrenza. In queste mutate condizioni di aderenza, i copriruota risultano però molto più invasivi, convincendo Mears e la squadra a convertire tutti i treni da usare successivamente alla soluzione tradizionale col cerchio scoperto. L’operazione, condotta dai meccanici a ritmo frenetico, porta i suoi frutti perché la vettura diventa immediatamente più gestibile, con Rick che anche grazie alla strategia recupera in breve il tempo perduto. La vettura di Sullivan, perfetta a inizio gara, peggiora invece giro dopo giro, fino a far perdere il controllo al pilota americano, che impatta violentemente contro il muro della curva 1. Continuando a seguire l’evoluzione delle condizioni atmosferiche e della pista, la vettura di Mears migliora ancora, consentendo a Rick di rilevare il comando dalle mani del compagno Unser e andare a vincere Indy500 per la terza volta in carriera. Sette giorni più tardi, Rick concederà il bis sul miglio di Milwaukee, precedendo Sullivan in una doppietta Penske.

Penske in formazione, si notano i cerchi lenticolari sulle tre macchine. pinterest.com
Penske in formazione a Indianapolis, si notano i cerchi lenticolari sulle tre macchine. pinterest.com
Dopo una difficile rimonta Rick porta a casa il terzo successo allo Speedway. indycar.com
Dopo una difficile rimonta Rick porta a casa il terzo successo allo Speedway. indycar.com

Il 1989 vive sulla battaglia per il titolo tra Rick e Fittipaldi, a lungo incalzati da Teo Fabi e Michael Andretti. La Marlboro, che ha sostenuto l’avventura del brasiliano col team Patrick fin dall’inizio, trova l’accordo per portare il due volte campione del mondo al team Penske, di cui diventerà sponsor principale. Il passaggio avverrà solo nel ’90, ma per il 1989 Emerson potrà contare su una Penske PC18 uguale a quelle di Mears e Sullivan. Il campionato inizia bene per Rick, che a Phoenix rifila un giro a tutti, arriva quinto a Long Beach e stacca l’ennesima pole a Indianapolis. E’ però una 500 miglia amara, perché  Mears  rompe il motore dopo metà gara e assiste al trionfo di Fittipaldi, che dopo aver dominato la corsa sopravvive a un contatto con Al Unser jr. a due giri dalla fine.

Come sempre accade però, Milwaukee ribalta il risultato di Indy, con Mears che domina dopo essere partito dalla pole. Nelle corse successive Rick mette insieme numerosi piazzamenti, ma Fittipaldi sembra inarrestabile, ottenendo tre vittorie consecutive e due secondi posti. Il ruolino di marcia del brasiliano ha però una battuta d’arresto nelle 500 miglia di Pocono e Michigan. In Pennsylvania Rick chiude secondo dietro Sullivan, che vive una stagione difficile dopo essersi fratturato un braccio in un brutto incidente a Indianapolis. In Michigan invece Mears si deve arrendere a una sospensione, che lo abbandona a dieci giri dal termine nel bel mezzo di un esaltante duello con Michael Andretti, che vince così indisturbato.  Nelle corse successive di Mid Ohio e Road America, vinte da Fabi e Sullivan, Rick chiude sesto e terzo, mentre Fittipaldi raccoglie un quarto e un quinto posto, presentandosi a Nazareth con 18 punti di vantaggio.

I contendenti al titolo si giocano la corsa, ma quando Rick sembra avviato a vincere è costretto a rientrare ai box per rimuovere parte del tubo dell’aria compressa, rimasto incastrato durante l’ultima sosta, rovinata da un’incomprensione con i meccanici. Fittipaldi vince il titolo grazie al vantaggio di 22 punti e 5 vittorie con cui si presenta a Laguna Seca, dove Mears è comunque protagonista di un fine settimana strepitoso. In una corsa intensissima, Rick parte dalla pole, guida la corsa più a lungo di tutti e torna alla vittoria su uno stradale per la prima volta dopo l’incidente di Sanair. È la 26° vittoria in carriera, che fa di lui il pilota più vincente degli anni ’80, superando Bobby Rahal.

A Road America, una delle sue piste preferite. Jerry Winker, comicozzie.com

Il campione Fittipaldi approda nel 1990 in una Penske a  tre punte: il brasiliano, Rick Mears e Danny Sullivan. Piloti e macchina che hanno dominato le ultime due stagioni in teoria dovrebbero lasciare solo le briciole agli avversari, ma a fine anno il team del Capitano avrà collezionato “solo” 4 vittorie. Le Lola-Chevrolet di Al Unser jr. e Michael Andretti monopolizzano infatti la lotta per il titolo, vincendo complessivamente 11 delle 16 corse in calendario. Né loro né i piloti Penske però si aggiudicano la Indy 500, che va a sorpresa ad Arie Luyendyk , mentre Mears chiude solo quinto senza mai trovare il giusto bilanciamento per la sua PC 19. L’unica vittoria della stagione per Rick arriva nuovamente alla prima corsa di Phoenix, ma il suo 1990 è tutto sommato positivo. Un buon rendimento sugli stradali, unito ai secondi posti di Milwaukee e Nazareth, gli permette infatti di guidare il campionato al giro di boa e chiudere al terzo posto, dietro Unser e Andretti ma davanti a Rahal. Fittipaldi e Sullivan terminano invece quinto e sesto, pagando i numerosi ritiri accumulati nella seconda parte della stagione.

Il brasiliano si aggiudica la prova di Nazareth, uscendo vittorioso da un esaltante duello con Mears, che riesce a superare nel traffico e a controllare nel finale. Sullivan invece porta a casa due vittorie, a Cleveland e all’ultima corsa di Laguna Seca, dove domina prove a gara. Secondo un copione che si ripeterà anche nel seguito, Roger Penske non intende però schierare tre vetture stabilmente, col campione ’88 che sarà costretto a cercare un’altra sistemazione, andando a guidare la Lola-Alfa Romeo del team Patrick.

Secondo a Milwaukee. Rick Zimmermann, pinterest.com
Secondo a Milwaukee. Rick Zimmermann, pinterest.com

Il 1991 per Rick segna l’abbandono degli storici colori Pennzoil, che vengono sostituiti dalla classica livrea Marlboro.  La stagione parte per la prima volta a Surfers Paradise dove Rick, sfruttando vari contrattempi dei principali avversari, conduce agevolmente a tre giri dal termine, quando finisce in una via di fuga per evitare due doppiati che entrando in contatto rischiano di travolgere la sua vettura. Riesce comunque a riprendere arrivando terzo, mentre la vittoria va a John Andretti, al volante di una Lola sponsorizzata proprio Pennzoil. Dopo la pole e il sesto posto di Phoenix, si arriva a Indianapolis. Per tutto il mese Mears e Fittipaldi dettano il ritmo, incalzati dagli Andretti. Durante il fast friday però, una sospensione posteriore cede sulla Penske, spedendo Rick contro il muro per la prima volta in 15 anni di corse allo Speedway. L’impatto è molto violento e una volta trasportato al Methodist Hospital la diagnosi è di due piccole fratture al piede destro, il più martoriato dall’incidente di Sanair.

Nonostante tutto, tre ore dopo Mears è di nuovo in pista, pronto a salire sul muletto. Il dolore è intenso, specie in accelerazione, ma Rick riesce comunque a viaggiare forte, sparando negli ultimi minuti alcuni dei suoi migliori giri di tutto il mese e risollevando il morale della squadra, che si sente responsabile per l’incidente. Il giorno dopo Rick piazza il muletto in pole, la sesta a Indy, mentre Fittipaldi accusa problemi tecnici e deve rinunciare al tentativo. Una volta in gara, Rick prende subito il comando, ma la sua macchina è piuttosto sottosterzante, cosa che lascia campo libero agli Andretti. Sosta dopo sosta la situazione migliora, ma Mears verso metà gara rischia il doppiaggio da parte di un Michael Andretti scatenato, che però fora una gomma ed è costretto ad una sosta supplementare. Se la Penske migliora, non altrettanto si può dire del piede destro di Rick, che a ogni rilascio sembra trafitto da dei coltelli. L’unica soluzione è allentare la pressione, ritraendo la gamba in fase di rilascio e premendo col piede sinistro sul destro in accelerazione.

Guidando in questo modo, dopo 400 miglia Rick è ancora in contatto con i primi, Andretti e Fittipaldi. Il brasiliano però è messo fuori gioco da un problema alla trasmissione mentre Andretti, leggermente fuori sequenza con i rifornimenti, lascia il comando a Rick quando a 17 giri dal termine sfrutta una bandiera gialla per effettuare l’ultima sosta. La ripartenza arriva a 14 giri dalla conclusione, con Rick e Andretti preceduti da due doppiati, John Andretti e Al Unser jr.  Michael azzecca una ripartenza superba, sfruttando la scia di tre vetture per sfilare all’esterno Mears, che frenato dalla turbolenza vede la Lola allontanarsi nel rettilineo di ritorno. Sembra finita, ma Rick infila le curve 3 e 4 a una velocità incredibile, rientrando in scia ad Andretti sul rettilineo principale. All’approssimarsi di curva uno Michael copre l’interno, non scoraggiando però Mears, che tiene giù all’esterno e replica esattamente quanto fatto da Andretti la tornata precedente. La Penske prende ben presto vantaggio, rivelando una velocità mai vista fino a quel momento in gara.

Qualche giro dopo però, la vettura ferma di Mario Andretti rimette tutto in discussione. Alla ripartenza, Rick attuerà una tattica perfetta, lasciando sul posto Andretti: “Michael era sempre molto bravo in ripartenza nel lasciare un po’ di spazio e trovare il tempo giusto per passarti, quindi sapevo di dovermi inventare qualcosa per non dargli la scia sul traguardo. Non mi piaceva accelerare e frenare di continuo, è solo un modo per ammucchiare le macchine e creare incidenti. Adottai una tattica da short track: cominciai nel rettilineo di ritorno ad aumentare gradualmente la velocità, acceleravo e poi mantenevo quella velocità, guardando ogni volta lo specchietto. Vedevo che stava lasciando spazio e quindi si preparava a partire, per cui continuai con questa tattica, accelerando un po’ per poi rimanere a quella velocità. Dopo la terza o la quarta volta Michael partì e io non feci niente, aspettavo solo di vedere il muso della sua macchina negli specchietti. Quando arrivò sapevo che stava frenando e non poteva avere il piede sull’acceleratore per cui partii, prendendo abbastanza vantaggio da impedirgli di prendermi la scia. A quel punto si trattava solo di fare le prime curve in pieno e non commettere errori fino alla fine”.

A 40 anni, Mears diventa il più giovane pilota ad aver vinto 4 edizioni della 500 miglia di Indianapolis. La quarta affermazione in particolare è una perfetta sintesi del suo modo di correre: “…è stata una gara da manuale, perché come sempre abbiamo corso la prima metà solo in funzione della seconda parte, rimanendo dove devi essere alla fine per provare a vincere. Abbiamo lavorato sulla macchina tutto il tempo, senza mai mostrare tutta la nostra velocità fino al momento decisivo. Questo è più o meno il piano che usavamo in tutte le gare, ma il più delle volte succedeva qualcosa: l’avversario più veloce si ritirava, tu ti ritiravi o avevi altri problemi, una gomma, il motore o altro e lo scenario che avevi immaginato, con la battaglia finale per la vittoria, finiva per non realizzarsi mai. Invece quella volta è andata proprio secondo i piani. Michael era stato il più veloce tutto il giorno e andava forte anche alla fine, i suoi giri più veloci li ha fatti dietro di me, quindi nessuno ci ha regalato niente, ce la siamo meritata. Michael aveva un po’ di sottosterzo ma era comunque il più veloce, quindi probabilmente ha pensato che non valesse la pena modificare qualcosa nella macchina, rischiando di peggiorarla senza potersi più fermare e tornare indietro. Se prima della sua ultima sosta avessi mostrato quanto la mia macchina era veloce, probabilmente avrebbe fatto delle modifiche, avrebbe chiesto più ala davanti o uno stagger maggiore e sarebbe stato più difficile da battere” (…) “dopo aver perso la testa della corsa, sapevo che avrei avuto un’altra occasione per attaccare Michael, ma non mi aspettavo che accadesse proprio il giro successivo. Il tempismo fu perfetto, feci le curve 3 e 4 in piano e gli presi la scia. Non capivo che traiettoria avrebbe preso ma alla fine occupò l’interno, lasciandomi libero l’esterno come avevo fatto io il giro precedente. La velocità era molto alta. 30-40 giri prima probabilmente non avrei rischiato quella manovra, ma era il momento di provarci. Fortunatamente la macchina è rimasta lì con me e sono uscito dall’altra parte della curva davanti”.

La quarta vittoria a Indy, per il modo in cui è scaturita, è per Mears anche una sorta di redenzione per quanto accaduto nel 1982, il cui finale di gara rappresentò per molto tempo una delle principali argomentazioni dei suoi detrattori.

Pur non avendo la stessa costanza di risultati della stagione precedente, il 1991 per Rick è un grande anno. Dopo Indianapolis, porta infatti a casa anche la Marlboro 500 di Michigan, lottando a lungo con gli Andretti e controllando nel finale la rimonta di Luyendyk. Si toglie anche la soddisfazione di partire davanti a tutti sul cittadino di Meadowlands, dove chiude terzo. A Laguna Seca, il suo stradale preferito insieme a Road America, domina il Marlboro Challenge, competizione tra i piloti partiti in pole durante la stagione che mette sul piatto 250.000 dollari, già vinti dal pilota Penske l’anno precedente a Nazareth. Rick comanda tutta la corsa, ma rimane a secco proprio all’uscita dell’ultima curva. Riesce a tagliare il traguardo, non prima però di essere superato da Michael Andretti, che il giorno dopo conquista il suo unico titolo CART. Mears chiude il campionato al quarto posto, ancora davanti a Fittipaldi, che non vive una grande stagione.

Prima fila di leggende, Rick, Foyt e Mario Andretti. pinterest.com
Prima fila di leggende, Rick, Foyt e Mario Andretti. pinterest.com
Il sorpasso decisivo su Michael Andretti. pinterest.com
Il sorpasso decisivo su Michael Andretti. pinterest.com

La Penske apre il 1992 con una doppietta a Surfers Paradise, con Fittipaldi che sul bagnato infila Mears a pochi giri dal termine. La stagione prosegue senza acuti fino a Indianapolis, dove Rick è nuovamente vittima di un bruttissimo incidente in prova. Mentre percorre la curva 2, una grossa perdita dal radiatore inonda d’acqua le ruote posteriori, mandando in testacoda la Penske, che si schianta contro il muro capovolgendosi e strisciando sull’asfalto per diverse decine di metri prima di fermarsi. Mears se la cava con un polso malconcio e varie escoriazioni, qualificando qualche giorno dopo la sua PC21 in terza fila, poco davanti a Fittipaldi. La corsa dei due, mai realmente competitivi, finisce contemporaneamente attorno a metà gara, quando in una ripartenza Jim Crawford va in testacoda davanti a Rick che non può evitare lo scontro, mentre Fittipaldi colpisce il muro nella confusione generata dall’incidente.

Il brasiliano sarà regolarmente al via a Detroit, mentre Mears subisce la rottura del polso già infortunato in prova, che lo obbliga a saltare diverse gare. Aiutato da un tutore, torna in azione a Portland, dove chiude settimo, ritirandosi poi a Milwaukee dopo essere partito dalla prima fila. Il polso non migliora affatto, ma Rick ottiene comunque un ottimo quarto posto a Loudon, ritirandosi però a Michigan quando le sue condizioni gli impediscono di controllare una macchina che diventa sempre più sovrasterzante. Nessuno lo sa ancora, ma sarà questa l’ultima corsa della carriera di Rick Mears.  Nei mesi precedenti infatti, il pilota americano si rende conto di non trarre più lo stesso piacere dalla guida, che insieme allo spirito competitivo e al lavoro di squadra era sempre stato la sua maggiore motivazione. Inizia a pensare al ritiro, confidandosi a riguardo solo con Chris e il fratello Roger.

Dopo qualche settimana in cui il polso migliora a stento e Rick si accorge di non provare alcun disagio nel vedere Paul Tracy correre sulla sua macchina, la decisione può essere una sola. A Road America Mears informa Roger Penske del suo ritiro, rifiutando anche la possibilità di un programma limitato agli ovali o alla sola Indy500. Constata l’irremovibilità del suo pilota, Penske dice solo “va bene, ma se poi vieni a dirmi che vuoi tornare in macchina ti prendo a calci nel sedere!”. Mears annuncia la sua decisione alla squadra durante le festività natalizie, lasciando attoniti i membri del team.  L’unica motivazione che nei mesi successivi all’incidente aveva trattenuto Rick dalla decisione di ritirarsi era la possibilità di regalare alla sua squadra la storica quinta affermazione al Brickyard.

Incredibilmente uscirà quasi del tutto illeso da questo botto. pinterest.com
Incredibilmente uscirà quasi del tutto illeso da questo botto. pinterest.com
Ultima foto di rito a Indianapolis. indycar.com
Ultima foto di rito a Indianapolis, dove parte in terza fila. indycar.com

Dopo 15 stagioni, 4 vittorie e 6 pole positions a Indianapolis, tre campionati CART, 29 vittorie e 40 pole positions, si conclude la carriera di uno dei più grandi piloti americani di sempre. Rick non abbandona però l’ambiente e la squadra. Penske lo arruola come consulente e uomo immagine. Oltre a partecipare a tutti i briefing tecnici, nei primi tempi il suo lavoro è volto soprattutto a far crescere Paul Tracy, suo velocissimo e irruente erede. Nel 1995 diventa anche uno dei primi spotter della storia IndyCar, quando “guida” Al Unser jr. attraverso il traffico verso il secondo posto di Milwaukee. Negli anni successivi mette su, insieme al fratello Roger, una squadra IndyLights per i rispettivi figli, Clint e Casey, che proseguono la tradizione della Mears Gang. Mentre la carriera del primo, nonostante alcune vittorie, non avrà seguito, Casey riesce a debuttare nella CART nel 2000 e a costruirsi una solida reputazione in Nascar. Negli anni successivi Rick affronta un avversario ben più temibile dei tanti con cui ha diviso la pista. Dopo il divorzio dalla seconda moglie Chris, nel 2003 fa scalpore la notizia del suo inserimento in un programma di recupero dall’alcolismo. Rick affronta il programma di sua spontanea volontà e riesce a vincere la dipendenza, continuando a lavorare attivamente per l’IndyCar a sostegno dei rookies, oltre ad avere un ruolo non trascurabile nella crescita dei vari piloti che nel tempo si succedono alla Penske, da Helio Castroneves e Sam Hornish fino a Ryan Briscoe e Will Power. Il rapporto con il brasiliano, di cui Rick è da anni lo spotter, è sicuramente il più stretto e proprio Helio è a oggi il pilota più vicino ai record di Mears a Indianapolis.

A 65 anni, Rick Mears rimane una delle leggende delle corse USA, per quanto ma soprattutto per come ha vinto. Non c’è stato forse nella storia un pilota più determinato ma al contempo corretto e unanimemente rispettato dai colleghi. Allo stesso modo, Mears rappresenta uno dei rari casi di sportivi universalmente amati dal pubblico, per il suo rendimento in pista ma anche per un atteggiamento sempre positivo, mai polemico, di totale condivisione di meriti e colpe con la squadra, oltre a un’apertura verso i tifosi che, dalle corse coi buggy ad Ascot Park alle 4 Indy500, non è mai cambiata. Un esempio di sportività e umiltà come pochi ce ne sono stati nella storia del motorsport.

Rick ascolta con Tracy e Fittipaldi l’analisi di Senna a Firebird ‘93. motorsport.com
Rick ascolta con Tracy e Fittipaldi l’analisi di Senna a Firebird ‘93. motorsport.com
Insieme a Sam Hornish, che molti considerano il suo erede sugli ovali. Michael Conroy/AP, toledoblade.com
Insieme a Sam Hornish, che molti considerano il suo erede sugli ovali. Michael Conroy/AP, toledoblade.com
Per i piloti Penske Rick rimane un punto di riferimento. motorsportmagazine.com, pinterest.com
Per i piloti Penske Rick rimane un punto di riferimento. motorsportmagazine.com, pinterest.com

Due pareri particolari su Rick:

“Quando ero un ragazzino c’erano due eroi cui mi ispiravo. Uno correva in macchina e l’altro giocava a football, erano Rick Mears e Joe Montana. Penso che avessero qualità molto simili. Erano entrambi dei grandi irriducibili combattenti, ma sapevano esserlo con classe e rispetto per l’avversario. Non li conosco bene ma ho avuto occasione di passare un po’ di tempo con Rick e ha rispettato in pieno tutto ciò che avevo sentito su di lui. Ho incontrato Joe una volta brevemente, ed è stato lo stesso. Ma siccome sono anch’io un pilota, è Rick il mio riferimento principale. Lo seguivo alla tv, specialmente a Indianapolis, aveva quel nome “cool”, Rick Mears, una macchina veloce ed era sempre tra i migliori…e molto spesso era IL migliore. Era un gran corridore, con i suoi grandi sorpassi all’esterno e così via. Rappresentava tutto ciò che volevo essere come pilota e come persona. Ebbi il grande piacere di andare a Indianapolis durante un giorno di prove e riuscii a parlargli attraverso le reti mentre camminava. Avevo una maglietta che volevo mi autografasse, cosa che fece e quello mi legò definitivamente a lui. Purtroppo non ho avuto il piacere di correrci insieme, sarebbe stata una grande battaglia. Quando mi dicono che guido come Rick Mears, per me non c’è complimento più grande”.

Jeff Gordon

“Rick era un talento incredibile, tutti dicevano quanto fosse bravo sugli ovali e penso che la cosa gli desse un po’ fastidio, perché era in grado di brillare anche sugli stradali quando ne aveva l’occasione. Bisognava fare i conti con lui ovunque. Penso che molti non ne abbiano capito la personalità, perché era sempre molto gentile, molto calmo ma non credo che, una volta in macchina, ci fosse qualcuno mosso da una competitività e da una voglia di vincere più grandi delle sue ”.

Mario Andretti

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1976 USAC Simpson/Sugai 38/90 East Side Café 3 16 370 0 0 0 3 0
1977 USAC Sugai/Theodore 90/38 Theodore 8 20 555 0 0 1 4 0
1978 USAC Penske 7/71 Gould 11 9 2171 3 6 7 9 0
1979 CART Penske 9 Gould 14 1 4060 3 9 13 14 2
1980 CART Penske 1 Gould 12 4 2866 1 5 8 10 0
1981 CART Penske 6 Gould 10 1 304 6 8 9 10 2
1981 USAC Penske 6 Gould 1 0 0 0 0 0
1982 CART Penske 1 Gould 11 1 294 4 6 8 9 8
1982 USAC Penske 1 Gould 1 0 1 1 1 1
1983 CART Penske 1 Pennzoil 13 6 92 1 4 5 8 1
1984 CART Penske 6 Pennzoil 11 5 110 1 4 7 9 2
1985 CART Penske 5 Pennzoil 5 10 51 1 3 3 3 2
1986 CART Penske 1 Pennzoil 17 8 89 0 4 5 8 4
1987 CART Penske 8 Pennzoil 15 5 102 1 4 6 9 0
1988 CART Penske 5 Pennzoil 15 4 129 2 5 7 10 4
1989 CART Penske 4 Pennzoil 15 2 186 3 6 11 14 5
1990 CART Penske 2 Pennzoil 16 3 168 1 5 10 14 3
1991 CART Penske 3 Marlboro 17 4 144 2 4 7 12 6
1992 CART Penske 4 Marlboro 8 13 47 0 1 2 5 0
 Carriera         203   11738 29 75 110 152 40
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1978 Milwaukee Brands Hatch Atlanta 2 1 0 2 3
1979 Indy500 Trenton2 Atlanta 3 0 0 3 3
1980 Mexico City 1 0 0 1
1981 Riverside Atlanta1 Atlanta 2 Michigan Watkins Glen Mexico City 3 0 3 6
1982 Phoenix1 Atlanta Riverside Pocono 1 0 3 4
1983 Michigan 0 0 1 1
1984 Indy500 0 0 1 1
1985 Pocono 0 0 1 1
1986 0 0 0 0
1987 Pocono 0 0 1 1
1988 Indy500 Milwaukee 0 0 2 2
1989 Phoenix Milwaukee Laguna Seca 1 0 2 3
1990 Phoenix 0 0 1 1
1991 Indy500 Michigan 0 0 2 2
1992 0 0 0 0
Totale 7 0 22 29
Quote 24,1% 0,0% 75,9% 1

Rick Mears

 

Tony Kanaan

Nome: Antoine Rizkallah Kanaan Filho

Data e luogo di nascita: 31 dicembre 1974, Salvador de Bahia (Brasile)

Nazionalità: Brasiliana

Ruolo: Pilota

Anche Tony Kanaan fa parte di quella ricchissima generazione di piloti brasiliani di metà anni ’70. Tony comincia come tutti da bambino, sui kart, mettendosi subito in luce. Quando è ancora un ragazzino, deve affrontare la perdita del padre, malato di cancro, cosa che lo costringerà a crescere molto più in fretta dei suoi amici/rivali. Per Tony l’automobilismo diventa quindi non solo una passione, ma anche un mezzo per aiutare la sua famiglia. Finita l’esperienza coi kart a inizio anni ’90 passa alle monoposto, correndo in F.Ford e poi in F. Chevrolet nel prestigioso team Arisco. Seppur con pochi soldi in tasca, Tony sa che per far decollare la sua carriera deve correre in Europa e ottenere risultati. Nel 1994 si trasferisce quindi in Italia, dove è accolto dalla Cram Competition, che lo fa correre nel campionato F.Europa Boxer. Kanaan domina subito, passando le sue giornate con la squadra e dormendo spesso e volentieri in officina. Forte del titolo appena conquistato, nel 1995 passa alla F.3 Italiana col team ufficiale Tatuus, collezionando nove podi, una vittoria e il quinto posto finale. Insieme ad altri piloti sudamericani, partecipa sul finire del ‘95 a una selezione sull’ovale di Phoenix per un posto in IndyLights, nel team di Steve Horne. Tony non fatica a mettersi in mostra come uno dei migliori, ottenendo la “borsa di studio” della Marlboro, che gli da anche un minimo di sicurezza economica. Al suo fianco viene scelto un altro brasiliano emergente, l’amico d’infanzia Helio Castroneves. Kanaan si adatta subito alla serie americana, vincendo due corse e chiudendo il campionato al secondo posto alle spalle dell’espertissimo David Empringham. A metà stagione partecipa anche alla tappa brasiliana dell’ITC, al volante di una Opel. Confermati dal team Tasman per il 1997, Kanaan e Castroneves si giocano il titolo IndyLights con un altro importante rappresentante della pattuglia brasiliana, Cristiano Da Matta. Nonostante Castroneves ottenga più pole e vittorie, Kanaan mette in mostra durante il campionato maggiore maturità e concretezza, che lo portano a precedere Helio di soli 4 punti.

Formula Alfa Boxer, 1999. tonykanaan.com.br
Formula Alfa Boxer, 1994. tonykanaan.com.br

Tony passa quindi nel campionato CART nel 1998, continuando il sodalizio con Steve Horne, che diventa una delle figure più importanti della sua carriera. Il team schiera una sola vettura, una condizione sempre difficile per un rookie, ma il team Tasman è una squadra capace, con a disposizione il pacchetto tecnico più efficace, la Reynard-Honda-Firestone. Nonostante un incidente alla prima corsa, Tony dimostra subito il suo potenziale su stradali e cittadini, conquistando un ottimo quinto posto a Long Beach. La prima parte di stagione però presenta un gran numero di ovali, piste in cui il team Tasman non eccelle. Tony riesce comunque ad affacciarsi nelle prime posizioni a Rio, prima di rompere il motore, ed è ancora competitivo a St. Louis, dove però colpisce nuovamente il muro mentre lotta con JJ Letho. Nella seconda parte dell’anno le cose migliorano e Kanaan mette a segno diversi piazzamenti, tra cui i quarti posti di Portland e Road America, chiudendo poi alla grande con due podi consecutivi: a Laguna Seca, dove batte Dario Franchitti sul traguardo e a Houston, in condizioni difficilissime a causa della pioggia. Questi risultati permettono al brasiliano di conquistare il titolo di rookie of the year e soprattutto di piazzarsi al nono posto in classifica, davanti ai vari Rahal, Unser, De Ferran e Tracy.

Cleveland. champcar.com, P
Cleveland. champcar.com, Peter Burke

Nel 1999 Kanaan è uno dei giovani più attesi, ancora alla guida della Reynard-Honda schierata da Steve Horne, ora in collaborazione con Jerry Forsythe, che finanzia l’operazione insieme allo sponsor McDonald’s. Il bilancio finale sarà però meno ricco di quanto fosse lecito aspettarsi alla vigilia del campionato. La squadra continua infatti a faticare sugli ovali corti, mentre su stradali e cittadini saranno molti gli episodi sfortunati. Tony conquista la sua prima pole position a Long Beach, conducendo la corsa fino a metà gara quando, messo sotto pressione da Montoya, è tradito dall’asfalto sgretolato e conclude la sua cavalcata contro il muro. La corsa più importante dell’anno è però la US500 a Michigan. Tony rimane subito attardato di un giro per un problema al Gurney dell’alettone posteriore, oltre a non poter comunicare con i box per un guasto alla radio. Recuperato il distacco grazie alla strategia, il brasiliano si dimostra l’unico in grado di tenere il passo del dominatore Max Papis. All’ultimo giro il pilota italiano vede il suo motore ammutolirsi con il serbatoio vuoto, a causa di un errore di calcolo dovuto a un guasto della telemetria, con Kanaan che prende la testa all’ultima curva e precede Montoya sul traguardo di pochi millesimi. Sarà però l’unica vera soddisfazione di una stagione poco esaltante, che procede tra piazzamenti, guasti e qualche incidente, come a Cleveland sotto l’acqua e a Toronto nelle battute conclusive. Questi risultati altalenanti non fanno andare Tony oltre l’11° posto finale.

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Prima vittoria in volata a Michigan. champcar.com, Peter Burke

Nel 2000 Steve Horne cessa ogni operazione e Kanaan è ingaggiato da Morris Nunn, che si separa dal team Ganassi per schierare in proprio una Reynard-Mercedes. Sarà un’annata negativa per il brasiliano, spesso il più competitivo tra i piloti di una Mercedes ormai prossima al ritiro, che mette sul campo un motore inaffidabile e lontano in termini di guidabilità dai concorrenti. In mezzo a tanti ritiri per guasti tecnici, Tony è anche costretto a saltare quattro corse a metà stagione, quando si frattura un braccio in un incidente in prova a Detroit, venendo sostituito a Portland, Cleveland e Toronto da Bryan Herta. Alla fine incredibilmente i risultati migliori saranno tre ottavi posti raccolti a Nazareth, Road America e Surfers Paradise, che gli valgono il 19° posto in classifica.

Davanti a Junqueira a Rockingham.
Davanti a Junqueira a Rockingham.

Nel 2001 Morris Nunn decide insieme alla Honda, nuovo fornitore di motori, di espandere la propria operazione, schierando una seconda vettura per Alex Zanardi. È una stagione che nasce sotto migliori auspici per Tony, al vertice di una squadra certamente più collaudata rispetto al 2000. Kanaan si segnala spesso tra i più veloci, soprattutto negli ovali, dove riesce a condurre in testa numerose corse e conquistare la pole position a Chicago. Per vari motivi, tra cui i consumi maggiori del motore Honda rispetto alla rivale Ford, il brasiliano non riesce però a concretizzare il proprio potenziale velocistico, raccogliendo alla fine un terzo posto a Motegi come miglior risultato. Rispetto alla stagione precedente, grazie anche alla maggiore affidabilità del motore Honda, le prestazioni sugli stradali conoscono un discreto miglioramento. Kanaan conquista infatti 11 arrivi in top ten, tra cui un quarto posto a Vancouver, che gli valgono il nono posto in classifica generale.

Michigan. autoracing1.com
Michigan. autoracing1.com

Il 2002 non porta particolari novità dal punto dei risultati. Il team Nunn si divide in un doppio impegno, schierando una vettura per Kanaan in CART e una per Giaffone in IRL. Tony inizia la stagione alla guida della Reynard, ma come altre squadre di vertice il team Nunn è costretto ad acquistare una Lola per essere competitivo. Proprio con la Reynard però Tony va vicinissimo alla vittoria a Motegi, prima che il solito inconveniente tecnico lo blocchi. Con la Lola le prestazioni migliorano, soprattutto in qualifica, ma anche a causa di qualche errore del pilota alla fine il miglior risultato ottenuto dal team Nunn saranno i terzi posti di Vancouver e Montreal, con Kanaan che chiude il campionato con 99 punti, suo record in CART, buoni però solo per un 12° posto. Il 2002 è anche la stagione dell’esordio del brasiliano a Indianapolis. Il team Nunn infatti schiera due G-Force per la corsa dell’Indiana e Kanaan si dimostra subito a suo agio, qualificandosi bene e prendendo la testa della corsa nelle fasi iniziali. Una macchia d’olio lasciata pochi secondi prima dalla vettura fumante di Raul Boesel tradisce però Tony, spedendolo contro il muro della curva 3.

Fontana. motorsport.com, Jack Durbin
Fontana. motorsport.com, Jack Durbin

Nonostante la carenza di risultati, imputabile soprattutto a un team non sempre all’altezza, Kanaan è uno dei piloti più considerati, dalle squadre e dalla Honda. A metà 2002 il brasiliano accetta quindi l’offerta del team Andretti-Green, che nel 2003 schiera tre Dallara-Honda nel campionato IRL. Tony si presenta al “nuovo” pubblico con due pole consecutive a Homestead e Phoenix. Se in Florida chiude solo quarto dietro Dixon e le Penske, in Arizona il brasiliano domina, portandosi in testa alla classifica. Un brutto incidente con Dixon a Motegi gli procura però una frattura al polso, costringendolo a saltare la prima settimana di prove in vista di Indianapolis. Viene inizialmente sostituito da Mario Andretti, che però è vittima di un incidente potenzialmente disastroso. In una giornata incredibilmente ventosa, Kanaan qualifica la sua vettura in prima fila al fianco di Castroneves, chiudendo la gara al terzo posto senza mai essere pericoloso per le Penske. Nonostante il motore Honda sia inferiore al Toyota di Dixon e Castroneves, Kanaan guida a lungo la classifica mettendo a segno 4 podi, che lo mantengono ampiamente in corsa per il titolo fino all’ultima gara in Texas, dove si presenta con soli 7 punti di ritardo dai due. Un contatto con il connazionale nella fase decisiva della corsa lo costringe però a una sosta supplementare, lasciando campo libero a Dixon. Determinante per il quarto posto finale si rivela Nazareth dove Kanaan, ancora leader della classifica, è costretto al ritiro da una tamponata di Scheckter.

Con Castroneves a Chicago. indycar.com
Con Castroneves a Chicago. indycar.com

Il 2004 è un’annata magica per Tony, il cui peggior risultato è incredibilmente il settimo posto nella prova inaugurale di  Homestead. Dopo un 2003 giocato in difesa, la netta superiorità del nuovo motore Honda restringe subito la lotta per il titolo a Wheldon, Rice e Kanaan. Sono tre le loro vittorie a testa, le stesse di Adrian Fernandez, ma una straordinaria continuità permette a Tony di conquistare il campionato a Fontana, con una corsa d’anticipo. Il brasiliano vince a Phoenix, controllando la rimonta di Dixon; a Nashville resistendo all’assalto di Hornish all’ultimo giro e in Texas, dove batte in volata Franchitti. I numeri della stagione sono impressionanti: Tony completa tutti i giri disponibili, mettendo a segno 15 arrivi in top 5 su 16 corse. L’unica delusione viene da Indianapolis, dove Tony a 30 giri dalla fine cede la testa della corsa a un Buddy Rice comunque più veloce, che va a vincere nel momento in cui la bandiera rossa pone fine alla competizione a causa della pioggia. L’americano avrà la meglio su Kanaan anche nella 400 miglia di Michigan, che si conclude in volata dopo un lungo duello tra i due.

indycar.com; Ron McQueneey
indycar.com; Ron McQueneey
Premiato da Tony George. indycar.com; Ron McQuenney
Premiato da Tony George. indycar.com; Ron McQuenney

Nel 2005 prosegue il dominio della Honda, ma questa volta la stagione perfetta è quella di Dan Wheldon, che conquista il nuovo record di sei vittorie in un anno, precedendo in classifica Kanaan, che si ferma a due successi. Pur rischiando di vincere praticamente ogni corsa, Tony deve sottostare alla legge del pilota inglese che alterna una maggiore velocità a un superiore senso tattico, con anche un pizzico in più di fortuna. Tony non vede il traguardo in tre corse: a Richmond dove si scontra con Meira, a Nashville dove è spedito a muro dal cedimento di una sospensione e in Kentucky, dove è tradito da un portamozzo nelle fasi iniziali. Le due vittorie arrivano in Kansas, con una storica volata a tre su Wheldon e Meira, e a Sonoma, dove Tony esce vittorioso da un lungo confronto con Tomas Enge. La corsa più bella dell’anno è però St Petersburg, dove nelle battute finali Kanaan si fa largo a ruotate fino alla prima posizione, ma proprio il contatto con il rookie Briscoe gli costa la testa della corsa, raccolta abilmente dal solito Wheldon, che guida al traguardo un poker Andretti-Green. Indianapolis è invece nuovamente amara. Tony, partito in pole, si alterna a lungo al comando con Hornish e Franchitti, ma una sosta finale un po’ lenta lo lascia ai margini della top ten nel momento topico, relegandolo all’ottavo posto. A fine stagione Kanaan prova finalmente la BAR-Honda a Jerez, premio della casa giapponese per il titolo 2004.

indycar.com; Shawn Payne
Sonoma. indycar.com; Shawn Payne
gpupdate.net; Sutton
Jerez. gpupdate.net; Sutton

La stagione 2006 segna una imprevedibile inversione di tendenza per il team Andretti-Green, che esce dalla lotta per titolo e conquista due sole gare, Milwaukee con Kanaan e Sonoma con Marco Andretti, sostituto di Wheldon, passato al team Ganassi. Per certi versi è la stagione della maturità per Tony, che seppur non esente da errori trae il massimo da ogni gara, guidando un team allo sbando, con Franchitti e Herta raramente competitivi. Milwaukee concede una delle poche occasioni e Kanaan non se la fa sfuggire, contenendo la rimonta di Hornish, in una stagione in cui anche i podi sono rari, considerando il dominio Penske-Ganassi e la grandissima forma di Meira, che con la vettura del team Panther chiude quinto il campionato davanti al campione 2004. A Indianapolis, nonostante delle prove piuttosto travagliate, Kanaan riesce a essere competitivo, guidando la corsa negli ultimi venti giri, quando l’incidente di Giaffone rovina la sua strategia, costringendolo a una sosta in bandiera gialla che gli fa perdere la posizione acquisita in pista. Nell’ultima caotica ripartenza deve poi cedere a Wheldon, chiudendo quinto.

indycar.com; Chris Jones
A fine maggio Kanaan e Barrichello si scambiano il casco per Indy e Montecarlo, che si tengono lo stesso giorno. indycar.com; Chris Jones

 

Il 2007 vede il ritorno in auge del team Andretti-Green, che conquista il titolo grazie non a Kanaan ma all’amico Dario Franchitti. Per Tony una stagione di alti e bassi, con errori madornali alternati a roboanti vittorie. Sono infatti 5 le affermazioni del brasiliano, record personale, non accompagnate però dalla costanza di rendimento che caratterizza la marcia di Franchitti e Dixon. La prima vittoria arriva a Motegi, quando il brasiliano risolve a suo favore un lungo confronto con Wheldon; a Milwaukee porta a casa il successo subentrando in testa a Castroneves, quando questi è messo fuori gioco dal cedimento dell’alettone posteriore. Le altre affermazioni arrivano a Michigan, in volata su Andretti, in Kentucky davanti a Dixon e a Detroit. Kanaan perde il treno per il titolo in estate, quando colpisce il muro in Iowa e a Nashville, perdendo punti preziosi anche in Kansas per un contatto ai box con la Patrick. Vittorie a parte la stagione entra negli annali per alcuni episodi clamorosi. A Watkins Glen Tony rifila una ruotata a Hornish dopo la bandiera scacchi, in risposta a un sorpasso poco ortodosso dell’americano, episodi che portano a una rissa tra le due squadre, innescata da uno spintone del padre di Hornish a Kanaan. A Sonoma è sempre il brasiliano a difendere Franchitti dagli assalti dello stesso Hornish, con lo scozzese in difficoltà dopo aver danneggiato l’ala anteriore in un contatto folle col compagno Marco Andretti. Il momento più basso della stagione si registra a Indianapolis, dove Kanaan domina ed è ancora in testa quando la corsa viene sospesa per pioggia poco dopo il 100° giro. Una volta ripresa la competizione, il brasiliano è poi coinvolto in un incidente multiplo durante una ripartenza, poco prima che la pioggia regali la vittoria al compagno Franchitti. Nel finale di stagione Tony accetta l’invito degli organizzatori della F.Nippon di partecipare all’ultima corsa della stagione a Suzuka. Il brasiliano si qualifica nelle retrovie, chiudendo buon sesto al traguardo.

indycar.com; Shawn Payne
Detroit. indycar.com; Shawn Payne
commons.wikimedia.org; a.koto
A Suzuka per l’ultima corsa della F.Nippon. commons.wikimedia.org; a.koto

Nel 2008 la partenza verso la Nascar di Franchitti, sostituito da Hideki Mutoh, lascia a Kanaan il ruolo di guida in una squadra che nelle stagioni successive combinerà poco, anche a causa della riunificazione con la ChampCar che propone nuovi agguerriti concorrenti, soprattutto sugli stradali. Nella prima corsa di Homestead Tony, uscito vincitore da un lungo duello con Scott Dixon, non può evitare l’auto del rookie Viso, di traverso in mezzo alla curva 3. Nonostante una sospensione KO, Kanaan cerca di arrivare al traguardo rifiutando di fermarsi, ma la bandiera verde sventolata a due giri dal termine lo costringe alla resa. A Indianapolis il brasiliano è il più serio avversario di Dixon, ma un ingresso troppo tardivo di Andretti in curva 3 lo fa finire in testacoda, per poi essere centrato da Sarah Fisher. La stagione prosegue tra piazzamenti, tra cui i podi di Watkins Glen, Sonoma e Chicago, intervallati da qualche errore (Iowa). Tony è comunque il più costante tra gli inseguitori di Dixon e Castroneves, riuscendo a chiudere il campionato al terzo posto davanti a Wheldon e Briscoe. L’unica vittoria della stagione arriva a Richmond, dove il brasiliano ottiene la pole e domina per tutta la corsa controllando Andretti e Castroneves. In autunno Kanaan è vicinissimo al passaggio al team Ganassi, ma viene preso nel mezzo di una complessa trattativa che coinvolge Wheldon e Franchitti, finendo per firmare un rinnovo quinquennale col team AGR.

Richmond. indycar.com; Shawn Payne
Richmond. indycar.com; Shawn Payne

Il 2009 è probabilmente la peggior stagione della carriera di Kanaan. Un anno colmo di guasti tecnici, incidenti e gare anonime, anche a causa di una squadra sempre più allo sbando, che non ottiene neanche una vittoria.  Le prime gare in realtà sono positive, con due podi a Long Beach e Kansas, ma da Indianapolis le cose cambiano. Mentre è all’inseguimento di Franchitti e Dixon infatti, la sospensione posteriore sinistra cede all’ingresso della curva 3, spedendo Kanaan due volte contro il muro ad alta velocità. Ha così inizio una striscia di 8 corse piene di guasti e prestazioni sotto tono, in cui il miglior risultato è il sesto posto di Richmond. A Edmonton Tony si prende anche un brutto spavento, quando la sua auto va a fuoco dopo una sosta, con i fumi della benzina che lo lasciano in stato confusionale fino all’intervento degli uomini AGR e Penske. Il terzo posto in Kentucky risolleva momentaneamente la situazione, ma per Kanaan la stagione prosegue ai margini della top ten fino al quarto posto nell’ultima corsa a Homestead. Il brasiliano chiude al sesto posto la stagione, pochi punti dietro Danica Patrick.

Long Beach. indycar.com; Chris Jones
Long Beach. indycar.com; Chris Jones

Nel 2010 Kanaan si piazza nuovamente al sesto posto, frutto di numerosi piazzamenti e tre podi, tra cui la vittoria sull’ovale corto dell’Iowa, stregato nelle tre stagioni precedenti. Gli altri podi arrivano in Kansas e a Homestead, con il secondo non particolarmente gradito. Tony è infatti preceduto sul traguardo da Danica Patrick, con la quale ingaggia una furiosa polemica interna al team Andretti dopo una aggressiva chiusura dell’americana in Texas, che va a rovinare un rapporto forse mai realmente sincero. Tony instaura invece un buona amicizia con Ryan Hunter-Reay, che da sostituto par time di Mutoh è il protagonista di inizio stagione, vincendo a Long Beach e guadagnandosi la riconferma per il 2011. Ancora una volta Indianapolis si rivela amara per il brasiliano. Dopo un mese di prove tremendo, con diversi incidenti e la qualificazione guadagnata solo nel bump day, Kanaan mette a segno una rimonta esaltante dal fondo, che a metà gara lo candida a unico vero sfidante, insieme ad Andretti, del dominatore Dario Franchitti. Un errore strategico in un finale giocato sui consumi lo relega però al nono posto, con la gara neutralizzata per l’incidente di Mike Conway. Poco dopo Homestead, lo storico sponsor 7-Eleven annuncia la propria dipartita dalla serie e Michael Andretti lascia libero Kanaan da ogni vincolo contrattuale.

Chicago. indycar.com; Jim Haines
Chicago. indycar.com; Jim Haines

Nell’inverno Tony prova la vettura di Gil De Ferran e Jay Penske, sicuro di aver trovato un volante per il 2011. Poche settimane prima di St Petersburg però, la squadra chiude i battenti, lasciando Kanaan a piedi. Il brasiliano si propone così al team KV, in cui dovrebbe accasarsi Paul Tracy, sponsorizzato dalla Geico. La compagnia assicurativa decide però di investire sul brasiliano, che “soffia” così il posto al veterano canadese. Una stagione preparata in modo frettoloso si rivela invece estremamente positiva, con Kanaan che conquista subito un terzo posto alla prima corsa di St Pete, controllando nel finale gli attacchi di Simona De Silvestro. Il risultato di entrambi è in realtà favorito dall’ecatombe che accompagna ognuna delle nuove ripartenze su due file, ma nelle corse successive Tony raccoglie comunque numerosi piazzamenti in top ten, compreso un quarto posto a Indianapolis. Nel catino dell’Indiana parte in mezzo al gruppo, guadagnando in breve numerose posizioni, ma perdendo un giro per un problema alla prima sosta. Recuperato il distacco, il brasiliano poi rimonta furiosamente, riuscendo anche a portarsi in testa. In un finale giocato sui consumi, Tony potrebbe anche vincere, ma la squadra sbaglia il rabbocco conclusivo e Kanaan deve fare largo, come anche Dixon, a Dan Wheldon, che va a vincere passando sul traguardo JR Hildebrand, a muro in curva 4. Negli appuntamenti successivi il brasiliano va a muro a Milwaukee mentre lotta per la vittoria con Franchitti, chiudendo secondo in Iowa dopo un esaltante duello con Andretti. A Baltimora è protagonista di un brutto incidente nel warm up, quando travolge Castroneves a causa di un guasto all’impianto frenante. Partito ultimo riesce incredibilmente a chiudere sul podio, grazie a una strategia sfalsata rispetto al gruppo. Parte poi in pole nell’ultima corsa a Las Vegas, sospesa dopo 11 giri per il tragico incidente che costa la vita all’amico Dan Wheldon. Kanaan chiude il campionato al quinto posto, preceduto da Oriol Servia al termine di un confronto tra i due che dura tutta la stagione.

Baltimora. indycar.com; Shawn Gritzmacher
Baltimora. indycar.com; Shawn Gritzmacher

Nel 2012 Tony prosegue il rapporto col team KV e nelle prime due corse solo la sfortuna gli impedisce di ottenere dei piazzamenti in top 5 con la nuova DW12, che riesce comunque a portare al quarto posto a Long Beach. A Indianapolis è nuovamente protagonista, ma nel finale la sua auto non è abbastanza veloce per combattere con Sato e i piloti Ganassi, chiudendo la corsa al terzo posto dopo l’incidente del giapponese. Come nella stagione precedente il team KV da il meglio sugli ovali:  Kanaan è secondo a Milwaukee, terzo in Iowa e solo un incolpevole contatto con Power lo esclude dalla lotta per la vittoria in Texas. La squadra perde però colpi nella seconda metà di stagione e Tony, dopo un buon quarto posto a Toronto, spinge un po’ troppo, andando a sbattere nelle corse finali di Baltimora e Fontana. In California in particolare va a muro negli ultimi giri, dopo essere stato nelle prime posizioni per tutta la corsa. Chiude il campionato al nono posto, qualche decina di punti davanti all’amico e compagno Rubens Barrichello.

Texas. indycar.com; LAT Photo USA
Texas. indycar.com; LAT Photo USA

Il 2013 di Kanaan è una sorta di fotocopia della stagione precedente, a parte un particolare, importantissimo: finalmente Tony corona un inseguimento durato 11 anni e vince la 500 miglia di Indianapolis, spezzando la maledizione che sembrava affliggerlo. Dopo delle prove poco convincenti, il suo ingegnere Eric Cowdin trova  il bandolo della matassa nel carburetion day e in gara Kanaan, partito in quarta fila, è già in testa dopo una decina di giri e ci resta a lungo, alternandosi soprattutto con Andretti e Hunter Reay. Dopo una lunghissima fase di bandiera verde, la corsa viene interrotta dall’ingresso della safety car negli ultimi giri. Alla ripartenza il brasiliano supera Hunter Reay e l’incidente di Franchitti in curva 1 pone fine alle ostilità, con Munoz e lo stesso Hunter Reay a scortarlo sotto la bandiera a scacchi. “Finalmente metterò la mia brutta faccia su quel trofeo”, sono le sue parole prima di bere il latte. Il campionato per Tony comincia con delle buone prestazioni rovinate da episodi sfortunati: dopo il quarto posto di St Pete, a Long Beach viene eliminato da un’entrata tardiva di Servia, che gli procura un infortunio alla mano. Nonostante tutto a San Paolo vive una delle migliori giornate dell’anno, mandando in delirio il pubblico mentre lotta per la testa della corsa, fino a quando un errore strategico rovina tutto lasciandolo a secco. Dopo i terzi posti in Iowa e Texas però, come l’anno precedente il team KV perde competitività, con Kanaan che colleziona incidenti e piazzamenti poco entusiasmanti. A Pocono è però il brasiliano a gettare al vento delle ottime possibilità di vittoria, danneggiando l’ala anteriore nel tentativo di superare Dixon. Il quinto posto in gara 1 a Toronto è il miglior risultato fino all’ultimo appuntamento di Fontana, dove Kanaan conquista un buon terzo posto alle spalle di Power e Carpenter, chiudendo il campionato fuori dalla top ten, poco davanti alla compagna di squadra Simona De Silvestro. Come rilevato successivamente da Jimmy Vasser, nonostante le dichiarazioni di facciata la collaborazione tecnica tra i due nel 2013 è tutt’altro che proficua, e non per colpa della pilota svizzera.

Con Jimmy Vasser in victory lane a Indy. indycar.com, Michael Roth
Con Jimmy Vasser in victory lane a Indy. indycar.com, Michael Roth

Nonostante le promesse dopo la vittoria a Indianapolis, a fine stagione Tony lascia il team KV, accasandosi a sorpresa al team Ganassi, più volte indicato negli anni come sua probabile destinazione. Inizialmente il brasiliano si accorda per guidare la quarta vettura del team, ma quando diventa chiaro che i postumi dell’incidente di Houston non permettono a Franchitti di tornare alle competizioni, dopo aver vagliato vari scenari Ganassi decide di piazzare Tony sulla vettura Target #10, affidando a Ryan Briscoe la #8 inizialmente destinata al brasiliano. In molti mettono in dubbio la scelta di affidarsi a un pilota quasi 40enne con probabilmente alle spalle il periodo migliore della carriera, ma nel 2014 Kanaan fa un ottimo lavoro, mettendo in seria difficoltà un campione celebrato come Dixon. Un non indolore passaggio al motore Chevrolet e la mancanza della guida tecnica di Franchitti però si fanno sentire, condizionando l’inizio di stagione di tutto il team. Le prime gare sono tutt’altro che positive: dopo un discreto sesto posto a St.Pete, le prove successive di Long Beach, Barber e Indy GP, regalano poche soddisfazioni, sotto forma di incidenti e gare condizionate da qualifiche negative. Anche la Indy500 si rivela avara di soddisfazioni, concludendosi con un ritiro per problemi tecnici mentre Tony si trova nel gruppo di testa.

CONTINUA…

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1998 CART Tasman 21 LCI 19 9 92 0 2 5 10 0
1999 CART Tasman 44 McDonald’s 20 11 85 1 1 2 10 1
2000 CART Nunn 55 Hollywood 16 19 24 0 0 0 6 0
2001 CART Nunn 55 Hollywood 19 9 93 0 1 4 12 1
2002 CART Nunn 55 Pioneer 19 12 99 0 2 5 11 2
2002 IRL Nunn 17 Hollywood 1 50 2 0 0 0 0 0
2003 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 16 4 476 1 6 9 12 3
2004 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 16 1 618 3 11 15 16 2
2005 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 17 2 548 2 9 12 14 1
2006 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 14 6 384 1 3 7 9 0
2007 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 17 3 576 5 7 12 13 2
2008 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 18 3 513 1 7 11 15 2
2009 IRL/IndyCar Andretti-Green 11 7-Eleven 17 6 386 0 3 5 10 0
2010 IRL/IndyCar Andretti 11 7-Eleven 17 6 453 1 3 7 13 0
2011 IndyCar KV Racing 11 Geico 17 5 366 0 3 7 9 0
2012 IndyCar KV Racing 11 Geico 15 9 351 0 3 5 8 0
2013 IndyCar KV Racing 11 Hydroxycut 19 11 397 1 4 6 7 0
2014 IndyCar Ganassi 10 Target 18 7 544 1 6 6 12 0
2015 IndyCar Ganassi 10 NTT Data 16 8 431 0 3 6 10 0
2016 IndyCar Ganassi 10 NTT Data 16 7 461 0 2 5 12 0
2017 IndyCar Ganassi 10 NTT Data 17 10 403 0 1 3 7 0
Carriera         344   7302 17 77 132 216 14
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1998 0 0 0 0
1999 Michigan 0 0 1 1
2000 0 0 0 0
2001 0 0 0 0
2002 0 0 0 0
2003 Phoenix 0 0 1 1
2004 Phoenix Texas Nashville 0 0 3 3
2005 Kansas Sonoma 1 1 2
2006 Milwaukee 0 0 1 1
2007 Motegi Texas Michigan Kentucky Detroit 0 1 4 5
2008 Richmond 0 0 1 1
2009 0 0 0 0
2010 Iowa 0 0 1 1
2011 0 0 0 0
2012 0 0 0 0
2013 Indy500 0 0 1 1
2014 Fontana 0 0 1 1
2015 0 0 0 0
2016 0 0 0 0
2017 0 0 0 0
2018 0 0 0 0
Totale 1 1 15 17
Quote 5,9% 5,9% 88,2% 100,0%

Tony Kanaan

 

Helio Castroneves

Nome: Helio Castro-Neves

Data e luogo di nascita: 10 maggio 1975, Riberao Preto (Brasile)

Nazionalità: Brasiliana

Ruolo: Pilota

Castroneves è uno dei rappresentanti principali di una generazione di brasiliani che forse non ha prodotto campioni assoluti, ma certamente tanti ottimi professionisti come Kanaan, Da Matta, Zonta, Junqueira, Giaffone ecc, che fin da piccoli si sono sfidati sui kart e hanno portato avanti carriere parallele.

Castroneves esordisce sui kart giovanissimo, affermandosi presto nei vari campionati brasiliani e partecipando a inizio anni ’90 a due campionati del mondo, senza però ottenere risultati di rilievo. Nel 1992 debutta in monoposto in F.Chevrolet con il team di famiglia, chiudendo il campionato al secondo posto con una vittoria, passando l’anno successivo al campionato di F.3 SudAm. Inizia la stagione ancora con il team del padre, alla guida di una vettura vecchia di due anni con la quale riesce anche a ottenere una vittoria. A metà stagione passa al team Nasr, col quale vince tre gare, giocandosi il titolo con l’argentino Fernando Croceri. Per conquistare il titolo, Helio deve vincere l’ultima corsa e sperare che il rivale non arrivi secondo. Il brasiliano fa il suo dovere, ma gli argentini alle sue spalle regalano il secondo posto a Croceri, che porta a casa il titolo. Nel 1994 Helio corre nella F.3 Brasiliana, chiudendo il campionato ancora al secondo posto con due punti in meno di Cristiano Da Matta e 3 vittorie all’attivo. Nel 1995 Castroneves continua poi la sua scalata alla F1, approdando in Inghilterra per disputare il campionato di F.3 con il team di Paul Stewart. Tra interessanti sprazzi velocistici e qualche incidente, conquista sei podi, vincendo la prova di Donington e chiudendo il campionato al terzo posto.

Helio in F.3 inglese nel team Stewart. alamy.com; Ian Simpson, 1995

All’inizio del 1996 Helio partecipa, quasi contro voglia, ad una selezione sponsorizzata dalla Marlboro per lanciare alcuni piloti brasiliani in IndyLights, col team Tasman di Steve Horne. Nonostante alcune costole rotte in una movimentata sessione di kart gli impediscano di esprimersi al meglio, Helio ottiene il posto al fianco di Tony Kanaan, col quale convive per diversi mesi in Ohio. Tony si adatta subito alla guida sugli ovali, navigando spesso nei piani alti della classifica, mentre Helio fatica a ingranare, riuscendo comunque a dare una svolta alla stagione con una vittoria sul cittadino canadese di Trois Rivières.

Nel 1997 entrambi sono confermati dal team Tasman, anche se il posto di Helio rimane in bilico fino all’arrivo di Emerson Fittipaldi, che diventa il suo manager. A metà stagione Castroneves con tre vittorie è saldamente in testa al campionato, ma una serie di incidenti nella fase decisiva rimettono tutto in discussione. Kanaan nelle ultime corse si dimostra più efficace, soffiando il titolo al compagno per soli 4 punti.

In Indy Lights col team Tasman. andyborme.com

Nel 1998 i due brasiliani riescono a debuttare nel campionato CART: Kanaan sempre con il team Tasman mentre Castroneves trova posto al team Bettenhausen, alla guida di una Reynard-Mercedes-Goodyear. Entrambi vivono un esordio difficile, colpendo il muro più volte nel primo week end di Homestead, cosa che influenzerà Castroneves per il resto della stagione. Ciononostante Helio riesce a cogliere un eccellente secondo posto a Milwaukee, dove taglia il traguardo a motore spento precedendo di pochi millesimi Al Unser Jr. Una grossa delusione viene dalla corsa di Long Beach, dove Castroneves è favorito da una strategia sfalsata ed è in piena lotta per la vittoria, quando esce di pista nel tentativo di passare Blundell. La battaglia per il titolo di rookie of the year rimane aperta per ¾ della stagione, ma alla fine è Kanaan a prevalere, grazie a due podi consecutivi a Laguna Seca e Houston.

rookie_turns_up_the_heat
Vittoria sfiorata a Long Beach. champcar.com

Nel 1999 Castroneves passa alla guida della Lola-Mercedes-Firestone del team Hogan. La vettura inglese, snobbata da tutti, si dimostra molto competitiva e il brasiliano sarà costantemente tra i più veloci nella prima parte della stagione. La sfortuna gli mette però spesso i bastoni tra le ruote: a Nazareth lotta a lungo con Montoya ma poi finisce a muro; a Milwaukee parte in pole ma si ferma dopo poche decine di giri; a St. Louis dopo un errore iniziale infila una rimonta entusiasmante, chiudendo però secondo dietro un Michael Andretti insuperabile; a Portland parte in prima fila e supera Montoya all’esterno alla prima curva, ritirandosi ancora una volta dopo il primo pit stop per problemi tecnici. La seconda parte della stagione regala meno soddisfazioni velocistiche, anche se Helio riesce a mettere a segno diversi piazzamenti in top ten. A Fontana si ritrova però senza un volante a causa della chiusura del team Hogan, in difficoltà anche per i finanziamenti promessi da Fittipaldi e mai arrivati. Per questo motivo, nonostante un rinnovo di contratto appena firmato, Castroneves licenzia il due volte campione del mondo. Lo stesso giorno, l’incidente mortale di Greg Moore libera un posto al team Penske, che è costretto dal contratto Marlboro a trovare un sostituto entro una settimana dal termine della stagione. Penske sceglie proprio Castroneves, sostituendo il suo nome a quello di Greg nei contratti.

Pole position a Milwaukee. richzimmermann.com; Rich Zimmerman
Pole position a Milwaukee. richzimmermann.com; Rich Zimmerman

Nel 2000 Helio è uno dei piloti più attesi, ma la sua stagione fatica a decollare. A parte un secondo posto a Long Beach, sono solo ritiri per guasti e incidenti fino a Detroit, dove il brasiliano eredita la testa della corsa da Montoya e va a vincere, inaugurando la tradizione della scalata delle reti e guadagnandosi il soprannome di Spiderman. Coglie altre due vittorie a Mid Ohio e Laguna Seca, segnando più punti di tutti su stradali e cittadini, ma un po’ di incostanza e l’inaffidabilità della sua vettura sugli ovali lo eliminano dalla lotta per il titolo, che va al suo compagno di squadra Gil De Ferran. Il 2000 segna anche la carriera del brasiliano da un punto di vista anagrafico. Spesso indicato dai giornalisti solamente come Neves, Helio decide di apportare una piccola modifica al cognome di famiglia, passando da Castro-Neves, separato, al più immediato Castroneves.

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Prima vittoria a Detroit. champcar.com; Peter Burke, Geoff Miller, 2000

Nel 2001 la lotta per il titolo vede coinvolti i piloti Penske, Kenny Brack e Michael Andretti. Castroneves vince in modo dominante a Long Beach, Detroit e Mid Ohio, ma come Andretti e Brack perde continuità nelle ultime corse dopo la trasferta europea della serie. Gil De Ferran invece mette a segno due vittorie e alcuni podi che gli permettono di conquistare il titolo a Surfers Paradise, con una prova d’anticipo. La soddisfazione principale per Helio verrà dal ritorno a Indianapolis della Penske. Nel 2001 i team CART tornano infatti in massa nella corsa dell’Indiana. Helio si qualifica in mezzo al gruppo ma prende la testa a metà gara durante un turno di soste collettive, controllando gli attacchi di De Ferran e andando a conquistare la sua prima Indy 500, che è paradossalmente anche la sua prima vittoria su un ovale. La doppietta è una rivincita per la Penske, uscita di scena da Indy nel ’95 con l’onta della mancata qualificazione, oltre a sancire il trionfo della CART, che piazza sette suoi piloti ai primi sette posti.

Beautiful Reynard
Long Beach, pole e vittoria.
Per la prima volta appeso sulle reti di Indianapolis. motorsport.com; Ron McQueeney, 2001
Per la prima volta appeso sulle reti di Indianapolis. motorsport.com; Ron McQueeney, 2001

Nel 2002 la Marlboro spinge Penske al passaggio in IRL, nella consapevolezza che anche i costruttori sono in procinto di abbandonare la CART. Il team del Capitano sulla carta non dovrebbe avere rivali, ma il campionato vive sul continuo alternarsi al vertice tra il duo De Ferran-Castroneves e il giovane campione in carica Sam Hornish. De Ferran si presenta alla penultima corsa di Chicago in testa al campionato, ma un brutto incidente lo mette fuori dai giochi. Hornish arriva quindi all’ultima corsa in Texas con 12 punti e 2 vittorie in più di Castroneves, obbligato a vincere e condurre il maggior numero di giri, con l’americano che deve arrivare terzo o peggio. Helio conquista i due punti addizionali, con gli ultimi 30 giri che vedono una sfida da antologia tra i due rivali, fianco a fianco fino al traguardo, dove Hornish precede il brasiliano per 9 millesimi. In realtà Castroneves perde il titolo a Richmond, dove commette l’unico errore stagionale, andando a muro nelle prime battute. Sconfitto in campionato, come l’anno precedente Helio si “consola” con la Indy500, vinta in modo molto meno cristallino rispetto al 2001. Il brasiliano non è infatti mai competitivo durante la corsa, ritrovandosi in testa nel finale grazie a una strategia sfalsata che gli impone di saltare l’ultimo rifornimento. Risparmiando metanolo all’inverosimile, negli ultimi giri Helio deve rispondere agli attacchi di Giaffone e Tracy, con il canadese aiutato in modo poco pulito dal compagno Franchitti. Al penultimo giro Tracy supera Castroneves all’esterno in curva 3, ma contemporaneamente esce la bandiera gialla per un incidente tra Redon e Buddy Lazier. Anche se non è chiaro chi sia davanti nel momento in cui le luci gialle si accendono, il ricorso del team Green viene respinto e Castroneves è dichiarato definitivamente vincitore qualche mese più tardi. Al termine della stagione Helio ha la possibilità di provare per la prima volta una F.1. Si tratta della Toyota, che lo invita a un test a Le Castellet. Il brasiliano si comporta molto bene, sorprendendo i manager del team giapponese che, purtroppo per lui, hanno a loro volta una “sorpresa”: proprio quella mattina Cristiano Da Matta firma il contratto per l’anno successivo, ponendo fine alle speranze di Helio di un futuro nella massima formula.

Indy numero 2. snaplap.net
Indy numero 2. snaplap.net
Il duello finale con Hornish. indycar.com
Il duello finale con Hornish. indycar.com

Nel 2003 si compie l’invasione dell’IRL da parte dei top team della CART e dei costruttori, che sconvolgono il panorama della serie. Il motore Toyota da una marcia in più ai team Penske e Ganassi, che non riescono però a scrollarsi di dosso Tony Kanaan e Sam Hornish. Castroneves si aggiudica due corse, St Louis e Nazareth, mancando per un soffio il terzo successo di fila in una Indy 500 dominata ma persa a causa di AJ Foyt IV, che in un maldestro doppiaggio obbliga Helio a cedere la testa della corsa e la vittoria a De Ferran. Castroneves si presenta all’ultimo appuntamento in Texas in testa alla classifica, con gli stessi punti di Dixon, poco davanti a Kanaan e con De Ferran e Hornish più staccati. Il campionato va al neozelandese, che chiude secondo dietro De Ferran una corsa conclusa con la bandiera rossa per l’incidente di Kenny Brack. Le speranze di Kanaan e Castroneves finiscono poco prima, quando un contatto li obbliga a effettuare una sosta supplementare per verificare i danni.

Davanti a tutti a St. Louis. indycar.com
Davanti a tutti a St. Louis. indycar.com

Il 2004 inverte l’equilibrio tecnico, con la riduzione da 3.5 litri a 3 litri imposta dalla IRL in seguito agli incidenti di Brack e Tony Renna. Il posto del ritirato De Ferran viene preso da Sam Hornish, che si presenta alla Penske battendo Castroneves in volata nella prima corsa di Homestead. Sarà l’unica soddisfazione fino all’ultima corsa dell’anno per il team del Capitano, che come tutte le squadre Toyota e Chevrolet nulla può contro lo strapotere Honda, che porta alla vittoria i team Andretti-Green, Rahal-Letterman e Fernandez. Castroneves termina quarto una stagione consistente in cui raccoglie 5 pole, i podi di Motegi, Richmond, Nashville e la vittoria nell’ultima corsa in Texas, dove viene multato di 50.000$ per aver anticipato l’ultima decisiva ripartenza. A Indianapolis resta tra i primi per buona parte della gara, ma è relegato in nona posizione da un errore di posizionamento nell’ultima decisiva sosta ai box.

Texas. Shawn Payne, indycar.com
Texas. Shawn Payne, indycar.com

Il 2005 segna l’introduzione in calendario dei primi stradali, ma non cambia l’equilibrio tecnico, con i team Honda a farla da padrone. Hornish si dimostra l’unico reale avversario per il team Andretti-Green, vincendo due corse e chiudendo il campionato al terzo posto. Castroneves termina sesto una stagione negativa in cui coglie solo una vittoria, a Richmond, e incredibilmente non conclude nessuna delle corse sugli stradali, pur partendo sempre in prima fila. A St Petersburg è eliminato da un contatto col solito AJ Foyt, a Sonoma è vittima di un’entrata kamikaze del rookie Briscoe mentre a Watkins Glen si aggancia nel finale con Tomas Enge. Come l’anno precedente, è solo nono a Indianapolis dopo essere scampato a un incidente potenzialmente disastroso con Larry Foyt.

Chicago. indycar.com; Ron MnQueeney
Chicago. indycar.com; Ron MnQueeney

Nel 2006 la condizione di monomotore Honda in cui cade la serie riporta equilibrio tra le squadre di vertice, con i team Penske e Ganassi a dominare il campo. Dan Wheldon mena le danze quasi in tutte le gare, ma paga numerosi errori strategici, vincendo solo due volte contro i 4 successi a testa di Hornish e Castroneves. I tre si presentano all’ultimo appuntamento di Chicago al vertice della classifica, con il brasiliano davanti di un punto rispetto al compagno e la coppia Wheldon-Dixon più staccata. Castroneves rimedia una penalità a inizio gara e proprio quando, grazie a una bandiera gialla, riesce a ricongiungersi con gli altri contendenti al titolo, viene riassorbito dal gruppo di doppiati e chiude solo quarto, mentre a Hornish basta il terzo posto per vincere il titolo con gli stessi punti di Wheldon e due più del brasiliano. La gara segna anche un forte litigio tra Helio e l’amico di sempre Kanaan, reo a suo dire di aver ostacolato in tutti i modi la sua rimonta. I due si parleranno a stento per molti mesi a seguire. Aldilà dell’esito dell’ultima corsa, Helio perde il titolo a Milwaukee, dove si ritira per un contatto con Carpenter, e a Richmond, dove buca una gomma nel finale. Come detto a fine stagione le sue vittorie sono quattro: St. Pete, al termine di un lunga battaglia con Dixon e Kanaan; Motegi, dopo aver controllato Wheldon per tutta la corsa; Texas, dove emerge in testa dall’ultimo turno di soste; Michigan, dopo un lungo confronto con Vitor Meira. Un brutto incidente con Buddy Rice pone invece fine alla sua Indy500, vinta da Hornish in modo spettacolare.

motorsport.com; 2005
Vittoria a St Pete davanti a Dixon e Kanaan. motorsport.com; 2006

Il 2007 vede il ritorno in auge del team Andretti-Green e l’esplosione di Dario Franchitti, che batte Scott Dixon all’ultima gara e lo precede anche a Indianapolis. Per la Penske una stagione storta in cui team e piloti gettano al vento numerose occasioni, oltre alla possibilità di lottare per il titolo. Castroneves vince a St Petersburg e ottiene ben sette pole positions, molte delle quali sugli stradali, dove ancora una volta è coinvolto in incidenti, come a Watkins Glen, dove va a muro pressato da Dixon o a Detroit, dove si scontra con Scheckter. Chiude il campionato sesto, cogliendo un terzo posto a Indianapolis che gli va stretto. Con una ripartenza superba nel finale riesce infatti a installarsi dietro Franchitti e Dixon, davanti in virtù di una strategie diversa e “salvati” dalla pioggia, che pone fine alla gara. Nell’inverno Helio partecipa al programma tv “Ballando con le stelle”, che vince nonostante le infinite prese in giro degli amici brasiliani, Gil De Ferran in primis.

St. Petersburg. indycar.com, Dana Garrett
St. Petersburg. indycar.com, Dana Garrett

Il 2008 vede l’abbandono di Hornish, dopo quattro stagioni non sempre serene, e l’arrivo di Briscoe come nuovo compagno di squadra. Per Helio è la stagione dei secondi posti: ne colleziona ben 7, fino al liberatorio successo di Sonoma. Per la Penske una doppietta storica, perché la squadra perde in un incendio le sue vetture principali e ne costruisce in extremis in pista altre due durante il primo giorno di prove. Scott Dixon domina la stagione, ma Castroneves riesce a portare la lotta fino alle ultime corse. A Detroit però una penalità per blocking su Justin Wilson gli nega la vittoria, mentre all’ultima corsa di Chicago parte dal fondo ma riesce a vincere in volata su Dixon, che si aggiudica comunque il titolo. A Indianapolis chiude quarto, non riuscendo a tenere il passo di Dixon, Meira e Andretti nel finale. Poco dopo Chicago, Castroneves viene rimandato a giudizio per evasione fiscale relativamente a una complessa vicenda di capitali trasferiti all’estero durante i suoi primi anni al team Penske. Il polverone si solleva in seguito a un’altra causa intentatagli qualche anno prima da Emerson Fittipaldi, che non accetta le modalità con cui il contratto di management con Castroneves si è concluso nel ’99. Helio vince la causa con Emerson, ma rischia ora una detenzione di diversi anni in caso di condanna.

Chicago. indycar.com, Jim Haines
Chicago. indycar.com, Jim Haines

Per il 2009 la Penske, in attesa di conoscere le sorti del suo pilota, sceglie in sostituzione Will Power, che corre sulla vettura numero 3 a St Petersburg. Il venerdì del week end di Long Beach, Castroneves viene assolto, precipitandosi in California dove sbatte nelle prove, ma riesce a concludere la gara al  settimo posto. È poi secondo in Kansas e si presenta carico a Indianapolis, dove conquista la pole e riesce a portare a casa la terza 500 miglia della carriera, in un’atmosfera di grande commozione collettiva. Nonostante la gara in meno, Helio potrebbe rientrare nel discorso campionato, grazie a un’altra vittoria in Texas, ma una lunga sequenza di corse inconcludenti, tra guasti e incidenti, lo relegano al quarto posto in un campionato che nessuno vuole vincere e che alla fine Franchitti riesce a soffiare a Briscoe e Dixon.

Indy n3. indycar.com, Dana Garrett
Indy n3. indycar.com, Dana Garrett

Nel 2010 Castroneves si segnala tra i piloti più veloci, vince tre corse, in Alabama e sugli ovali di Kentucky e Motegi, rimanendo in lotta per il titolo fino alle gare canadesi di metà estate. A Toronto infatti un’incidente con Meira lo elimina dalla corsa, mentre a Edmonton viene penalizzato per blocking su Power a 5 giri dal termine. Helio mette allora in scena una protesta veemente contro una decisione sacrosanta che fa rispettare una regola indubbiamente stupida. Questi risultati, uniti a un incidente con Moraes in Texas, gli fanno perdere il treno per il titolo, vinto da Franchitti su Power. Il pilota scozzese si aggiudica anche Indianapolis, dove Castroneves parte in pole per la quarta volta, chiudendo però la corsa al nono posto dopo un fallito tentativo di evitare l’ultimo pit stop, in una replica della strategia adottata nel 2002.

Barber. indycar.con, Dan Helrigel
Barber. indycar.con, Dan Helrigel

Il 2011 è probabilmente la peggior stagione della carriera di Castroneves. Nel tentativo di rivaleggiare con Power sul campo della velocità pura, Helio infatti forza troppo, provocando incidenti quasi in ogni gara nella prima parte dell’anno, senza peraltro riuscire nell’intento. Termina il campionato all’11° posto senza vittorie, cosa mai accaduta nella sua carriera al team Penske. I migliori risultati alla fine saranno i secondi posti di Edmonton e Sonoma, mentre è sfortunato a Milwaukee e Iowa, dove delle forature gli negano possibili vittorie. Indianapolis è il manifesto della  stagione, con una qualifica negativa e una gara conclusa nell’anonimato al 17° posto, tra molti problemi.

Edmonton. indycar.com, Daniel Incadela
Edmonton. indycar.com, Daniel Incadela

Il 2012 vede il ritorno di un Castroneves più riflessivo, che cancella le brutte figure della stagione precedente, trionfando all’esordio sulla nuova DW12 a St Pete, grazie a un gran sorpasso all’esterno su Scott Dixon. Helio imposta il suo campionato sulla consistenza, mettendo insieme numerosi piazzamenti, che dopo la seconda vittoria di Edmonton lo lanciano nella lotta per il titolo con Power, Hunter-Reay e Dixon. Un errore al primo giro a Sonoma e prestazioni sotto tono a Mid Ohio e Baltimora rovinano però tutto, relegando Castroneves al quarto posto finale. Indianapolis va in modo simile all’anno precedente. Qualifiche discrete ma le Penske non sono mai realmente in lotta per la vittoria, con Helio che chiude solo 10°.

St.Pete. nbclosangeles.com; Getty Images
St.Pete. nbclosangeles.com; Getty Images

Il 2013 sembra finalmente l’anno buono per la conquista del tanto sospirato titolo IndyCar. Helio sceglie ancora una volta la strada delle continuità, vincendo una sola volta, in Texas, e mettendo a segno 14 arrivi in top ten nei primi 16 appuntamenti, tra cui i secondi posti di St Pete, Milwaukee e Toronto, che gli permettono di tenere la testa dalla classifica dalla seconda corsa di Barber fino alla penultima di Houston. Risultato dovuto anche all’inconsistenza dei suoi avversari, che per vari motivi sono incapaci di trovare una continuità di risultati decente. Risolti i problemi al motore Honda però, Scott Dixon e il team Ganassi vincono 4 delle ultime 9 corse e nonostante incidenti e penalità varie ne ostruiscano il percorso, superano Castroneves in classifica proprio prima dell’ultima gara. Nel week end di Houston infatti, Helio si ferma in entrambe le corse per problemi al cambio, presentandosi a Fontana con un distacco di 25 punti dal neozelandese. Nonostante una corsa generosa del brasiliano, Dixon non commette errori e vince il titolo, mentre Helio nel finale è costretto a delle soste supplementari per problemi di surriscaldamento. A Indianapolis la Penske torna finalmente competitiva e Castroneves si trova nelle zone alte della classifica nella fase decisiva. Una neutralizzazione a tre giri dal termine, impedisce però a lui e a molti altri piloti di inserirsi nei giochi per la vittoria, che va all’amico d’infanzia Tony Kanaan.

Texas. indycar.com, John Cote
Texas. indycar.com, John Cote

CONTINUA…

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1998 CART Bettenhausen 16 Alumax 19 17 36 0 1 1 5 0
1999 CART Hogan 9 Hogan 20 15 48 0 1 2 6 1
2000 CART Penske 3 Marlboro 20 7 129 3 4 6 11 3
2001 CART Penske 3 Marlboro 20 4 141 3 4 6 11 3
2001 IRL Penske 68 Penske 2 24 64 1 1 1 1  
2002 IRL Penske 3 Marlboro 15 2 511 2 7 12 14 1
2003 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 16 3 484 2 8 9 11 3
2004 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 16 4 446 1 5 6 13 5
2005 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 17 6 440 1 3 8 11 2
2006 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 14 3 473 4 6 9 12 6
2007 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 17 4 446 1 5 6 11 7
2008 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 18* 2 629 2 11 15 16 4
2009 IRL/IndyCar Penske 3 Marlboro 16 4 433 2 4 7 10 2
2010 IRL/IndyCar Penske 3 Hitachi 17 4 531 3 5 9 15 2
2011 IndyCar Penske 3 Shell 17 11 312 0 2 3 7 0
2012 IndyCar Penske 3 Shell 15 4 431 2 3 5 12 1
2013 IndyCar Penske 3 Shell 19 2 550 1 5 6 16 1
2014 IndyCar Penske 3 Shell 18 2 609 1 6 7 10 4
2015 IndyCar Penske 3 Shell 16 5 453 0 5 6 9 4
2016 IndyCar Penske 3 Shell 16 3 504 0 4 8 10 2
2017 IndyCar Penske 3 Hitachi 17 4 598 1 3 9 16 3
          345   8268 30 93 141 227 54

* 1 corsa fuori calendario

Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1998 0 0 0 0
1999 0 0 0 0
2000 Detroit Mid Ohio Laguna Seca 2 1 3
2001 Long Beach Indy500 Detroit Mid Ohio 1 2 1 4
2002 Phoenix Indy500 0 0 2 2
2003 St. Louis Nazareth 0 0 2 2
2004 Texas2 0 0 1 1
2005 Richmond 0 0 1 1
2006 St. Pete Motegi Texas Michigan 0 1 3 4
2007 St. Pete 0 1 0 1
2008 Sonoma Chicago 1 0 1 2
2009 Indy500 Texas 0 0 2 2
2010 Barber Kentucky Motegi 1 0 2 3
2011 0 0 0 0
2012 St. Pete Edmonton 1 1 0 2
2013 Texas 0 0 1 1
2014 Detroit 1 0 1 0 1
2015 0 0 0 0
2016 0 0 0 0
2017 Iowa 0 0 1 1
2018 0 0 0 0
Totale 6 7 17 30
Quote 20,0% 23,3% 56,7% 1

Helio Castroneves

Dario Franchitti

Nome: George Dario Marino Franchitti

Luogo e data di nascita: 19 maggio 1973, Bathgate (Scozia)

Nazionalità: Scozzese

Ruolo: Pilota

Dario Franchitti nasce a Bathgate, vicino a Edinburgo, il 19 maggio 1973 e come molti futuri colleghi ha le corse nel sangue. Sin da piccolo accompagna in pista suo padre George, titolare di un azienda produttrice di gelati e pilota amatoriale. Contagiato dal virus dei motori, Dario si cimenta col kart a 10 anni e inizia subito a vincere, prima in Scozia e poi in tutta la Gran Bretagna. A 17 anni lascia la scuola, diventando il ragazzo di bottega del team di David Leslie, dove fa un po’ di tutto e impara molto sul mondo delle corse.

Passa in monoposto nel 1991, col padre che ipoteca la casa di famiglia per finanziare la stagione di F.Vauxhall Junior, in cui Dario vince subito il titolo. Nel 1992 passa al campionato principale di F.Vauxhall col team di Paul Stewart, dove incontra Sir. Jackie, che diventa un imprescindibile punto di riferimento. Dario chiude la prima stagione al quarto posto, aggiudicandosi il McLaren/Autosport Young driver award, che lo aiuta a coprire il budget per la stagione successiva, in cui lo scozzese conquista il titolo. Economicamente sono comunque periodi di magra e quando non corre, Dario è spesso impegnato come istruttore in scuole di guida veloce e nella consegna di auto per diverse concessionarie. Nel 1994 lo scozzese è promosso dal team Stewart in F.3 Inglese al fianco di Jan Magnussen. Forte di precedenti favorevoli con il danese, Franchitti affronta con fiducia la stagione, vincendo la prima corsa. Nel resto del campionato però Magnussen è semplicemente inarrestabile, vince 16 corse su 18 aggiudicandosi il titolo con anticipo record. Per Dario è invece una stagione frustrante, con diversi problemi a frenarne spesso la marcia. Conclude il campionato al quarto posto, perdendo in parte la fiducia della squadra.

In difficoltà a trovare i fondi per affrontare un’altra stagione in F.3 o fare il passaggio in F.3000, la carriera di Dario è a un bivio, fino a quando una chiamata inaspettata porta a una enorme opportunità. Norbert Haug, direttore sportivo Mercedes, decide infatti di puntare sui giovani e ingaggia Franchitti in DTM e nella sua versione internazionale, l’ITC. Dario rischia di rovinare tutto al primo test con la nuova macchina, che distrugge alla prima presa di contatto tradito dalle gomme fredde. Si fa però perdonare alla prima corsa di Hockenheim, dove ottiene la pole. Nel 1995 è quinto in DTM con 4 podi, mentre si classifica terzo nell’ITC, vincendo al Mugello. Nel 1996 l’ITC assorbe il DTM, dando vita a una serie stellare. Dario si mantiene per tutto il campionato nella parte alta della classifica, grazie a un’ottima costanza di risultati. A fine stagione avrà messo insieme 8 podi, compresa la stupenda vittoria di Suzuka (una delle sue piste preferite con il Mugello), in cui dalla nona piazza di partenza si fa largo a sportellate tra le Alfa Romeo, conquistando il primo posto con una spettacolare staccata su Christian Danner al penultimo giro. Questi risultati gli valgono il quarto posto finale.

A Silverstone in Formula 3 nel 1994
Con la vittoria al Mugello nel 1995 Dario diventa, a 22 anni, il più giovane vincitore di sempre in DTM/ITC. Dtm.com

L’ITC dura solo un anno, ucciso dai suoi costi esorbitanti, ma Franchitti non è rimasto fermo. Già nella stagione precedente parla infatti con Norbert Haug e Paul Morgan della possibilità di correre nella CART americana, in cui la Mercedes è entrata ufficialmente nel ‘94. I colloqui portano a inizio ’97 a un test sul circuito di Homestead, in cui Franchitti prova la Reynard-Mercedes del team di Carl Hogan. La prima presa di contatto con una Champ Car è scioccante. Abituato a una macchina leggera, con numerosi aiuti elettronici e relativamente poca deportanza, Dario all’inizio fatica ad adattarsi a una vettura da 900 cv, oltre 700 kg e molto dura dal punto di vista fisico. Dopo il necessario rodaggio, ottiene comunque ottimi riscontri, convincendo il team manager americano. Parallelamente ha la possibilità di svolgere il ruolo di collaudatore per la McLaren, che già aveva provato nel 1995. Ron Dennis propone allo scozzese un contratto a lungo termine, lasciandogli la libertà di correre in America con la vaga speranza di arrivare un giorno in F.1. Franchitti però rifiuta la proposta, che in realtà garantisce poco al suo futuro agonistico, concentrandosi sulla possibilità americana.

La prima corsa CART sull’ovale di Homestead è difficile: Dario si qualifica bene, in quinta fila, ma in gara commette il classico errore da rookie, finendo nello sporco mentre viene doppiato da Andretti e andando a muro. Franchitti è quasi sempre il più veloce dei debuttanti, ma sfortuna ed errori gli impediscono non solo di ottenere grossi risultati, ma anche di chiudere nei punti con continuità. Dopo sei corse di apprendistato in cui racimola 3 punti a Surfers Paradise, inizia una fase di grandi prove velocistiche senza però risultati. A St Louis, la gara di casa del team Hogan, parte a centro gruppo, va in testa nella fase decisiva grazie a una buona strategia, ma il sogno è rovinato da un problema al cambio. A Detroit è buon quinto in qualifica, ma tampona Zanardi alla prima curva e un errore strategico lo estromette poi dalla lotta per la vittoria. A Portland è tra i più efficaci sul bagnato, lottando alla pari col pilota italiano, ma si ritira per un incidente evitabile con Unser. A Toronto poi arriva la prima pole, frutta di un’altra grandiosa prestazione in qualifica, vanificata però da un contatto alla prima curva con Bobby Rahal che lo spedisce a fondo gruppo, prima che un altro incidente lo elimini del tutto dalla corsa. L’ultima grande occasione arriva a Road America, dove Franchitti è ancora tra i più veloci sul bagnato, uscendo dai box dietro il leader Blundell dopo il primo turno di soste. Incredibilmente però rovina tutto dietro la pace car, perdendo il controllo della vettura all’uscita di curva 1 e centrando il muro. A fine stagione Dario può quindi contare su 10 miseri punti mentre Carpentier, mai veloce come lo scozzese anche a causa delle meno competitive gomme Goodyear, mette a segno due piazzamenti che sommati al secondo posto di St Louis gli garantiscono il titolo di rookie dell’anno. La velocità di Franchitti non è però passata inosservata e Barry Green, che sta rifondando la squadra campione nel ’95 con Villeneuve, propone allo scozzese un contratto per le stagioni successive. Il cambio di casacca manda su tutte le furie Carl Hogan, che appieda Dario per l’ultima corsa di Fontana, sostituendolo con Robby Gordon

A Laguna Seca davanti a De Ferran e Zanardi. champcar.com, Peter Burke
A Laguna Seca davanti a De Ferran e Zanardi. champcar.com, Peter Burke

Nel 1998 Dario si afferma come top driver e potenziale candidato al titolo della serie CART. Il team Green schiera infatti due Reynard-Honda-Firestone che poco hanno da invidiare alle vetture gemelle del team Ganassi, dominatore degli ultimi campionati. Sulla carta Franchitti dovrebbe essere il giovane da affiancare alla star del team, Paul Tracy, lasciato libero da Roger Penske a fine ’97. Fin da subito però Dario chiarisce il suo ruolo, risultando immediatamente più competitivo del canadese, che vive una stagione piena di sfortune e incidenti. Dopo le corse difficili di Homestead e Motegi, a Long Beach lo scozzese rimane in zona vittoria per tutta la gara, ma nulla può per contenere la furiosa rimonta di Zanardi, che recupera un giro e con gomme più fresche brucia nel finale lui e Bryan Herta. Gli ovali successivi regalano poche soddisfazioni, eccezion fatta per l’ottimo quarto posto di Milwaukee.

Quando inizia la stagione degli stradali, Franchitti si inserisce definitivamente tra i protagonisti. A Detroit chiude quarto mentre a Portland domina la corsa, gettando però tutto al vento quando spegne il motore durante una sosta, prima di essere eliminato da PJ Jones. È però buon terzo a Cleveland e ottiene un’altra pole a Toronto, dove domina fino alle ultime battute quando il pedale del freno va a fondo, mandandolo in testacoda e costringendolo al ritiro. Dopo il motore rotto di Michigan parte in prima fila a Mid Ohio, ma è eliminato in un contatto con Herta che coinvolge anche Vasser. Finalmente a Road America arriva il primo liberatorio successo. Dario supera Andretti durante un turno di soste e prende il largo, ripetendosi poi nell’appuntamento successivo di Vancouver, dove è un deciso sorpasso sullo stesso Andretti negli ultimi giri a garantirgli la vittoria. Dopo il quarto posto di Laguna Seca la corsa di Houston, flagellata dal maltempo, diventa un affare privato tra Franchitti e Tracy. In un estremo tentativo di sorpasso del canadese, le vetture del team Green entrano in contatto e il successivo scontro col muro costringe Tracy al ritiro, portando a un violento confronto ai box con l’esasperato Barry Green, che si consola comunque con la vittoria di Franchitti. A Surfers Paradise Dario riesce a soffiare la pole a Zanardi, ma i meccanici del team Ganassi restituiscono la testa al campione in carica, che controlla la gara fino al traguardo. Nella seconda metà di campionato Franchitti è il pilota che ottiene più punti, ma un ritiro per problemi al motore nell’ultima corsa di Fontana, unito alla contemporanea vittoria di Jimmy Vasser, gli costano il secondo posto in classifica.

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Road America 12 anni dopo, prima vittoria CART. champcar.com; Peter Burke, 1998

Nel 1999 Franchitti è tra i più seri candidati al titolo con Moore, Vasser e Andretti. Quella dello scozzese è una stagione quasi perfetta, consistente, con evidenti progressi sugli ovali e la solita maestria su stradali e cittadini. Nessuno può però prevedere l’impatto sul campionato del rookie Montoya, che prende il posto di Zanardi al team Ganassi. In buona parte delle corse il colombiano ha un passo quasi inavvicinabile e se per metà stagione la corsa al titolo coinvolge quasi tutti gli attesi protagonisti, dopo Chicago solo Franchitti può di fatto ancora contendergli la vittoria finale, grazie anche ai numerosi errori strategici del team Ganassi. Franchitti si dimostra molto competitivo nella corsa di apertura a Homestead, ma una tattica azzardata porta alla vittoria il suo grande amico Greg Moore, mentre Dario chiude terzo negli scarichi di Andretti. A Motegi lo scozzese però colpisce il muro e a Long Beach si scatena il ciclone Montoya. Dopo le avvisaglie del Giappone, il colombiano mette infatti in mostra tutta la sua grinta e velocità sulle strade della California, passando in una ripartenza Franchitti e andando a vincere approfittando dell’errore del poleman Kanaan. Nelle corse successive di Nazareth e Rio il colombiano stupisce ancora di più, dominando alla grande i due difficili ovali. Franchitti è solo ottavo in Pennsylvania e chiude buon secondo in Brasile.

A St Louis la tensione torna alle stelle nel team Green, quando Franchitti tenta un difficile sorpasso su Tracy in curva 3. Il canadese non concede abbastanza spazio e il contatto che ne consegue manda in testacoda Dario e a muro Paul. Franchitti si salva invece dal contatto col muro e riesce a proseguire, raccogliendo un eccellente terzo posto. Tracy si rifà nell’appuntamento successivo, tornando finalmente alla vittoria a Milwaukee, dove Franchitti è settimo. A Portland Dario ingaggia un lungo duello sui consumi con Montoya, che lo precede sul traguardo ma viene comunque battuto da De Ferran, su una strategia più aggressiva che gli impone di tirare al massimo ed effettuare un rabbocco nel finale. Montoya vince però la corsa successiva a Cleveland, mentre Franchitti si ferma bloccato dal motore. Road America segna una battuta d’arresto per entrambi: Dario prima va in testacoda e poi si ritira, mentre Montoya domina a lungo ma nel finale resta senza marce. La marcia di Montoya si arresta ancora a Toronto, dove il colombiano esce di pista, mentre Dario coglie il successo al termine di una corsa dominata. Il rookie recupera allo scozzese alcuni punti a Michigan, dove Dario chiude al quinto posto, ma a Detroit arriva il clamoroso sorpasso in classifica. Montoya infatti domina la corsa, ma un errore via radio di Chip Ganassi lo costringe a una strategia suicida. Viene poi eliminato da una tamponata di Castroneves, mentre Franchitti guida una doppietta del team Green. Il contrattempo non scoraggia però Juan, che infila tre successi consecutivi e sembra poter chiudere la contesa.

A Mid Ohio Franchitti parte in pole e domina a lungo, perdendo però tutto il vantaggio a causa di una foratura lenta, con Montoya che supera alla grande Tracy e ha poi campo libero dopo l’ultima sosta. Nella corsa di casa Ganassi a Chicago, Juan e Dario si scambiano a lungo la testa della corsa, transitando nell’ordine sul traguardo separati da Moreno, che inspiegabilmente non da strada a Franchitti. A Vancouver, in una corsa difficilissima sul bagnato, i contendenti al titolo arrivano allo scontro diretto e Franchitti commette un errore clamoroso quando, nel tentativo di passare il colombiano, perde il controllo della vettura e finisce contro le gomme. Montoya, nonostante una corsa tutt’altro che entusiasmante, guadagna altri punti sul rivale a Laguna Seca, quando Franchitti si ritira dopo un contatto con Moore ed è ormai staccato di 28 lunghezze. Il campionato sembra finito, ma a Houston Montoya distrugge una sospensione colpendo la vettura ferma in pista di Castroneves. Franchitti invece perde numerose posizioni a causa di un treno di gomme difettoso, ma dopo le soste si produce in una esaltante rimonta che gli vale il secondo posto dietro Tracy. A Surfers Paradise Dario conquista la pole con 8 decimi di vantaggio su tutti, dominando la corsa. Montoya, dopo delle prove difficili, è invece bloccato al terzo posto dietro Fernandez, fino a quando un errore in frenata lo conduce incredibilmente all’impatto contro le gomme, con conseguente ritiro.

La vittoria permette a Franchitti di presentarsi all’ultima corsa di Fontana con un vantaggio di 9 punti sul rivale. Dopo una stagione di lavoro perfetto della squadra però, lo scozzese perde due giri nella prima parte di gara a causa di problemi durante i pit stop. Sul finale non può poi evitare un ultimo rabbocco, che lo fa chiudere al decimo posto. A Montoya basta quindi il quarto posto per raggiungere Dario in classifica e aggiudicarsi il titolo per il maggior numero di vittorie, 7 contro 3. La delusione per la sconfitta lascia però subito spazio al dolore per la scomparsa di Greg Moore, il miglior amico di Dario oltreoceano, vittima di un incidente delle cui conseguenze i piloti vengono tenuti allo scuro fino alla bandiera a scacchi.

Dario e Tracy inseguono Montoya a Detroit, centreranno una doppietta. champcar.com, Peter Burke
Dario e Tracy inseguono Montoya a Detroit, centreranno una doppietta. champcar.com, Peter Burke

Dopo un inverno difficile, Dario torna alla guida della sua Reynard nel febbraio 2000 per i test pre stagionali a Homestead, in cui è vittima di un incidente tremendo, che lo porta a sbattere la testa contro il muro, provocandogli un grave trauma cranico e diverse fratture al bacino. Le conseguenze dell’incidente, che per molto tempo incideranno su riposo e concentrazione, sono parte in causa delle prestazioni altalenanti di Franchitti nelle stagioni successive. Dario riesce comunque a prendere il via a Homestead, ma il 2000 è una stagione storta, in cui le sue imperfette condizioni fisiche si sommano a tante piccole sfortune ed errori che a fine stagione lo lasceranno senza vittorie, oltre a estrometterlo dalla lotta per il titolo. Il primo risultato di rilievo arriva a Motegi, con un secondo posto che risolleva un inizio di campionato pessimo.

A Nazareth, come anche a Toronto, Houston e Surfers Paradise è coinvolto in un incidente al primo giro, mentre a Chicago si tocca ancora una volta con Tracy, che guida a lungo la classifica ma nelle ultime corse si deve arrendere a De Ferran. I migliori risultati per Dario sono due terzi posti a Michigan e Laguna Seca, mentre la piazza d’onore di Vancouver è la più amara delle delusioni. Il team Green domina il fine settimana e lo scozzese è determinato a onorare con un successo la corsa di casa di Greg Moore. Dario domina ma all’ultima sosta fa spegnere il motore, chiudendo secondo alle spalle di Tracy. La stagione termina con un ritiro a Fontana per rottura del motore e un 13° posto in classifica. In un test organizzato da Jackie Stewart, Franchitti prova a luglio la Jaguar F.1 a Silverstone. Il primo giorno Dario prende le misure alla vettura, fiducioso di poter esprimere il suo valore l’indomani. Il telaio che però il team gli mette a disposizione è, a suo dire, diverso e molto più lento, decretando il fallimento del test. Lo scozzese rimarrà sempre convinto che la squadra, dilaniata da lotte interne, lo abbia sabotato di proposito.

Dario2
Stesso tempo del poleman Montoya ma gara sfortunata a Detroit.
A Silverstone sulla Jaguar
A Silverstone sulla Jaguar

Nel 2001 Franchitti è confermato al team Green, che schiera altre due vetture per Paul Tracy e Michael Andretti, in arrivo dal team Newman Haas. È una stagione sicuramente più serena per Dario, che torna alla vittoria a Cleveland e ottiene tre secondi posti: a Detroit dove non può contrastare Castroneves, a Michigan dove l’ostruzionismo del doppiato Tagliani aiuta a vincere Carpentier e a Houston, dietro De Ferran. Numerosi piazzamenti in top ten nella prima parte del campionato (saranno 11 alla fine) tengono in corsa Dario per il titolo fino all’estate, ma una serie di problemi tecnici e qualche errore lo blocca al 7° posto finale.

Ritorno alla vittoria a Cleveland dopo un anno e mezzo. autoracing1.com
Ritorno alla vittoria a Cleveland dopo un anno e mezzo. autoracing1.com

Nel 2002 il team Green conferma la formazione di piloti, passando durante la stagione dal telaio Reynard alla Lola. Inizialmente la squadra si trova in difficoltà con la nuova vettura a causa di problemi ai freni, ma a metà stagione Franchitti è costantemente tra i più veloci, centrando tre vittorie, la prima delle quali a Vancouver, vendicando il secondo posto di due anni prima, trionfando poi ancora in Canada, sul cittadino di Montreal. Il terzo successo, il primo su un ovale, arriva in casa a Rockingham. Come detto la prima parte di stagione regala poche soddisfazioni, con un secondo posto a Monterey e un terzo a Motegi cui seguono i ritiri per incidente a Milwaukee e Laguna Seca. Risultati incostanti, con qualche incidente e rotture meccaniche alternate a podi e vittorie, non fanno andare Dario oltre il quarto posto in campionato, pochi punti dietro Junqueira e Carpentier, ma abbondantemente davanti ai compagni Andretti e Tracy. Nel 2002 Franchitti esordisce a Indianapolis, non risultando mai competitivo e vivendo la corsa come una distrazione dall’impegno CART. Negli ultimi giri si esibisce poi in una serie di manovre di disturbo ai danni di Castroneves e Giaffone, volte ad aiutare il compagno Tracy, che non gli fanno certo onore.

Prima vittoria su ovale a Rockingham.
Prima vittoria su ovale a Rockingham.

Nel 2003 Franchitti dovrebbe correre al fianco di Andretti e Kanaan in IRL, ma la stagione dello scozzese dura di fatto solo due gare, perchè durante un giro in moto in Scozia un guasto alla sua MV Agusta causa una rovinosa caduta, che gli provoca una frattura vertebrale. Dario salta numerose corse, tra cui Indianapolis, tornando poi a Pikes Peak, dove chiude buon quarto prima che il dottor Trammell, che lo ha rimesso in piedi, lo obblighi a saltare il resto della stagione. Nelle prime due corse Dario raccoglie un settimo posto a Homestead e un ritiro per rottura del cambio a Phoenix.

Pikes Peak. indycar.com
Pikes Peak. indycar.com

Franchitti torna ai nastri di partenza nel 2004, confermato dal team Andretti Green, che in questa stagione diventa la squadra di riferimento. Il campionato si apre male, con un incidente con Mark Taylor a Homestead. A Phoenix poi Dario naviga in top 5, reagendo però troppo tardi all’uscita di una bandiera gialla nel finale, tamponando Tomas Scheckter. È settimo a Motegi, qualificandosi in prima fila a Indianapolis, dove però non è mai realmente in lotta per la vittoria e chiude solo 17°. Il resto della stagione è un incredibile sequenza di alti e bassi. All’ottimo secondo posto in Texas segue un incidente a Richmond, il quarto posto in Kansas e un ritiro per problemi al cambio a Nashville. A Milwaukee poi arriva finalmente il momento di Dario, che prende la testa della corsa a metà gara e domina fino al traguardo. Lo stesso copione si ripete qualche settimana più tardi a Pikes Peak, con le due vittorie inframmezzate da un sesto posto in Kentucky e l’ennesimo ritiro per problemi tecnici a Michigan. Stessa sorte gli toccherà anche a Chicago, mentre a Nazareth chiude terzo, col team AGR che occupa tutto il podio, sbeffeggiando Roger Penske sul circuito di casa. Dopo un sesto posto di Fontana, il campionato si chiude male per Franchitti, coinvolto in un brutto incidente nelle prove in Texas e replicato poi in gara, quando un cedimento meccanico manda in testacoda lo scozzese, centrato poi da Barron. Alla prima stagione completa in IRL, Dario si piazza al sesto posto.

Milwaukee. indycar.com; Steve Snoddy
Milwaukee. indycar.com; Steve Snoddy

Ormai perfettamente ristabilito dai diversi infortuni patiti negli anni, il 2005 dovrebbe essere l’anno di Franchitti, una delle punte di un team praticamente invincibile. Il campionato si apre però subito male, con un motore rotto a Homestead. A Phoenix lo scozzese conferma il suo grande affiatamento con gli ovali corti, superando Castroneves e Hornish e comandando la seconda metà gara. Durante l’ultima sosta, effettuata a pochi giri dal termine, le Penske non sostituiscono le gomme, tornando in pista davanti a Dario che preferisce il pit stop completo. La corsa si risolve in una ripartenza a tre giri dal termine, in cui Franchitti cerca di passare Hornish all’esterno in curva 1. L’americano è però abile a portare il rivale sullo sporco, con Dario che sfiora il muro e perde posizioni, chiudendo quarto. A St Pete è uno dei più veloci, ma un contatto con Sharp e altri contrattempi lo fanno precipitare nelle retrovie. È però bravissimo nel finale a rimontare fino al terzo posto, ma la stessa aggressività lo tradisce a  Motegi  quando, cercando di resistere all’esterno in curva 4 a un attacco di Wheldon, finisce nello sporco e contro il muro. A Indianapolis si qualifica in seconda fila, alternandosi in testa con Hornish e Kanaan, ma è solo sesto al traguardo, a causa anche di una strategia che lo fa ripartire ai margini della top ten nel momento decisivo. È poi solo ottavo in Texas, mentre chiude buon secondo a Richmond, dove può poco contro un Castroneves velocissimo. È poi protagonista nell’appuntamento successivo in Kansas, ma perde il treno dei primi all’ultima sosta, dovendosi accontentare del quarto posto. A Nashville, dove vive insieme alla moglie Ashley Judd, coglie finalmente la prima vittoria della stagione tenendo a bada Hornish e superando Carpentier a 7 giri dalla bandiera a scacchi. È poi secondo a Milwaukee, dove prende la testa grazie a una strategia differenziata e ingaggia uno spettacolare duello a base di ruotate con un incontenibile Hornish, che coglie il secondo successo stagionale. Le corse successive regalano solo un ottavo posto a Michigan e un ritiro per problemi tecnici in Kentucky, mentre a Pikes Peak è ancora Dario a buttare al vento una corsa dominata, ripartendo troppo presto durante una sosta e perdendo due giri. Anche a Sonoma lo scozzese è tra i più veloci, ma un errore in qualifica lo costringe a partire dalle ultime file, da cui non riesce ad andare oltre il settimo posto. Nelle ultime corse è solo 12° a Chicago, chiudendo poi sul podio a Watkins Glen, dove non può nulla contro un imprendibile Dixon. A Fontana è protagonista di un duello per la vittoria con Kanaan, che sulla dirittura d’arrivo attiva per sbaglio il limitatore di velocità, regalando la corsa a Dario. Il successo per lo scozzese è particolarmente sentito, perché ottenuto sulla pista in cui il suo amico Greg Moore ha perso la vita 6 anni prima.

Chicago. indycar.com; Chris Jones
Chicago. indycar.com; Chris Jones

Nel 2006 Franchitti è uno dei principali candidati al titolo, ma il team AGR vive una stagione pessima, come anche il suo pilota. A Homestead Dario ottiene un buon quarto posto, conquistando la pole nell’appuntamento successivo a St Pete. Lo scozzese sbatte però nel warm up e si ferma in gara dopo pochi giri con una sospensione fuori posto. Un altro errore durante una sosta, con un meccanico investito, gli costa il podio a Motegi. A Indianapolis, dopo un difficile mese di prove, porta a casa un settimo posto, ma non è mai coinvolto nella lotta per la vittoria. Un errore sul bagnato a Watkins Glen gli costa il ritiro, mentre a una prestazione scialba in Texas segue un ottimo terzo posto a Richmond. Sugli ovali veloci però le sue prestazioni continuano a essere insufficienti, con un 12° posto in Kansas cui seguono due seste posizioni guadagnate a Nashville e Milwaukee. Mentre in Tennesse si lamenta sul finale per il presunto blocking di Danica Patrick, in Wisconsin il team AGR torna alle posizioni che gli competono, con Kanaan che porta a casa il successo. Le ultime corse, fatta eccezione per un bel secondo posto a Sonoma dove potrebbe forse vincere se non dovesse guardare le spalle ad Andretti nel finale, non regalano nulla di significativo. Per l’appuntamento finale di Chicago Dario, coinvolto in un brutto incidente a Goodwood alla guida di un auto storica, viene addirittura sostituito da AJ Foyt IV. In questo periodo sono molte le voci che lo vedrebbero in ChampCar per la stagione successiva, col team AGR che non nasconde l’insoddisfazione per le prestazioni dei due veterani, Franchitti e Herta, solo 8° e 11° in classifica.

Sonoma. indycar.com; Dana Garrett
Sonoma. indycar.com; Dana Garrett

Nonostante tutto Franchitti è confermato alla guida della vettura sponsorizzata Canadian Club per la stagione 2007, che non sembra promettere niente di che per lo scozzese, quarto elemento di una squadra piena di prime donne come Kanaan, Andretti e Danica Patrick. Nella prima corsa a Homestead lo scozzese è settimo, mentre a St Pete è mandato in testacoda da Kanaan alla terza curva, perde un giro ma incredibilmente riesce a recuperare concludendo al quinto posto. È poi terzo a Motegi e ottimo secondo in Kansas, andando a un soffio dalla pole a Indianapolis. Nelle prime battute rimane attardato da una sosta lenta, ma riesce in breve a riportarsi tra i primi. Dopo la prima interruzione per pioggia Dario adotta poi una tattica rischiosa, cambiando sequenza di rifornimenti per prendere il comando in attesa di altre precipitazioni. È aiutato in questo dai numerosi incidenti che si susseguono e che costano la gara a Kanaan, Wheldon e Andretti. Quando il nubifragio si scatena di nuovo Dario è ancora in testa, conquistando la vittoria più importante della carriera. Per Franchitti è la svolta, perché il successo a Indy gli regala una sicurezza mai vista, trasformandolo da pilota veloce ma spesso pasticcione in un campione riflessivo e concreto. Negli appuntamenti successivi infatti è secondo a Milwaukee e quarto in Texas, infilando poi due vittorie consecutive in Iowa e a Richmond. Nel primo caso controlla Andretti sul traguardo, aiutato dall’incidente multiplo che elimina alcuni concorrenti, in Virginia invece ha semplicemente un altro passo. Il momento d’oro gli regala una solida leadership in classifica, lentamente erosa però da Scott Dixon, che infila tre vittorie consecutive, con Dario sempre sul podio. A Michigan lo scozzese rimane attardato dopo la prima sosta, ma rimonta come una furia, riportandosi presto in testa. A 50 giri dal termine però la sua vettura si aggancia con la Dallara di Wheldon nel rettilineo di ritorno, volando letteralmente sopra le teste degli altri piloti, prima di strisciare contro l’asfalto capovolta. Dario esce comunque incolume dalla vettura distrutta e con Wheldon nel dopo gara voleranno parole grosse. Nell’appuntamento successivo in Kentucky, Franchitti commette un errore durante una sosta collettiva, andando a sbattere contro il cono che delimita la zona a velocità ridotta e danneggiando l’ala anteriore. Il contrattempo gli fa perdere contatto coi primi, ma il peggio deve ancora arrivare. Inconsapevole che si tratti dell’ultimo giro, dopo aver tagliato il traguardo al 7° posto lo scozzese continua a spingere, non avvedendosi del rallentamento di Matsuura, che viene centrato ad altissima velocità. La Dallara del team AGR si alza di nuovo in volo, andando a disintegrarsi contro il muretto, col pilota incredibilmente incolume che viene però multato per il suo comportamento irresponsabile. Nella corsa successiva a Sonoma Dario parte in pole e comanda la corsa con Kanaan a proteggergli le spalle. L’unica minaccia per lo scozzese sembra venire da Dixon, che riesce a ritardare più di tutti ogni sosta, trovandosi sempre davanti a gomme fredde. Lo scozzese riesce sempre a riguadagnare la posizione sul rivale, ma in occasione dell’ultima sosta deve vedersela con Andretti che, uscito dai box in testa, chiude la porta a Franchitti in curva 1. L’impatto manda contro le gomme Andretti e danneggia l’ala anteriore dello scozzese che, superato da Dixon e Castroneves, chiude terzo difeso in ogni modo da Kanaan. Nel dopo gara Michael Andretti incredibilmente si schiera dalla parte di Marco. Franchitti si presenta a Detroit indietro di 4 punti rispetto a Dixon, col quale si confronta nuovamente nelle strade del Michigan. Nelle ultime battute Dario si ritrova dietro il neozelandese, che perde il controllo della vettura durante un attacco su Buddy Rice, finendo per travolgere lo stesso Franchitti. Per Scott è il ritiro mentre Dario riesce ad arrivare sesto, tornando davanti di tre punti. All’ultimo appuntamento di Chicago, Franchitti fa fatica a tenere il ritmo di Dixon e delle Penske, ma una lunga opera di risparmio carburante, insieme ad alcune bandiere gialle fortunate, restringono ai due contendenti al titolo la lotta per la vittoria. Negli ultimi due giri Dixon conduce su Dario e sembra avviato al successo, ma all’ultima curva la Dallara del team Ganassi si ferma con il serbatoio vuoto, regalando allo scozzese la quarta vittoria dell’anno e il titolo IndyCar. Franchitti si presenta a Chicago con un contratto già firmato con Chip Ganassi per correre in Nascar nel 2008. In realtà questa operazione doveva svolgersi già la stagione precedente, quando lo scozzese era però stato “bruciato” dall’arrivo improvviso di Montoya. Dario lascia il team AGR in un clima teso, per le vicende delle ultime corse, oltre al licenziamento del fratello Marino dal programma della squadra in ALMS.

Indianapolis. indycar.com; Jim Haines
Indianapolis. indycar.com; Jim Haines
Chicago. indycar.com; Shawn Payne
Chicago. indycar.com; Shawn Payne

Il 2008 di Franchitti è quindi targato Nascar. Lo scozzese debutta in realtà nel 2007, correndo alcune corse ARCA e Nationwide Series, sulla falsariga del programma seguito da Montoya l’anno prima. Nella prima corsa in Nationwide a Memphis si qualifica al terzo posto, concludendo però 33°. In simile posizione termina le corse successive, sperimentando tutte le solite difficoltà che accompagnano nelle stock car i piloti delle ruote scoperte. Nel 2008 debutta a Daytona al volante della vettura 40, concludendo 33°. La stagione si rivela semplicemente un disastro. Nessuna delle vetture del team Ganassi è competitiva e lo stesso Montoya non riesce a ripetere gli scarsi risultati ottenuti la stagione precedente. Franchitti colleziona incidenti e piazzamenti insulsi fino alla corsa di Talladega in aprile, dove si frattura una caviglia in un incidente che lo tiene fermo per 5 corse. Nella serie cadetta fa qualche figura dignitosa, con un sesto posto a Las Vegas come miglior risultato. Nel week end Sprint Cup a Sonoma subisce anche l’onta della mancata qualificazione e dopo la corsa successiva di Pocono, Ganassi è costretto a chiudere il programma per mancanza di fondi. Prosegue invece la stagione in Nationwide, dove Dario conquista una splendida pole a Watkins Glen, buona almeno per l’onore dopo la brutta figura in California. In gara termina al quinto posto. Poche settimane dopo decide di lasciar perdere con le stock car, cedendo il volante a Bryan Clauson. Inizia a farsi largo la possibilità di tornare alle monoposto e nel fine settimana IndyCar di Detroit, data la partenza di Wheldon verso il team Panther e il rinnovo di Kanaan con AGR, si mette d’accordo con Ganassi per guidare la vettura 10 nel 2009. In realtà il debutto in rosso avviene già nella corsa fuori campionato di Surfers Paradise, dove lo scozzese si qualifica quarto ma rimane attardato, prima a causa di una bandiera gialla uscita nel momento sbagliato e poi per un testacoda.

Esordio a Daytona
Dario e Montoya si ritrovano compagni di squadra e insieme vinceranno la 24 ore di Daytona
Qualche prestazione decente si vedrà almeno in Nationwide series

Nel 2009 Franchitti, voglioso di rivincita dopo un 2008 catastrofico, è tra i favoriti per il titolo. Si presenta quindi carico a St Pete, dove parte quinto e chiude una posizione più avanti. Nell’appuntamento successivo però non si fa sfuggire l’occasione, tornando subito al successo, trionfando per la prima volta a Long Beach. Un’incomprensione con Rahal in fase di rientro box causa però un incidente che gli costa il ritiro in Kansas mentre a Indy, dopo essere partito in prima fila e aver comandato le prime fasi, è attardato da una sosta lenta nel finale e chiude solo settimo. Buoni piazzamenti a Milwaukee e in Texas, portano alla seconda vittoria in Iowa e alla piazza d’onore di Richmond alle spalle di Dixon. Un’uscita di pista a Watkins Glen precede poi un’altra vittoria a Toronto, 10 anni dopo il successo ottenuto nella CART.  Il fine stagione è all’insegna della solidità: un quinto posto a Edmonton e un terzo a Mid Ohio precedono una grande vittoria a Sonoma, dove Dario è tallonato per tutta la corsa da Briscoe. Il quarto posto di Chicago in volata e il secondo dietro Dixon a Motegi, permettono allo scozzese di arrivare all’ultima corsa di Homestead in seconda posizione, a 5 punti dal compagno di squadra. In gara Franchitti si rende subito conto di non poter tenere il passo di Dixon e Briscoe, puntando quindi tutto sulla strategia. Mentre i primi due ingaggiano una lunga battaglia sul piano della velocità, Dario ritarda ogni sosta, consapevole che una qualunque bandiera gialla rovinerebbe il suo lavoro. Nonostante il caldo torrido renda problematico il controllo della vettura, non ci sono però neutralizzazioni e quando gli avversari si fermano a pochi giri dal termine, Franchitti deve solo tenere d’occhio i consumi per arrivare al traguardo e cogliere la quinta vittoria stagionale e il secondo titolo IndyCar.

Homestead. indycar.com; Jim Haines
Homestead. indycar.com; Jim Haines

Il 2010 è forse la miglior stagione della carriera di Franchitti, un’annata in cui lo scozzese è veloce, non sbaglia quasi mai e soprattutto riesce ad elevare il suo gioco nel momento in cui è richiesto il massimo sforzo, riuscendo a rivaleggiare e forse superare Dixon anche sugli ovali da 1.5 miglia, un tipo di terreno in cui era sempre stato un po’ deficitario. La stagione inizia con “calma”, con una serie progressiva di piazzamenti: 7° nella caotica San Paolo; 5° a St Pete dopo un testacoda iniziale e una bella rimonta; 3° in Alabama, una pista sempre detestata. Un week end storto a Long Beach si conclude con un 12° posto, ma è secondo in Kansas dopo aver risolto a suo favore un lungo confronto con Kanaan e Castroneves. Si arriva quindi a Indy, dove Dario parte terzo ma è già in testa a metà del primo giro. Il suo è un autentico dominio, solo parzialmente messo alla prova da Kanaan e Andretti. In un finale di gara basato sui consumi però anche Dario rischia quando, dopo aver ripreso la leadership avendo visto tutti i suoi avversari fermarsi per un rabbocco, è insidiato all’inizio dell’ultimo giro da Dan Wheldon. Entrambi proseguono a un ritmo ridottissimo per arrivare in fondo, ma i problemi di Dario sono risolti dalla neutralizzazione causata dal catastrofico incidente tra Conway e Hunter-Reay. Franchitti non ha quindi problemi a tagliare il traguardo, precedendo Wheldon per il suo secondo successo al Brickyard, che gli da slancio anche in classifica. Will Power è incontenibile sugli stradali, ma lo scozzese è consistente, raccogliendo un quinto posto in Texas, cui fanno seguito i podi consecutivi di Watkins Glen, Toronto e Edmonton. In Iowa un problema tecnico lo mette fuorigioco con la vittoria ormai in vista, ma la rivincita arriva a Mid Ohio, dove Dario contiene gli attacchi di Power, per una volta battuto nei circuiti misti. L’australiano vince ancora a Sonoma, contenendo la rimonta di Franchitti, terzo, ma lo scozzese accorcia le distanze a Chicago, conquistando il successo davanti a Wheldon, con Power frenato da problemi all’ultima sosta. Dario precede il rivale anche negli appuntamenti successivi in Kentucky, dove chiude quinto e a Motegi, dove è secondo tra le Penske di Castroneves e Power. L’australiano si presenta così all’ultima corsa di Homestead con 12 punti sul rivale, che però conquista la pole e il maggior numero di giri al comando. Franchitti guida a lungo la gara e quando Power finisce a muro a ¾ di corsa può permettersi di giocare conservativo con la strategia. Un ottavo posto gli basta quindi per conquistare il terzo titolo in carriera.

Indianapolis. indycar.com; Jim Haines
Indianapolis. indycar.com; Jim Haines
Titolo #3, Homestead. indycar.com; Ron McQueneey
Titolo #3, Homestead. indycar.com; Ron McQueneey

La battaglia Power-Franchitti si ripresenta accesa come non mai anche nel 2011. I due si sfidano fin dalla prima corsa di St Pete, dove lo scozzese ha la meglio passando all’esterno con una ruotata il rivale e conquistando il primo successo stagionale. A Barber Power però pareggia i conti, mentre Franchitti riesce ad issarsi in terza posizione, ripetendosi poi a Long Beach, passato nel finale da un velocissimo Mike Conway. A San Paolo l’ennesimo acquazzone rende la corsa imprevedibile e alla fine è Power a portare a casa il successo, mentre Dario chiude quarto. Indianapolis vede lo scozzese dominare come nel 2010, ben spalleggiato dal compagno Dixon, ma nel finale il team Ganassi tenta l’ennesimo azzardo strategico, cercando di evitare l’ultima sosta. La mossa non riesce e Franchitti porta a casa un deludente 12° posto. Nelle corse successive lo scozzese sembra poter chiudere il campionato: vince a Milwaukee e conquista un primo e un settimo posto in Texas, è poi quinto in Iowa e vince ancora a Toronto. In Canada la rivalità con Power si accende quando nella famigerata curva 3, Franchitti manda in testacoda l’australiano, che per la verità non lascia molto spazio all’interno. Nel dopo gara il pilota Penske rinfaccia allo scozzese vari sgarbi subiti nelle corse precedenti, denunciando l’inconsistenza nelle decisioni della direzione gara, che prima annuncia e poi revoca una penalità per lo scozzese, che incrementa il proprio vantaggio in classifica. Nell’appuntamento successivo di Edmonton Dario chiude terzo dietro le Penske di Power e Castroneves ed è poi secondo dietro Dixon a Mid Ohio. Il campionato sembra chiuso, ma durante una ripartenza in una corsa letteralmente dominata a Loudon, Franchitti si aggancia con Sato e butta al vento una vittoria fondamentale. 47 punti con 4 gare da disputare sembrerebbero un margine tranquillizzante, ma nelle corse successive Power riprende slancio: l’australiano vince infatti a Sonoma e Baltimora, arrivando secondo dietro Dixon a Motegi. Franchitti raccoglie due quarti posti, ma è protagonista di una corsa disastrosa in Giappone, causando un incidente multiplo durante una ripartenza e finendo in fondo al gruppo. Riesce comunque a concludere ottavo, ma il risultato gli fa perdere la testa della classifica. La situazione torna però positiva nell’appuntamento successivo in Kentucky, dove lo scozzese chiude secondo in volata dietro Carpenter mentre Power, che domina nettamente le prime battute, è messo fuori gioco da un contatto con Ana Beatriz in pit lane. Franchitti si presenta con un buon vantaggio all’ultima corsa di Las Vegas e riesce ad evitare l’incidente a catena che coinvolge anche Power e costa la vita all’amico Dan Wheldon. La gara non assegna ovviamente punti e lo scozzese è così campione IndyCar per la quarta volta, la terza di fila.

St. Pete. indycar.com; Chris Jones
St. Pete. indycar.com; Chris Jones

Quando Franchitti prova per la prima volta la DW12, capisce che il 2012 non sarà un anno semplice. Con Castroneves, Dario è uno dei pochi a frenare col piede destro e fare il punta tacco all’occorrenza. La nuova vettura inizialmente non permette di adottare questa tecnica e lo scozzese chiede alla Dallara di realizzare una nuova pedaliera. Mentre Castroneves si trova benissimo con la nuova soluzione, Dario non sarà mai del tutto a suo agio sulla nuova macchina. L’inizio stagione è disastroso, con un 13° posto a St Pete e una 10° piazza a Barber. A Long Beach qualcosa si muove e Franchitti in qualifica è il migliore dei piloti Honda, partendo dalla pole a causa della maxi penalità ai piloti Chevrolet. Alla prima curva lo scozzese resiste all’attacco di Newgarden, che si infila nelle gomme, ma a ogni ripartenza è afflitto da problemi di elettronica che lo disturbano in accelerazione, facendogli perdere numerose posizioni. Alla fine lo scozzese è solo 15°, rompendo finalmente il digiuno di arrivi decorosi a San Paolo, dove arriva 5°. A Indianapolis il team Ganassi appare in difficoltà fin dalle prove e in qualifica Dixon e Franchitti si piazzano solo in sesta fila. Alla bandiera verde i due iniziano però a rimontare, ma Dario è spedito a fondo gruppo da una tamponata di Viso in pit lane. Lo scozzese riesce comunque a risalire con facilità e nella fase decisiva è davanti a tutti. La vittoria sembra un affare interno al team Ganassi, ma Sato riesce ad avere la meglio su Dixon e all’inizio dell’ultimo giro tenta il tutto per tutto con Franchitti. Quando i due approcciano curva 1 lo scozzese copre la traiettoria interna, allargandosi leggermente in ingresso per portare dentro più velocità possibile. Sato cerca di infilarsi in uno spazio strettissimo, mettendo due ruote sotto la linea bianca, finché non perde il controllo e va testacoda. Le due Dallara si sfiorano ma Franchitti mantiene il controllo e precede Dixon e Kanaan sul traguardo per conquistare la terza Indy500 in carriera. La vittoria al Brickyard rende positiva qualunque stagione, ma i risultati in campionato continuano a latitare. Dopo un eccellente secondo posto a Detroit infatti, Franchitti è pressoché inesistente in Texas, alle prese con una vettura inguidabile. A Milwaukee e Toronto è coinvolto in incidenti mentre in Iowa conquista la pole, non potendo poi prendere il via per problemi al motore. In gara lo scozzese sembra avere problemi a tenere il ritmo con la nuova DW12, ma in prova è ancora velocissimo, conquistando quattro pole, come a Edmonton, dove chiudo sesto. È poi solo 15° a Mid Ohio, conquistando un buon podio a Sonoma, seguito da un 13° posto a Baltimora, dove nel finale è frenato da un contatto con Barrichello. Nell’ultima corsa a Fontana chiude infine secondo, superato all’ultimo giro da Carpenter prima della neutralizzazione per l’incidente di Sato. Dario chiude così il campionato al 7° posto, il peggior risultato dal 2006.

Con il numero 50 a Indianapolis in omaggio ai 50 anni della Targer. indycar.com; LAT Photo USA
Con il numero 50 a Indianapolis in omaggio ai 50 anni della Targer. indycar.com; LAT Photo USA

Nel 2013 Franchitti, ancora poco a suo agio con la DW12, trova comunque una migliore continuità, pur non lottando quasi mai per il successo. La stagione si apre nuovamente in modo disastroso, con un ritiro a St Pete per incidente nei primi giri e un guasto a Barber che lo mette in breve fuori gara. Centra poi la pole position a Long Beach, dove chiude quarto a causa di un pit stop lento e un ritmo non irresistibile. È poi settimo a San Paolo, prima di partire nuovamente sedicesimo a Indianapolis. Mai in lotta per la vittoria, lo scozzese si affaccia in top ten nel finale, terminando però a muro durante l’ultima ripartenza. Nelle corse successive ottiene dei buoni piazzamenti tra i primi 10, fino a una corsa disastrosa in Iowa a causa di un pessimo assetto. Le cose migliorano sensibilmente negli appuntamenti successivi, in cui il team Ganassi si rimette finalmente in carreggiata: Dario è terzo nella tripletta del team a Pocono, conquistando poi la pole nella prima corsa di Toronto, che chiude al terzo posto. In questa occasione si riaccende la polemica con Power, che accusa lo scozzese di blocking all’ultimo giro. In gara 2 Dario, veloce nel giro singolo ma sempre sofferente su uno stint completo, chiude quarto, centrando poi un buon terzo posto a Mid Ohio. È ancora terzo a Sonoma, dove si rinnova la rivalità con Power a causa di una sequenza di ruotate scambiate tra i due nelle ultime ripartenze, che vedono prevalere l’australiano. Le ultime corse della stagione sono invece una sofferenza: mai competitivo a Baltimora, lo scozzese è fuori gioco dopo pochi giri per problemi tecnici. Nella prima corsa di Houston finisce a un giro di distacco per un testacoda mentre in gara 2 è coinvolto in un pauroso incidente con Takuma Sato. Nelle ultime battute il giapponese colpisce il muro ma prosegue davanti a Franchitti, fino a quando in una veloce curva a destra la Dallara del team Foyt non va per la tangente, con Dario vicinissimo. Nonostante le protezioni alle gomme posteriori, la vettura di Sato fa da trampolino per quella di Franchitti, che solleva il muso e si infrange sulle reti di protezione, distruggendosi e sottoponendo lo scozzese a una terribile decelerazione. Detriti e reti divelte da Franchitti finiscono in tribuna, ferendo numerosi spettatori. Dopo lunghi attimi di apprensione, arriva la notizia che Dario è cosciente, seppur molto dolorante. All’ospedale gli saranno riscontrate una frattura alla caviglia, un forte trauma cranico e altre fratture vertebrali, che vanno a sommarsi a quelle subite nel 2003. I primi giorni di degenza per Franchitti sono un calvario, in cui qualunque gesto costa una fatica enorme. Lo scozzese non vuole vedere nessuno in ospedale e una delle poche persone ammesse nella sua camera è il compagno di squadra Scott Dixon, diventato negli anni un grande amico. Dopo i primi tempi di riabilitazione, Dario può cominciare a pensare ai tempi di recupero e a quando potrà tornare in macchina, ma le sue aspettative vengono gelate dal parere di due medici di cui si fida ciecamente. Terry Trammell e Steve Olvey lo sconsigliano vivamente di riprendere a correre, in quanto un altro incidente potrebbe causare danni permanenti alla schiena e al cervello, già duramente provati dai vari incidenti subiti in carriera. Lo scozzese deve quindi prendere la decisione forse più difficile della sua vita, ritirandosi dalle competizioni e abbandonando il sogno non solo di vincere una quarta 500 miglia di Indianapolis, ma anche di iniziare una nuova avventura nell’endurance, a partire dalla 24 ore di Le Mans, in vista della quale ha già dei contatti aperti con il programma prototipi Porsche. Sulla falsariga di quanto fatto da Roger Penske con Rick Mears, Chip Ganassi offre a Dario la possibilità di continuare a lavorare con la squadra come consulente tecnico, due esperti occhi in più in grado di dare una diverso punto di vista a piloti e ingegneri. Nelle stagioni successive Franchitti è quindi impegnato a supportare i giovani della squadra, Karam, Kimball e Chilton, non mancando però di aiutare anche i più esperti Dixon e Kanaan, che possono attingere dalla infinita “banca dati” dello scozzese, ricca di trucchi e tecniche specifiche per le varie piste.

Toronto. indycar.com; Chris Jones
Toronto. indycar.com; Chris Jones

 

Anno Serie Squadra N Sponsor Gare Pos. Finale Punti Vittorie Podi Top5 Top10 Pole P.
1997 CART Hogan 9 Hogan 16 22 10 0 1 1
1998 CART Green 27 Kool 19 3 160 3 6 9 11 5
1999 CART Green 27 Kool 20 2 212 3 11 12 14 2
2000 CART Green 27 Kool 20 13 92 0 4 5 7 2
2001 CART Green 27 Kool 20 7 105 1 4 4 11 0
2002 CART Green 27 Kool 19 4 148 3 7 8 10 1
2002 IRL/IndyCar Green 27 7/Eleven 1 44 11 0
2003 IRL/IndyCar Green 27 Kool 3 25 72 0   1 2 0
2004 IRL/IndyCar Andretti-Green 27 Arca/Ex 16 6 409 2 4 5 8 1
2005 IRL/IndyCar Andretti-Green 27 Arca/Ex 17 4 498 2 6 8 13 1
2006 IRL/IndyCar Andretti-Green 27 Canadian Club 13 8 311 0 2 3 7 1
2007 IRL/IndyCar Andretti-Green 27 Canadian Club 17 1 637 4 11 13 16 4
2008 IRL/IndyCar Ganassi 10 Target 1*
2009 IRL/IndyCar Ganassi 10 Target 17 1 616 5 9 13 15 5
2010 IRL/IndyCar Ganassi 10 Target 17 1 602 3 10 13 15 2
2011 IndyCar Ganassi 10 Target 17 1 573 4 9 13 15 2
2012 IndyCar Ganassi 10 Target 15 7 363 1 4 5 7 5
2013 IndyCar Ganassi 10 Target 18 8 418 0 4 7 11 3
 Carriera             5237 31 91 119 163 35
Vittorie Stradali Cittadini Ovali Totale
1997 0 0 0 0
1998 Road America Vancouver Houston 1 2 0 3
1999 Detroit Toronto Surfers Paradise 0 3 0 3
2000 0 0 0 0
2001 Cleveland 1 0 0 1
2002 Rockingham Montreal Vancouver 0 2 1 3
2003 0 0 0 0
2004 Milwuakee Pikes Peak 0 0 2 2
2005 Nashville Fontana 0 0 2 2
2006 0 0 0 0
2007 Indy500 Richmond Iowa Chicago 0 0 4 4
2008 0 0 0 0
2009 Long Beach Iowa Sonoma Toronto Homestead 1 2 2 5
2010 Indy500 Mid Ohio Chicago 1 0 2 3
2011 St. Pete Texas 1 Milwaukee Toronto 0 2 2 4
2012 Indy500 0 0 1 1
2013 0 0 0 0
Totale 4 11 16 31
Quote 12,9% 35,5% 51,6% 100,0%

Dario Franchitti

The White Paper

Riportiamo un significativo stralcio dello storico White Paper, la lettera con cui nel 1978 Dan Gurney ha messo per la prima volta nero su bianco il malcontento delle squadre nei confronti dell’USAC, organizzatore del massimo campionato a ruote scoperte americane, lo USAC National Championship, in cui correvano le cosiddette Champcars. Quanto segue è la traduzione del documento riportato nel sito dell’All American Racers, la storica squadra del leggendario pilota e proprietario americano.

Negli ultimi  3 o 4 anni ho avuto conversazioni con quasi tutti i proprietari e direttori di team. Ho parlato con i piloti, con direttori del sanctioning body, con i proprietari dei circuiti, promoters, grandi sponsor, tifosi e altre parti interessate. In generale tutti concordano che c’è qualcosa di sbagliato nel nostro sport: non sta minimamente raggiungendo il suo pieno potenziale…e c’è un gran bisogno di cambiamento!

Dalle discussioni cui ho partecipato mi sono reso conto che siamo tutti così concentrati nel correre gli uni contro gli altri da non avere il tempo di fermarci e analizzare la situazione. Con frustrazione ho quindi capito che le cose devono ancora peggiorare prima di poterci dare una svegliata. Il nostro sport ha il potenziale per essere economicamente redditizio e sano, da un punto di vista commerciale, per tutti i partecipanti. Gran parte dei proprietari e dei direttori di team sono uomini d’affari di successo nelle loro vite extra corse. Come uomini d’affari dovremmo vergognarci di noi stessi per essere coinvolti in uno sport prestigioso come il Championship Racing, dotato di un gran potenziale ma debole e disorganizzato come si trova allo stato attuale. È veramente strano che con tutti questi “pesi massimi” coinvolti, non siamo ancora riusciti a muoverci insieme. (“Dividi e impera” sembra ancora funzionare, no?)

O.K.! Cosa dovremmo fare allora? Per prima cosa facciamo una piccola digressione. Studiamo un po’ di storia. Nei primi anni ’70, le condizioni della Formula 1 erano simili a quelle in cui versa ora lo USAC Championship. Il pubblico era poco, gli sponsor difficili da trovare, i media erano poco interessati, le spese alte e in crescita e il panorama era di totale disorganizzazione.

Fu a questo punto che la gravità della situazione li ha resi uniti e pronti a formare un organizzazione chiamata Formula 1 Constructors Association (FOCA). Hanno scelto un uomo chiamato Bernie Ecclestone come capo delle operazioni e negoziatore e si sono impegnati solennemente a rispettare al 100% ogni sua decisione. Si sono rimboccati le maniche e hanno aggiornato completamente il loro sport, al punto che il pubblico pagante è molto molto aumentato, gli sponsor sono tanti e contenti di essere coinvolti, la stampa copre vigorosamente tutti gli eventi in TV e lo stesso fanno riviste e quotidiani in tutto il mondo, e i soldi stanno tornando ai costruttori e ai proprietari dei circuiti sotto forma di maggiori vendite di biglietti, più sponsorizzazioni, maggiori montepremi e lo spettatore assiste a uno spettacolo migliore per i soldi che ha speso.

Il fatto ovvio è che la FOCA ha trasformato la Formula 1 da un gruppo di squadre deboli e divise, senza alcuna forza o potere contrattuale, in un business fiorente. Lo hanno fatto unendosi e prendendosi un impegno del tipo “non si torna più indietro”. Parlano con una voce sola (quella del negoziatore scelto) e quella voce ha acquisito autorità rapidamente.

Ora, è vero che Championship racing e Formula 1 sono realtà differenti e quindi ci vorrà un tipo di organizzazione un po’ diverso per portare miglioramenti. Parlo della FOCA solo come un esempio di qualcosa che ha funzionato senza mezzi termini. Penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che i costi del nostro campionato siano cresciuti al punto da essere ridicoli, e allo stesso tempo i montepremi non sono cresciuti affatto, anzi si sono ridotti considerando gli effetti generali dell’inflazione sull’economia USA.

Al momento noi, i proprietari di team, siamo quelli che devono fare di gran lunga lo sforzo più grande, siamo quelli che fanno i maggiori investimenti con poche o nessuna speranza di guadagnarci qualcosa, ma siccome siamo stati così concentrati nel battagliare tra noi, abbiamo lasciato che proprietari dei circuiti, promoters e sanctioning body ci portassero a spasso prendendosi tutti i vantaggi. L’USAC per esempio negozia con le TV come se avesse i diritti TV che, se volessimo andare in fondo alla questione, sarebbero nostri (Proprietari di macchine e teams).

È ovvio che se Long Beach (in F1, n.d.t.) può permettersi di pagare un montepremi di circa 1.000.000$ a gara dopo soli 5  anni di esistenza (hanno iniziato nel 1974), con un pubblico pagante di massimo 70.000 spettatori fin ora, allora Indy con un pubblico di oltre 600.000 spettatori (200.000 nel primo weekend, 100.000 nel secondo e 300.000 per la gara, quindi 600.000 paganti in tutto), una tradizione lunga 60 anni e la sua copertura TV internazionale, potrebbe permettersi di pagare più di 2 milioni di $ come montepremi, a voler essere onesti. Come ha detto il sig. Lindsey Hopkins: “Siamo quelli che hanno fatto di più per costruire le tribune a Indianapolis rispetto a chiunque altro. IMS dovrebbe ringraziarci ogni anno, in aggiunta ai ringraziamenti che noi facciamo loro”.

In tutte le nostre discussioni, come proprietari di macchine e team leaders, abbiamo concordato che è essenziale continuare a supportare l’USAC come sanctioning body del Championship racing. L’unico miglioramento sarà che l’USAC lavorerà per noi e supporterà la nostra causa e le nostre politiche. Deve essere chiaro che l’intento di questa organizzazione è migliorare le corse in senso generale. Non solo per i proprietari o i piloti, ma anche per i padroni dei circuiti, i promoters, il sanctioning body, gli sponsors, i sostenitori e ultimi ma non meno importanti, i tifosi e il pubblico pagante.

In ultima analisi ovviamente avere più spettatori paganti è la chiave del successo per tutti. I proprietari di piste e gli organizzatori, promuovendo aggressivamente questi grandi eventi che da contratto dovrebbero includere le squadre e le stars, avrebbero un pubblico maggiore…che in cambio attirerà gli sponsors e l’attenzione delle TV e quindi altra gente ecc., innalzando tutto il modello economico dello sport. È mia ferma convinzione che piuttosto che tagliare i costi delle corse, cosa quasi impossibile, è molto più importante rendere i soldi più rapidamente disponibili, aumentando la popolarità e il prestigio dello sport agli occhi del pubblico generale.

I circuiti non intenzionati a mettere in campo impegno e promozione adeguati a raggiungere il livello minimo di montepremi non dovrebbero poter ospitare gare. L’alternativa è quella di permettere alla nostra organizzazione (quest’idea è presa dalla FOCA) di prendere in gestione le piste con un accordo ragionevole, promuoverci le gare e farle dove pensiamo possano avere successo. Sempre sanzionate dall’USAC naturalmente. Per esempio, il GP di Germania a Hockenheim sarà organizzato e promosso dalla FOCA quest’anno, 1978.

Ora, come arriviamo da qui a lì? Per coma la vedo io, il primo passo è analizzare la situazione, riunirci e formare l’’organizzazione. (Chiamiamola CART o Championship Auto Racing Teams). Una volta che tutti saremo d’accordo sul fatto che c’è bisogno della CART allora dobbiamo decidere cosa vogliamo fare e come vogliamo farlo. Penso che l’organizzazione possa essere portata avanti da uno staff di tre persone. Un direttore/negoziatore, un segretario e uno che tenga i conti per il personale. Avremo bisogno di una carta per gli spostamenti aerei, una carta telefonica e un conto spese. Si dice che Bernie non abbia niente del genere, lavora solo con una commissione del 2% su tutto ciò che ha fatto tramite la FOCA.

Penso che una “resa dei conti” con l’Indianapolis Motor Speedway è o debba essere il primo obiettivo. Loro sono quelli che possono permetterselo. Dovremmo rinegoziare il contratto TV (diritti nostri, non loro) e dovremo chiedere un montepremi doppio. Con le altre piste dovremmo negoziare sulla base di un ragionevole ritorno su tutti i fronti come TV, incassi dai biglietti, pubblicità degli sponsors ecc. Il tutto dovrebbe essere visto dal punto di vista della cooperazione piuttosto che del cercare di ucciderci l’un l’altro.

Dobbiamo lavorare insieme per capire come migliorare il marketing complessivo, la pubblicità. Se la CART potesse mandare preventivamente i piloti e del materiale informativo a giornali, stazioni TV, camere di commercio, organizzazioni civiche, scuole, ecc. allora dovremmo farlo. È vitale risolvere il problema di come ottenere più soldi da pubblicità e televisioni, così da avere una torta più grande da spartirsi…l’unico modo perché le nostre richieste di montepremi più alti abbiano validità è che i soldi effettivamente ci siano. A meno che non si riesca a vedere i libri contabili dei vari circuiti, negozieremo sempre da una posizione di ignoranza. Mi sembra che potremmo essere tutti molto più avanti se lavorassimo (squadre e circuiti, n.d.t.) insieme piuttosto che divisi. Dobbiamo vedere le loro dichiarazioni dei redditi e i loro libri.

Con il giusto programma di esposizione, una compagnia petrolifera può ottenere il sufficiente livello di ritorno dall’essere lo sponsor esclusivo della Championship series. Sigarette, whiskey, banche…abbiamo bisogno di una squadra di promozione e vendita molto aggressiva con gente molto in gamba a gestirla. Come finanziamo questa operazione CART? Costi di partecipazione? Percentuali sulle vincite? Ecc. Sono aperto a proposte. Qualcuno (il nostro uomo della CART) deve essere parte di tutte le negoziazioni che Dick King (presidente dell’USAC, n.d.t.) fa con i vari promoter delle piste, la gente della televisione, gli sponsor del campionato ecc.

Dan Gurney

Da USAC a ChampCar passando per la CART

La nascita del campionato CART nel 1979 è il risultato dell’evoluzione subita dalle corse a ruote scoperte americane negli 80 anni precedenti.  Fino agli anni ‘50 la AAA, American Automobile Association, controllava buona parte delle attività motoristiche svolte negli USA dall’inizio del 20° secolo, fino a quando una serie di tragedie, culminate nel 1955 con la morte di 80 spettatori a Le Mans, non ha portato alla sua improvvisa uscita di scena dall’ambito sportivo. Ne seguì la formazione dell’USAC, lo United States Auto Club, voluto dal presidente dell’Indianapolis Motor Speedway Tony Hulman, che riprese da dove l’AAA aveva lasciato, patrocinando le corse di Midget, Sprint Cars, stock cars e “Championship cars”, le auto che animavano la gara più ricca e importante del mondo, la Indianapolis 500.

Se la corsa dell’Indiana rappresentava l’apice del motorismo americano, il resto del campionato rimaneva una serie di eventi più o meno collegati tra loro, piuttosto che continuare il discorso iniziato nel mese di maggio. Dopo la morte di Tony Hulman nel 1977, le squadre cominciarono a manifestare apertamente il proprio malcontento per la dilettantesca gestione del campionato. La successiva scomparsa dell’intero gruppo direttivo USAC in un incidente aereo a inizio ’78, allargò il vuoto di potere, finendo per far sfociare i numerosi incontri tra personaggi come Dan Gurney, Pat Patrick, Jim Hall, Roger Penske, Teddy Mayer e Tyler Alexander nel famoso “White Paper”, in cui lo stesso Gurney metteva nero su bianco i problemi della serie e i possibili correttivi proposti dalle squadre. Il messaggio era chiaro: “C’è qualcosa di sbagliato nel nostro sport, non sta minimamente raggiungendo il suo pieno potenziale e c’è un gran bisogno di cambiamento!”.

La frustrazione dei proprietari si concentrava soprattutto sui premi gara troppo scarsi e la pessima esposizione mediatica, che oggi come allora rendeva molto arduo il reperimento di adeguati sponsor. Una condizione in netto contrasto con il grande sviluppo commerciale che contemporaneamente altri sport come golf, football e baseball stavano incontrando, per non parlare della F1, che Bernie Ecclestone cominciava a trasformare in uno spettacolo globale. La gran parte dei team manager era d’accordo e quando USAC e IMS sdegnatamente rifiutarono di riconoscere le preoccupazioni delle squadre, non ci volle molto perché i proprietari formassero una propria associazione.

La Championship Auto Racing Teams era quindi pronta a partire. “Pensavamo tutti che il potenziale fosse molto maggiore di una sola grande corsa all’anno” ricorda Gurney, “ma una cosa che posso dire per certo, essendo stato uno dei membri del primo gruppo direttivo della CART, è che tutti volevamo solo far crescere la Indy500. Era già l’evento sportivo di un giorno più grande del mondo, quindi non aveva bisogno di grossi cambiamenti, ma noi volevamo migliorare il resto della stagione, non la 500 miglia”. Ci furono molti problemi all’inizio, con polemiche e cause legali, ma sotto la guida dell’avvocato John Frasco presto la CART ottenne il supporto, come sanctioning body ad interim, del SCCA, lo Sports Car Club of America, ed era pronta a organizzare la sua prima corsa a Phoenix, l’11 Marzo 1979, davanti a un grande pubblico e con la diretta nazionale su NBC.

L’USAC non cedette, cercando di bloccare l’iscrizione delle squadre CART alla Indy500 e andando avanti con il suo campionato, ma entrambe le iniziative si rivelarono un buco nell’acqua. Il tribunale dette infatti ragione alla CART, riconoscendo il diritto delle squadre di partecipare alla corsa in cui i ribelli, guidati da Rick Mears, sbaragliarono la concorrenza. “Non ci feci molto caso allora, ma ripensandoci la situazione tolse molto alla mia prima vittoria, con tutte le cause e il casino che andava avanti” dice Mears. “La vittoria a Indy arrivò e passò molto in fretta. Non ebbe lo stesso peso che avrebbe avuto normalmente. Ma la cosa non mi infastidì, l’avevo vinta ed era tutto ciò che avevo bisogno di sapere; dovevo solo andare avanti e vincerla di nuovo!”. Il trionfo della CART fu mitigato dal secondo posto di AJ Foyt, fedele all’IMS fino all’ultimo ma in definitiva costretto a “convertirsi”, quando nel 1981 l’USAC per riempire la griglia del suo campionato arrivò in qualche occasione a far correre insieme Champ cars e Midgets.

Il rapporto tra CART e Indianapolis continuò quindi come una sorta di convivenza forzata. Lo Speedway non poteva fare a meno delle squadre, che a loro volta avevano bisogno del palcoscenico principale. Dopo un breve tentativo di tregua nel 1980, la Indy500 rimase esclusiva del morente campionato USAC fino al 1983, quando si raggiunse finalmente un accordo per includerla nel calendario CART, pur rimanendo interamente gestita da USAC e IMS, sia da un punto di vista commerciale che tecnico e sportivo. Nel frattempo la CART incassò il determinante supporto delle PPG Industries, che divennero il title sponsor della serie, ottenendo più tardi la concessione da parte dello Speedway di ribattezzare il campionato come PPG IndyCar World Series, associando quindi ufficialmente le Champ cars a Indianapolis.

 

Il logo della neonata CART

 

Rick Mears, primo campione CART e vincitore della Indy500 1979 alla guida della Penske PC6. indycar.com
Rick Mears, primo campione CART e vincitore della Indy500 1979 alla guida della Penske PC6. indycar.com

 

Prima fila a Indianapolis ‘80, il futuro vincitore Rutherford affiancato dalle Penske di Andretti e Bobby Unser. pinterest.com; Erich Lippert

 

Partenza dell’ultima corsa del 1980. Mario Andretti su Penske PC9 precede il campione Rutherford su Chaparral. In seconda fila Pancho Carter su Penske PC7 e Al Unser su Longhorne LR-01. Terza fila per Rick Mears su Penske PC9 e Tom Sneva su Phoenix, che andrà poi a vincere. Tutti sono motorizzati Cosworth DFX.

 

Il particolare “ovale” di Trenton

 

I primi anni di competizione vedono il team Penske come grande protagonista. Dopo aver conquistato la Indy 500, il poco più che debuttante Mears vince anche il titolo ‘79, precedendo il compagno Bobby Unser, secondo anche nel 1980 quando però a trionfare è Johnny Rutherford sulla Chaparral 2K progettata da John Barnard. La vettura americana porta oltreoceano il concetto di wing car introdotto tre anni prima dalla Lotus in F1, consentendo a “Lone Star” Rutherford di accaparrarsi anche la Indy 500. Il 1981 vede il ritorno al vertice della Penske, con Unser che conquista un discusso successo a Indianapolis su Mario Andretti mentre Mears domina il resto della stagione, proseguendo con lo stesso passo anche nell’82 con la nuova Penske PC10, con cui “Rocket” manca però la seconda affermazione a Indianapolis, persa di un soffio contro la Wildcat di Gordon Johncock in un finale memorabile.

L’inizio degli anni ’80 segna anche una nuova invasione dei costruttori inglesi. Nonostante il terzo titolo di Mears arrivi senza troppi patemi, la March già nel 1982 prende infatti il controllo del mercato telaistico, trionfando a Indianapolis nel 1983, dove la vettura inglese è portata in pole dal debuttante Teo Fabi e alla vittoria da Tom Sneva davanti alle Penske di Unser Sr. e Mears. E’ però lo stesso Al Sr. a portare a casa il titolo, grazie a una lunga serie di piazzamenti in top 5 che gli permettono di contenere la rimonta di Fabi, secondo per 6 soli punti nonostante 4 esaltanti vittorie. Paradossalmente è la stessa CART a facilitare la nuova invasione britannica, bloccando due anni prima lo sviluppo della Eagle BLAT, rivoluzionaria vettura progettata da John Ward e Trevor Harris, spinta da uno stock block Chevy in alluminio, che già prevede lo sfruttamento dei gas di scarico per generare deportanza e in generale basata su concetti totalmente diversi dalle convenzionali wingcars. Nelle mani di Mike Mosley la vettura americana umilia tutti a Milwaukee nel 1981, mancando la vittoria a Indy e Michigan per banali guasti meccanici. Stessa sorte tocca a Rocky Moran e Geoff Brabham negli appuntamenti di Watkins Glen e Riverside. Non accettando il rischio di dover convertire le proprie vetture ai concetti introdotti dalla Eagle, i poteri forti del campionato ottengono per il 1982 delle modifiche regolamentari che rendono inefficace la vettura di Dan Gurney, che dopo qualche anno sposta il suo impegno nel campionato IMSA.

Questi episodi non stemperano comunque l’interesse crescente di pubblico e partecipanti verso la serie, che già dai primi anni ’80 comincia a essere terreno di approdo per team e piloti della declinante Can Am. Fra loro Truesports e Newman Haas e piloti del calibro di Bobby Rahal, Geoff Brabham, Danny Sullivan e Al Unser Jr, figlio d’arte al quale si unisce a partire dal 1983 il fresco campione di F.Atlantic Michael Andretti. Dopo un decennio di dominio del motore Cosworth DFX turbo, a metà anni ’80 si assiste poi a un cambio della guardia anche tra i propulsori, con l’avvento del V8 Ilmor Chevrolet, dominatore della scena fino al 1991, che vince la concorrenza dell’obsoleto DFX oltre che delle unità presentate a fine decennio da Porsche, Alfa Romeo e Judd.

L’unica vittoria della Eagle BLAT a Milwaukee nel 1981; motorsportmagazine.com; Racemaker/Torres

 

Rick Mears, qui a Riverside, al volante della Penske PC10, dominatrice della stagione 1982. pinterest.com
Rick Mears, qui a Riverside, al volante della Penske PC10, dominatrice della stagione 1982. pinterest.com

 

comicozzie.com; Jerry Winker
Al Unser Sr. vince una sola prova nel 1983, ma la sua proverbiale consistenza gli consente comunque di conquistare il titolo con la recalcitrante Penske PC10B. Un copione simile si ripeterà due anni dopo con la March. comicozzie.com; Jerry Winker

 

Pit stop per Tom Sneva (March-Cosworth) che si avvia a vincere l’edizione 1983 della Indy 500. indycar.com

 

Mario Andretti conquista 6 vittorie nel 1984, compresa la prova inaugurale di Long Beach, laureandosi campione CART. Per il campione del mondo 1978 si tratta del quarto titolo nazionale.
Mario Andretti conquista 6 vittorie nel 1984, compresa la prova inaugurale di Long Beach, laureandosi campione CART. Per il campione del mondo 1978 si tratta del quarto titolo nazionale. http://3.bp.blogspot.com/

 

Rick Mears trionfa a Indianapolis 1984 rifilando 2 giri al più immediato inseguitore, Roberto Guerrero, dopo l'uscita di scena dei rivali più pericolosi, Sneva e Unser Jr.
Rick Mears trionfa a Indianapolis 1984 rifilando 2 giri al più immediato inseguitore, Roberto Guerrero, dopo l’uscita di scena dei rivali più pericolosi, Sneva e Unser Jr.

 

I nuovi arrivati non perdono tempo per affermare la propria competitività e se la Indy 500 1984 va a Rick Mears al volante di una March pesantemente modificata dal team Penske, il campionato è appannaggio di Mario Andretti alla guida della Lola-Cosworth del team Newman Haas, storico importatore del costruttore inglese. Il primo titolo per la March arriva l’anno seguente, grazie alla solita consistente stagione di Al Unser Sr., che da sostituto dell’infortunato Mears ha la meglio sulla Lola del figlio “Little Al” per un solo punto. La Indy 500 va invece a Danny Sullivan, vincitore al termine di un lungo duello con Mario Andretti nell’edizione ricordata per il celeberrimo “spin and win” dell’ex pilota Tyrrell.

L’andamento dei campionati successivi è un’ottima cartina tornasole dell’evoluzione della serie. Un duello fino all’ultima corsa caratterizza le stagioni ’86-’87, che vedono Bobby Rahal beffare per due volte Michael Andretti, con Al jr. più staccato e gli specialisti degli ovali sempre più relegati al ruolo di comprimari da un calendario che progressivamente sposta il suo baricentro su stradali e cittadini, riducendo il numero di ovali. Col passare degli anni infatti la CART inizia ad espandere la sua attenzione verso alcuni dei circuiti permanenti più celebri del paese: inizialmente Watkins Glen e Riverside per passare poi a Mid Ohio, Road America, Portland, Cleveland e Laguna Seca, che diventano in breve appuntamenti fissi così come Long Beach, inserita nel calendario CART nel 1984. Causa ed effetto del cambiamento è anche il sempre maggiore interesse dei piloti di estrazione europea verso il campionato. Dopo la positiva esperienza di Teo Fabi, la CART rilancia la carriera di Roberto Guerrero, dando poi una nuova giovinezza ad Emerson Fittipaldi. Alcune stagioni di apprendistato precedono infatti un 1989 strepitoso per il brasiliano,  che al volante di una Penske del team Patrick arricchisce il suo già straordinario palmares in una drammatica edizione della Indy500, vinta dopo un contatto ruota a ruota con Al Unser jr a due giri dal termine. Qualche mese dopo Emmo riesce a portare a casa anche il campionato, al termine di un lungo confronto col compagno di marca Mears, la Lola-Chevy di Michael Andretti e la March-Porsche di Teo Fabi.

Stagioni di esaltante competizione in pista non cancellano però le tensioni tra squadre e IMS, ne i dissapori all’interno della stessa CART, la cui composizione è ormai nettamente cambiata rispetto alla formazione originale, con il progressivo abbandono della McLaren e personaggi come Jim Hall e Dan Gurney. Accusato di favorire i suoi ex datori di lavoro Pat Patrick e Roger Penske e mai del tutto accettato dall’ambiente per la sua poca competenza in ambito motoristico, dopo 8 anni da CEO John Frasco è sostituito brevemente dal suo sottoposto John Caponigro e dall’ex meccanico e proprietario di team John Capels, fino all’arrivo nel 1990 di Bill Stokkan. Ex marketing manager per Playboy e Carlsberg, neanche Stokkan ha particolare esperienza nel mondo dei motori, ma riesce ad allargare ulteriormente i confini del campionato, sfidando la FISA nell’organizzare la corsa di apertura del campionato 1991 a Surfers Paradise, nella Gold Coast australiana. L’espansione agli antipodi non rappresenta però una vera novità, arrivando dopo le due corse di Mexico City nelle stagioni ’80-’81, cui hanno fatto seguito le trasferte in Canada sull’ovale di Sanair, fino all’approdo nel 1986 all’Exhibition Place di Toronto, un appuntamento divenuto nel tempo un classico.

È un periodo contrastante per la CART, anche a causa di un progressivo incremento dei costi che, nonostante i continui record di pubblico e ascolti, nel biennio ’91-’92 fa oscillare di gara in gara il parco partenti tra le 21 e le 28 vetture. Parallelamente la tensione con l’IMS e il suo nuovo presidente, Tony George, cresce di anno in anno. La frustrazione del nipote di Tony Hulman risiede nel progressivo allontanamento del campionato dalle sue origini, con un calendario che concentrandosi per due terzi su stradali e cittadini rende sempre più difficile l’avanzare dei giovani piloti provenienti dai circuiti USAC verso Indianapolis, con le squadre che  guardano con sempre maggiore interesse ai piloti di estrazione europea. A ciò si somma la dipendenza della serie dai motoristi, con contratti di leasing ferrei che rendono difficile la vita delle piccole squadre e di chi, anche all’ultimo momento, volesse iscriversi alla 500 miglia, passati vincitori compresi. Più di tutto comunque il motivo di discordia è lo scarso peso che lo Speedway gioca all’interno del consiglio di amministrazione della CART, dove Tony George è trattato come il padrone di una normale pista del calendario, quando l’importanza della Indy500 per il successo del campionato è ovviamente cruciale.

 

Da sostituto di Rick Mears, Al Unser (March 85C-Cosworth) fa suo anche il campionato 1985. pinterest.com
Da sostituto di Rick Mears, Al Unser (March 85C-Cosworth) fa suo anche il campionato 1985. pinterest.com

 

Bobby Rahal, campione CART ’86 e ’87 qui a Long Beach 1987 alla guida della Lola-Cosworth del team Truesports

 

Pazzo finale a Portland 1986 tra gli Andretti e Al Unser Jr.

 

Dal punto di vista sportivo e della competizione il campionato comunque continua a crescere. Oltre ai titoli ’86 e ’87 Bobby Rahal porta a casa nel 1986 una Indy 500 da antologia, avendo la meglio su Rick Mears e Kevin Cogan all’ultima ripartenza a due giri dal termine, segnando il giro più veloce all’ultimo passaggio nonostante il serbatoio praticamente vuoto. È anche l’ultima grande gioia per il suo capo Jim Trueman, che qualche giorno più tardi perde la battaglia contro il cancro, a soli 51 anni. La 500 miglia 1987 va invece ad Al Unser Sr., alla guida di una March-Cosworth vecchia di un anno, ritirata in fretta e furia dal team Penske dalla hall di un hotel. Il quarto successo in carriera allo Speedway per “Big Al” arriva dopo aver visto tutti i piloti Chevrolet fermarsi con problemi al motore, compreso il dominatore assoluto della corsa Mario Andretti, mentre Roberto Guerrero getta al vento la vittoria facendo spegnere il motore durante l’ultima sosta.

Nel 1988 l’ingaggio dell’ex progettista Lola Nigel Bennett porta alla “rinascita” della Penske, con il dominio in campionato di Danny Sullivan e il terzo successo in carriera a Indianapolis di Rick Mears. I meriti della nuova PC17 nei successi degli alfieri del Capitano vanno però ripartiti con il motore Ilmor Chevrolet, che dopo due anni di rodaggio fa piazza pulita dei vecchi Cosworth. Dopo la doppietta del 1989 con la Penske del team Patrick, il 1990 vede il passaggio di Emerson Fittipaldi e dello sponsor Marlboro al team Penske, ma è ormai il tempo  delle nuove leve, con Al Unser Jr. e Michael Andretti vincenti in 11 dei 16 appuntamenti della stagione e “Little Al” finalmente campione al volante della Lola-Chevy del team Galles. Indianapolis va invece a sorpresa ad Arie Luyendyk, autore di un record sulla distanza di gara che resisterà 23 anni. Il 1991 è finalmente l’anno di Michael Andretti e del team Newman Haas, che dopo un travagliato avvio di stagione mettono insieme 8 vittorie, avendo la meglio sull’eterno rivale Bobby Rahal. Per Michael il tanto agognato titolo mitiga la delusione patita a Indianapolis dove, dopo aver dominato buona parte della corsa, il giovane americano è beffato a pochi giri dal termine da Rick Mears, alla conquista della quarta affermazione allo Speedway dopo un duello leggendario.

Il quadro tecnico cambia ancora nel 1992, quando la Ford decide di rientrare ufficialmente nel campionato, affidando il suo Cosworth XB ai team Newman Haas e Ganassi. Michael Andretti è ancora una volta il pilota più veloce del campionato, ma il potente XB si rivela ancora acerbo per permettere all’americano di confermare un titolo che va ancora una volta a Bobby Rahal, al debutto nel ruolo di pilota/proprietario di team dopo essere entrato in società con Carl Hogan. All’ultima gara di Laguna Seca un terzo posto è sufficiente al pilota dell’Ohio per conquistare il terzo campionato in carriera con soli 4 punti di vantaggio su Andretti, che però vive la delusione più cocente a Indianapolis, dove si ritira a 13 giri dal termine dopo aver dominato la corsa dalla prima curva. Il forfait di Andretti lascia strada libera ad Al Unser Jr, che pochi secondi prima della neutralizzazione supera Scott Goodyear, complice il doppiaggio di Lyn St. James. Negli ultimi sette giri il canadese prova in tutti i modi a riguadagnare la posizione, chiudendo sul traguardo a soli 43 millesimi da “Little Al” che, commosso, giustifica le sue lacrime in victory lane con un “you just don’t know what Indy means” che passerà alla storia.

 

Storico logo del campionato CART reintitolato PPG IndyCar World Series. Durerà fino al 1996.

 

Prima fila Penske-Chevrolet a Indy 1988. In pole il vincitore Rick Mears davanti al campione CART ’88 Danny Sullivan e il due volte campione Al Unser Sr.

 

Emerson Fittipaldi (Penske-Chevrolet), precede Teo Fabi (March-Porsche) a Detroit 1989. pinterest.com
Emerson Fittipaldi (Penske-Chevrolet), precede Teo Fabi (March-Porsche) a Detroit 1989. pinterest.com
Al Unser Jr., campione 1990, alla conquista di una delle sue 6 vittorie a Long Beach

 

Arie Luyendyk festeggia la vittoria alla Indianapolis 500 1990

 

Rick Mears e il campione 1991 Michael Andretti si giocano la vittoria a Indianapolis

 

Il tre volte campione Bobby Rahal (Lola-Chevrolet) precede a Laguna Seca la Lola-Ford di Eddie Cheever

 

Rick Mears e Michael Andretti raccontano il finale della Indy500 1991

 

Storico duello tra Al Unser Jr e Scott Goodyear al termine della Indy 500 1992

 

La crescente popolarità della CART esplode letteralmente alla fine del 1992 quando Nigel Mansell, dopo mesi di infinite trattative con la Williams, cede alle lusinghe di Paul Newman e per la stagione successiva prende il volante della Lola-Ford lasciata libera da Michael Andretti, che tenta il salto opposto approdando in McLaren al fianco di Ayrton Senna.  L’impatto di Mansell sul campionato è a 360°: alla prima corsa di Surfers Paradise l’attenzione mediatica è paragonabile ai livelli raggiunti solo durante il mese di maggio, rendendo istantaneamente inadeguate le sale stampa di buona parte dei circuiti. La competizione in pista diventa ancora più serrata, con la diffusione di manovre difensive più dure fino a quel momento poco tollerate.

L’adattamento del pilota inglese al campionato è stupefacente, da campione del mondo. Tra sorpassi, penalità e diverse strategie Mansell si aggiudica pole e vittoria in Australia nel tripudio generale, ma è poi costretto a saltare la seconda prova di Phoenix dopo un tremendo incidente in prova, che gli procura un bruttissimo infortunio alla schiena. Il pilota inglese corre in condizioni estremamente critiche le prove successive, andando vicinissimo alla vittoria a Indianapolis, dove è però beffato nel finale da Fittipaldi e Luyendyk. Il campionato vive sul confronto Mansell-Penske, con Rahal frenato dal progetto di rendere competitiva l’unica vettura interamente americana in griglia, la Truesports, mentre Al Unser Jr. vive un’ultima, poco soddisfacente annata al team Galles. L’avversario di Mansell per il titolo è il consistente Fittipaldi, ma il vero rivale dell’inglese si dimostra il 25enne Paul Tracy, che a fine campionato mette insieme lo stesso numero di vittorie, 5, cui non si sommano però i tanti punti persi per incidenti evitabili, oltre a diverse rotture meccaniche. Nonostante 7 poles, Mansell dopo Surfers Paradise non vince più su stradali e cittadini, mettendo invece insieme 4 vittorie su ovali, che unite all’affidabilità del motore Ford gli permettono di diventare il primo pilota a vincere consecutivamente il titolo in F1 e IndyCar.

La stagione 1994 segna un’altra svolta, con importanti novità sul piano tecnico e sportivo. Abbandonata la F1 la Honda si lancia alla conquista del Nord America, affrontando una difficile stagione d’esordio con il team Rahal. Sul fronte dei telai, dopo i successi mietuti in F.3000 la Reynard lancia la sfida a Lola e Penske, affrontando le particolari esigenze delle vetture da ovale. In un solo anno il parco partenti cresce enormemente di livello, con Michael Andretti a portare al debutto la Reynard del team Ganassi, la promessa Robby Gordon a guidare la Lola-Ford del team Walker e l’arrivo sulla Reynard del team Green/Forsythe del debuttante Jacques Villeneuve. La novità più importante è però il passaggio, fortemente voluto dalla Marlboro, di Al Unser Jr. al team Penske.

Il campionato è un monologo delle vetture bianco-rosse, capaci di conquistare 12 delle 16 corse in programma, con Andretti che porta alla vittoria la Reynard in Australia e a Toronto, Scott Goodyear che vince a sorpresa la Marlboro 500 di Michigan e Jacques Villeneuve che si laurea rookie of the year, portando a casa un successo strepitoso sul difficile stradale di Road America. Al Unser Jr. è praticamente impeccabile e le poche volte in cui non si dimostra il pilota più redditizio della squadra, è un pizzico di fortuna ad aiutarlo nel portare a casa 8 vittorie e il titolo con anticipo record, mentre Fittipaldi e Tracy precedono il primo dei “mortali”, Michael Andretti.

Ovviamente anche Indianapolis è un affare privato tra le Penske, reso ancor più memorabile da un cambiamento regolamentare introdotto dall’USAC nel ’93 che, nel tentativo di attirare più costruttori americani, ammette unità anche non strettamente di serie per i motori con distribuzione ad aste e bilancieri, che godono di notevoli vantaggi in termini di pressione di sovralimentazione. Solo Ilmor e Penske però raccolgono la sfida, preparando in gran segreto un propulsore apposito che, provato al banco, supera i 1000 cv contro gli 820 del classico Ilmor D. Le Penske dominano il campo ma solo Unser vede il traguardo, precedendo Villeneuve dopo l’incidente di Fittipaldi a 10 giri dal termine. Il trionfo segna anche l’inizio della collaborazione tra Ilmor e Mercedes, oltre all’ingresso della casa tedesca nel campionato. Per Mansell una stagione storta in cui la sua classe non basta a compensare un po’ di sfortuna e una Lola tutt’altro che irresistibile, relegando il campione ’93 all’ ottavo posto finale, senza vittorie.

 

Il violentissimo incidente di Mansell a Phoenix 1993. motoreverso.com

 

Il Leone con la PPG cup, gli ex rivali in CanAm Paul Newman e Carl Haas e il loro uomo PR Mike Knight

 

Emerson Fittipaldi e il succo della discordia a Indy 1993. In victory lane il due volte campione del mondo si rifiuta infatti di bere il tradizionale latte, in favore del succo d’arancia da lui prodotto, innescando un fiume di polemiche che andrà avanti per anni.

 

Al Unser Jr al secondo trionfo allo Speedway. Little Al si aggiudicherà a fino anno anche il secondo titolo CART
Il motore Ilmor E preparato dalla casa inglese in esclusiva per la Penske a Indy 1994. jalopnik.com

 

Ritorno sopra le righe ma comunque vincente per Michael Andretti (Reynard-Ford) a Surfers Paradise 1994

 

Veloce ma spesso sfortunato, per Raul Boesel la vittoria in IndyCar rimarrà sempre una chimera

 

Teo Fabi torna in IndyCar dopo la fine della deludente esperienza Porsche e la vittoria del Mondiale Prototipi 1991. Il pilota italiano, molto considerato in USA, corre nel biennio ’93-’94 con il team del mitico Jim Hall (di ritorno nella serie fino al ’96) passando poi nel 1995 al team Forsythe, la stessa squadra che lo lanciò nel 1983. Per il milanese due gare anche nel ’96 con Pac West, in sostituzione dell’infortunato Blundell.

 

Storico duello Mansell-Fittipaldi a Cleveland 1993

 

Finale di Indianapolis 1994

 

Arrivederci Mario

 

Il 1995 è l’anno di Jacques Villeneuve, vincitore di 4 corse che unite a una notevole consistenza lo tengono al riparo dal ritorno di Al Unser Jr., che nonostante i guai del canadese non riesce a ribaltare la situazione nell’ultimo appuntamento di Laguna Seca. Michael Andretti, tornato al team Newman Haas dopo i ritiri di Mansell e del padre Mario, si conferma il pilota più veloce, pagando però qualche errore di troppo oltre alla non sempre ottimale affidabilità della sua Lola-Ford. Per Reynard, Ford e Goodyear il titolo si aggiunge a una incredibile edizione della 500 miglia di Indianapolis, che vede le Penske incapaci di qualificarsi, Michael Andretti gettare al vento la vittoria durante un doppiaggio, le potentissime Menard subito attardate da problemi tecnici e infine una girandola di potenziali vincitori uscire di scena, tra cui Scott Goodyear, che nel finale supera la  safety car prima che questa imbocchi la corsia box, gettando al vento una meritata vittoria per sé, il nuovo potente motore Honda e la rientrante Firestone. A gioire in victory lane è quindi ancora Jacques Villeneuve, che riesce a sovvertire l’incredibile penalizzazione di due giri subita a metà gara per la stessa infrazione. Per il costruttore giapponese e la casa americana un parziale rivincita arriverà qualche mese più tardi, con la vittoria del rookie Ribeiro a Loudon.

La crescita di qualità e popolarità della serie non aiuta però a tenere sotto controllo la diatriba con Tony George e l’IMS, che spingono per una completa revisione del sistema di controllo del campionato. Per sbloccare la situazione di immobilismo decisionale che caratterizza il consiglio direttivo della CART, George propone una nuova composizione, più snella, comprendente due proprietari di team ed esponenti USAC, PPG e lo stesso presidente IMS. Dopo aver a lungo rigettato la proposta, il consiglio accetta una riorganizzazione temporanea, che vede nel gruppo direttivo 5 proprietari di team (Penske, Walker, Coyne, Hall e Haas) con diritto di voto, affiancati da Stokkan e George come consiglieri. L’obiettivo del nuovo corso è conseguire quella riduzione dei costi da tutti auspicata, cercando di far prevalere gli interessi del campionato su quelli dei singoli proprietari, problema che di fatto affligge la CART dalla sua formazione. Nonostante si riesca a portare in porto alcuni miglioramenti (riduzione del numero giornate di test, concentrazione di alcuni eventi su due giorni, incremento sanzioni per violazioni tecniche), a fine ’93 l’assemblea dei proprietari decide di tornare al consiglio di 24 membri con diritto di voto, con Tony George ancora nel ruolo di consulente. La rottura tra le due organizzazioni è ormai imminente, innescata si dice da una frase retorica di Bill Stokkan che, col senno di poi, sembra un’occasione attesa da tempo: alle parole del CEO “cosa succederebbe se noi non partecipassimo alla 500 miglia?” Tony George coglie la palla al balzo, rinuncia al proprio posto all’interno del consiglio della CART e comincia a programmare la creazione di un nuovo campionato per auto a ruote scoperte, comprendente la Indianapolis 500. La scissione diventa realtà a inizio ’94, quando la CART sceglie come nuovo CEO Andrew Craig, già impegnato nell’organizzazione di vari progetti olimpici, trascurando il candidato proposto dal presidente IMS, che qualche mese più tardi annuncia il proprio campionato, denominato Indy Racing League, che dovrebbe partire nel 1996 sanzionato dall’USAC. L’obiettivo della nuova serie è riportare in primo piano lo spirito originale del campionato USAC, con piloti provenienti dalle varie serie Midget e Sprint cars a sfidarsi su un calendario di soli ovali, con vetture più semplici e meno costose che garantiscano un maggiore livellamento delle prestazioni e la possibilità per i piccoli team di emergere, eliminando la dipendenza dai motoristi e l’acquisto dei sedili da parte di ricchi piloti stranieri.

Tra accuse reciproche e tentativi di riavvicinamento, la polemica separazione diventa guerra aperta a metà del 1995, quando USAC e IMS annunciano la regola divenuta celebre come 25/8, secondo cui 25 dei 33 posti di partenza per la Indy 500 1996 saranno appannaggio dei piloti stabilmente impegnati in IRL. La CART risponde boicottando in massa l’evento, inserendo nel calendario 1996 la US 500, una 500 miglia organizzata con le stesse modalità della Indy 500 e tenuta lo stesso giorno sull’ovale di Michigan.

Il 27 gennaio ’96, a Orlando, il campionato IRL tiene la sua prova inaugurale, con una ventina di iscritti alla guida di vetture rispondenti alle specifiche CART degli anni precedenti, vendute con poca lungimiranza alle squadre IRL proprio dai team della serie rivale. Le stesse vetture, spinte ai limiti in cerca di nuovi record che facciano notizia, animano la Indy 500, funestata dalla morte in prova del polesitter Scott Brayton. La gara vede ai nastri di partenza vecchie “glorie”, molti comprimari esclusi dalla CART, qualche giovane interessante come Tony Stewart e molti semi-sconosciuti. L’inesperienza del parco partenti fa temere incidenti catastrofici, ma la Indy 500 fila via in relativa tranquillità, mentre sono le “stelle” della CART a combinare un disastro durante la partenza della concorrente US 500, con Vasser e Fernandez che agganciandosi in prima fila causano un “big one” che fa fuori mezza griglia, costringendo la direzione gara a una lunghissima bandiera rossa.

Il campione CART 1995 Jacques Villeneuve (Reynard-Ford-Goodyear) davanti a Emerson Fittipaldi (Penske-Mercedes-Goodyear) e Scott Pruett (Lola-Ford-Firestone) a Phoenix

 

Robby Gordon (Reynard-Ford-Goodyear) vince due corse nel 1995, a Phoenix e Detroit, rivaleggiando con Villeneuve fino a metà campionato prima di perdere terreno e chiudere al quinto posto.

 

Jacques Villeneuve trionfa a Indianapolis dopo aver recuperato due giri di distacco

 

Strepitoso finale della Marlboro 500 1995

 

L’inizio della scissione

 

Il disastro alla partenza della US500 1996

 

Da un punto di vista meramente sportivo il campionato CART/IndyCar 1996 vede l’inizio del dominio del team di Chip Ganassi, grazie a una serie di felici intuizioni del manager di Pittsburgh, che sposa in pieno l’impegno Honda e Firestone, ingaggiando Alex Zanardi al fianco del confermato Jimmy Vasser. È l’americano a portare a casa il titolo, grazie a una fantastica striscia di 4 vittorie nelle prime sei gare (compresa la US500, nonostante il pasticcio iniziale), ma è l’italiano a conquistare l’America, mettendo a segno una delle più spettacolari manovre della storia, un’impossibile staccata a Bryan Herta al Cavatappi di Laguna Seca, che gli vale la terza vittoria stagionale dopo il titolo di rookie of the year. Mentre la corsa al titolo dell’italiano viene frenata da qualche contrattempo di troppo con i doppiati e un rapporto difficile con gli ovali, Vasser deve guardarsi fino all’ultimo da Michael Andretti (5 vittorie) e Al Unser Jr., che rimane in corsa nonostante una Penske irriconoscibile. Il 1996 segna anche l’ingresso del quarto motorista, con la Toyota che scende in campo proprio nell’anno del primo titolo per la rivale Honda.

Nel 1997 la CART perde la battaglia legale sul diritto di utilizzo del marchio “IndyCar”, che resta congelato fino al 2003, quando la IRL diventa IndyCar Series. Parallelamente le vetture del campionato CART tornano alla denominazione originale, passando da “indy cars” a “champ cars”. Mentre il campionato di Tony George supera il primo anno di transizione, adottando un nuovo pacchetto tecnico basato su motori aspirati 4 litri derivati dalla serie, la CART apre a un nuovo costruttore. Il team Newman Haas abbandona infatti la Lola dopo 14 anni per portare in pista in esclusiva il nuovo telaio Swift, subito vincente con Michael Andretti nel primo appuntamento di Homestead. La vettura americana, ancora a corto di test e frenata da un pacchetto Ford-Goodyear non sempre all’altezza, non si dimostra comunque versatile come la collaudata Reynard, che conquista il mercato sbaragliando la Lola, in netta crisi dopo il fallimento del progetto F1.

La prima parte del campionato, incentrata maggiormente sugli ovali, vede in realtà prevalere la Penske-Mercedes di Paul Tracy, ma è Alex Zanardi a salire in cattedra nella seconda parte della stagione, infilando una sequenza di podi e vittorie che annichilisce i rivali, oltre a mettere a segno alcune rimonte che rimangono nella storia della categoria. Nonostante la concorrenza crescente, il bolognese si ripete nel 1998, chiudendo il campionato con l’incredibile risultato di 15 podi su 18 corse, che gli garantiscono il titolo con 4 gare d’anticipo e un vantaggio di punti record. Questi risultati valgono al pilota italiano l’ingaggio da parte della Williams F1, sulle orme di Jacques Villeneuve, che nel giro di tre anni replica, al contrario, l’impresa riuscita a Nigel Mansell. Il 1998 segna anche una svolta politico-commerciale, con la prima corsa in Giappone, l’ingresso come title sponsor della Fed Ex a porre fine a una collaborazione quasi ventennale con la PPG e soprattutto la quotazione in borsa del titolo CART, con i proprietari di team inizialmente titolari del capitale azionario.

Il 1999 vede oltre ai 4 motoristi ben 5 telai impegnati nel campionato, compresa la Eagle del team All American Racers di Dan Gurney, di ritorno nella CART nel 1996. Il campionato vede vincere 10 piloti diversi, con una lotta per il titolo che si restringe via via a Dario Franchitti e al sensazionale debuttante Juan Pablo Montoya, perfettamente a suo agio nel sedile lasciato libero da Zanardi. Il titolo va al colombiano all’ultima gara, teatro del terribile incidente che costa la vita a Greg Moore, una delle star del campionato. La scomparsa del canadese costringe la CART a interrogarsi sulle prestazioni sempre più impressionanti delle Champ car, che nonostante le diverse limitazioni di potenza e aerodinamiche imposte negli anni, superano ormai i 900 cv e in scia raggiungono i 400 km/h in super speedway come Fontana.

Nel 1997 il campionato abbandona la denominazione IndyCar diventando PPG CART World Series. Un anno più tardi la nuova sponsorizzazione Fed Ex lo renderà il CART Fed Ex Championship Series.

 

Al secondo anno con Chip Ganassi Jimmy Vasser (Reynard-Honda-FIrestone) vince la US500 (e il milione di dollari in palio) e il titolo IndyCar. Mike Levitt, champcar.com
Al secondo anno con Chip Ganassi, Jimmy Vasser (Reynard-Honda-Firestone) vince la US500 (compreso il milione di dollari in palio) e il titolo IndyCar. Mike Levitt, champcar.com

 

Michael Andretti (Lola-Ford-Goodyear) vince 5 corse nel 1996, compresa questa di Road America, ma sarà secondo per la quinta volta in carriera a fine stagione. Nella foto i tre contendenti al titolo: Andretti è seguito da Jimmy Vasser (Reynard-Honda-Firestone) e Al Unser Jr. (Penske-Mercedes-Goodyear). Mike Levitt, LAT, champcar.com
Michael Andretti (Lola-Ford-Goodyear) vince 5 corse nel 1996, compresa questa di Road America, ma sarà secondo per la quinta volta in carriera a fine stagione. Nella foto i tre contendenti al titolo: Andretti è seguito da Jimmy Vasser (Reynard-Honda-Firestone) e Al Unser Jr. (Penske-Mercedes-Goodyear). Mike Levitt, LAT, champcar.com

 

Jeff Krosnoff, bravo pilota americano accasatosi al team Arciero Wells dopo una lunga militanza nei campionati giapponese prototipi e di F.3000, perde la vita in un tragico incidente durante la corsa di Toronto, quando un contatto con la vettura di Stefan Johansson proietta in aria la sua Reynard, che impatta contro un palo dell’illuminazione. L’incidente costa la vita anche al commissario Gary Avrin.
Jeff Krosnoff, bravo pilota americano accasatosi al team Arciero Wells dopo una lunga militanza nei campionati giapponese prototipi e di F.3000, perde la vita in un tragico incidente durante la corsa di Toronto, quando un contatto con la vettura di Stefan Johansson proietta in aria la sua Reynard, che impatta contro un palo dell’illuminazione. L’incidente costa la vita anche al commissario Gary Avrin.

 

L'estrema manovra di Zanardi su Herta all'ultimo giro della stagione '96, passata alla storia come
L’estrema manovra di Zanardi su Herta all’ultimo giro della stagione ’96, passata alla storia come “The Pass”. pinterest.com
re vittorie consecutive non bastano nel 1997 a Paul Tracy (Penske-Mercedes-Goodyear) per contenere il ritorno in campionato di Alex Zanardi (Reynard-Honda-Firestone), che grazie a un ritmo insostenibile nella seconda metà stagione vince il titolo con una prova d’anticipo.
Tre vittorie consecutive non bastano nel 1997 a Paul Tracy (Penske-Mercedes-Goodyear) per contenere il ritorno in campionato di Alex Zanardi (Reynard-Honda-Firestone), che grazie a un ritmo insostenibile nella seconda metà stagione vince il titolo con una prova d’anticipo.

 

Una enorme ovazione saluta Bobby Rahal, per l’ultima volta al via della US500 di Michigan nel 1998

 

Il quarto posto di Vancouver consegna ad Alex Zanardi il titolo ’98 e la seconda PPG Cup consecutiva

 

Greg Moore (Reynard-Mercedes-Firestone) porta a casa la prima corsa della stagione 1999. champcar.com, Peter Burke
Greg Moore (Reynard-Mercedes-Firestone) porta a casa la prima corsa della stagione 1999. champcar.com, Peter Burke

 

La stagione 1999 è ricordata, oltre che per la grande competizione, anche per le perdite di Greg Moore e Gonzalo Rodriguez. Il veloce uruguaiano, ingaggiato da Roger Penske per guidare una Lola-Mercedes su stradali e cittadini non concomitanti con la F.3000, si era messo in mostra già nell’appuntamento d’esordio a Detroit, conquistando un punto e attirando l’interesse di molte squadre per la stagione successiva, prima che il sogno si infrangesse tragicamente contro il muro del Cavatappi di Laguna Seca. Peter Burke, champcar.com
La stagione 1999 è ricordata, oltre che per la grande competizione, anche per le perdite di Greg Moore e Gonzalo Rodriguez. Il veloce uruguaiano, ingaggiato da Roger Penske per guidare una Lola-Mercedes su stradali e cittadini non concomitanti con la F.3000, si era messo in mostra già nell’appuntamento d’esordio a Detroit, conquistando un punto e attirando l’interesse di molte squadre per la stagione successiva, prima che il sogno si infrangesse tragicamente contro il muro del Cavatappi di Laguna Seca. Peter Burke, champcar.com

 

Pazzesco ultimo giro a Road America 1996

 

Spettacolare finale a Portland ‘97

 

Ultimi giri dalla US500 1999

 

Con l’affluenza di pubblico in calo, soprattutto sugli ovali, il numero dei piloti americani che scende di anno in anno e gli spettatori tv che diminuiscono, il 1999 vede un primo tentativo di avvicinamento tra CART e IRL, che nel frattempo è riuscita a costruirsi un’identità e un discreto seguito. La CART deve ammettere per la prima volta di soffrire l’assenza della Indy500 e a metà anno sembra potersi raggiungere un accordo, basato su una formula con motori atmosferici e predominanza delle corse su ovali. Tony George alla fine decide di continuare per la sua strada, anche se i negoziati aprono le porte alla partecipazione del team Ganassi alla 500 miglia di Indianapolis del 2000.

Il pubblico accoglie bene il team tetra campione CART, ma la corsa è inevitabilmente vissuta da tutti come un confronto tra le due serie. Montoya manca la pole, accomodandosi in prima fila al fianco del campione IRL Greg Ray, ma in gara, dopo una prima fase di studio, il pilota colombiano prende il largo, guidando 167 giri della corsa e andando a vincere praticamente indisturbato. Il team Ganassi è accusato di spendere per Indy più di quanto i migliori team IRL investano per tutto il campionato, ma la facilità con cui Montoya imprime la sua faccia sul Borg Warner Trophy sembra segnare una voragine tra le due serie. La IRL viene in parte riscattata da Kenny Brack, vice campione F.3000 nel 1996 e campione IRL nel ’98, che da rookie in CART col team di Bobby Rahal arriva a giocarsi il titolo all’ultima corsa.

Il 2000 vede il numero di costruttori scendere da 5 a 3, con l’abbandono per scarsi risultati del team AAR di Dan Gurney e del telaio Eagle, la conversione del team Penske al telaio Reynard e la Swift che schiera una sola vettura gestita dal team Coyne. Dopo anni di delusioni si ritira anche la Goodyear, mentre per la Mercedes è il canto del cigno dopo diverse stagioni di risultati sotto le aspettative. La sfida tra Honda, Ford e Toyota sale ancora di livello, con la casa americana che schiera il nuovo sofisticato propulsore Cosworth XF. Dopo 4 anni di difficile apprendistato, la Toyota porta a casa ben 5 vittorie, frutto della collaborazione con il team Ganassi, che abbandona Honda e Reynard adottando il telaio Lola, ben comportatosi nel ’99 nelle mani del giovane Castroneves. I vincitori diversi salgono a undici e la lotta per il titolo coinvolge una decina di piloti fino alle ultime corse, quando la consistenza premia la Reynard-Honda di Gil De Ferran e del rinnovato team Penske, mentre Andretti e Montoya terminano il campionato recriminando sulla scarsa affidabilità della pur ottima Lola e delle rispettive motorizzazioni.

Nel 2001 il colombiano diventa il quinto campione CART in meno di un decennio a lasciare la serie per la F1, con Ganassi che rinnova il parco piloti puntando su campione e vice campione della F.3000 internazionale mentre il numero dei piloti americani scende alla miseria di tre superstiti: Michael Andretti, Jimmy Vasser e Bryan Herta. Le dimissioni di Andrew Craig a metà 2000 portano al ruolo di CEO ad interim Bobby Rahal, che viene poi sostituito da Joe Heiztler. La stagione 2001 chiude quella da molti definita come un’epoca d’oro per le corse a ruote scoperte americane, segnando l’inizio della fine per la categoria. La competizione in pista rimane furiosa, con undici vincitori diversi, ancora più equilibrio tra Lola e Reynard e nuovi appuntamenti in calendario, con le corse in Messico, Germania e Inghilterra a compensare l’uscita di scena dell’ovale di Rio. Il campionato vive sul confronto tra il duo Penske De Ferran-Castroneves, Kenny Brack e Michael Andretti, che dopo cinque stagioni lascia il team Newman Haas, sostituito da Cristiano Da Matta. Lo svedese sfrutta alla grande la Lola del team Rahal e le caratteristiche “risparmiose” del motore Ford, dominando gli ovali, ma alla fine la superiorità ingegneristica della Penske rende imprendibili le vetture del Capitano sugli stradali. Questo e la solita grande consistenza di Gil De Ferran consegnano quindi il secondo titolo al brasiliano e alla squadra americana, al top anche nel secondo trionfo CART a Indianapolis, dove Castroneves e De Ferran dominano nel finale, precedendo Michael Andretti e tre vetture del team Ganassi.

Per la CART sono però le ultime buone notizie: proprio Penske, spinto dalla Marlboro e i vari sponsor, “tradisce” la serie che aveva contribuito a creare, trasferendo la sua operazione in IRL; nel mese di aprile la CART è costretta a rimandare e poi cancellare la corsa organizzata sull’ovale di Fort Worth, quando i piloti cominciano a manifestare mancamenti dovuti all’inatteso carico g verticale indotto dalla velocità e dall’elevato banking. Le vetture viaggiano a medie superiori a 235 mph, circa 10 mph più forte delle vetture IRL, trasformando un evento voluto per umiliare i rivali nel loro “feudo”, in una disfatta. La CART ne riceve infatti un brutto colpo d’immagine oltre a dover pagare un pesante risarcimento al Texas Motor Speedway. Un’altra sberla arriva poi dai motoristi giapponesi: il ritardo nella definizione del nuovo regolamento tecnico e le infinite polemiche sulla gestione della valvola pop-off esasperano la Honda, che annuncia il suo ritiro dal campionato al termine del 2002.

Da sempre sostenitore di una formula sovralimentata con cubatura più ridotta e pressione maggiore, il costruttore nipponico rimane infatti spiazzato dalla decisione della CART di adottare motori atmosferici di caratteristiche simili a quelli utilizzati in IRL a partire dal 2003, considerati poco interessanti da un punto di vista tecnico. La decisione, volta a ridurre le prestazioni delle vetture ma intesa in realtà come una manovra di avvicinamento alla serie rivale, è vista dalla Honda come un ulteriore sgarbo in favore della Toyota, che già aveva dichiarato l’intenzione di correre a Indianapolis nel 2003. Incredibilmente, pochi mesi più tardi gli stessi proprietari che avevano votato l’adozione del motore atmosferico, decidono di accantonare tutto e mantenere il turbo 2.65 litri, affidando per il 2003 la monofornitura alla Ford, unica rimasta dopo la dipartita di Honda e Toyota verso la IRL.

Beffa finale, il CEO Heitzler, esperto di comunicazione ma incapace di procurare alla serie un’esposizione tv adeguata, viene licenziato a fine anno quando il consiglio direttivo scopre il suo passato ricco di cause per bancarotta e mancati pagamenti.

 

L’ultimo logo della vera CART

 

Il campione 1999 Juan Pablo Montoya porta al primo successo la Toyota a Milwaukee 2000. Per la Lola invece si tratta di un ritorno sul gradino più alto del podio dopo 4 anni di astinenza. champcar.com, Peter Burke
Il campione 1999 Juan Pablo Montoya porta al primo successo la Toyota a Milwaukee 2000. Per la Lola invece si tratta di un ritorno sul gradino più alto del podio dopo 4 anni di astinenza. champcar.com, Peter Burke

 

Juan Pablo Montoya e il team Ganassi espugnano Indianapolis in occasione del ritorno di una squadra CART al Brickyard nel 2000. usatoday.com

 

“Tipica” scena delle corse su super speedway degli anni 2000, caratterizzati dall’impiego dell’Handford device, un’appendice aerodinamica sull’alettone posteriore volta a incrementare la resistenza e ridurre le velocità, fuori controllo sugli ovali veloci. Da sinistra: Helio Castroneves (Reynard-Honda), Tarso Marques (Swift-Ford), Christian Fittipaldi (Lola-Ford), Juan Pablo Montoya (Lola-Toyota), Max Papis (Reynard-Ford).

 

Gil De Ferran (Reynard-Honda) precede il suo rivale della stagione 2001 Kenny Brack (Lola-Ford). Dopo 5 anni “sprecati” con le gomme Goodyear, l’approdo al team Penske permette al brasiliano di vincere il titolo 2000 e di conservare il numero 1 nella stagione successiva.

 

Il difficile ritorno di Alex Zanardi dopo la negativa esperienza in F1, si chiude tragicamente con il catastrofico incidente del Lausitzring, in cui il bolognese perde le gambe ma non la caratteristica determinazione.

 

Il duello Montoya (Lola-Toyota) – Andretti (Lola-Ford) negli ultimi giri della Michigan 500 2000

 

Sfida all’ultima curva tra De Ferran e Brack nella seconda tappa della trasferta europea 2001, sull’ovale inglese di Rockingham

 

Ultimi giri della Michigan 500 2001

 

Dopo l’allontanamento di Heitzler, che costa alla CART un ulteriore sanzione perché avvenuto in modo irregolare, nel 2002 la serie affida a Chris Pook il rilancio. Lo storico manager della corsa di Long Beach introduce numerose novità, tra cui il congelamento dei telai dopo il 2002, l’abbandono della formula consumo e un nuovo sistema di qualifica su due giorni. Sulla falsariga di quanto accaduto in Formula 1, anche la CART ammette poi la propria impotenza sul bando dei controlli elettronici, ponendo fine ad anni di sospetti e accuse sottobanco liberalizzando il controllo di trazione.

Dopo un 2001 di rodaggio, Cristiano Da Matta e il team Newman Haas sbaragliano la concorrenza, portando al titolo la Lola e il motore Toyota, mentre delude Kenny Brack, che da super favorito al team Ganassi ottiene una sola vittoria. La Indy500 2002 vede poi il terzo capitolo della sfida CART e IRL,  con Paul Tracy (Team Green, CART) che nel finale va all’attacco di un Helio Castroneves (Team Penske, IRL) in grave crisi coi consumi. A due giri dal termine, proprio quando il canadese affianca il brasiliano in curva 3, un incidente tra Lazier e Redon costringe alla neutralizzazione della corsa. Castroneves viene dichiarato vincitore, ma il sospetto che la vettura del team Green fosse davanti al momento dell’accensione delle luci gialle spinge il team Green a fare ricorso, col tribunale che qualche mese dopo da ragione alla Penske, come già accaduto nel 1981. A fine anno, “bad boy” Tracy viene votato come pilota più popolare tra i tifosi della CART, che giudicano un furto l’esito della corsa.

La CART del 2003 è ormai solo una lontana parente del glorioso campionato di qualche anno prima. Con la partenza verso la IRL di Penske, Ganassi, Andretti/Green e Rahal (nel 2004), la serie vive sul confronto tra i due top team superstiti: Newman Haas, che schiera due vetture per Junqueira e il rookie Bourdais; Forsythe, che conferma Patrick Carpentier e ingaggia Paul Tracy, finalmente campione al termine di un lungo confronto con lo stesso Junqueira e Jourdain. A metà stagione gli errori di tanti anni hanno il loro epilogo  nella bancarotta della CART, risultato di una gestione fallimentare a causa della storica incapacità delle squadre di abbandonare i propri interessi e convergere verso una posizione comune. Ne è testimonianza la quotazione in borsa del ’98, che vide molti proprietari vendere sottobanco le proprie azioni, in totale violazione degli accordi presi.

La serie va comunque avanti, salvata dalla cordata composta da Jerry Forsythe, Kevin Kalkhoven e Paul Gentilozzi, che rileva ciò che rimane della CART, ribattezzandola Champ Car World Series e proseguendo l’infinita “faida” con Tony George. Il campionato, disputato con le vecchie Lola, gomme Bridgestone e un motore Ford sovralimentato da circa 750 cv (ripescato dopo aver abbandonato l’idea del nuovo motore atmosferico), diventa in breve un monomarca comandato dai team Newman Haas e Forsythe, se si esclude qualche inserimento di Justin Wilson e del team Rusport.

Il 2004 vive sul duello tra Bourdais e Junqueira (più qualche intromissione di Tracy), col francese che nel finale piega la resistenza del brasiliano, conquistando il titolo principale dopo quello di rookie of the year nel 2003. Nel 2005 il confronto tra i due è interrotto da un brutto incidente subito da Junqueira a Indianapolis, che costringe il brasiliano a restare inattivo per il resto della stagione. Per Bourdais il secondo titolo consecutivo è quasi una formalità, fatta eccezione per una serie di colpi proibiti con Tracy che infiamma il pubblico, soprattutto negli appuntamenti canadesi del campionato. Alle spalle del francese chiude Oriol Servia, sostituto di Junqueira in casa Newman Haas e vincitore dell’appuntamento di Montreal.

Nel 2006 l’ostacolo principale tra Bourdais e il terzo titolo è AJ Allmendinger che, passato al team Forsythe alla quinta corsa del campionato, infila tre vittorie consecutive e 5 in totale, tenendo aperto il discorso titolo fino alla penultima prova di Surfers Paradise, dove un ritiro consegna il titolo al francese, mentre l’americano salta l’ultima corsa accettando l’offerta del team Red Bull Toyota in NASCAR. Più che per il bel confronto tra i due contendenti però, la stagione fa notizia per le risse che coinvolgono Tracy negli appuntamenti di San Josè e Denver, dove il canadese entra in contatto e viene alle mani rispettivamente con Tagliani e lo stesso Bourdais.

Il 2007 segna l’introduzione di una nuova vettura, la Panoz DP01 spinta dal solito motore Cosworth, che regala una sensazione di novità insieme all’adozione delle partenze da fermo, del limite temporale di un’ora e tre quarti e dell’arrivo di diversi piloti di estrazione europea come Doornbos, Jani, Pagenaud e Gommendy. La nuova stagione segna anche l’abbandono definitivo degli ovali, ormai totalmente “estinti” nelle stagioni precedenti con l’eccezione di Milwaukee e Las Vegas. Bourdais parte ancora una volta coi favori del pronostico, ma per metà stagione il francese se la deve vedere con il rookie of the year 2006 Power, il debuttante Doornbos e il solito Wilson, prima che l’esperienza del francese e la superiorità tecnica del team Newman Haas abbiano la meglio, consegnando a Bourdais il quarto titolo consecutivo.

A pochi mesi dall’inizio della stagione 2008 infine, Kalkhoven e Forsythe, alla soglia di una nuova bancarotta, sono costretti a cedere, accettando le “condizioni di resa” di Tony George, con le squadre Champ Car che ottengono un accesso “facilitato” al campionato IRL IndyCar, con la garanzia di sconti sui telai Dallara. L’unificazione, effettuata in fretta a furia, non permette la coesistenza degli appuntamenti di Motegi e Long Beach, così la Champ Car dà il suo estremo saluto sul cittadino della California, in un evento che, pur assegnando punti per il campionato IRL, viene disputato con regole e vetture del campionato Champ Car, chiudendo malinconicamente 30 anni a tratti spettacolari, in cui la CART ha rappresentato molto più che una valida alternativa alla F1, unendo a piloti straordinari, vetture da sogno e piste da brivido, un ambiente e un‘impostazione ancora, per certi versi, incentrata sulla semplicità e sulle corse a misura d’uomo. Un’attitudine che ha reso la serie, se non la più importante, probabilmente la più bella del mondo.

 

Il dominatore della stagione 2002 Cristiano Da Matta, che alla guida di una Lola-Toyota riporta al titolo il team Newman Haas. Questo risultato schiuderà al brasiliano le porte per un sedile in F1 con la stessa Toyota

 

Portland 2002: Paul Tracy (Honda) precede Jimmy Vasser (Ford), Tony Kanaan (Honda) e Mario Dominguez (Ford). Dopo anni di dominio la crisi della Reynard lascia campo libero alla Lola, ma la vettura progettata da Malcolm Oalster sarà ancora in grado di ottenere buoni risultati, portando Patrick Carpentier al terzo posto in campionato. Tracy e Vasser rimarranno fino all’ultimo fedeli alla CART/Champ Car.

 

Alex Zanardi completa a velocità da gara gli ultimi 13 giri rimasti della corsa del Lausitzring brutalmente interrotta due anni prima.

 

Dopo 10 anni di tentativi per Paul Tracy arriva nel 2003 il tanto sospirato titolo CART/Champ Car

 

Dopo il salvataggio ad opera di Kalkhoven e Forsythe, il campionato CART viene ribattezzato Champ Car World Series, incassando il sostegno di Bridgestone e Ford.

 

Tra 2004 e 2007 Sebastien Bourdais e il team Newman Haas mettono insieme 4 Vanderbilt Cup, storico trofeo inizialmente spettante al vincitore della US500, che ha sostituito la PPG Cup

 

Tra il francese e Tracy i contatti si sprecheranno

 

AJ Allmendinger apre a Portland 2006 una striscia di 3 vittorie consecutive. Phillip Abbott, USA LAT, maxine-log.blogspot.it
AJ Allmendinger apre a Portland 2006 una striscia di 3 vittorie consecutive. Phillip Abbott, USA LAT, maxine-log.blogspot.it

 

Nell’estate 2006 Roberto Moreno comincia lo sviluppo della nuova Panoz DP 01
Prima partenza da fermo a Portland 2007. Justin Wilson precede Doornbos, Bourdais, Power e Tagliani. motorsport.com
Prima partenza da fermo a Portland 2007. Justin Wilson precede Doornbos, Bourdais, Power e Tagliani. motorsport.com

 

Will Power chiude la storia della serie, vincendo a Long Beach 2008 l’ultima corsa Champ Car, prima di tornare alla Dallara del campionato IRL/IndyCar

 

La rivalità Tracy-Bourdais

  

Prima partenza da fermo della storia Champ Car. Si notano le gomme con la spalla rossa, a indicare la mescola tenera da alternare obbligatoriamente con quella più dura. La serie è stata la prima a introdurre questa regola, così come l’utilizzo del push to pass.

 

 

Pareri e ricordi dei piloti che hanno vissuto il periodo 1993-2001

Jacques Villeneuve: “Emerson Fittipaldi era il mio idolo da quando avevo sette anni. Probabilmente ho imparato prima a dire “Emerson Fittipaldi” che “Papà”, quindi correre contro di lui, Mario Andretti e anche Nigel Mansell, uno che rispettavo molto all’inizio della mia carriera, era fantastico. È questo il ricordo più bello delle corse di quei tempi: correre contro questi piloti, in quell’ambiente, era semplicemente incredibile”.

 

Juan Pablo Montoya: “Erano bei tempi. C’era una grande competizione: nel ’99 c’era la guerra dei pneumatici, che era un po’ come quando oggi tutti usano le “rosse” in IndyCar. Le macchine avevano molta aderenza, c’era tanta potenza, erano divertenti. Anche le macchine attuali sono divertenti ma sono più legate allo “slancio” . Le vetture CART invece acceleravano sempre e sono contento di averle guidate. Ho guidato una macchina da 950 cavalli. Le macchine di Ganassi erano davvero dominanti per qualche anno, ed era bello esserne parte, ma la cosa migliore era quanto andavano le vetture sugli ovali. Facevamo le 250 mph in scia, era piuttosto impressionante. La mia ultima gara CART fu a Fontana e non guidavamo in un Superspeedway da 6 mesi. Ricordo che facevamo un giro lento per poi cominciare a spingere ma dopo tre giri ancora non riuscivo a fare tutta la pista in pieno e pensavo: < sei una femminuccia, tieni giu!> Ho fatto in pieno le curve 3 e 4  e la velocità era tale che ho subito alzato il piede! Sono tornato ai box dicendo <Oh Dio, avevo dimenticato quanto vanno forte questo cose>, ma dopo due minuti era tutto normale”.

 

Mario Andretti: “Ogni anno c’era una macchina nuova ed è qualcosa che aspettavi con impazienza perché si migliorava di continuo. Da pilota per me era come essere padre ogni anno. Ok, non era sempre un bel bambino, alcuni avevano gli occhi incrociati e così via, ma in ogni caso dovevamo sviluppare la macchina e c’era sempre qualcosa di nuovo. Si provava sempre e ogni test era coperto dalla stampa, c’era sempre qualcosa di cui parlare. La serie tirava parecchio ai tempi.”

 

Bobby Rahal: “Quella decade fu sicuramente il momento più alto per la CART, ma le fondamenta furono costruite negli anni ’80. Quando arrivai, nell’82, le cose non erano molto diverse dal campionato USAC degli anni ’70: c’erano una o due squadre che dominavano, non c’erano tante gare e Indy dominava tutto. Ma già nel ’92 all’improvviso parecchie squadre potevano vincere gare o il titolo, c’era spazio per un team appena formato come il TrueSports. Tra il 1986 e il 1992 abbiamo vinto tre titoli e un sacco di gare, quindi era una delle squadre dominanti suppongo. Dall’inizio degli anni ’90 e fino al 2000 la serie continuò a crescere. C’era un sacco di pubblico, gli ascolti tv erano buoni, c’erano molti sponsor, tre motoristi in lotta, due produttori di gomme, era popolare. A Laguna Seca ci volevano due ore e mezza per arrivare in pista da quanta gente c’era. Erano bei tempi e a ripensarci è triste come tutto sia andato in malora a causa della scissione. Sugli ovali facevamo le 235, 238 mph e non c’erano grossi pacchetti di macchine. Si viaggiava in gruppetti, ci si superava, non si trattava di andare in giro fianco a fianco tutto il tempo. C’era la Toyota, c’era la Honda, la Firestone, un sacco di squadre arrivarono in quel periodo. Era davvero il campionato in cui essere.”

 

Bruno Junqueira: “Ho avuto la grande opportunità di correre per Ganassi quando il mio sogno di arrivare in F1 non è andato a buon fine. C’erano squadre con grosse risorse, diversi costruttori e tanti buoni piloti. Era molto difficile e dovevo imparare in fretta. non avevo esperienza con la macchina, le piste, la cultura…e le macchine erano veloci! Nella mia prima corsa su un ovale, a Nazareth, ho fatto la pole e poi quell’anno ho vinto la mia prima gara a Road America. Ancora prima di correrci, guardavo le gare su Eurosport quando vivevo in Inghilterra e correvo in F.3000. La adoravo, era molto più interessante della F1 a quei tempi”.

 

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Helio Castroneves: ”Ogni volta che ti sedevi su quella macchina era un po’ uno spavento. Anche in rettilineo, quando andavi sul gas c’era TANTA potenza. Andavamo verso i 1000 cv. Le macchine erano incredibili. Ricordo una volta a Sebring in cui avevo paura anche solo a toccare l’acceleratore. A volte tendi ad abituarti alle macchine, ma non si faceva mai l’abitudine con quelle, soprattutto sugli ovali. Quando realizzavi che la gara successiva sarebbe stata Milwaukee o Nazareth dicevi sempre < oh cavolo >, si aveva davvero paura a premere sull’acceleratore. Una volta chiesi a Christian Fittipaldi <ma è così anche in Formula 1?>, mi disse <In F.1 sembra molto veloce all’inizio ma poi ti abitui, questa sembra sempre troppo veloce!>. Fu un sollievo, non ero il solo a pensarla così!  Non era solo la potenza, era che lei spingeva sempre. E il rumore era assolutamente fantastico, volevi accelerare solo per poterlo ascoltare. Feci diverse belle gare in quel periodo ma la migliore fu quella con Penske a Laguna nel 2000. Avevamo una sospensione particolare per i trasferimenti di carico, era fantastica. Io e Gil avevamo un vantaggio enorme rispetto agli altri. A ogni curva, l’avantreno era stabile. Fu il vantaggio più grande che riuscimmo mai a ottenere”.

 

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Christian Fittipaldi: ”Tutti i piloti erano felici e non lo sapevano! Era fantastico. Andavamo in bei posti, belle piste, provavamo sempre ma ci lamentavamo lo stesso! No scherzo, ma credo che la parte migliore, di gran lunga, fossero le macchine, perché in certe occasioni quelle cose avevano più di 1000 cavalli e con tutto quel carico davano una sensazione incredibile dentro l’abitacolo”.

 

 

Kenny Brack: “Ho guidato molte macchine differenti negli anni ma penso che la più fantastica fosse la Lola-Ford/Cosworth del team di Bobby Rahal nel 2001. La Lola era un gran telaio e noi eravamo il team ufficiale Ford. Abbiamo lavorato strettamente con la Cosworth per sviluppare il motore e alla fine avevamo circa 1000 cavalli. Non c’erano aiuti di guida, nessun ABS o traction control, niente. Erano macchine serie in termini di potenza ed eccitazione quando le guidavi.  Negli anni precedenti c’era anche la guerra degli pneumatici, quindi si provava di continuo. Ognuno sviluppava la propria macchina, i motori, le gomme. Penso sia stato l’ultima ventata di aria fresca in IndyCar. Per me quella è stata una buona era nel motorsports. Le macchine potevano essere potenti e lo sviluppo era continuo. Erano bei tempi ma poi tutto è divenuto più regolamentato. Il muletto è stato vietato, le regole sono diventate più restrittive fino ad arrivare alla situazione attuale, in cui tutti guidano la stessa macchina. Ho guidato anche la Williams FW15 di Formula 1 nel 1993. Quella è stata la macchina più tecnologicamente avanzata mai costruita, ma non ci ho mai corso, l’ho solo provata al Paul Ricard. Aveva un V10 Renault e ovviamente era a sua volta molto potente, ma gli preferisco la ChampCar perchè era una bestia più brutale”.

 

Max Papis: “Le macchine più esigenti che ho guidato sono sicuramente le ChampCars. La #7 Miller Lite che ho guidato per anni è stata sicuramente quella che mi ha dato più soddisfazione perchè per essere un campione dovevi essere un pilota completo. Passavi dal guidare su un ovale corto come Nazareth a Long Beach la settimana dopo, e poi Michigan, Toronto, Laguna Seca. Il livello di competizione e dei partecipanti era sbalorditivo”.

 

Gil De Ferran: “C’era così tanta potenza e gli ultimi anni, 2000 e 2001, le macchine e i motori erano davvero sviluppati, era una gran macchina da guidare. Non importava quante volte l’avevi guidata, ogni volta che ti ci sedevi era un <ok, preparati>. Erano impegnative da portare al limite, da guidare ad alto livello in ogni condizione. Nei cittadini spesso era molto difficile schiacciare a fondo tra due curve. Controllavi il pattinamento per tutto il tempo. Ci voleva coraggio, soprattutto su certe piste, c’erano tecniche speciali. Non c’era una diversità accentuata come in F1, ma tutti avevano piccole differenze. Erano macchine ben fatte, soprattutto quando sono andato alla Penske, dove ci mettevano molto impegno, anche se non progettavano più le loro macchine ci mettevano molto del loro, ed erano bellissime. Mi piacevano le differenze nelle vetture, nelle gomme, nei motori e la relativa libertà per fare cose diverse”.

 

Adrian Fernandez: “Erano macchine assolutamente fantastiche. Erano difficili e dure fisicamente. Non avevamo nessuno degli aiuti  odierni come cambio al volante, idroguida o roba del genere. A quei tempi avevamo quasi 1000 cavalli. Erano sovralimentate senza controllo di trazione o altro. Quindi quelle macchine mi hanno dato la più forte sensazione di velocità provata in vita mia. Le velocità che facevamo su alcuni ovali o in certi rettilinei erano incredibili e le macchine assolutamente bellissime. È un periodo che mi manca tanto, la competizione era altissima con piloti fantastici e leggendari. Sono stato così fortunato da poter correre contro Mario Andretti, Emerson Fittipaldi, Bobby Rahal, Alex Zanardi e Juan Pablo Montoya per citarne qualcuno. Era davvero uno di quei periodi in cui le corse erano al massimo da ogni punto di vista: sponsor, squadre quello che vuoi. Una vera epoca d’oro, un periodo che mi manca tanto”.

 

Dario Franchitti: “Quando ero un pilota Mercedes in DTM guardavamo spesso le corse Indycar perché Greg Moore era un pilota Mercedes. Poi Jan Magnussen fece alcune gare nel ’96 e tornò dicendo: <se mai avrai l’occasione di andare, vai. Le macchine sono fantastiche, molto divertenti>. E così che tutto iniziò per me. Le prestazioni delle macchine sono la cosa che più mi è rimasta impressa. Ricordo di averle viste la prima volta su un ovale, Gil De Ferran stava girando, mi passò davanti e pensai <non è poi così veloce>, ma stava frenando! Il giro dopo è passato a tutta e non ci potevo credere, la velocità era terrificante. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è come quelle macchine non smettessero MAI di accelerare. Erano difficili da guidare. Se ondeggiava una volta e non l’avevi corretta, eri nel muro. Dal punto di vista del pilota non c’era nulla come tirare il collo a una di quelle macchine con le gomme morbide in un cittadino, o in un giro di qualifica a Mid Ohio. Ricordo un test di gomme a Portland per la Firestone e ad oggi non ho più sperimentato velocità e aderenza come quel giorno. Andammo in Texas e le macchine erano troppo veloci. Nei test avevamo calcolato male la lunghezza della pista, non ci eravamo accorti di quanto andavamo forte, stavamo facendo le 237 mph di media! Per forza che ci sentivamo male! Erano fuori di testa. Mettere insieme un giro su un cittadino, un ovale corto, ognuna di quelle piste, era una sfida. Erano fantastiche ed erano bei tempi. Ci sono stati dei periodi d’oro per l’IndyCar e la metà degli anni ’90 era uno di questi. Dovevo dimenticarmi che stavo combattendo con gente come Andretti, Zanardi, Vasser, Al Jr. Ci volle un po’ ad abituarsi. Penso che non ci si accorse subito degli effetti della scissione fino all’inizio degli anni 2000. Penso ci volle così tanto, ma quello strappò proprio il cuore al tutto…e solo ora si sta cominciando a ricostruire”.

 

Michael Andretti: “La prima cosa che mi viene in mente sono i primi anni ’90, quando tutto era perfetto con la squadra. Nel ’90 stavamo ancora costruendo, nel ’91 ne abbiamo raccolto i frutti, nel ’92 dominavamo ma la macchina non era affidabile. Sarebbe stato bello avere la macchina del ’93, penso che avremmo potuto vincere tutte le gare ed è stato frustrante mancare quella stagione da un punto di vista “IndyCar”. È stato bello tornare nel ’94 quando Chip mi ha dato l’occasione, vincere la prima corsa dopo il mio ritorno, battendo Nigel. Fondamentalmente ero il migliore della mia categoria, ma le Penske avevano un vantaggio enorme. Le macchine erano fantastiche. C’era sempre qualcosa di nuovo, non era un monomarca. Erano tempi in cui era divertente sia guidare che essere un ingegnere, perché potevi essere creativo. Potevi chiedere cose che volevi e loro potevano costruirle e farle funzionare. Quando ci ripenso dico a me stesso <wow, era davvero caro per i proprietari>. Di certo non era una serie a buon mercato. Rimasi con la gomma sbagliata per 5 anni e penso di aver perso un sacco di gare che avrei dovuto vincere. La Goodyear era davvero indietro. Era deludente essere dalla parte sbagliata, quindi dal punto di vista del pilota, tutta quella libertà non era una buona cosa, perché se avevi il materiale sbagliato, non potevi fare risultati. Era divertente quando invece avevi il pacchetto giusto. Poi arrivò la scissione, fu così frustrante essere preso in mezzo a tutta quella politica. Ho perso l’occasione di provare a vincere Indy per 5 anni. E’ stato molto triste per il campionato. Non penso che quel pacchetto tecnico funzionerebbe oggi, sarebbe troppo costoso. Detto questo, se avessi corso oggi probabilmente avrei vinto il doppio delle gare. Le macchine non erano affidabili, si rompevano spesso, ora non si rompono mai. Pensare a quante volte ero in testa ed è successo qualcosa!”.

 

Alex Zanardi: “Quando hai un esperienza fantastica e ne parli bene, potrebbe sembrare che lo fai solo perché hai avuto molto successo, ma credo sinceramente che quelle che avevamo nella CART fossero le più belle auto che uno potrebbe mai aver il privilegio di guidare. Erano molto potenti, attaccate a terra grazie a quelle grandi, fantastiche gomme morbide. Avevano un buon carico. Erano le macchine più belle che abbia mai guidato, F1 compresa. Ero contento come “un maiale nella merda” dentro quelle cose, perché sembravano fatte su misura per me. Sono stati certamente tre anni fantastici. I miei ricordi più belli sono legati all’incredibile relazione col mio compagno Jimmy, ma pensando più egoisticamente il piacere più grande l’ho tratto da quelle occasioni in cui riuscii a vincere contro ogni ostacolo; gare in cui sono sicuro che molti altri piloti al mio posto avrebbero parcheggiato la macchina a metà gara, mentre io sono riuscito a tirarne sempre fuori qualcosa alla fine. In quegli anni ho vinto alcune delle gare più memorabili che un pilota potrebbe sperare di vincere nella sua vita”.

 

 

Foto di copertina: champcar.com; Peter Burke

2002 – Laguna Seca

5° gara della stagione 2002 – Grand Prix of Monterey – 9 giugno 2002

Circuito: Laguna Seca Raceway

Tipologia: Stradale Permanente

Lunghezza: 2.238 mi – 3.601 km

Configurazione aerodinamica: Stradale

Record della pista: 1.07.722 – 2000, Helio Castroneves – Reynard Honda

Distanza di gara: 87 giri – 194.7 mi

Vincitore uscente:  Max Papis

Da Matta centra la prima pole position della carriera, scatenando però un putiferio negli ultimi minuti della qualifica, quando rimane in traiettoria dopo l’esplosione del motore, impedendo a Brack di tentare l’ultimo assalto alla pole.

Griglia di partenza – Laguna Seca
P Pilota Tempo Pilota Tempo
1 Cristiano Da Matta 1.09.473
2 Kenny Brack 1.09.575
3 Bruno Junqueira 1.09.759
4 Tony Kanaan 1.10.043
5 Christian Fittipaldi 1.10.184
6 Patrick Carpentier 1.10.218
7 Alex Tagliani 1.10.269
8 Tora Takagi 1.10.288
9 Scott Dixon 1.10.290
10 Townsend Bell 1.10.357
11 Michel Jourdain Jr. 1.10.389
12 Mario Dominguez 1.10.415
13 Adrian Fernandez 1.10.449
14 Dario Franchitti 1.10.596
15 Jimmy Vasser 1.10.612
16 Paul Tracy 1.10.616
17 Max Papis 1.10.681
18 Shinji Nakano 1.11.319
19 Michael Andretti 1.11.497

 

In partenza Da Matta mantiene il comando ma alla prima curva Fernandez arriva lungo, tamponando Jourdain e dando il via a un incidente a catena che coinvolge anche Franchitti, Vasser, Tracy, Bell e Dominguez. Per Franchitti e Fernandez la gara finisce qui. La bandiera gialla che ne deriva è sfruttata dagli altri per effettuare le riparazioni del caso e da Andretti per andare fuori sequenza rispetto ai primi.

La bandiera verde sventola al 7° giro, con Da Matta che costruisce subito un buon margine sul duo Brack-Junqueira seguito da Kanaan, Fittipaldi, Tagliani, Dixon e Carpentier. Sopravvissuto al caos del primo giro, Tracy prova a spaiare le strategie fermandosi al 16° passaggio. Peccato che una ruota mal fissata lo spedisca nelle gomme dopo poche curve. Tutti approfittano della conseguente neutralizzazione per effettuare il primo pit stop eccetto Bell, Vasser e Jourdain.

La ripartenza arriva al 21° giro, con Da Matta che riprende il suo passo inarrestabile staccando Brack, Bell, Junqueira, Vasser e Fittipaldi. Un’infrazione in pit lane costa invece cara a Kanaan, che viene spedito in fondo al gruppo. In una corsa estremamente avara di sorpassi un brivido arriva al 29° giro, quando Andretti soffia a Papis il 13° posto con una staccata a ruote fumanti al Cavatappi. Al 42° passaggio si apre la seconda sequenza di rifornimenti, da cui Da Matta esce saldamente al comando mentre Fittipaldi riesce a sopravanzare Junqueira per il terzo posto. Poco più tardi il brasiliano è costretto a cedere anche a Carpentier, tra i più veloci in pista e autore di un coraggioso sorpasso in curva 1. Peccato che la bella prova del canadese sia poi rovinata da una testacoda nella sabbia che gli fa perdere diverse posizioni.

Rallentato dai doppiati, Da Matta decide di anticipare l’ultima sosta al 62° giro, rintuzzando la timida rimonta di Brack, che deve piuttosto guardarsi da Fittipaldi. Fermandosi 4 giri più tardi infatti il brasiliano inanella una sequenza di giri veloci che gli permettono di sottrarre il secondo posto allo svedese. I due battagliano nel traffico fino al traguardo ma Fittipaldi è bravo a non lasciare nessun varco per lo svedese.

Gli ultimi giri vivono anche sul confronto per il sesto posto tra un Dixon in crisi di gomme e Townsend Bell, bravo a rimontare dal contrattempo iniziale e a vincere un lungo confronto con Vasser e Jourdain. Nessuna pressione invece per Da Matta, che taglia il traguardo in perfetta solitudine conquistando un nettissimo successo, il secondo stagionale. La festa del team Newman-Haas è completata da Fittipaldi, che riesce a controllare Brack fino al traguardo.

Junqueira porta a casa un discreto quarto posto precedendo Carpentier e Dixon, che si difende strenuamente da un arrembante Bell fin sotto la bandiera a scacchi. Vasser chiude settimo, primo dei doppiati, precedendo Jourdain, Tagliani, Andretti e Kanaan, ultimo dei piloti a punti.

Ordine d’arrivo
P Pilota Squadra N Vettura
1 Cristiano da Matta Newman Haas 6 L/T  87 giri in 1:55:28.745 – 101.164 mph
2 Christian Fittipaldi Newman Haas 11 L/T 19.087
3 Kenny Brack Ganassi 12 L/T 19.410
4 Bruno Junqueira Ganassi 4 L/T 34.255
5 Patrick Carpentier Forsythe 32 R/F 35.095
6 Scott Dixon Ganassi  44 L/T 1,11,956
7 Townsend Bell Patrick 20 R/T 1.12.431
8 Jimmy Vasser Rahal 8 L/F 1 giro
9 Michel Jourdain Jr. Rahal 9 L/F 1 giro
10 Alex Tagliani Forsythe 33 R/F 1 giro
11 Michael Andretti Green 39 L/H 1 giro
12 Tony Kanaan Nunn 10 L/H 1 giro
13 Max Papis Sigma 22 L/F 1 giro
14 Shinji Nakano Fernandez 52 L/H 1 giro
15 Mario Domínguez Herdez 55 L/F 3 giri
16 Tora Takagi Walker 5 R/T 4 giri
17 Paul Tracy Green 26 L/H incidente
18 Adrian Fernandez Fernandez 51 L/H incidente
19 Dario Franchitti Green 27 L/H incidente

 

Pos. Pilota Punti
1 Cristiano Da Matta 51
2 Michel Jourdain 46
3 Christian Fittipaldi 43
4 Bruno Junqueira 38
5 Dario Franchitti 35
6 Paul Tracy 32
7 Max Papis 32
8 Kenny Brack 32
9 Michael Andretti 30
10 Alex Tagliani 29
11 Adrian Fernandez 28
12 Patrick Carpentier 28
13 Scott Dixon 28
14 Jimmy Vasser 26
15 Tora Takagi 13
16 Oriol Servia 13
17 Townsend Bell 6
18 Shinji Nakano 4
19 Mario Dominguez 2
20 Tony Kanaan 2