Il 2007 dovrebbe aprire una nuova era per la ChampCar, ma purtroppo conduce alla sua triste fine. La serie introduce una nuova vettura, la Panox DP-01, ancora spinta dal fidato motore Cosworth. Cambiano anche le regole, con l’introduzione delle partenze da fermo e delle gare a tempo piuttosto che sulla distanza. Ciò che non cambia è però il protagonista principale, ovvero Bourdais, che fatica a metà stagione, ma come nel 2006 nelle ultime fasi mette in mostra un altro passo rispetto alla concorrenza, conquistando meritatamente il quarto titolo. La superiorità del francese è però fortemente riconducibile anche ai grandi mezzi del team Newman Haas. Dopo il titolo di rookie of the year, Will Power conferma un potenziale velocistico devastante, che gli frutta varie poles e 2 vittorie. Qualche errore e un team Walker in sofferenza, non permettono però all’australiano di lottare per il titolo fino alla fine. Stesso discorso per Wilson, troppo spesso frenato dalla scarsa affidabilità della sua vettura. Il vero avversario di Bourdais per metà stagione è però il sorprendente Doornbos, in grado di portare al vertice della classifica il team Minardi, prima che le risorse della squadra siano prosciugate dai troppi incidenti del compagno Dan Clarke. Nonostante le trasferte europee e il fatto che la Panoz superi positivamente la stagione del debutto, offrendo l’atteso salto prestazionale e un discreto spettacolo, già nel corso del 2007 risultano evidenti le difficoltà finanziarie della serie, che in definitiva convincono Kevin Kalkhoven a evitare ulteriori, inconcludenti, iniezioni di capitale, per portare a compimento la tanto dibattuta e attesa unificazione con la IRL che, a conti fatti, sarà però una annessione.
Se il secondo titolo era arrivato tutto sommato in scioltezza, nel 2006 Bourdais trova finalmente un avversario credibile in A.J. Allmendinger. Lasciato libero dopo poche gare dal team RuSport, con cui aveva costruito buona parte della sua carriera, l’americano riceve inaspettatamente la chiamata di Jerry Forsythe per sostituire Dominguez. Ciò che segue sono 3 vittorie consecutive, inaspettate, improvvise. Da disoccupato, Allmendinger si ritrova quindi in corsa per il titolo, sogno portato poi avanti con altre due splendide vittorie in un continuo botta e risposta con Bourdais. Alla fine però qualche problema tecnico e un errore decisivo a Surfers Paradise consegnano il titolo al francese, sempre velocissimo e consistente. Per tutta la stagione in realtà il tre volte campione deve lottare con entrambe le vetture del team Forsythe, ma se il confronto con Allmendinger ha sempre come arbitro il cronometro, gli scontri con Tracy richiedono il coinvolgimento dei commissari. Dopo le tensioni del 2005, la condotta irragionevole del canadese conduce infatti a 2 scontri fisici in una settimana, con Tagliani a San José e poi a Denver con lo stesso Bourdais , che già aveva rischiato grosso a Cleveland in un altro contatto con il canadese in partenza. La stagione, che chiude l’era delle vetture derivanti dall’originale serie CART, vede anche il ritiro di Cristiano Da Matta, che dopo aver preso il posto di Allmendinger al team RuSport, è protagonista di un assurdo incidente in un test a Road America, quando la sua vettura investe un cervo, entrato in pista dopo aver scavalcato le reti alte 3 metri.
Il 2005, per lunghi tratti, assomiglia terribilmente alla stagione precedente. Bourdais e il team Newman Haas infatti dominano quasi incontrastati, conquistando il titolo con ampio margine. Il successo del francese è agevolato anche dall’assenza di Junqueira, il suo maggiore avversario nel 2004, che è incolpevole protagonista di un brutto incidente nella trasferta del team a Indianapolis. L’infortunio alla schiena rimediato in curva 2 per un contatto con A.J. Foyt IV, tiene infatti fermo il brasiliano per tutta la stagione. Il suo sedile è preso quindi da Oriol Servia, che dopo due gare con il team Coyne, si ritrova proiettato su una vettura vincente, sfruttando alla grande l’occasione. Pur non riuscendo a scalfire la supremazia di Bourdais infatti, lo spagnolo si installa stabilmente nei piani alti della classifica, riuscendo anche a centrare il primo successo in carriera. Lo stesso vale per Justin Wilson, che accasandosi al team RuSport conferma il potenziale evidenziato nella stagione d’esordio, risultando più efficace del compagno Allmendinger, veloce ma troppo falloso. Descrizione estendibile anche al duo Forsythe, Tracy-Dominguez, la cui inconsistenza non permette di mettere pienamente a frutto le importanti risorse della squadra. Il 2005 vede anche il ritorno di Cristiano Da Matta, che ingaggiato dal team PKV centra il successo a Portland ma non rispetta del tutto le attese, commettendo alcuni errori non ammissibili per un pilota del suo calibro.
NOVITà REGOLAMENTARI
La stagione 2005 vede il definitivo abbandono delle soste obbligatorie e la “resa” della serie alla formula consumo, inevitabile non potendo prevedere quando occorreranno le neutralizzazioni della corsa. A questo proposito il direttore di gara Tony Cotman si impegna comunque ad impiegare dove possibile le bandiere gialle locali, limitando l’intervento della pace car.
Confermato invece il push to pass e l’uso obbligatorio delle due mescole di pneumatici in gara.
Con l’uscita di scena delle Reynard del team Walker, la serie diviene di fatto un monomarca Lola-Cosworth-Bridgestone.
Paul Tracy stacca la pole della prova inaugurale a Long Beach, precedendo Bruno Junqueira, che approfitta di un dritto del canadese in curva 1 per prendere il comando nelle prime battute. Il campione 2003 non perde comunque tempo per riprendere il comando, precedendo nelle prime fasi Junqueira, Dominguez, Bourdais e Wilson. Complice anche una bandiera gialla al momento del suo pit stop, il francese riesce però a passare in seconda piazza durante le soste, sfruttando poi la differenza di mescola per soffiare il comando a Tracy e allungare in testa. Un incidente di Ranger a 10 giri dal termine riaccende le speranze del canadese, ma Bourdais è implacabile in ripartenza involandosi verso il primo successo stagionale. Tracy secondo precede Junqueira, abile a soffiare a Dominguez l’ultimo gradino del podio in ripartenza. Il messicano chiude quinto, superato nel finale da un costante Wilson mentre Glock guida i rookie terminando buon sesto.
Bourdais centra la pole nel secondo appuntamento a Monterrey, precedendo Wilson, che però in partenza è subito sopravanzato da Tracy. Un rifornimento più corto permette poi al canadese di passare anche Bourdais, con il quale inizia un serrato duello nel traffico dettato dalle diverse strategie in atto. In mezzo a un’interminabile sequenza di neutralizzazioni dovute a incidenti minori, il francese tenta di riprendersi di forza il primato in una ripartenza, finendo però per allargare troppo l’uscita da una stretta curva a sinistra e centrare l’anteriore di Tracy, che si ritira con una sospensione KO. Le tante bandiere gialle, tra cui l’errore che elimina Allmendinger dalla lotta per il podio, aiutano Wirdheim, che eredità il comando dopo il pit stop di Phillipe ma nulla può negli ultimi giri per contenere Junqueira, subendo poi anche l’attacco di un sorprendente Ranger. Il successo davanti al canadese vale al vice campione 2004 la testa della classifica. Tagliani conquista il terzo gradino del podio, staccando nel finale Wilson, che chiude quarto avendo perso il treno della vittoria spegnendo il motore durante l’ultima sosta. L’inglese precede Bourdais, in recupero nel finale dopo la foratura guadagnata nel contatto con Tracy, mentre negli ultimi giri Wirdheim precipita all’ottavo posto passato anche da Da Matta (penalizzato dal contatto Bourdais-Tracy) e Hunter-Reay.
Il neo capo classifica Junqueira è costretto a interrompere la sua caccia al titolo nella trasferta del team Newman Haas a Indianapolis, dove è incolpevole protagonista di un violentissimo incidente che gli procura severe lesioni alla schiena. A Milwaukee la Lola #2 è quindi condotta da Oriol Servia, che nella qualifica che vede svettare Vasser davanti ad Allmendinger si piazza al nono posto. Dopo un brutto incidente ad Hunter-Reay nelle prime fasi, la corsa diventa un monologo di Paul Tracy, che dalla seconda fila passa subito Allmendinger e Vasser, facendo il vuoto. Mentre il polesitter perde colpi, lentamente dalla quinta fila rinviene Servia, che dopo il secondo turno di soste ha la meglio su Bourdais, arrivando poi in zona podio piegando la resistenza di Wilson. Solo nel finale Allmendinger sembra poter mettere pressione a Tracy, che però riprende margine dopo l’ultimo pit stop, facendo il vuoto anche nell’ultima ripartenza a 10 giri dal termine per andare a cogliere il quarto successo in carriera a Milwaukee. Allmendinger porta a casa un ottimo secondo posto, precedendo Servia, eccellente al debutto con il team Newman-Haas. Wilson, quarto, precede un Vasser in ripresa solo nel finale di gara. Solo sesto Bourdais, frenato da una penalità per eccesso di velocità durante l’ultimo pit stop.
Pos.
Pilota
Punti
1
Sebastien Bourdais
77
2
Justin Wilson
70
3
Paul Tracy
69
4
Bruno Junqueira
59
5
A.J. Allmendinger
53
6
Mario Dominguez
48
6
Oriol Servia
48
8
Jimmy Vasser
44
9
Timo Glock
43
10
Alex Tagliani
42
Wilson e Allmendinger conquistano una prima fila tutta RuSport a Portland, con l’inglese che prende subito il comando mentre Tracy ha la meglio al via sull’americano. L’ex campione di F. 3000 continua a condurre largamente dopo il primo turno di soste, che vede però Allmendinger scendere al quinto posto, lasciando strada a Bourdais e Dominguez. Al 46° giro problemi elettrici eliminano però il leader della corsa, causando la prima neutralizzazione, sfruttata dal gruppo per effettuare la seconda sosta. In pit lane poco prima del ritiro di Wilson, Da Matta rimane però in pista, guidando il gruppo alla ripartenza davanti a Tracy, Bourdais, Dominguez e Servia, autore di un pit stop velocissimo. Più leggero, il brasiliano prende in breve margine sugli inseguitori, fino alla sosta del 75° giro. Superato Tracy, prima della sua sosta Bourdais viaggia a passo da qualifica per ridurre il distacco da Da Matta, che però vanta oltre 10 secondi di vantaggio quando anche il francese transita per l’ultima volta in pit lane. A parte un problema alla trasmissione che pone fine alla bella rimonta di Servia, nulla cambia nel finale, con Da Matta che grazie a un po’ di fortuna e un gran passo gara coglie una sorprendente vittoria davanti a Bourdais, Tracy, Dominguez, Allmendinger e Vasser, arrivato al record di 201 partenze consecutive.
Da Matta è ancora competitivo nell’appuntamento successivo di Cleveland, dove si piazza in prima fila, mettendo a lungo sotto pressione il pole sitter Tracy. Come a Portland, fermandosi proprio al momento di un contatto tra Wilson e Dominguez il brasiliano prende poi il comando su Tracy e Bourdais, allungando prima del secondo turno di soste. La cavalcata del campione 2002 finisce però in un contatto con il doppiato Marshall in cui la sospensione anteriore sinistra ha la peggio. Un duro impatto di Wirdheim contro il muro della curva 9 richiama poi in pista la pace car, dando al gruppo di testa l’occasione di effettuare il secondo turno di soste, da cui Tracy emerge ancora in testa davanti a Servia, Bourdais, Tagliani e Ranger. Liberatosi in breve di Glock e Vasser, su una diversa sequenza di rifornimenti, Tracy insegue Allmendinger, a sua volta su una strategia alternativa, che prende margine lasciando poi il comando al canadese. A dieci minuti dalla bandiera a scacchi tutto il gruppetto di testa completa il terzo turno di soste, senza sconvolgimenti di classifica. Tracy va quindi a conquistare il secondo successo stagionale davanti ad Allmendinger, che nel finale contiene gli attacchi di Servia mentre Tagliani regola sul traguardo Bourdais.
Il francese tenta la reazione a Toronto, dove conquista la pole e comanda le prime fasi seguito a breve distanza da Tracy e Wilson. Il duo di testa completa il primo pit stop al 35° giro, ma nel reimmettersi in pista Bourdais taglia la strada a Tracy per non oltrepassare la linea gialla, strappandogli un baffo dell’ala anteriore e riportando una foratura. Il francese è costretto nuovamente in pit lane mentre il campione 2003 cerca di resistere fino al pit stop successivo, continuando a guidare sorprendentemente la corsa grazie anche alla lentissima sosta di Wilson, scavalcato da Servia. Al 57° giro il doppiato Sperafico spedisce poi Da Matta contro il muro, dando a tutti la possibilità di effettuare la seconda sosta. Incredibilmente però Tracy rimane a secco in pista per un problema di strumentazione. Dopo altre due neutralizzazioni per contatti nelle retrovie è Servia quindi a guidare il gruppo nel finale di gara, seguito da vicino da Wilson, Tagliani, Allmendinger e Vasser. Dopo aver studiato lo spagnolo per diversi giri, Wilson trova poi il varco giusto in curva 3 a 10 giri dal termine, lasciando Servia in balìa di Allmendinger, che però esagera in curva 6, impattando contro le gomme e venendo poi centrato da Dominguez. La mole di detriti non permette di ripulire la pista in tempo, decretando la prima vittoria di Justin Wilson davanti a Servia, Tagliani e Vasser, bravo nel finale a contenere il rimontante Bourdais, che precede Hunter-Reay.
Pos.
Pilota
Punti
1
Sebastien Bourdais
150
2
Paul Tracy
135
3
Justin Wilson
128
4
A.J. Allmendinger
111
5
Oriol Servia
107
6
Jimmy Vasser
105
7
Alex Tagliani
94
8
Cristiano da Matta
84
9
Mario Dominguez
83
10
Timo Glock
82
La prima visita sull’aeroporto di Edmonton saluta anche la prima pole position di AJ Allmendinger, che dopo Portland guida un’altra prima fila RuSport mentre Bourdais, in difficoltà in prova, parte solo dalla quinta fila. Al via Allmendinger mantiene il comando e prende subito margine mentre Wilson non riesce a respingere l’attacco di un aggressivo Tracy. Nel frattempo Bourdais inizia la sua rimonta, superando Dominguez, Vasser e Tagliani oltre a beneficiare dei problemi tecnici che eliminano Da Matta. Un errore nel traffico tradisce poi il leader della gara, che al 22° giro deve cedere il comando a Tracy. Poco dopo la pace car è chiamata in pista da un testacoda di Vasser, permettendo a tutti di effettuare la prima sequenza di rifornimenti, che vede Wilson soffiare ad Allmendinger la seconda piazza e Tagliani riprendere il quinto posto a Bourdais. Dopo un lungo lavoro di logoramento, al 50° giro Wilson costringe poi all’errore Tracy, superato in breve anche da Allmendinger. Apparentemente intoccabile, il duo RuSport comanda anche dopo il secondo turno di soste, che vede l’americano tornare davanti a Wilson, inseguito ora da Bourdais, a lungo impegnato a risparmiare carburante dietro Tagliani e beneficiario di un testacoda di Tracy, alle prese con problemi ai freni. L’incidente di Wirdheim richiama però in pista la pace car con dieci giri da completare, permettendo a Bourdais di riavvicinarsi. In pochi secondi si consuma quindi l’assurdo disastro del team RuSport: prima Wilson va in testacoda nel tentativo di scaldare le gomme, poi Allmendinger centra in pieno il muro subito dopo la bandiera verde. Incredulo, Bourdais ringrazia guidando un insperato 1-2 Newman-Haas davanti a Servia, con Tracy che chiude il podio precedendo Wilson, autore di una furiosa rimonta dal fondo e sopravvissuto a un duro contatto con Glock.
Il 2004, prevedibilmente, è l’anno di Sebastien Bourdais, che con una stagione di esperienza alle spalle, può mettere a frutto tutto il suo potenziale. Il titolo è un affare tutto Newman Haas, grazie a un Junqueira più concentrato rispetto al 2003, che pur risultando meno efficace del compagno, si dimostra consistente, riuscendo a tenere il discorso aperto fino all’ultima corsa, dove però si deve arrendere alla supremazia di un Bourdais superiore. Della partita potrebbe essere anche il campione in carica Tracy, che però dopo il bel successo di Long Beach, torna alle vecchie abitudini, gettando al vento punti e vittorie tra errori e contrattempi non ammissibili contro un Bourdais quasi inarrestabile. La stagione vede anche nuovi volti, con l’arrivo del campione F.Atlantic A.J. Allmendinger insieme al team RuSport, sfidati nella caccia al titolo di rookie of the year da Justin Wilson, a tratti molto competitivo con il team Conquest. Una sorpresa arriva anche dal giovane Hunter Reay, che dopo il rocambolesco successo di Surfers Paradise 2003, domina senza discussioni la corsa di Milwaukee.
NOVITà REGOLAMENTARI
La stagione 2004 vede inizialmente una modifica alla regola che dal 2002 determina delle finestre di rifornimento obbligatorie per eliminare la guida al risparmio indotta dalla formula consumo. In funzione della distanza di gara, vengono ora imposte da due a tre pit stop da effettuarsi in regime di bandiera verde ed entro un determinato numero di giri. Dopo aver trasformato in uno spettacolo desolante la corsa potenzialmente avvincente di Road America, la regola viene semplificata prima dell’appuntamento successivo a Denver, prevedendo un solo pit stop obbligatorio da effettuarsi prima di un dato numero di giri, indipendentemente dal regime di bandiera verde o gialla. Il sistema delle soste con cadenza obbligatoria viene comunque mantenuto per l’ovale di Las Vegas, dove ne sono imposte 4 ogni 37 giri.
Per vivacizzare le corse e favorire i sorpassi si ha invece l’introduzione del push to pass, un dispositivo che aumenta temporaneamente la pressione di sovralimentazione, conferendo un aumento di potenza stimato in circa 50 cv, spendibili per un tempo complessivo variabile tra 60 e 75 secondi. A ciò si somma l’impiego obbligatorio di due diverse mescole di pneumatici, primary (dure) e alternate (morbide, identificate dalla spalla rossa).
Cambia anche il sistema di punteggio, che pur lasciando fondamentalmente inalterati gli scarti tra posizioni, estende l’arrivo a punti dal 12° al 20° posto. Al punto supplementare per il tempo più veloce in ciascuna sessione di qualifica, si aggiungono quelli per il giro più veloce, per aver completato almeno un giro in testa e per il maggior numero di posizioni guadagnate dalla qualifica. I punti disponibili per evento salgono quindi a 36.
Posizione
Punti
1
31
2
27
3
25
4
23
5
21
6
19
7
17
8
15
9
13
10
11
11
10
12
9
13
8
14
7
15
6
16
5
17
4
18
3
19
2
20
1
Miglior tempo Qualifica 1
1
Miglior tempo Qualifica 2
1
Giro più veloce
1
Un giro in testa
1
Maggior numero di posizioni guadagnate in gara
1
Sono confermate le regole di congelamento dei telai ammessi (Lola B02 e Reynard 02i), oltre che la monofornitura Ford Cosworth per quanto riguarda i motori e Bridgestone per gli pneumatici.
Rispetto al 2003 il calendario subisce una drastica contrazione, sia temporale che come numero di eventi. St. Petersburg esce di scena lasciando posto come prova inaugurale a Long Beach, programmata per metà aprile, due mesi dopo rispetto alla prima corsa del 2003. Cancellate anche le costose trasferte europee, accompagnate dalla perdita di una tappa storica, Laguna Seca. Restano tre le corse in Canada, con Vancouver che però cede il passo a un circuito temporaneo realizzato nell’aeroporto di Edmonton. Confermata l’esclusione di Fontana, passata al calendario IRL, rimangono in calendario due ovali, Milwuakee e Las Vegas. Restano due anche le trasferte a sud del confine, con Mexico City ancora a chiudere la stagione la prima settimana di novembre.
Il team Newman-Haas monopolizza la prima fila nell’appuntamento inaugurale di Long Beach, con Junqueira a precedere Bourdais. Entrambi devono però lasciare spazio in partenza a Tracy, che con una grintosa staccata si porta subito in testa alla prima curva, mentre Tagliani soffia al francese la terza piazza. Dopo una iniziale neutralizzazione per un incidente nelle retrovie, in testa Tracy conduce per tutta la corsa, facendo l’elastico con Junqueira, che dopo l’ultima sosta sembra potersi avvicinare al canadese, ma deve in realtà guardarsi dal ritorno di Bourdais, I tre chiudono nell’ordine, precedendo Carpentier, che dopo l’ultima sosta riesce ad avere ragione di un battagliero Dominguez, beneficiario dei guai in pit lane che eliminano dalla contesa Tagliani. Ottima sesta piazza del debuttante Wilson, coinvolto nell’incidente iniziale, che precede Hunter-Reay, quinto nelle prime fasi e scivolato indietro dopo la prima sosta.
A Monterrey un mese più tardi Bourdais replica la pole position di 12 mesi prima, precedendo il padrone di casa Dominguez. Mentre il francese prende subito il comando, il messicano va in testacoda al secondo giro, finendo in coda al gruppo. Ne approfitta Junqueira, che sale al secondo posto davanti a Wilson e Tracy. In mezzo a diverse alternanze al vertice indotte dalla cervellotica regola delle due soste obbligatorie in bandiera verde, Junqueira approfitta di una sosta lenta del compagno per prendere il comando nel tratto centrale di gara. Tallonato a lungo il brasiliano, Bourdais restituisce però il favore all’ultimo pit stop, andando a condurre in tranquillità un 1-2 Newman-Haas. Terzo chiude Dominguez, bravo e fortunato nella sua rimonta a sfruttare le tante bandiere gialle e una strategia alternativa, così come Carpentier, che precede l’arrembante Tagliani. Ancora un ottimo piazzamento di Wilson, che per tutta la gara contiene un Tracy sotto tono.
Milwaukee vede invece il dominio totale di Ryan Hunter-Reay, che mette a frutto i test precedentemente effettuati dal team Herdez sul miglio del Wisconsin, centrando la pole e dominando la corsa. Mai una minaccia per l’americano, prima Bourdais e poi Tracy abbandonano invece dopo aver colpito il muro: il primo nel traffico, il secondo mentre cerca di passare all’esterno Carpentier per il secondo posto. Senza nessuna possibilità di competere con Hunter-Reay, che centra in scioltezza il secondo successo in carriera, il canadese chiude al secondo posto avendo la meglio su Jourdain, ultimo dei piloti a pieni giri davanti a Vasser e il positivo Allmendinger, che precede Junqueira.
Il riscatto del team Newman-Haas arriva però subito a Portland, dove Bourdais precede Junqueira in prima fila. Superate due bandiere gialle iniziali causate da errori di Dominguez, la gara si risolve in breve in un affare privato tra i due, che ingaggiano un continuo elastico attorno ai pit stop da cui il francese esce vincitore, precedendo sul traguardo il compagno per poco più di un secondo. Paul Tracy, a lungo frenato dal doppiato Tagliani, chiude la sua prova solitaria in terza piazza davanti al compagno Carpentier, che su una strategia alternativa ha la meglio su Wilson e Allmendinger, protagonisti di un lunghissimo duello per il quinto posto.
Posizione
Pilota
Punti
1
Bruno Junqueira
105
2
Patrick Carpentier
99
3
Sebastien Bourdais
98
4
Paul Tracy
79
5
Ryan Hunter-Reay
75
6
Justin Wilson
71
7
Mario Dominguez
66
8
Alex Tagliani
61
9
A. J. Allmendinger
54
10
Jimmy Vasser
52
Una inedita prima fila Tracy-Wilson guida il gruppo sotto la bandiera verde a Cleveland. Dalla seconda fila l’aggressiva staccata in curva 1 di Tagliani sorprende però l’ex F1, che perde il controllo in frenata e travolge Tracy. Del disastro anglo-canadese approfitta il solito Bourdais, che va subito in fuga davanti a Servia, abile a trovare il varco giusto nella confusione del via e poi promosso al secondo posto da un guasto alla vettura di Carpentier e un testacoda di Allmendinger. Dopo le prime soste lo spagnolo deve però cedere a Junqueira, in rimonta dopo difficoltà nelle prove e posizioni perse alla prima curva. Nonostante due bandiere gialle, il brasiliano non può però impensierire Bourdais, che guida la seconda doppietta consecutiva del team Newman-Haas. Un gran ritmo e una strategia fortunata risollevano la giornata di Tagliani, che chiude terzo precedendo Servia e Vasser.
E’ ancora Bourdais a comandare nell’appuntamento successivo di Toronto, accomodandosi in pole position davanti a Tracy. La svolta alla gara e al campionato arriva già alla prima curva, quando il capo classifica Junqueira non lascia spazio all’esterno a Dominguez, causando il ritiro di entrambi. Nelle prime fasi il duo di testa prosegue compatto incalzato da Wilson, con Carpentier e Tagliani più staccati. Il primo turno di soste vede poi lo stesso Wilson sopravanzare Tracy, che alla ripartenza dopo l’incidente del rientrante Gidley manda in testacoda l’inglese, causando una reazione a catena che rovina anche la corsa di Servia. La conseguente penalità spedisce il canadese in fondo al gruppo, promuovendo al secondo posto Vasser, seguito da Hunter-Reay, che approfitta del dritto di Tagliani. Tracy, protagonista di una rimonta spiritata, raggiunge il quinto posto, prima di spedire contro il muro Jourdain in uscita dalla pit lane e guadagnarsi un’altra penalità. Recuperata la vettura di Gonzalez, spinto contro il muro da Tagliani, negli ultimi giri Bourdais va serenamente a vincere davanti a un ottimo Vasser e Carpentier, che toglie ad Hunter-Reay il podio in un contatto nel finale che costa all’americano una foratura.
Dopo i disastri di Toronto Tracy si presenta pronto al riscatto a Vancouver, dove conquista la pole davanti al sorprendente Lavin. Mentre l’idolo di casa prende subito il comando, il messicano al via cede la seconda piazza a Bourdais, rovinando poi la sua prova con un testacoda solitario, prima che con una manovra assurda il doppiato Sperafico elimini Carpentier, causando la prima neutralizzazione. Il primo turno di soste premia il duo RuSport Allmendinger-Jourdain, che si porta alle spalle di Tracy mentre Bourdais perde posizioni alle prese con problemi di assetto. Neanche un errore di calcolo durante la seconda sosta impensierisce il leader, che negli ultimi giri viaggia a passo di qualifica per costruire un margine sufficiente a effettuare un rabbocco. Tornato in pista abbondantemente in testa, Tracy è quindi libero di centrare il secondo successo stagionale, precedendo l’ottimo Jourdain e Allmendinger, bravo a contenere Junqueira per centrare il primo podio in carriera. In difficoltà dopo il primo pit stop, Bourdais deve accontentarsi del quinto posto. Menzione di merito per Mazzacane, che riesce ad autoeliminarsi già nei giri di riscaldamento.
Bourdais conquista una larga pole position nel successivo appuntamento di Road America, precedendo il sorprendente Hunter-Reay. Mentre il capo classifica prende subito il comando, l’americano rimane però intruppato al via, precipitando poi in coda al gruppo dopo un evitabile contatto con Vasser, che perde un giro coinvolgendo anche Carpentier. Bourdais guida poi il gruppo fino alla neutralizzazione successiva per recuperare Gonzalez, insabbiatosi alla Canada Corner. Nella seguente ripartenza il francese non riesce poi a contenere Tracy, che gli strappa il primato con un grande sorpasso all’esterno. Dopo aver perso anche la seconda piazza in favore di Servia, una strenua difesa del terzo posto su Junqueira porta a un contatto in curva 1, che vede il brasiliano insabbiarsi e perdere un giro. La bandiera gialla, unita alla delirante regola dei tre pit stop obbligatori in bandiera verde, rende poi incomprensibile la corsa, che vede i primi fermarsi in pit lane subito dopo la ripartenza. Ne approfitta Tagliani, fermatosi precedentemente, che prende il comando dopo aver superato Wilson, sulla stessa strategia. Mentre negli ultimi 30 giri i pit stop si susseguono con una frequenza ridicola, Tracy vede prima sfumare il podio per una pistola difettosa, poi esce di pista quando non può evitare Junqueira, doppiato, che gli frena davanti alla staccata della curva 5. Il canadese sopravvive poi a un assalto di Allmendinger, che girandosi causa l’ennesima neutralizzazione. Con la corsa accorciata per il sopraggiungere delle due ore, negli ultimi tre minuti di bandiera verde Tagliani controlla la situazione, andando a cogliere il primo successo in carriera davanti a Lavin, emerso in seconda posizione dal caos delle strategie, che chiude davanti a Bourdais e Hunter-Reay, bloccati poco correttamente dal doppiato Carpentier, compagno di squadra del messicano.
Posizione
Pilota
Punti
1
Sebastien Bourdais
213
2
Bruno Junqueira
166
3
Alex Tagliani
153
4
Paul Tracy
152
5
Patrick Carpentier
141
6
Ryan Hunter-Reay
139
7
Jimmy Vasser
127
8
Mario Dominguez
126
9
A. J. Allmendinger
116
10
Justin Wilson
107
Il team Newman-Haas monopolizza ancora la prima fila nell’appuntamento successivo di Denver, che vede il riacutizzarsi della rivalità tra i suoi alfieri. In una replica di quanto accaduto la settimana prima, al via un deciso attacco all’esterno di Junqueira spedisce infatti in testacoda Bourdais, costretto a ripartire dal fondo. Mentre il francese inscena una furiosa rimonta, il brasiliano comanda la corsa fino alla prima sosta, che lo vede scavalcato da Tracy. Alle prese con problemi ai freni, Junqueira subisce poi anche l’attacco di Dominguez e addirittura di Bourdais, che approfitta di una bandiera gialla nel finale per puntare il duo di testa. “Spostato” il messicano con una dura manovra in ripartenza, il francese non perde poi tempo per avventarsi su un Tracy in difficoltà e involarsi verso un successo insperato ma fondamentale, non solo per la classifica, ma anche per fiaccare il morale dei rivali, Tracy e Junqueira su tutti, demoliti dalla superiorità del francese.
Bourdais porta a sei il suo bottino di pole position a Montreal, precedendo Allmendinger. Mentre il francese alla bandiera verde prende subito il comando, l’americano ha invece un avvio incerto, subendo una foratura per un contatto con Tagliani, che spingendo Tracy sull’erba crea scompiglio nel gruppo. Dopo la neutralizzazione per un incidente solitario di Hunter-Reay, Bourdais guida il gruppo fino alla prima sosta, subendo poi il sorpasso di Dominguez a gomme fredde, mentre Junqueira in terza piazza continua a precedere Tagliani e Tracy. Una pistola bloccata durante la sosta successiva compromette però la corsa del messicano, riconsegnando il comando a Bourdais, che dopo il pit stop esce incredibilmente di scena quando Allmendinger, su una diversa strategia, lo travolge al tornantino. Il comando passa così a Junqueira, che con venti giri da completare conduce con oltre 10 secondi di vantaggio su un serrato gruppetto composto da Tracy, Carpentier, Dominguez e Wilson. Problemi tecnici eliminano poi l’inglese, mentre Tracy deve lasciare spazio a Carpentier e Dominguez, che però nel finale sono ormai troppo staccati dal leader Junqueira, che conquista il primo successo stagionale riducendo a 34 punti il suo distacco da Bourdais.
Il francese risponde facendo segnare l’ennesima pole position a Laguna Seca, precedendo Carpentier. E’ però Tracy a contendergli da subito il comando, fino a quando il duello non porta all’ennesima scontro che procura una foratura al francese e un danno all’ala anteriore del campione in carica. Tracy conserva comunque il comando su Carpentier e Allmendinger fino al primo pit stop, ma prima è superato dal compagno, poi torna in pit lane per una foratura procurata dall’ala danneggiata, perdendo un giro nel processo. Non ne approfitta Allmendinger, che facendo spegnere il motore durante la sua sosta regala il secondo posto a un Junqueira in difficoltà nelle prove. L’americano completa poi la frittata urtando Servia, che però riesce a continuare e conservare la terza piazza. Neanche una bandiera gialla per recuperare la vettura di Gonzalez impensierisce nel finale Carpentier, che stacca facilmente Junqueira, conquistando la prima vittoria stagionale. Il podio è completato da un eccellente Servia, che precede Jourdain, Hunter-Reay, Tagliani, Haberfeld e Bourdais, rallentato nella sua rimonta da un maldestro contatto con Gonzalez.
Carpentier conferma il momento positivo a Las Vegas, conquistando la pole position davanti a Bourdais e duellando per la vetta con Junqueira nelle prime fasi. Dopo un testacoda di Hunter-Reay in corrispondenza del giro della prima sosta obbligatoria (4 in tutto) che causa un po’ di confusione, costando una penalità a Tagliani, Bourdais emerge dal gruppo dopo un pit stop lento, prendendo il comando su Vasser e Allmendinger. Il francese conduce con margine anche dopo il secondo turno di soste, precedendo Junqueira, che a fatica prende distanza da un bellicoso gruppetto di inseguitori guidato da Vasser, Lavin e Carpentier. Il terzo pit stop non altera la situazione, promuovendo però Dominguez al terzo posto, prima che il gruppo venga ricompattato dalla rottura del motore di Guy Smith. La neutralizzazione è sfruttata da tutti per effettuare l’ultimo pit stop, da cui Bourdais e Junqueira emergono ancora in vetta. I due staccano gli inseguitori fin dalla ripartenza, ingaggiando un serrato duello che li vede affiancati per buona parte degli ultimi trenta giri. In vista della bandiera a scacchi il doppiaggio di Haberfeld fa perdere però la ruota del compagno a Junqueira, che sulla dirittura d’arrivo non ha più lo spunto per mettere il muso davanti. Per Bourdais arriva così la sesta vittoria stagionale, che porta a 27 i suoi punti di vantaggio. Carpentier, alle prese con problemi al cambio, porta a casa il terzo posto precedendo Lavin, che al termine di una lunga battaglia regola Vasser, Allmendinger e Dominguez, penalizzato da un ultimo pit stop lento. Ancora meno fortuna per Tracy, subito fuori per problemi alla trasmissione.
Posizione
Pilota
Punti
1
Sebastien Bourdais
307
2
Bruno Junqueira
280
3
Patrick Carpentier
241
4
Paul Tracy
218
5
Alex Tagliani
206
6
Mario Dominguez
203
7
A. J. Allmendinger
184
8
Ryan Hunter-Reay
176
9
Oriol Servia
174
10
Jimmy Vasser
171
Tracy conquista la pole position nel penultimo appuntamento di Surfers Paradise, precedendo i contendenti al titolo. Sopravvissuto a un contatto con Allmendinger, Bourdais mette pressione al canadese nella prima metà gara mentre Junqueira, inizialmente staccato, si fa sotto in vista del secondo turno di soste portandosi dietro Dominguez. Un testacoda di Haberfeld da a tutti la possibilità di completare sotto bandiera gialla i pit stop, che vedono Junqueira superare Bourdais tra le proteste della crew del francese, che reclama un’irregolarità del brasiliano nell’uscita dalla piazzola. Dopo i pit stop di Allmendinger, Carpentier e Wilson, su una strategia alternativa a due soste, è quindi Junqueira a prendere il comando su Bourdais, beneficiando del precedente dritto di Tracy, precipitato al quarto posto dietro anche a Dominguez. Rassegnato a un rabbocco nel finale, il brasiliano prende un ampio margine su Bourdais ma a quattro giri dal termine, quando tutti i leaders imboccano la pit lane, Carpentier è vittima di un violento incidente a causa del cedimento dell’ala anteriore, in bilico per buona parte della corsa e irresponsabilmente non sostituita. Il canadese fortunatamente se la cava solo con un grosso spavento mentre la corsa si conclude sotto bandiera gialla, con Junqueira dichiarato vincitore davanti a Bourdais, Dominguez, Tracy e Hunter-Reay.
Posizione
Pilota
Punti
1
Sebastien Bourdais
335
2
Bruno Junqueira
313
3
Patrick Carpentier
247
4
Paul Tracy
243
5
Mario Dominguez
228
6
Alex Tagliani
208
7
A. J. Allmendinger
204
8
Ryan Hunter-Reay
197
9
Oriol Servia
182
10
Jimmy Vasser
180
Nonostante gli basti un undicesimo posto per portare a casa il titolo, Bourdais conquista con ampio margine la pole position per la corsa decisiva di Mexico City, precedendo il rivale Junqueira. Superate alcune bandiere gialle nelle prime battute, il francese è semplicemente imprendibile, seminando in breve Junqueira e gli inseguitori Wilson, Vasser e Servia. Nulla cambia al vertice dopo il primo turno di soste, mentre ritardando il pit stop Allmendinger riesce a portarsi al terzo posto. Con oltre venti secondi di vantaggio, al 42° giro Bourdais rischia però di buttare tutto alle ortiche girandosi all’ingresso dello stadio. Evitate le barriere, il francese riesce comunque a ripartire con ancora 5 secondi di vantaggio su Junqueira. Il leader estende poi nuovamente il suo vantaggio prima del secondo turno di soste, navigando nel traffico negli ultimi giri per cogliere il settimo successo stagionale che gli vale il meritato titolo Champ Car 2004. Junqueira deve così accontentarsi del secondo posto in gara e in campionato, chiudendo davanti al rookie of the year Allmendinger, che precede sul traguardo l’altro rookie di lusso Wilson, con Vasser che a chiudere la top 5.
La nascita del campionato CART nel 1979 è il risultato dell’evoluzione subita dalle corse a ruote scoperte americane negli 80 anni precedenti. Fino agli anni ‘50 la AAA, American Automobile Association, controllava buona parte delle attività motoristiche svolte negli USA dall’inizio del 20° secolo, fino a quando una serie di tragedie, culminate nel 1955 con la morte di 80 spettatori a Le Mans, non ha portato alla sua improvvisa uscita di scena dall’ambito sportivo. Ne seguì la formazione dell’USAC, lo United States Auto Club, voluto dal presidente dell’Indianapolis Motor Speedway Tony Hulman, che riprese da dove l’AAA aveva lasciato, patrocinando le corse di Midget, Sprint Cars, stock cars e “Championship cars”, le auto che animavano la gara più ricca e importante del mondo, la Indianapolis 500.
Se la corsa dell’Indiana rappresentava l’apice del motorismo americano, il resto del campionato rimaneva una serie di eventi più o meno collegati tra loro, piuttosto che continuare il discorso iniziato nel mese di maggio. Dopo la morte di Tony Hulman nel 1977, le squadre cominciarono a manifestare apertamente il proprio malcontento per la dilettantesca gestione del campionato. La successiva scomparsa dell’intero gruppo direttivo USAC in un incidente aereo a inizio ’78, allargò il vuoto di potere, finendo per far sfociare i numerosi incontri tra personaggi come Dan Gurney, Pat Patrick, Jim Hall, Roger Penske, Teddy Mayer e Tyler Alexander nel famoso “White Paper”, in cui lo stesso Gurney metteva nero su bianco i problemi della serie e i possibili correttivi proposti dalle squadre. Il messaggio era chiaro: “C’è qualcosa di sbagliato nel nostro sport, non sta minimamente raggiungendo il suo pieno potenziale e c’è un gran bisogno di cambiamento!”.
La frustrazione dei proprietari si concentrava soprattutto sui premi gara troppo scarsi e la pessima esposizione mediatica, che oggi come allora rendeva molto arduo il reperimento di adeguati sponsor. Una condizione in netto contrasto con il grande sviluppo commerciale che contemporaneamente altri sport come golf, football e baseball stavano incontrando, per non parlare della F1, che Bernie Ecclestone cominciava a trasformare in uno spettacolo globale. La gran parte dei team manager era d’accordo e quando USAC e IMS sdegnatamente rifiutarono di riconoscere le preoccupazioni delle squadre, non ci volle molto perché i proprietari formassero una propria associazione.
La Championship Auto Racing Teams era quindi pronta a partire. “Pensavamo tutti che il potenziale fosse molto maggiore di una sola grande corsa all’anno” ricorda Gurney, “ma una cosa che posso dire per certo, essendo stato uno dei membri del primo gruppo direttivo della CART, è che tutti volevamo solo far crescere la Indy500. Era già l’evento sportivo di un giorno più grande del mondo, quindi non aveva bisogno di grossi cambiamenti, ma noi volevamo migliorare il resto della stagione, non la 500 miglia”. Ci furono molti problemi all’inizio, con polemiche e cause legali, ma sotto la guida dell’avvocato John Frasco presto la CART ottenne il supporto, come sanctioning body ad interim, del SCCA, lo Sports Car Club of America, ed era pronta a organizzare la sua prima corsa a Phoenix, l’11 Marzo 1979, davanti a un grande pubblico e con la diretta nazionale su NBC.
L’USAC non cedette, cercando di bloccare l’iscrizione delle squadre CART alla Indy500 e andando avanti con il suo campionato, ma entrambe le iniziative si rivelarono un buco nell’acqua. Il tribunale dette infatti ragione alla CART, riconoscendo il diritto delle squadre di partecipare alla corsa in cui i ribelli, guidati da Rick Mears, sbaragliarono la concorrenza. “Non ci feci molto caso allora, ma ripensandoci la situazione tolse molto alla mia prima vittoria, con tutte le cause e il casino che andava avanti” dice Mears. “La vittoria a Indy arrivò e passò molto in fretta. Non ebbe lo stesso peso che avrebbe avuto normalmente. Ma la cosa non mi infastidì, l’avevo vinta ed era tutto ciò che avevo bisogno di sapere; dovevo solo andare avanti e vincerla di nuovo!”. Il trionfo della CART fu mitigato dal secondo posto di AJ Foyt, fedele all’IMS fino all’ultimo ma in definitiva costretto a “convertirsi”, quando nel 1981 l’USAC per riempire la griglia del suo campionato arrivò in qualche occasione a far correre insieme Champ cars e Midgets.
Il rapporto tra CART e Indianapolis continuò quindi come una sorta di convivenza forzata. Lo Speedway non poteva fare a meno delle squadre, che a loro volta avevano bisogno del palcoscenico principale. Dopo un breve tentativo di tregua nel 1980, la Indy500 rimase esclusiva del morente campionato USAC fino al 1983, quando si raggiunse finalmente un accordo per includerla nel calendario CART, pur rimanendo interamente gestita da USAC e IMS, sia da un punto di vista commerciale che tecnico e sportivo. Nel frattempo la CART incassò il determinante supporto delle PPG Industries, che divennero il title sponsor della serie, ottenendo più tardi la concessione da parte dello Speedway di ribattezzare il campionato come PPG IndyCar World Series, associando quindi ufficialmente le Champ cars a Indianapolis.
Il particolare “ovale” di Trenton
I primi anni di competizione vedono il team Penske come grande protagonista. Dopo aver conquistato la Indy 500, il poco più che debuttante Mears vince anche il titolo ‘79, precedendo il compagno Bobby Unser, secondo anche nel 1980 quando però a trionfare è Johnny Rutherford sulla Chaparral 2K progettata da John Barnard. La vettura americana porta oltreoceano il concetto di wing car introdotto tre anni prima dalla Lotus in F1, consentendo a “Lone Star” Rutherford di accaparrarsi anche la Indy 500. Il 1981 vede il ritorno al vertice della Penske, con Unser che conquista un discusso successo a Indianapolis su Mario Andretti mentre Mears domina il resto della stagione, proseguendo con lo stesso passo anche nell’82 con la nuova Penske PC10, con cui “Rocket” manca però la seconda affermazione a Indianapolis, persa di un soffio contro la Wildcat di Gordon Johncock in un finale memorabile.
L’inizio degli anni ’80 segna anche una nuova invasione dei costruttori inglesi. Nonostante il terzo titolo di Mears arrivi senza troppi patemi, la March già nel 1982 prende infatti il controllo del mercato telaistico, trionfando a Indianapolis nel 1983, dove la vettura inglese è portata in pole dal debuttante Teo Fabi e alla vittoria da Tom Sneva davanti alle Penske di Unser Sr. e Mears. E’ però lo stesso Al Sr. a portare a casa il titolo, grazie a una lunga serie di piazzamenti in top 5 che gli permettono di contenere la rimonta di Fabi, secondo per 6 soli punti nonostante 4 esaltanti vittorie. Paradossalmente è la stessa CART a facilitare la nuova invasione britannica, bloccando due anni prima lo sviluppo della Eagle BLAT, rivoluzionaria vettura progettata da John Ward e Trevor Harris, spinta da uno stock block Chevy in alluminio, che già prevede lo sfruttamento dei gas di scarico per generare deportanza e in generale basata su concetti totalmente diversi dalle convenzionali wingcars. Nelle mani di Mike Mosley la vettura americana umilia tutti a Milwaukee nel 1981, mancando la vittoria a Indy e Michigan per banali guasti meccanici. Stessa sorte tocca a Rocky Moran e Geoff Brabham negli appuntamenti di Watkins Glen e Riverside. Non accettando il rischio di dover convertire le proprie vetture ai concetti introdotti dalla Eagle, i poteri forti del campionato ottengono per il 1982 delle modifiche regolamentari che rendono inefficace la vettura di Dan Gurney, che dopo qualche anno sposta il suo impegno nel campionato IMSA.
Questi episodi non stemperano comunque l’interesse crescente di pubblico e partecipanti verso la serie, che già dai primi anni ’80 comincia a essere terreno di approdo per team e piloti della declinante Can Am. Fra loro Truesports e Newman Haas e piloti del calibro di Bobby Rahal, Geoff Brabham, Danny Sullivan e Al Unser Jr, figlio d’arte al quale si unisce a partire dal 1983 il fresco campione di F.Atlantic Michael Andretti. Dopo un decennio di dominio del motore Cosworth DFX turbo, a metà anni ’80 si assiste poi a un cambio della guardia anche tra i propulsori, con l’avvento del V8 Ilmor Chevrolet, dominatore della scena fino al 1991, che vince la concorrenza dell’obsoleto DFX oltre che delle unità presentate a fine decennio da Porsche, Alfa Romeo e Judd.
I nuovi arrivati non perdono tempo per affermare la propria competitività e se la Indy 500 1984 va a Rick Mears al volante di una March pesantemente modificata dal team Penske, il campionato è appannaggio di Mario Andretti alla guida della Lola-Cosworth del team Newman Haas, storico importatore del costruttore inglese. Il primo titolo per la March arriva l’anno seguente, grazie alla solita consistente stagione di Al Unser Sr., che da sostituto dell’infortunato Mears ha la meglio sulla Lola del figlio “Little Al” per un solo punto. La Indy 500 va invece a Danny Sullivan, vincitore al termine di un lungo duello con Mario Andretti nell’edizione ricordata per il celeberrimo “spin and win” dell’ex pilota Tyrrell.
L’andamento dei campionati successivi è un’ottima cartina tornasole dell’evoluzione della serie. Un duello fino all’ultima corsa caratterizza le stagioni ’86-’87, che vedono Bobby Rahal beffare per due volte Michael Andretti, con Al jr. più staccato e gli specialisti degli ovali sempre più relegati al ruolo di comprimari da un calendario che progressivamente sposta il suo baricentro su stradali e cittadini, riducendo il numero di ovali. Col passare degli anni infatti la CART inizia ad espandere la sua attenzione verso alcuni dei circuiti permanenti più celebri del paese: inizialmente Watkins Glen e Riverside per passare poi a Mid Ohio, Road America, Portland, Cleveland e Laguna Seca, che diventano in breve appuntamenti fissi così come Long Beach, inserita nel calendario CART nel 1984. Causa ed effetto del cambiamento è anche il sempre maggiore interesse dei piloti di estrazione europea verso il campionato. Dopo la positiva esperienza di Teo Fabi, la CART rilancia la carriera di Roberto Guerrero, dando poi una nuova giovinezza ad Emerson Fittipaldi. Alcune stagioni di apprendistato precedono infatti un 1989 strepitoso per il brasiliano, che al volante di una Penske del team Patrick arricchisce il suo già straordinario palmares in una drammatica edizione della Indy500, vinta dopo un contatto ruota a ruota con Al Unser jr a due giri dal termine. Qualche mese dopo Emmo riesce a portare a casa anche il campionato, al termine di un lungo confronto col compagno di marca Mears, la Lola-Chevy di Michael Andretti e la March-Porsche di Teo Fabi.
Stagioni di esaltante competizione in pista non cancellano però le tensioni tra squadre e IMS, ne i dissapori all’interno della stessa CART, la cui composizione è ormai nettamente cambiata rispetto alla formazione originale, con il progressivo abbandono della McLaren e personaggi come Jim Hall e Dan Gurney. Accusato di favorire i suoi ex datori di lavoro Pat Patrick e Roger Penske e mai del tutto accettato dall’ambiente per la sua poca competenza in ambito motoristico, dopo 8 anni da CEO John Frasco è sostituito brevemente dal suo sottoposto John Caponigro e dall’ex meccanico e proprietario di team John Capels, fino all’arrivo nel 1990 di Bill Stokkan. Ex marketing manager per Playboy e Carlsberg, neanche Stokkan ha particolare esperienza nel mondo dei motori, ma riesce ad allargare ulteriormente i confini del campionato, sfidando la FISA nell’organizzare la corsa di apertura del campionato 1991 a Surfers Paradise, nella Gold Coast australiana. L’espansione agli antipodi non rappresenta però una vera novità, arrivando dopo le due corse di Mexico City nelle stagioni ’80-’81, cui hanno fatto seguito le trasferte in Canada sull’ovale di Sanair, fino all’approdo nel 1986 all’Exhibition Place di Toronto, un appuntamento divenuto nel tempo un classico.
È un periodo contrastante per la CART, anche a causa di un progressivo incremento dei costi che, nonostante i continui record di pubblico e ascolti, nel biennio ’91-’92 fa oscillare di gara in gara il parco partenti tra le 21 e le 28 vetture. Parallelamente la tensione con l’IMS e il suo nuovo presidente, Tony George, cresce di anno in anno. La frustrazione del nipote di Tony Hulman risiede nel progressivo allontanamento del campionato dalle sue origini, con un calendario che concentrandosi per due terzi su stradali e cittadini rende sempre più difficile l’avanzare dei giovani piloti provenienti dai circuiti USAC verso Indianapolis, con le squadre che guardano con sempre maggiore interesse ai piloti di estrazione europea. A ciò si somma la dipendenza della serie dai motoristi, con contratti di leasing ferrei che rendono difficile la vita delle piccole squadre e di chi, anche all’ultimo momento, volesse iscriversi alla 500 miglia, passati vincitori compresi. Più di tutto comunque il motivo di discordia è lo scarso peso che lo Speedway gioca all’interno del consiglio di amministrazione della CART, dove Tony George è trattato come il padrone di una normale pista del calendario, quando l’importanza della Indy500 per il successo del campionato è ovviamente cruciale.
Pazzo finale a Portland 1986 tra gli Andretti e Al Unser Jr.
Dal punto di vista sportivo e della competizione il campionato comunque continua a crescere. Oltre ai titoli ’86 e ’87 Bobby Rahal porta a casa nel 1986 una Indy 500 da antologia, avendo la meglio su Rick Mears e Kevin Cogan all’ultima ripartenza a due giri dal termine, segnando il giro più veloce all’ultimo passaggio nonostante il serbatoio praticamente vuoto. È anche l’ultima grande gioia per il suo capo Jim Trueman, che qualche giorno più tardi perde la battaglia contro il cancro, a soli 51 anni. La 500 miglia 1987 va invece ad Al Unser Sr., alla guida di una March-Cosworth vecchia di un anno, ritirata in fretta e furia dal team Penske dalla hall di un hotel. Il quarto successo in carriera allo Speedway per “Big Al” arriva dopo aver visto tutti i piloti Chevrolet fermarsi con problemi al motore, compreso il dominatore assoluto della corsa Mario Andretti, mentre Roberto Guerrero getta al vento la vittoria facendo spegnere il motore durante l’ultima sosta.
Nel 1988 l’ingaggio dell’ex progettista Lola Nigel Bennett porta alla “rinascita” della Penske, con il dominio in campionato di Danny Sullivan e il terzo successo in carriera a Indianapolis di Rick Mears. I meriti della nuova PC17 nei successi degli alfieri del Capitano vanno però ripartiti con il motore Ilmor Chevrolet, che dopo due anni di rodaggio fa piazza pulita dei vecchi Cosworth. Dopo la doppietta del 1989 con la Penske del team Patrick, il 1990 vede il passaggio di Emerson Fittipaldi e dello sponsor Marlboro al team Penske, ma è ormai il tempo delle nuove leve, con Al Unser Jr. e Michael Andretti vincenti in 11 dei 16 appuntamenti della stagione e “Little Al” finalmente campione al volante della Lola-Chevy del team Galles. Indianapolis va invece a sorpresa ad Arie Luyendyk, autore di un record sulla distanza di gara che resisterà 23 anni. Il 1991 è finalmente l’anno di Michael Andretti e del team Newman Haas, che dopo un travagliato avvio di stagione mettono insieme 8 vittorie, avendo la meglio sull’eterno rivale Bobby Rahal. Per Michael il tanto agognato titolo mitiga la delusione patita a Indianapolis dove, dopo aver dominato buona parte della corsa, il giovane americano è beffato a pochi giri dal termine da Rick Mears, alla conquista della quarta affermazione allo Speedway dopo un duello leggendario.
Il quadro tecnico cambia ancora nel 1992, quando la Ford decide di rientrare ufficialmente nel campionato, affidando il suo Cosworth XB ai team Newman Haas e Ganassi. Michael Andretti è ancora una volta il pilota più veloce del campionato, ma il potente XB si rivela ancora acerbo per permettere all’americano di confermare un titolo che va ancora una volta a Bobby Rahal, al debutto nel ruolo di pilota/proprietario di team dopo essere entrato in società con Carl Hogan. All’ultima gara di Laguna Seca un terzo posto è sufficiente al pilota dell’Ohio per conquistare il terzo campionato in carriera con soli 4 punti di vantaggio su Andretti, che però vive la delusione più cocente a Indianapolis, dove si ritira a 13 giri dal termine dopo aver dominato la corsa dalla prima curva. Il forfait di Andretti lascia strada libera ad Al Unser Jr, che pochi secondi prima della neutralizzazione supera Scott Goodyear, complice il doppiaggio di Lyn St. James. Negli ultimi sette giri il canadese prova in tutti i modi a riguadagnare la posizione, chiudendo sul traguardo a soli 43 millesimi da “Little Al” che, commosso, giustifica le sue lacrime in victory lane con un “you just don’t know what Indy means” che passerà alla storia.
Rick Mears e Michael Andretti raccontano il finale della Indy500 1991
Storico duello tra Al Unser Jr e Scott Goodyear al termine della Indy 500 1992
La crescente popolarità della CART esplode letteralmente alla fine del 1992 quando Nigel Mansell, dopo mesi di infinite trattative con la Williams, cede alle lusinghe di Paul Newman e per la stagione successiva prende il volante della Lola-Ford lasciata libera da Michael Andretti, che tenta il salto opposto approdando in McLaren al fianco di Ayrton Senna. L’impatto di Mansell sul campionato è a 360°: alla prima corsa di Surfers Paradise l’attenzione mediatica è paragonabile ai livelli raggiunti solo durante il mese di maggio, rendendo istantaneamente inadeguate le sale stampa di buona parte dei circuiti. La competizione in pista diventa ancora più serrata, con la diffusione di manovre difensive più dure fino a quel momento poco tollerate.
L’adattamento del pilota inglese al campionato è stupefacente, da campione del mondo. Tra sorpassi, penalità e diverse strategie Mansell si aggiudica pole e vittoria in Australia nel tripudio generale, ma è poi costretto a saltare la seconda prova di Phoenix dopo un tremendo incidente in prova, che gli procura un bruttissimo infortunio alla schiena. Il pilota inglese corre in condizioni estremamente critiche le prove successive, andando vicinissimo alla vittoria a Indianapolis, dove è però beffato nel finale da Fittipaldi e Luyendyk. Il campionato vive sul confronto Mansell-Penske, con Rahal frenato dal progetto di rendere competitiva l’unica vettura interamente americana in griglia, la Truesports, mentre Al Unser Jr. vive un’ultima, poco soddisfacente annata al team Galles. L’avversario di Mansell per il titolo è il consistente Fittipaldi, ma il vero rivale dell’inglese si dimostra il 25enne Paul Tracy, che a fine campionato mette insieme lo stesso numero di vittorie, 5, cui non si sommano però i tanti punti persi per incidenti evitabili, oltre a diverse rotture meccaniche. Nonostante 7 poles, Mansell dopo Surfers Paradise non vince più su stradali e cittadini, mettendo invece insieme 4 vittorie su ovali, che unite all’affidabilità del motore Ford gli permettono di diventare il primo pilota a vincere consecutivamente il titolo in F1 e IndyCar.
La stagione 1994 segna un’altra svolta, con importanti novità sul piano tecnico e sportivo. Abbandonata la F1 la Honda si lancia alla conquista del Nord America, affrontando una difficile stagione d’esordio con il team Rahal. Sul fronte dei telai, dopo i successi mietuti in F.3000 la Reynard lancia la sfida a Lola e Penske, affrontando le particolari esigenze delle vetture da ovale. In un solo anno il parco partenti cresce enormemente di livello, con Michael Andretti a portare al debutto la Reynard del team Ganassi, la promessa Robby Gordon a guidare la Lola-Ford del team Walker e l’arrivo sulla Reynard del team Green/Forsythe del debuttante Jacques Villeneuve. La novità più importante è però il passaggio, fortemente voluto dalla Marlboro, di Al Unser Jr. al team Penske.
Il campionato è un monologo delle vetture bianco-rosse, capaci di conquistare 12 delle 16 corse in programma, con Andretti che porta alla vittoria la Reynard in Australia e a Toronto, Scott Goodyear che vince a sorpresa la Marlboro 500 di Michigan e Jacques Villeneuve che si laurea rookie of the year, portando a casa un successo strepitoso sul difficile stradale di Road America. Al Unser Jr. è praticamente impeccabile e le poche volte in cui non si dimostra il pilota più redditizio della squadra, è un pizzico di fortuna ad aiutarlo nel portare a casa 8 vittorie e il titolo con anticipo record, mentre Fittipaldi e Tracy precedono il primo dei “mortali”, Michael Andretti.
Ovviamente anche Indianapolis è un affare privato tra le Penske, reso ancor più memorabile da un cambiamento regolamentare introdotto dall’USAC nel ’93 che, nel tentativo di attirare più costruttori americani, ammette unità anche non strettamente di serie per i motori con distribuzione ad aste e bilancieri, che godono di notevoli vantaggi in termini di pressione di sovralimentazione. Solo Ilmor e Penske però raccolgono la sfida, preparando in gran segreto un propulsore apposito che, provato al banco, supera i 1000 cv contro gli 820 del classico Ilmor D. Le Penske dominano il campo ma solo Unser vede il traguardo, precedendo Villeneuve dopo l’incidente di Fittipaldi a 10 giri dal termine. Il trionfo segna anche l’inizio della collaborazione tra Ilmor e Mercedes, oltre all’ingresso della casa tedesca nel campionato. Per Mansell una stagione storta in cui la sua classe non basta a compensare un po’ di sfortuna e una Lola tutt’altro che irresistibile, relegando il campione ’93 all’ ottavo posto finale, senza vittorie.
Storico duello Mansell-Fittipaldi a Cleveland 1993
Finale di Indianapolis 1994
Arrivederci Mario
Il 1995 è l’anno di Jacques Villeneuve, vincitore di 4 corse che unite a una notevole consistenza lo tengono al riparo dal ritorno di Al Unser Jr., che nonostante i guai del canadese non riesce a ribaltare la situazione nell’ultimo appuntamento di Laguna Seca. Michael Andretti, tornato al team Newman Haas dopo i ritiri di Mansell e del padre Mario, si conferma il pilota più veloce, pagando però qualche errore di troppo oltre alla non sempre ottimale affidabilità della sua Lola-Ford. Per Reynard, Ford e Goodyear il titolo si aggiunge a una incredibile edizione della 500 miglia di Indianapolis, che vede le Penske incapaci di qualificarsi, Michael Andretti gettare al vento la vittoria durante un doppiaggio, le potentissime Menard subito attardate da problemi tecnici e infine una girandola di potenziali vincitori uscire di scena, tra cui Scott Goodyear, che nel finale supera la safety car prima che questa imbocchi la corsia box, gettando al vento una meritata vittoria per sé, il nuovo potente motore Honda e la rientrante Firestone. A gioire in victory lane è quindi ancora Jacques Villeneuve, che riesce a sovvertire l’incredibile penalizzazione di due giri subita a metà gara per la stessa infrazione. Per il costruttore giapponese e la casa americana un parziale rivincita arriverà qualche mese più tardi, con la vittoria del rookie Ribeiro a Loudon.
La crescita di qualità e popolarità della serie non aiuta però a tenere sotto controllo la diatriba con Tony George e l’IMS, che spingono per una completa revisione del sistema di controllo del campionato. Per sbloccare la situazione di immobilismo decisionale che caratterizza il consiglio direttivo della CART, George propone una nuova composizione, più snella, comprendente due proprietari di team ed esponenti USAC, PPG e lo stesso presidente IMS. Dopo aver a lungo rigettato la proposta, il consiglio accetta una riorganizzazione temporanea, che vede nel gruppo direttivo 5 proprietari di team (Penske, Walker, Coyne, Hall e Haas) con diritto di voto, affiancati da Stokkan e George come consiglieri. L’obiettivo del nuovo corso è conseguire quella riduzione dei costi da tutti auspicata, cercando di far prevalere gli interessi del campionato su quelli dei singoli proprietari, problema che di fatto affligge la CART dalla sua formazione. Nonostante si riesca a portare in porto alcuni miglioramenti (riduzione del numero giornate di test, concentrazione di alcuni eventi su due giorni, incremento sanzioni per violazioni tecniche), a fine ’93 l’assemblea dei proprietari decide di tornare al consiglio di 24 membri con diritto di voto, con Tony George ancora nel ruolo di consulente. La rottura tra le due organizzazioni è ormai imminente, innescata si dice da una frase retorica di Bill Stokkan che, col senno di poi, sembra un’occasione attesa da tempo: alle parole del CEO “cosa succederebbe se noi non partecipassimo alla 500 miglia?” Tony George coglie la palla al balzo, rinuncia al proprio posto all’interno del consiglio della CART e comincia a programmare la creazione di un nuovo campionato per auto a ruote scoperte, comprendente la Indianapolis 500. La scissione diventa realtà a inizio ’94, quando la CART sceglie come nuovo CEO Andrew Craig, già impegnato nell’organizzazione di vari progetti olimpici, trascurando il candidato proposto dal presidente IMS, che qualche mese più tardi annuncia il proprio campionato, denominato Indy Racing League, che dovrebbe partire nel 1996 sanzionato dall’USAC. L’obiettivo della nuova serie è riportare in primo piano lo spirito originale del campionato USAC, con piloti provenienti dalle varie serie Midget e Sprint cars a sfidarsi su un calendario di soli ovali, con vetture più semplici e meno costose che garantiscano un maggiore livellamento delle prestazioni e la possibilità per i piccoli team di emergere, eliminando la dipendenza dai motoristi e l’acquisto dei sedili da parte di ricchi piloti stranieri.
Tra accuse reciproche e tentativi di riavvicinamento, la polemica separazione diventa guerra aperta a metà del 1995, quando USAC e IMS annunciano la regola divenuta celebre come 25/8, secondo cui 25 dei 33 posti di partenza per la Indy 500 1996 saranno appannaggio dei piloti stabilmente impegnati in IRL. La CART risponde boicottando in massa l’evento, inserendo nel calendario 1996 la US 500, una 500 miglia organizzata con le stesse modalità della Indy 500 e tenuta lo stesso giorno sull’ovale di Michigan.
Il 27 gennaio ’96, a Orlando, il campionato IRL tiene la sua prova inaugurale, con una ventina di iscritti alla guida di vetture rispondenti alle specifiche CART degli anni precedenti, vendute con poca lungimiranza alle squadre IRL proprio dai team della serie rivale. Le stesse vetture, spinte ai limiti in cerca di nuovi record che facciano notizia, animano la Indy 500, funestata dalla morte in prova del polesitter Scott Brayton. La gara vede ai nastri di partenza vecchie “glorie”, molti comprimari esclusi dalla CART, qualche giovane interessante come Tony Stewart e molti semi-sconosciuti. L’inesperienza del parco partenti fa temere incidenti catastrofici, ma la Indy 500 fila via in relativa tranquillità, mentre sono le “stelle” della CART a combinare un disastro durante la partenza della concorrente US 500, con Vasser e Fernandez che agganciandosi in prima fila causano un “big one” che fa fuori mezza griglia, costringendo la direzione gara a una lunghissima bandiera rossa.
Jacques Villeneuve trionfa a Indianapolis dopo aver recuperato due giri di distacco
Strepitoso finale della Marlboro 500 1995
L’inizio della scissione
Il disastro alla partenza della US500 1996
Da un punto di vista meramente sportivo il campionato CART/IndyCar 1996 vede l’inizio del dominio del team di Chip Ganassi, grazie a una serie di felici intuizioni del manager di Pittsburgh, che sposa in pieno l’impegno Honda e Firestone, ingaggiando Alex Zanardi al fianco del confermato Jimmy Vasser. È l’americano a portare a casa il titolo, grazie a una fantastica striscia di 4 vittorie nelle prime sei gare (compresa la US500, nonostante il pasticcio iniziale), ma è l’italiano a conquistare l’America, mettendo a segno una delle più spettacolari manovre della storia, un’impossibile staccata a Bryan Herta al Cavatappi di Laguna Seca, che gli vale la terza vittoria stagionale dopo il titolo di rookie of the year. Mentre la corsa al titolo dell’italiano viene frenata da qualche contrattempo di troppo con i doppiati e un rapporto difficile con gli ovali, Vasser deve guardarsi fino all’ultimo da Michael Andretti (5 vittorie) e Al Unser Jr., che rimane in corsa nonostante una Penske irriconoscibile. Il 1996 segna anche l’ingresso del quarto motorista, con la Toyota che scende in campo proprio nell’anno del primo titolo per la rivale Honda.
Nel 1997 la CART perde la battaglia legale sul diritto di utilizzo del marchio “IndyCar”, che resta congelato fino al 2003, quando la IRL diventa IndyCar Series. Parallelamente le vetture del campionato CART tornano alla denominazione originale, passando da “indy cars” a “champ cars”. Mentre il campionato di Tony George supera il primo anno di transizione, adottando un nuovo pacchetto tecnico basato su motori aspirati 4 litri derivati dalla serie, la CART apre a un nuovo costruttore. Il team Newman Haas abbandona infatti la Lola dopo 14 anni per portare in pista in esclusiva il nuovo telaio Swift, subito vincente con Michael Andretti nel primo appuntamento di Homestead. La vettura americana, ancora a corto di test e frenata da un pacchetto Ford-Goodyear non sempre all’altezza, non si dimostra comunque versatile come la collaudata Reynard, che conquista il mercato sbaragliando la Lola, in netta crisi dopo il fallimento del progetto F1.
La prima parte del campionato, incentrata maggiormente sugli ovali, vede in realtà prevalere la Penske-Mercedes di Paul Tracy, ma è Alex Zanardi a salire in cattedra nella seconda parte della stagione, infilando una sequenza di podi e vittorie che annichilisce i rivali, oltre a mettere a segno alcune rimonte che rimangono nella storia della categoria. Nonostante la concorrenza crescente, il bolognese si ripete nel 1998, chiudendo il campionato con l’incredibile risultato di 15 podi su 18 corse, che gli garantiscono il titolo con 4 gare d’anticipo e un vantaggio di punti record. Questi risultati valgono al pilota italiano l’ingaggio da parte della Williams F1, sulle orme di Jacques Villeneuve, che nel giro di tre anni replica, al contrario, l’impresa riuscita a Nigel Mansell. Il 1998 segna anche una svolta politico-commerciale, con la prima corsa in Giappone, l’ingresso come title sponsor della Fed Ex a porre fine a una collaborazione quasi ventennale con la PPG e soprattutto la quotazione in borsa del titolo CART, con i proprietari di team inizialmente titolari del capitale azionario.
Il 1999 vede oltre ai 4 motoristi ben 5 telai impegnati nel campionato, compresa la Eagle del team All American Racers di Dan Gurney, di ritorno nella CART nel 1996. Il campionato vede vincere 10 piloti diversi, con una lotta per il titolo che si restringe via via a Dario Franchitti e al sensazionale debuttante Juan Pablo Montoya, perfettamente a suo agio nel sedile lasciato libero da Zanardi. Il titolo va al colombiano all’ultima gara, teatro del terribile incidente che costa la vita a Greg Moore, una delle star del campionato. La scomparsa del canadese costringe la CART a interrogarsi sulle prestazioni sempre più impressionanti delle Champ car, che nonostante le diverse limitazioni di potenza e aerodinamiche imposte negli anni, superano ormai i 900 cv e in scia raggiungono i 400 km/h in super speedway come Fontana.
Pazzesco ultimo giro a Road America 1996
Spettacolare finale a Portland ‘97
Ultimi giri dalla US500 1999
Con l’affluenza di pubblico in calo, soprattutto sugli ovali, il numero dei piloti americani che scende di anno in anno e gli spettatori tv che diminuiscono, il 1999 vede un primo tentativo di avvicinamento tra CART e IRL, che nel frattempo è riuscita a costruirsi un’identità e un discreto seguito. La CART deve ammettere per la prima volta di soffrire l’assenza della Indy500 e a metà anno sembra potersi raggiungere un accordo, basato su una formula con motori atmosferici e predominanza delle corse su ovali. Tony George alla fine decide di continuare per la sua strada, anche se i negoziati aprono le porte alla partecipazione del team Ganassi alla 500 miglia di Indianapolis del 2000.
Il pubblico accoglie bene il team tetra campione CART, ma la corsa è inevitabilmente vissuta da tutti come un confronto tra le due serie. Montoya manca la pole, accomodandosi in prima fila al fianco del campione IRL Greg Ray, ma in gara, dopo una prima fase di studio, il pilota colombiano prende il largo, guidando 167 giri della corsa e andando a vincere praticamente indisturbato. Il team Ganassi è accusato di spendere per Indy più di quanto i migliori team IRL investano per tutto il campionato, ma la facilità con cui Montoya imprime la sua faccia sul Borg Warner Trophy sembra segnare una voragine tra le due serie. La IRL viene in parte riscattata da Kenny Brack, vice campione F.3000 nel 1996 e campione IRL nel ’98, che da rookie in CART col team di Bobby Rahal arriva a giocarsi il titolo all’ultima corsa.
Il 2000 vede il numero di costruttori scendere da 5 a 3, con l’abbandono per scarsi risultati del team AAR di Dan Gurney e del telaio Eagle, la conversione del team Penske al telaio Reynard e la Swift che schiera una sola vettura gestita dal team Coyne. Dopo anni di delusioni si ritira anche la Goodyear, mentre per la Mercedes è il canto del cigno dopo diverse stagioni di risultati sotto le aspettative. La sfida tra Honda, Ford e Toyota sale ancora di livello, con la casa americana che schiera il nuovo sofisticato propulsore Cosworth XF. Dopo 4 anni di difficile apprendistato, la Toyota porta a casa ben 5 vittorie, frutto della collaborazione con il team Ganassi, che abbandona Honda e Reynard adottando il telaio Lola, ben comportatosi nel ’99 nelle mani del giovane Castroneves. I vincitori diversi salgono a undici e la lotta per il titolo coinvolge una decina di piloti fino alle ultime corse, quando la consistenza premia la Reynard-Honda di Gil De Ferran e del rinnovato team Penske, mentre Andretti e Montoya terminano il campionato recriminando sulla scarsa affidabilità della pur ottima Lola e delle rispettive motorizzazioni.
Nel 2001 il colombiano diventa il quinto campione CART in meno di un decennio a lasciare la serie per la F1, con Ganassi che rinnova il parco piloti puntando su campione e vice campione della F.3000 internazionale mentre il numero dei piloti americani scende alla miseria di tre superstiti: Michael Andretti, Jimmy Vasser e Bryan Herta. Le dimissioni di Andrew Craig a metà 2000 portano al ruolo di CEO ad interim Bobby Rahal, che viene poi sostituito da Joe Heiztler. La stagione 2001 chiude quella da molti definita come un’epoca d’oro per le corse a ruote scoperte americane, segnando l’inizio della fine per la categoria. La competizione in pista rimane furiosa, con undici vincitori diversi, ancora più equilibrio tra Lola e Reynard e nuovi appuntamenti in calendario, con le corse in Messico, Germania e Inghilterra a compensare l’uscita di scena dell’ovale di Rio. Il campionato vive sul confronto tra il duo Penske De Ferran-Castroneves, Kenny Brack e Michael Andretti, che dopo cinque stagioni lascia il team Newman Haas, sostituito da Cristiano Da Matta. Lo svedese sfrutta alla grande la Lola del team Rahal e le caratteristiche “risparmiose” del motore Ford, dominando gli ovali, ma alla fine la superiorità ingegneristica della Penske rende imprendibili le vetture del Capitano sugli stradali. Questo e la solita grande consistenza di Gil De Ferran consegnano quindi il secondo titolo al brasiliano e alla squadra americana, al top anche nel secondo trionfo CART a Indianapolis, dove Castroneves e De Ferran dominano nel finale, precedendo Michael Andretti e tre vetture del team Ganassi.
Per la CART sono però le ultime buone notizie: proprio Penske, spinto dalla Marlboro e i vari sponsor, “tradisce” la serie che aveva contribuito a creare, trasferendo la sua operazione in IRL; nel mese di aprile la CART è costretta a rimandare e poi cancellare la corsa organizzata sull’ovale di Fort Worth, quando i piloti cominciano a manifestare mancamenti dovuti all’inatteso carico g verticale indotto dalla velocità e dall’elevato banking. Le vetture viaggiano a medie superiori a 235 mph, circa 10 mph più forte delle vetture IRL, trasformando un evento voluto per umiliare i rivali nel loro “feudo”, in una disfatta. La CART ne riceve infatti un brutto colpo d’immagine oltre a dover pagare un pesante risarcimento al Texas Motor Speedway. Un’altra sberla arriva poi dai motoristi giapponesi: il ritardo nella definizione del nuovo regolamento tecnico e le infinite polemiche sulla gestione della valvola pop-off esasperano la Honda, che annuncia il suo ritiro dal campionato al termine del 2002.
Da sempre sostenitore di una formula sovralimentata con cubatura più ridotta e pressione maggiore, il costruttore nipponico rimane infatti spiazzato dalla decisione della CART di adottare motori atmosferici di caratteristiche simili a quelli utilizzati in IRL a partire dal 2003, considerati poco interessanti da un punto di vista tecnico. La decisione, volta a ridurre le prestazioni delle vetture ma intesa in realtà come una manovra di avvicinamento alla serie rivale, è vista dalla Honda come un ulteriore sgarbo in favore della Toyota, che già aveva dichiarato l’intenzione di correre a Indianapolis nel 2003. Incredibilmente, pochi mesi più tardi gli stessi proprietari che avevano votato l’adozione del motore atmosferico, decidono di accantonare tutto e mantenere il turbo 2.65 litri, affidando per il 2003 la monofornitura alla Ford, unica rimasta dopo la dipartita di Honda e Toyota verso la IRL.
Beffa finale, il CEO Heitzler, esperto di comunicazione ma incapace di procurare alla serie un’esposizione tv adeguata, viene licenziato a fine anno quando il consiglio direttivo scopre il suo passato ricco di cause per bancarotta e mancati pagamenti.
Il duello Montoya (Lola-Toyota) – Andretti (Lola-Ford) negli ultimi giri della Michigan 500 2000
Sfida all’ultima curva tra De Ferran e Brack nella seconda tappa della trasferta europea 2001, sull’ovale inglese di Rockingham
Ultimi giri della Michigan 500 2001
Dopo l’allontanamento di Heitzler, che costa alla CART un ulteriore sanzione perché avvenuto in modo irregolare, nel 2002 la serie affida a Chris Pook il rilancio. Lo storico manager della corsa di Long Beach introduce numerose novità, tra cui il congelamento dei telai dopo il 2002, l’abbandono della formula consumo e un nuovo sistema di qualifica su due giorni. Sulla falsariga di quanto accaduto in Formula 1, anche la CART ammette poi la propria impotenza sul bando dei controlli elettronici, ponendo fine ad anni di sospetti e accuse sottobanco liberalizzando il controllo di trazione.
Dopo un 2001 di rodaggio, Cristiano Da Matta e il team Newman Haas sbaragliano la concorrenza, portando al titolo la Lola e il motore Toyota, mentre delude Kenny Brack, che da super favorito al team Ganassi ottiene una sola vittoria. La Indy500 2002 vede poi il terzo capitolo della sfida CART e IRL, con Paul Tracy (Team Green, CART) che nel finale va all’attacco di un Helio Castroneves (Team Penske, IRL) in grave crisi coi consumi. A due giri dal termine, proprio quando il canadese affianca il brasiliano in curva 3, un incidente tra Lazier e Redon costringe alla neutralizzazione della corsa. Castroneves viene dichiarato vincitore, ma il sospetto che la vettura del team Green fosse davanti al momento dell’accensione delle luci gialle spinge il team Green a fare ricorso, col tribunale che qualche mese dopo da ragione alla Penske, come già accaduto nel 1981. A fine anno, “bad boy” Tracy viene votato come pilota più popolare tra i tifosi della CART, che giudicano un furto l’esito della corsa.
La CART del 2003 è ormai solo una lontana parente del glorioso campionato di qualche anno prima. Con la partenza verso la IRL di Penske, Ganassi, Andretti/Green e Rahal (nel 2004), la serie vive sul confronto tra i due top team superstiti: Newman Haas, che schiera due vetture per Junqueira e il rookie Bourdais; Forsythe, che conferma Patrick Carpentier e ingaggia Paul Tracy, finalmente campione al termine di un lungo confronto con lo stesso Junqueira e Jourdain. A metà stagione gli errori di tanti anni hanno il loro epilogo nella bancarotta della CART, risultato di una gestione fallimentare a causa della storica incapacità delle squadre di abbandonare i propri interessi e convergere verso una posizione comune. Ne è testimonianza la quotazione in borsa del ’98, che vide molti proprietari vendere sottobanco le proprie azioni, in totale violazione degli accordi presi.
La serie va comunque avanti, salvata dalla cordata composta da Jerry Forsythe, Kevin Kalkhoven e Paul Gentilozzi, che rileva ciò che rimane della CART, ribattezzandola Champ Car World Series e proseguendo l’infinita “faida” con Tony George. Il campionato, disputato con le vecchie Lola, gomme Bridgestone e un motore Ford sovralimentato da circa 750 cv (ripescato dopo aver abbandonato l’idea del nuovo motore atmosferico), diventa in breve un monomarca comandato dai team Newman Haas e Forsythe, se si esclude qualche inserimento di Justin Wilson e del team Rusport.
Il 2004 vive sul duello tra Bourdais e Junqueira (più qualche intromissione di Tracy), col francese che nel finale piega la resistenza del brasiliano, conquistando il titolo principale dopo quello di rookie of the year nel 2003. Nel 2005 il confronto tra i due è interrotto da un brutto incidente subito da Junqueira a Indianapolis, che costringe il brasiliano a restare inattivo per il resto della stagione. Per Bourdais il secondo titolo consecutivo è quasi una formalità, fatta eccezione per una serie di colpi proibiti con Tracy che infiamma il pubblico, soprattutto negli appuntamenti canadesi del campionato. Alle spalle del francese chiude Oriol Servia, sostituto di Junqueira in casa Newman Haas e vincitore dell’appuntamento di Montreal.
Nel 2006 l’ostacolo principale tra Bourdais e il terzo titolo è AJ Allmendinger che, passato al team Forsythe alla quinta corsa del campionato, infila tre vittorie consecutive e 5 in totale, tenendo aperto il discorso titolo fino alla penultima prova di Surfers Paradise, dove un ritiro consegna il titolo al francese, mentre l’americano salta l’ultima corsa accettando l’offerta del team Red Bull Toyota in NASCAR. Più che per il bel confronto tra i due contendenti però, la stagione fa notizia per le risse che coinvolgono Tracy negli appuntamenti di San Josè e Denver, dove il canadese entra in contatto e viene alle mani rispettivamente con Tagliani e lo stesso Bourdais.
Il 2007 segna l’introduzione di una nuova vettura, la Panoz DP01 spinta dal solito motore Cosworth, che regala una sensazione di novità insieme all’adozione delle partenze da fermo, del limite temporale di un’ora e tre quarti e dell’arrivo di diversi piloti di estrazione europea come Doornbos, Jani, Pagenaud e Gommendy. La nuova stagione segna anche l’abbandono definitivo degli ovali, ormai totalmente “estinti” nelle stagioni precedenti con l’eccezione di Milwaukee e Las Vegas. Bourdais parte ancora una volta coi favori del pronostico, ma per metà stagione il francese se la deve vedere con il rookie of the year 2006 Power, il debuttante Doornbos e il solito Wilson, prima che l’esperienza del francese e la superiorità tecnica del team Newman Haas abbiano la meglio, consegnando a Bourdais il quarto titolo consecutivo.
A pochi mesi dall’inizio della stagione 2008 infine, Kalkhoven e Forsythe, alla soglia di una nuova bancarotta, sono costretti a cedere, accettando le “condizioni di resa” di Tony George, con le squadre Champ Car che ottengono un accesso “facilitato” al campionato IRL IndyCar, con la garanzia di sconti sui telai Dallara. L’unificazione, effettuata in fretta a furia, non permette la coesistenza degli appuntamenti di Motegi e Long Beach, così la Champ Car dà il suo estremo saluto sul cittadino della California, in un evento che, pur assegnando punti per il campionato IRL, viene disputato con regole e vetture del campionato Champ Car, chiudendo malinconicamente 30 anni a tratti spettacolari, in cui la CART ha rappresentato molto più che una valida alternativa alla F1, unendo a piloti straordinari, vetture da sogno e piste da brivido, un ambiente e un‘impostazione ancora, per certi versi, incentrata sulla semplicità e sulle corse a misura d’uomo. Un’attitudine che ha reso la serie, se non la più importante, probabilmente la più bella del mondo.
La rivalità Tracy-Bourdais
Prima partenza da fermo della storia Champ Car. Si notano le gomme con la spalla rossa, a indicare la mescola tenera da alternare obbligatoriamente con quella più dura. La serie è stata la prima a introdurre questa regola, così come l’utilizzo del push to pass.
Pareri e ricordi dei piloti che hanno vissuto il periodo 1993-2001
Jacques Villeneuve: “Emerson Fittipaldi era il mio idolo da quando avevo sette anni. Probabilmente ho imparato prima a dire “Emerson Fittipaldi” che “Papà”, quindi correre contro di lui, Mario Andretti e anche Nigel Mansell, uno che rispettavo molto all’inizio della mia carriera, era fantastico. È questo il ricordo più bello delle corse di quei tempi: correre contro questi piloti, in quell’ambiente, era semplicemente incredibile”.
Juan Pablo Montoya: “Erano bei tempi. C’era una grande competizione: nel ’99 c’era la guerra dei pneumatici, che era un po’ come quando oggi tutti usano le “rosse” in IndyCar. Le macchine avevano molta aderenza, c’era tanta potenza, erano divertenti. Anche le macchine attuali sono divertenti ma sono più legate allo “slancio” . Le vetture CART invece acceleravano sempre e sono contento di averle guidate. Ho guidato una macchina da 950 cavalli. Le macchine di Ganassi erano davvero dominanti per qualche anno, ed era bello esserne parte, ma la cosa migliore era quanto andavano le vetture sugli ovali. Facevamo le 250 mph in scia, era piuttosto impressionante. La mia ultima gara CART fu a Fontana e non guidavamo in un Superspeedway da 6 mesi. Ricordo che facevamo un giro lento per poi cominciare a spingere ma dopo tre giri ancora non riuscivo a fare tutta la pista in pieno e pensavo: < sei una femminuccia, tieni giu!> Ho fatto in pieno le curve 3 e 4 e la velocità era tale che ho subito alzato il piede! Sono tornato ai box dicendo <Oh Dio, avevo dimenticato quanto vanno forte questo cose>, ma dopo due minuti era tutto normale”.
Mario Andretti: “Ogni anno c’era una macchina nuova ed è qualcosa che aspettavi con impazienza perché si migliorava di continuo. Da pilota per me era come essere padre ogni anno. Ok, non era sempre un bel bambino, alcuni avevano gli occhi incrociati e così via, ma in ogni caso dovevamo sviluppare la macchina e c’era sempre qualcosa di nuovo. Si provava sempre e ogni test era coperto dalla stampa, c’era sempre qualcosa di cui parlare. La serie tirava parecchio ai tempi.”
Bobby Rahal: “Quella decade fu sicuramente il momento più alto per la CART, ma le fondamenta furono costruite negli anni ’80. Quando arrivai, nell’82, le cose non erano molto diverse dal campionato USAC degli anni ’70: c’erano una o due squadre che dominavano, non c’erano tante gare e Indy dominava tutto. Ma già nel ’92 all’improvviso parecchie squadre potevano vincere gare o il titolo, c’era spazio per un team appena formato come il TrueSports. Tra il 1986 e il 1992 abbiamo vinto tre titoli e un sacco di gare, quindi era una delle squadre dominanti suppongo. Dall’inizio degli anni ’90 e fino al 2000 la serie continuò a crescere. C’era un sacco di pubblico, gli ascolti tv erano buoni, c’erano molti sponsor, tre motoristi in lotta, due produttori di gomme, era popolare. A Laguna Seca ci volevano due ore e mezza per arrivare in pista da quanta gente c’era. Erano bei tempi e a ripensarci è triste come tutto sia andato in malora a causa della scissione. Sugli ovali facevamo le 235, 238 mph e non c’erano grossi pacchetti di macchine. Si viaggiava in gruppetti, ci si superava, non si trattava di andare in giro fianco a fianco tutto il tempo. C’era la Toyota, c’era la Honda, la Firestone, un sacco di squadre arrivarono in quel periodo. Era davvero il campionato in cui essere.”
Bruno Junqueira: “Ho avuto la grande opportunità di correre per Ganassi quando il mio sogno di arrivare in F1 non è andato a buon fine. C’erano squadre con grosse risorse, diversi costruttori e tanti buoni piloti. Era molto difficile e dovevo imparare in fretta. non avevo esperienza con la macchina, le piste, la cultura…e le macchine erano veloci! Nella mia prima corsa su un ovale, a Nazareth, ho fatto la pole e poi quell’anno ho vinto la mia prima gara a Road America. Ancora prima di correrci, guardavo le gare su Eurosport quando vivevo in Inghilterra e correvo in F.3000. La adoravo, era molto più interessante della F1 a quei tempi”.
Helio Castroneves: ”Ogni volta che ti sedevi su quella macchina era un po’ uno spavento. Anche in rettilineo, quando andavi sul gas c’era TANTA potenza. Andavamo verso i 1000 cv. Le macchine erano incredibili. Ricordo una volta a Sebring in cui avevo paura anche solo a toccare l’acceleratore. A volte tendi ad abituarti alle macchine, ma non si faceva mai l’abitudine con quelle, soprattutto sugli ovali. Quando realizzavi che la gara successiva sarebbe stata Milwaukee o Nazareth dicevi sempre < oh cavolo >, si aveva davvero paura a premere sull’acceleratore. Una volta chiesi a Christian Fittipaldi <ma è così anche in Formula 1?>, mi disse <In F.1 sembra molto veloce all’inizio ma poi ti abitui, questa sembra sempre troppo veloce!>. Fu un sollievo, non ero il solo a pensarla così! Non era solo la potenza, era che lei spingeva sempre. E il rumore era assolutamente fantastico, volevi accelerare solo per poterlo ascoltare. Feci diverse belle gare in quel periodo ma la migliore fu quella con Penske a Laguna nel 2000. Avevamo una sospensione particolare per i trasferimenti di carico, era fantastica. Io e Gil avevamo un vantaggio enorme rispetto agli altri. A ogni curva, l’avantreno era stabile. Fu il vantaggio più grande che riuscimmo mai a ottenere”.
Christian Fittipaldi: ”Tutti i piloti erano felici e non lo sapevano! Era fantastico. Andavamo in bei posti, belle piste, provavamo sempre ma ci lamentavamo lo stesso! No scherzo, ma credo che la parte migliore, di gran lunga, fossero le macchine, perché in certe occasioni quelle cose avevano più di 1000 cavalli e con tutto quel carico davano una sensazione incredibile dentro l’abitacolo”.
Kenny Brack: “Ho guidato molte macchine differenti negli anni ma penso che la più fantastica fosse la Lola-Ford/Cosworth del team di Bobby Rahal nel 2001. La Lola era un gran telaio e noi eravamo il team ufficiale Ford. Abbiamo lavorato strettamente con la Cosworth per sviluppare il motore e alla fine avevamo circa 1000 cavalli. Non c’erano aiuti di guida, nessun ABS o traction control, niente. Erano macchine serie in termini di potenza ed eccitazione quando le guidavi. Negli anni precedenti c’era anche la guerra degli pneumatici, quindi si provava di continuo. Ognuno sviluppava la propria macchina, i motori, le gomme. Penso sia stato l’ultima ventata di aria fresca in IndyCar. Per me quella è stata una buona era nel motorsports. Le macchine potevano essere potenti e lo sviluppo era continuo. Erano bei tempi ma poi tutto è divenuto più regolamentato. Il muletto è stato vietato, le regole sono diventate più restrittive fino ad arrivare alla situazione attuale, in cui tutti guidano la stessa macchina. Ho guidato anche la Williams FW15 di Formula 1 nel 1993. Quella è stata la macchina più tecnologicamente avanzata mai costruita, ma non ci ho mai corso, l’ho solo provata al Paul Ricard. Aveva un V10 Renault e ovviamente era a sua volta molto potente, ma gli preferisco la ChampCar perchè era una bestia più brutale”.
Max Papis: “Le macchine più esigenti che ho guidato sono sicuramente le ChampCars. La #7 Miller Lite che ho guidato per anni è stata sicuramente quella che mi ha dato più soddisfazione perchè per essere un campione dovevi essere un pilota completo. Passavi dal guidare su un ovale corto come Nazareth a Long Beach la settimana dopo, e poi Michigan, Toronto, Laguna Seca. Il livello di competizione e dei partecipanti era sbalorditivo”.
Gil De Ferran: “C’era così tanta potenza e gli ultimi anni, 2000 e 2001, le macchine e i motori erano davvero sviluppati, era una gran macchina da guidare. Non importava quante volte l’avevi guidata, ogni volta che ti ci sedevi era un <ok, preparati>. Erano impegnative da portare al limite, da guidare ad alto livello in ogni condizione. Nei cittadini spesso era molto difficile schiacciare a fondo tra due curve. Controllavi il pattinamento per tutto il tempo. Ci voleva coraggio, soprattutto su certe piste, c’erano tecniche speciali. Non c’era una diversità accentuata come in F1, ma tutti avevano piccole differenze. Erano macchine ben fatte, soprattutto quando sono andato alla Penske, dove ci mettevano molto impegno, anche se non progettavano più le loro macchine ci mettevano molto del loro, ed erano bellissime. Mi piacevano le differenze nelle vetture, nelle gomme, nei motori e la relativa libertà per fare cose diverse”.
Adrian Fernandez: “Erano macchine assolutamente fantastiche. Erano difficili e dure fisicamente. Non avevamo nessuno degli aiuti odierni come cambio al volante, idroguida o roba del genere. A quei tempi avevamo quasi 1000 cavalli. Erano sovralimentate senza controllo di trazione o altro. Quindi quelle macchine mi hanno dato la più forte sensazione di velocità provata in vita mia. Le velocità che facevamo su alcuni ovali o in certi rettilinei erano incredibili e le macchine assolutamente bellissime. È un periodo che mi manca tanto, la competizione era altissima con piloti fantastici e leggendari. Sono stato così fortunato da poter correre contro Mario Andretti, Emerson Fittipaldi, Bobby Rahal, Alex Zanardi e Juan Pablo Montoya per citarne qualcuno. Era davvero uno di quei periodi in cui le corse erano al massimo da ogni punto di vista: sponsor, squadre quello che vuoi. Una vera epoca d’oro, un periodo che mi manca tanto”.
Dario Franchitti:“Quando ero un pilota Mercedes in DTM guardavamo spesso le corse Indycar perché Greg Moore era un pilota Mercedes. Poi Jan Magnussen fece alcune gare nel ’96 e tornò dicendo: <se mai avrai l’occasione di andare, vai. Le macchine sono fantastiche, molto divertenti>. E così che tutto iniziò per me. Le prestazioni delle macchine sono la cosa che più mi è rimasta impressa. Ricordo di averle viste la prima volta su un ovale, Gil De Ferran stava girando, mi passò davanti e pensai <non è poi così veloce>, ma stava frenando! Il giro dopo è passato a tutta e non ci potevo credere, la velocità era terrificante. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è come quelle macchine non smettessero MAI di accelerare. Erano difficili da guidare. Se ondeggiava una volta e non l’avevi corretta, eri nel muro. Dal punto di vista del pilota non c’era nulla come tirare il collo a una di quelle macchine con le gomme morbide in un cittadino, o in un giro di qualifica a Mid Ohio. Ricordo un test di gomme a Portland per la Firestone e ad oggi non ho più sperimentato velocità e aderenza come quel giorno. Andammo in Texas e le macchine erano troppo veloci. Nei test avevamo calcolato male la lunghezza della pista, non ci eravamo accorti di quanto andavamo forte, stavamo facendo le 237 mph di media! Per forza che ci sentivamo male! Erano fuori di testa. Mettere insieme un giro su un cittadino, un ovale corto, ognuna di quelle piste, era una sfida. Erano fantastiche ed erano bei tempi. Ci sono stati dei periodi d’oro per l’IndyCar e la metà degli anni ’90 era uno di questi. Dovevo dimenticarmi che stavo combattendo con gente come Andretti, Zanardi, Vasser, Al Jr. Ci volle un po’ ad abituarsi. Penso che non ci si accorse subito degli effetti della scissione fino all’inizio degli anni 2000. Penso ci volle così tanto, ma quello strappò proprio il cuore al tutto…e solo ora si sta cominciando a ricostruire”.
Michael Andretti: “La prima cosa che mi viene in mente sono i primi anni ’90, quando tutto era perfetto con la squadra. Nel ’90 stavamo ancora costruendo, nel ’91 ne abbiamo raccolto i frutti, nel ’92 dominavamo ma la macchina non era affidabile. Sarebbe stato bello avere la macchina del ’93, penso che avremmo potuto vincere tutte le gare ed è stato frustrante mancare quella stagione da un punto di vista “IndyCar”. È stato bello tornare nel ’94 quando Chip mi ha dato l’occasione, vincere la prima corsa dopo il mio ritorno, battendo Nigel. Fondamentalmente ero il migliore della mia categoria, ma le Penske avevano un vantaggio enorme. Le macchine erano fantastiche. C’era sempre qualcosa di nuovo, non era un monomarca. Erano tempi in cui era divertente sia guidare che essere un ingegnere, perché potevi essere creativo. Potevi chiedere cose che volevi e loro potevano costruirle e farle funzionare. Quando ci ripenso dico a me stesso <wow, era davvero caro per i proprietari>. Di certo non era una serie a buon mercato. Rimasi con la gomma sbagliata per 5 anni e penso di aver perso un sacco di gare che avrei dovuto vincere. La Goodyear era davvero indietro. Era deludente essere dalla parte sbagliata, quindi dal punto di vista del pilota, tutta quella libertà non era una buona cosa, perché se avevi il materiale sbagliato, non potevi fare risultati. Era divertente quando invece avevi il pacchetto giusto. Poi arrivò la scissione, fu così frustrante essere preso in mezzo a tutta quella politica. Ho perso l’occasione di provare a vincere Indy per 5 anni. E’ stato molto triste per il campionato. Non penso che quel pacchetto tecnico funzionerebbe oggi, sarebbe troppo costoso. Detto questo, se avessi corso oggi probabilmente avrei vinto il doppio delle gare. Le macchine non erano affidabili, si rompevano spesso, ora non si rompono mai. Pensare a quante volte ero in testa ed è successo qualcosa!”.
Alex Zanardi: “Quando hai un esperienza fantastica e ne parli bene, potrebbe sembrare che lo fai solo perché hai avuto molto successo, ma credo sinceramente che quelle che avevamo nella CART fossero le più belle auto che uno potrebbe mai aver il privilegio di guidare. Erano molto potenti, attaccate a terra grazie a quelle grandi, fantastiche gomme morbide. Avevano un buon carico. Erano le macchine più belle che abbia mai guidato, F1 compresa. Ero contento come “un maiale nella merda” dentro quelle cose, perché sembravano fatte su misura per me. Sono stati certamente tre anni fantastici. I miei ricordi più belli sono legati all’incredibile relazione col mio compagno Jimmy, ma pensando più egoisticamente il piacere più grande l’ho tratto da quelle occasioni in cui riuscii a vincere contro ogni ostacolo; gare in cui sono sicuro che molti altri piloti al mio posto avrebbero parcheggiato la macchina a metà gara, mentre io sono riuscito a tirarne sempre fuori qualcosa alla fine. In quegli anni ho vinto alcune delle gare più memorabili che un pilota potrebbe sperare di vincere nella sua vita”.