8 ottobre 1904 – Long Island, New York: i piccoli costruttori americani escono duramente sconfitti dalle case europee nella prima Vanderbilt Cup, un copione che si ripeterà nei due anni successivi. Tra le cause, la mancanza di strutture adatte a provare intensivamente le vetture, le cui prestazioni sono ormai incompatibili con le strade dissestate e sempre più trafficate di molti stati. La pensa così anche Carl G. Fisher, impresario di Indianapolis di umilissime origini ma straordinario spirito di iniziativa, che alla fine del secolo dà vita a una fortunata rete di distribuzione di biciclette. Abilissimo nel campo pubblicitario e nello stringere solide relazioni commerciali, Fisher si afferma in breve anche nel nascente settore automobilistico come rivenditore ufficiale di numerosi marchi della zona, di cui avverte il bisogno di una struttura di collaudo adatta ai sempre più prestanti modelli immessi sul mercato. Nei primi anni del ‘900 inizia a maturare quindi in lui l’idea di un circuito, di 3 o 5 miglia, che possa fungere da banco di prova e terreno di gara per i costruttori alla ricerca di promozione. La difficoltà nel trovare l’appezzamento di terra adatto e i tanti investimenti paralleli fanno però slittare l’avvio del progetto fino al 1908, quando 80 acri di terra pianeggiante a 5 miglia a ovest della città diventano disponibili. Fisher non perde tempo, aggiudicandosi in breve il terreno grazie al sostegno economico dei soci in affari James A. Allison, futuro fondatore della Allison Engine Company; Arthur Newby, presidente della National Motor Vehicle Company e filantropo; Frank Wheeler, spregiudicato uomo d’affari e coproprietario della Wheeler-Schebler Carburetor Company, con cui fonda la Indianapolis Motor Speedway Company. Insieme all’ingegnere P.T. Andrews, Fisher successivamente mette nero su bianco il suo progetto ripiegando, per poter accomodare anche le tribune, su un ovale da 2,5 miglia da completarsi con un infield di pari lunghezza, idea poi abbandonata per le difficoltà subentrate in fase di realizzazione. Tra queste, la costruzione di un ponte sopra il ruscello che ancora oggi scorre sotto il rettilineo principale e la south short chute, nonché i problemi legati alla stesura del mix di roccia tritata, tar e macadam impiegato per la realizzazione del manto stradale, che prestò si dimostrerà inadatto a veicoli da competizione.
In ritardo con i lavori, il primo evento ospitato dallo Speedway è il concorso nazionale di mongolfiere, ma quando l’associazione nazionale motociclisti fa tappa a Indy per una serie di gare, i detriti e la inestinguibile nube di polvere sollevata dalle due ruote trasformano l’evento in un fiasco. La settimana successiva la prima due giorni di corse automobilistiche attira, oltre a un pubblico numerosissimo, alcuni dei più importanti nomi del motorismo americano, tra cui Barney Oldfield, Louis Chevrolet, Ray Harroun e Louis Schwitzer. Le precarie condizioni di sicurezza portano però a una serie di gravi incidenti, che costano la vita al pilota Wilfred Bourque oltre che al meccanico Claude Kellum e due spettatori. E’ chiaro che il proseguimento dell’attività può passare solo attraverso una nuova pavimentazione. Nell’autunno del 1909 ben 3.200.000 mattoni vengono quindi depositati sullo Speedway, permettendo la riapertura alle corse nel Memorial Day successivo, che registra un enorme successo di pubblico. Fortuna non incontrata però dagli eventi programmati per i mesi successivi, tanto da spingere Fisher e soci all’idea di una sola grande corsa annuale da tenersi il giorno del Memorial Day, dal ricco montepremi e di durata compatibile con le tipiche attività di una giornata festiva. Nasce così la Indianapolis 500, inizialmente denominata International 500 Mile Sweepstakes Race.
Il 30 maggio 1911 è lo stesso Carl Fisher a guidare sulla sua automobile personale il gruppo, disposto su file da 5 in base all’ordine di iscrizione. Dopo 6 ore e 43 minuti di gara la vittoria arride alla Marmon Wasp di Ray Harroun, ingegnere e inventore, che trionfa grazie alla strategia (procede a un passo fisso di 75 mph per minimizzare i lentissimi cambi gomme) e a un’invenzione semplice ma geniale: lo specchietto retrovisore, che gli permette di fare a meno del meccanico di bordo nonostante le proteste degli avversari. L’evento è un grandioso successo e tanta è l’esposizione ricevuta che la Marmon, soddisfatta, può ritirarsi dalle competizioni, imitata l’anno dopo dalla National, che nel 1912 coglie un insperato successo con il giovane Joe Dawson. Sospettose sulle corse yankee ma attirate dal ricco montepremi, le case europee fanno il loro debutto ufficiale a Indy nel 1913, con Joules Goux che porta a casa il successo per la Peugeot, non senza rinunciare a qualche rinfrescante bicchiere di champagne durante le soste, mentre nel 1914 è René Thomas a portare alla vittoria la Delage. Il vero grande personaggio dei primi anni della 500 miglia (e delle corse americane in generale) è però Raffaele “Ralph” De Palma. Nato in Puglia nel 1882 ed emigrato negli States 10 anni più tardi, l’italo-americano entra nella storia già nel 1912, quando domina la corsa ma viene abbandonato al penultimo giro dalla sua Mercedes, che spinge dalla curva 4 fino al traguardo, per poi andare a congratularsi con il vincitore Dawson, ricevendo l’ovazione del pubblico. La sorte lo ripaga comunque nel 1915, anno in cui ha la meglio sull’inglese di origine italiana Dario Resta, ritiratosi nel finale dopo una lunga lotta, ma vincente l’anno dopo su una Peugeot privata nell’ultima edizione pre conflitto, di distanza limitata a 300 miglia. La corsa chiude infatti i battenti nel biennio 1917-1918, in cui Fisher concede la struttura all’aviazione come centro di manutenzione e collaudo. Quando lo Speedway riapre alle competizioni nel 1919, il protagonista è sempre lui, De Palma, che domina fino a metà gara per poi essere tradito dal motore e lasciare spazio ad Howdy Wilcox, primo uomo a superare le 100 mph di media in prova, che vince su Peugeot.
Gli anni ’20 si aprono con l’ultima di una serie di modifiche regolamentari che vedono la cilindrata massima ridursi progressivamente dai 9,8 litri del 1911 fino ai 3 litri dei Gran Premi europei. Le qualifiche, in vigore dal 1913, passano poi da uno a quattro giri cronometrati. Il nuovo sistema premia subito Ralph De Palma, per la prima volta in pole, ma dopo una lunga fase comandata da Joe Boyer è il compagno di marca Gaston Chevrolet, il più giovane dei fratelli svizzeri, a conquistare il successo sull’auto di famiglia, la Frontenac. L’anno dopo è poi Tommy Milton a capitalizzare sulle sfortune di De Palma, superando un grave handicap visivo per bissare il successo per la famiglia Chevrolet, ancora in lutto per la scomparsa di Gaston, avvenuta alla fine della stagione precedente.
Reduce da uno storico trionfo al GP di Francia 1921, nel 1922 tocca poi a Jimmy Murphy entrare nella storia, primo a vincere dalla pole position a bordo di una Deusenberg spinta da un motore di Harry Miller, le cui successive iterazioni monopolizzeranno lo schieramento per decenni. L’inventore americano l’anno dopo si scopre anche telaista, realizzando una vettura completa che Tommy Milton porta al successo, diventando il primo plurivincitore della corsa, supportato da Howdy Wilcox, che fa a suo modo la storia guidando la corsa su due vetture diverse dopo essere brevemente subentrato a Milton a metà gara. Ancora pallino delle case europee, nella stessa edizione Indy scopre la sovralimentazione grazie alla Mercedes di Christian Lautenschlagen, ispirando i fratelli Deusenberg, che nel 1924 presentano una vettura dotata di compressori Roots, condotta in partenza da Lora Corum e portata poi alla vittoria dal subentrante Joe Boyer, il più veloce della squadra. Il successo è bissato nel 1925 da Peter De Paolo, nipote e meccanico di Ralph De Palma, che precede di meno di un minuto il duo Dave Lewis-Bennet Hill su una rivoluzionaria Miller a trazione anteriore. Soluzione che si dimostra efficace anche l’anno successivo nonostante la riduzione di cilindrata a 1,5 litri, quando Lewis è però beffato dalla più convenzionale Miller a trazione posteriore del velocissimo rookie Frank Lockhart, nella prima edizione accorciata causa pioggia. È solo un guasto a negare il bis nel 1927 al pilota dell’Ohio, che dopo aver segnato il nuovo record della pista in prova deve lasciare la vittoria a George Souders, il primo a vincere la corsa senza mai cedere la vettura.
Il 1928 segna una svolta epocale nella gestione dello Speedway. Ormai totalmente preso dai suoi investimenti in Florida, Carl Fisher ha perso ogni interesse per la sua creatura, che non è più in cima ai pensieri neanche del socio Allison. In cerca di un acquirente, il patron della potente Allison Engineering propone quindi l’affare a una vecchia conoscenza. Eroe di guerra e uno dei primi assi nella storia dell’aeronautica americana, al ritorno in patria dopo la prima guerra mondiale Eddie Rickenbacker è una celebrità, in grado di dar vita a una promettente casa automobilistica, che però non supera la depressione di metà anni ’20. Protagonista della 500 miglia nel 1916, Rickenbacker riesce comunque a entrare nel consiglio direttivo della AAA, l’ente sanzionatore della corsa, divenendone in breve presidente. Quando Allison, che morirà improvvisamente qualche mese più tardi colpito dalla polmonite, gli propone di rilevare lo Speedway, l’ex asso non perde tempo nel reperire i fondi necessari, prendendo il controllo della struttura con la sua nuova società, la Indianapolis Motor Speedway Corporation. Una delle prime iniziative dei nuovi gestori è la costruzione di un campo da golf, per metà interno alla pista, che insieme ai test privati permette di produrre introiti durante il resto dell’anno.
Dal punto di vista sportivo, la vigilia della 500 miglia 1928 è funestata dalla scomparsa di Frank Lockhart, venuto a mancare durante un tentativo di record di velocità a Daytona Beach, ultima di una serie di tragedie che ha il suo apice nel settembre 1923 con la scomparsa nel giro di due settimane di Joe Boyer, Howdy Wilcox e Dario Resta. La prima pole di una vettura a trazione anteriore, guidata da Leon Duray, precede la vittoria di un uomo che farà la storia della corsa, Louis Meyer, che sopravvive allo stillicidio di rotture cogliendo l’ennesimo successo per la Miller, replicato l’anno successivo da Leo Keech, morto incredibilmente due settimane più tardi nell’ovale di Altoona, già fatale a Boyer e Wilcox.
Due anni dopo aver rilevato lo Speedway, Rickenbacker introduce intanto le prime importanti innovazioni della sua gestione. Nel tentativo di coinvolgere nuovamente le grandi case automobilistiche e riallacciare il rapporto tra la corsa e la produzione, per 1930 il regolamento tecnico vede l’aumento della cilindrata massima a 6 litri ed il bando della sovralimentazione, permessa solo per i motori a due tempi. Viene inoltre introdotto un sistema di equivalenza tra peso e potenza delle vetture, che devono nuovamente accogliere il meccanico di bordo. Alcune storiche variazioni riguardano anche il regolamento sportivo: la bandiera verde, normalmente impiegata per segnalare l’ultimo giro, viene ora impiegata per dare il via alla corsa, prendendo il posto della bandiera rossa, da qui in poi impiegata in caso di sospensione della gara. L’edizione 1930 è totalmente dominata dalla Miller a trazione anteriore del 23enne Billy Arnold, che stabilisce un record tutt’ora imbattuto rimanendo in testa per ben 198 giri. Il pilota dell’Illinois va vicinissimo al bis nei due anni successivi, rimanendo però coinvolto in brutti incidenti con alcuni doppiati che lasciano campo libero a Louis Schneider nel ’31 e Fred Frame nel ’32, anno in cui Arnold cede alle suppliche della neo sposa lasciando le corse. Il 1933 vede le qualifiche passare da 4 a 10 giri cronometrati, cosa che estende le prove ufficiali a due giornate. Al termine di un mese di maggio funestato da 5 incidenti mortali, la vittoria va ancora alla Miller di Louis Meyer, primo plurivincitore dai tempi di Tommy Milton. Oltre al ritorno a 33 partenti e norme ancora più stringenti sulla quantità di combustibile disponile, il 1934 passa agli annali come la prima edizione condotta da una vettura a 4 ruote motrici, la Four Wheel Drive guidata da Frank Brisco, che però termina solo nona, con Bill Cummings vincitore sulla solita Miller a trazione anteriore dopo una dura battaglia con Mauri Rose.
Il sempre più pesante bilancio di vittime, non certo aiutato dal ritorno a vetture biposto, impone nel biennio ‘35-’36 importanti novità riguardo la sicurezza: nelle curve vengono costruiti nuovi muretti (perpendicolari alla pista e non al terreno) e il banking viene uniformato a circa 9° lungo tutto il raggio. Le porzioni di pista più rovinate vengono ricoperte di asfalto (i mattoni sopravvivono nel rettilineo principale fino al 1961) e si introducono un sistema di luci per segnalare i periodi di neutralizzazione della corsa, il rookie test per vagliare il livello dei debuttanti e l’obbligo di indossare il casco. Il meccanico di bordo viene invece eliminato nel 1937. L’edizione del ’35 vede la prima delle 4 pole position di Rex Mays, più giovane poleman di sempre a 22 anni, che passerà alla storia come uno dei migliori piloti a non portare a casa il successo, che arride invece a Michele Cavino “Kelly” Petillo, abile e controverso pilota di origine italiana che porta alla vittoria per la prima volta il motore Offenhauser, un 4 cilindri in linea a sua volta derivante dalle tante invenzioni di Harry Miller, che segnerà la storia della corsa. Nel ’36 è invece ancora Louis Meyer a portare a casa il successo, il terzo, in una corsa che vede molti concorrenti rimanere a secco nel finale a causa della nuova formula consumo. Oltre a essere il primo tre volte vincitore, Meyer introduce casualmente la tradizione del latte in victory lane, dissetandosi con un bicchiere di buttermilk. È inoltre il primo vincitore a ricevere in regalo la pace car e soprattutto è il primo neo campione a comparire sul Borg Warner Trophy, il nuovo trofeo realizzato dalla Spaulding-Gohran su progetto di Robert Hill, che riporta in basso rilievo il volto di tutti i vincitori.
Il 1937 vede il ritorno della sovralimentazione, che risulta subito nel nuovo record della pista fatto segnare da Jimmy Snider. È però Wilbur Shaw a centrare il successo su una Stevens dalla aerodinamica evoluta, tagliando il traguardo con 2 soli secondi di vantaggio sul duo Hepburn-Swanson dopo aver rallentato nel finale per via della bassa pressione dell’olio. Nel 1938 l’uniformazione al regolamento europeo sui motori (3 litri sovralimentati o 4.5 litri aspirati) vede poi prevalere in prova e in gara la Wetteroth di Floyd Roberts. Oltre che il positivo debutto di una vettura a motore posteriore, la Miller quattro ruote motrici di George Bailey, l’edizione 1939 è ricordata invece per la seconda affermazione di Wilbur Shaw, vincitore dopo aver visto una foratura negare il poker a Louis Meyer, che poco più tardi appende il casco al chiodo, rilevando insieme a Dale Drake la produzione del motore Offenhauser. Shaw si ripresenta invece ai nastri di partenza nel 1940, cogliendo il terzo successo personale e il secondo di fila per la Maserati di Mike Boyle, con cui manca lo storico tris consecutivo nel 1941 per un incidente in cui rimedia un brutto infortunio alla schiena. La vittoria va così a Mauri Rose, che su ordine del team manager Lou Moore rileva a metà gara un tutt’altro che compiacente Floyd Davies, dichiarato comunque co-vincitore.
Come in occasione del primo conflitto mondiale, l’entrata in guerra degli Stati Uniti porta alla chiusura delle operazioni dello Speedway, che nei tre anni successivi non riceve nessuna manutenzione, lasciando stupefatto Wilbur Shaw, divenuto nel frattempo manager e collaudatore della Firestone, che tornando a Indy per un test di gomme trova il circuito in stato di totale abbandono. Preoccupato dalle voci che vorrebbero la struttura lasciare il campo nel dopo guerra a un quartiere residenziale, Shaw vola a New York per incontrare Rickenbacker, che pur non escludendo una riapertura è disponibile a valutarne la vendita. Shaw non perde allora tempo nel cercare finanziatori e dopo vari contatti infruttuosi viene messo in comunicazione con Anton “Tony” Hulman Jr., imprenditore di Terre Haute con una profonda passione per la 500 miglia fin da bambino. Non ci vuole molto a trovare un accordo gradito a entrambe le parti. Nel novembre 1945 Rickenbacker accetta quindi di cedere lo Speedway per 750.000 $ (circa lo stesso prezzo da lui pagato 15 anni prima) a Hulman, che insieme al nuovo direttore generale Shaw comincia una corsa di sei mesi per rendere presentabile lo Speedway in vista del Memorial Day 1946.
Lo Speedway è ancora un cantiere a cielo aperto quando Ralph Hepburn conquista la pole spinto dal potentissimo motore Novi, un V8 sovralimentato terribile e sfortunato protagonista dei successivi 15 anni. In gara Hepburn conduce per un quarto di distanza, lasciando poi il successo alla Thorne di George Robson. Nonostante l’annuncio di un progressivo programma di innalzamento del montepremi, l’edizione 1947 è preceduta da una furiosa polemica tra gli organizzatori e l’associazione piloti sui premi, che porta a notevoli ritardi e a una griglia rimaneggiata. Per tutta la corsa la vittoria rimane un affare privato tra i piloti di Lou Moore, con il dominatore Bill Holland beffato dal compagno di squadra Mauri Rose, che nel finale ignora l’ordine di preservare l’auto andando a vincere in mezzo alle polemiche. L’anno dopo Rose si ripete, raggiungendo Meyer e Shaw a quota tre successi, approfittando delle sventure della Novi, temuta da tutti dopo l’incidente mortale di Hepburn in prova, ma portata in pole e poi quasi al successo dal giovane Duke Nalon, costretto a un rabbocco imprevisto nel finale. Nel ’49 è invece un cedimento meccanico a negare il successo al pilota dell’Illinois, gravemente ustionato nell’incendio che avvolge la pista dopo il violento impatto con il muro. La corsa si risolve quindi in un remake del 1947, con Rose che rompe però nel finale lasciando libero Holland di portare a casa il terzo successo consecutivo per patron Lou Moore.
Il 1950, anno in cui la 500 miglia assegna punti per il nascente mondiale di Formula 1 nonostante l’incompatibilità del regolamento tecnico (cilindrata per i motori sovralimentati di 3 litri a Indy contro 1,5 in F1), vede il dominio in prova del rookie Walt Faulkner, che centra pole e record della pista. In gara è però Johnnie Parsons a prendere il largo, trionfando con la sua Kurtis-Offy quando la pioggia obbliga la sospensione della corsa dopo 138 giri. Per la terza volta in pole, Duke Nalon e la Novi non vanno molto lontano neanche nel 1951 in una corsa dominata nella seconda parte da Lee Wallard, che trionfa nel tripudio generale nonostante un ammortizzatore rotto e varie abrasioni dovute alle fortissime vibrazioni. Il 1952 segna poi l’inizio di un’era tecnica, quella dei roadsters, che resisterà per quasi quindici anni. Così soprannominati da Bill Vukovich per una vaga somiglianza con le tipiche vetture stradali, si tratta di modelli di forma bassa e allungata, con il motore in posizione anteriore e disassato sulla sinistra, mentre l’abitacolo è normalmente posto sulla destra a fianco dell’albero motore, con lo scopo di abbassare il più possibile il centro di gravità ed assecondare le curve. È però un’altra grande novità tecnica a fare scalpore in qualifica. La pole va infatti a Fred Agabashian alla guida di una vettura a motore diesel della Cummins, tornata già nel 1951 grazie a una concessione di cilindrata di ben 6,5 litri rispetto ai 3 litri delle vetture sovralimentate a benzina/metanolo. Oltre a conquistare la prima (e unica) pole di una vettura diesel, la Cummins è anche la prima vettura dotata di turbocompressore, rispetto alla sovralimentazione meccanica usata dai concorrenti. Agabashian è però presto costretto al ritiro in una gara dominata da Bill Vukovich, che però finisce a muro nel finale per un problema allo sterzo, lasciando la vittoria alla vettura da dirt track del giovane Troy Ruttman, sopravvissuto anche a un principio di incendio durante una sosta. L’edizione vede anche l’unica partecipazione ufficiale della Ferrari, con Alberto Ascari che dice addio alla corsa dopo 40 giri per la rottura di una ruota, mentre occupa una rispettabile ottava piazza.
Pronunciato ufficialmente per la prima volta da Wilbur Shaw, il comando “Gentlemen, start your engines” nel 1953 porta bene a Vukovich, che conquista un meritato successo dopo aver dominato per 195 giri in una delle edizioni più calde di sempre. “Mad Russian” (in realtà di origine serba) concede poi il bis nel 1954, piegando il focoso rookie Jimmy Bryan, alle prese con un ammortizzatore rotto. Nel ’55 Vukovich potrebbe quindi centrare il traguardo sfuggito a Shaw, le tre vittorie consecutive, ma i due sono invece uniti a pochi mesi di distanza da un tragico destino. Il direttore dello Speedway muore infatti nell’ottobre del ’54 in un incidente aereo, mentre Vukovich perde la vita in gara volando fuori pista dopo essere rimasto coinvolto in un incidente a catena. La tragedia offusca la bella vittoria del grande pilota e meccanico Bob Sweikert, che centra la prima affermazione a Indy per il leggendario capo meccanico AJ Watson, bissata l’anno dopo dal veloce e spettacolare rookie Pat Flaherty, che parte in pole e capitalizza sulle solite sfortune della Novi di Paul Russo.
Le scomparse di Vukovich e di Manny Ayulo in prova si sommano nella stagione ‘55 agli incidenti che costano la vita a Larry Crocket, Mike Nazaruk, Jerry Hoyt e Jack McGrath, oltre al tremendo incidente che a Le Mans lascia sul terreno 80 vittime. Un bilancio inaccettabile per la AAA, che a fine stagione abbandona il mondo delle competizioni. Senza ente sanzionatore per la 500 miglia, Tony Hulman decide allora di fondare la sua organizzazione, il United States Auto Club (USAC), che nei decenni seguenti patrocinerà non solo la 500 miglia e il National Championship di cui essa fa parte, ma anche campionati midget, sprint car e stock car.
Dopo aver risollevato lo Speedway, nel biennio ’56-’57 Tony Hulman apporta inoltre il primo grande rinnovamento alla struttura, affrontando prima la riasfaltatura della pista (a eccezione del rettilineo principale, completato nel ’61), poi la costruzione del muretto divisorio tra lo stesso rettilineo e la pit lane e infine realizzando una nuova sede di uffici e direzione gara al posto della ormai decadente Pagoda, risalente agli anni ’20. Il ’57 vede anche una leggera riduzione di cilindrata (2,8 litri per i sovralimentati e 4,2 per gli aspirati), ma soprattutto un’evoluzione del concetto di roadster introdotta dal geniale ma squattrinato George Salih, che investe anche la sua casa su una vettura con motore inclinato di 72° rispetto all’asse verticale, nel tentativo di abbassare ulteriormente il baricentro. Il concetto è vincente, perché nel finale la migliore guidabilità consente al veterano Sam Hanks di avere la meglio sulla potentissima Novi di Paul Russo, centrando un successo da libro Cuore a ritiro ormai annunciato. La favola continua poi nel ’58 quando è Jimmy Bryan a trionfare in un’edizione ricordata anche per l’enorme incidente multiplo del primo giro che costa la vita a Pat O’Connor. Le tragedie proseguono purtroppo anche l’anno dopo, con le morti in prova di Bob Cortner e Jerry Unser (fratello maggiore di Bobby e Al) che spingono verso i primi modelli di tute ignifughe. La corsa va alla Watson-Offy di Rodger Ward, che ha la meglio su Jim Rathmann anche grazie a un’innovazione introdotta da AJ Watson, gli air jacks pneumatici per il sollevamento della vettura, che riducono notevolmente il tempo speso in pit lane.
La sfida tra i due si rinnova nell’edizione che apre il decennio forse più entusiasmante nella storia della corsa. Nella seconda metà gara Ward e Rathmann ingaggiano infatti un esaltante duello fatto di sorpassi e controsorpassi, fino a quando il campione uscente non comincia a vedere le tele dei propri pneumatici, lasciando strada nel finale a Rathmann, che dopo tre secondi posti coglie finalmente il meritato successo. Cinquant’anni dopo la prima edizione, nel 1961 la 500 miglia scopre due nuove leggende in Parnelli Jones, che da rookie conduce a lungo prima di perdere un cilindro, e AJ Foyt, rallentato da un rabbocco imprevisto nel finale e poi furiosamente in recupero sul poleman Eddie Sachs, che a due giri dal termine deve fermarsi per un cambio gomme d’emergenza, lasciando il successo a SuperTex. L’edizione passa alla storia anche per la scomparsa in prova di Tony Bettenhausen, favorito della vigilia e tra i più affermati piloti dell’epoca, oltre che per il debutto del due volte campione del mondo Jack Brabham, che con la sua Cooper-Climax ripropone il concetto di motore posteriore, conquistando un buon nono posto. Nel ’62 Parnelli Jones abbatte il muro delle 150 mph, dominando poi la corsa fino a quando un guasto ai freni lo lascia attardato durante le soste. Ad approfittarne è quindi Rodger Ward, che trionfa ancora precedendo di poco il compagno Len Sutton.
Ispirato da Brabham, Dan Gurney debutta intanto su una vettura a motore posteriore, sotto gli occhi di Colin Chapman, che nel ’63 iscrive due Lotus 25-Ford opportunamente adattate per lo stesso Gurney e Jim Clark. Lo scozzese si piazza in seconda fila sulla sua agile monoscocca inseguendo da subito Jones, che dalla pole va in fuga lasciando alle Lotus (molto più parche nei consumi) il comando durante le soste. Più che Clark, sempre all’inseguimento, nel finale la minaccia maggiore per Jones è una perdita d’olio che gli fa rischiare una bandiera nera, mai esposta. Tra le polemiche il californiano porta quindi a casa un successo comunque meritato, con Clark che si rifà comunque l’anno successivo, conquistando la pole in una griglia ormai divisa tra roadsters e imitazioni della Lotus. La corsa assume però subito connotati tragici quando nel gruppo Dave MacDonald va in testacoda in curva 4, innescando un incidente a catena e un enorme incendio in cui perde la vita insieme al popolarissimo Eddie Sachs. L’incendio porterà l’anno successivo all’impiego del metanolo come unico combustibile ammesso, in quanto estinguibile con l’acqua. La corsa, sospesa per la prima volta nella storia per un incidente, riprende due ore dopo e quando le Lotus di Clark e Bobby Marshman sono messe KO rispettivamente da una sospensione e una perdita d’olio, la lotta per la vittoria si riduce ai roadsters di Foyt e Jones, con il primo a prevalere quando un incendio in pit lane costringe il campione uscente al ritiro. In piena guerra delle gomme, con la Goodyear impegnata a rovesciare il regno quarantennale della Firestone, è a quest’ultima che Chapman si rivolge nel ‘65 per gommare la sua Lotus 38 e risolvere i problemi indotti dalle Dunlop impiegate nei due anni precedenti. Il risultato è il dominio totale di Clark, che si vede soffiare la pole da Foyt ma in gara poi comanda per 192 giri, centrando agevolmente il successo.
La griglia del ’66, ormai dominata da vetture a motore posteriore e divisa, oltre che tra Goodyear e Firestone, anche tra motori Ford e Offenahuser (in alcuni casi addirittura turbosovralimentati), è comandata dal rookie del ’65 Mario Andretti, che è però presto costretto al ritiro. Jim Clark, passato dal British Green al bianco rosso STP, è ancora protagonista, ma incappa in due testacoda che lasciano campo libero al veloce ma spesso sfortunato Lloyd Ruby, a lungo in testa ma tradito dal motore Ford dopo 150 giri. Il comando passa così alla Lola del giovane Jackie Stewart, che però è a sua volta costretto al ritiro a 8 giri dalla fine, lasciando la vittoria al compagno Graham Hill, che conquista così la famosa Triple Crown, avendo già vinto la 24 ore di Le Mans e il Gran Premio di Monaco. L’invasione di team e piloti europei prosegue nel 1967, ma a fare notizia è la Paxton schierata da Mister STP Andy Granatelli per Parnelli Jones. La vettura, spinta da una turbina da elicottero Pratt&Whitney montata alla sinistra dell’abitacolo in un telaio tubolare, è inoltre dotata di quattro ruote motrici e freno aerodinamico. Qualificatosi prudenzialmente in seconda fila, già al primo giro Jones non ha difficoltà nel superare il poleman Andretti e dominare la corsa fino a 4 giri dal termine, quando la rottura di un banalissimo cuscinetto a sfera lo costringe ad accostare sull’erba, lasciando il successo a Foyt, che entra nel novero dei tre volte vincitori slalomeggiando tra varie vetture incidentate all’ultimo giro.
Tutt’altro che scoraggiato, Granatelli unisce le forze con Colin Chapman, presentando nel ’68 tre Lotus 56 dotate di un’innovativa forma a cuneo e spinte dalla stessa turbina Pratt&Whitney, nonostante le limitazioni all’aspirazione imposte dall’USAC. In una delle 500 miglia più memorabili di sempre, che vede scontrarsi il meglio dei piloti europei e americani oltre alle più svariate tecnologie (motori aspirati, sovralimentati, turbocompressi, turbocompressi 4 ruote motrici, a turbina a 4 ruote motrici), la lotta per la vittoria si restringe alla Lotus del poleman Joe Leonard e alla Eagle-Offy Turbo di Bobby Unser, culminando in un’ultima ripartenza a 10 giri dalla fine che vede la Lotus parcheggiare ammutolita nell’erba della curva 1, vittima di un altro banale guasto, mentre il futuro Uncle Bobby conquista la prima vittoria a Indy di un motore turbocompresso, della Eagle e della famiglia Unser. Il ritiro di Leonard regala il secondo posto a Dan Gurney, che fa a sua volta la storia diventando il primo pilota a usare un casco integrale in gara. Il ’68 è anche l’ultimo anno al via di una vettura a motore anteriore, la Mallard dell’indomabile Jim Hurtubise, che per anni si opporrà alla dittatura delle “posteriori” cercando in vano di qualificare il suo roadster. Il decennio si chiude infine nel 1969 con la vittoria di Mario Andretti, che dopo aver distrutto la sua Lotus in prova beneficia dei problemi ai rivali principali, Foyt e Ruby, portando al successo la vecchia Brawner Hawk. In victory lane Mario è poi protagonista di uno degli scatti più iconici nella storia della 500 miglia, “subendo” il wet kiss di patron Andy Granatelli.
Il ritiro della Lotus, successivo al clamoroso incidente in prova di Andretti, segna l’inizio del reflusso dell’ondata europea abbattutasi sullo Speedway negli anni ’60. Sempre meno piloti di F1 si cimentano infatti nella corsa, che a metà degli anni settanta torna ad essere un evento strettamente nord americano in termini di partecipanti, raccogliendo comunque l’interesse della McLaren, che per buona parte del decennio si spartisce il grosso della griglia con la Eagle di Dan Gurney. Dopo le prime avvisaglie del ’69, nel 1970 molte vetture cominciano a mostrare dei dispositivi aerodinamici applicati al corpo vettura. Tra queste la PJ Colt-Ford del team Vel’s Parnelli, gestita dal leggendario capo meccanico George Bignotti e affidata ad Al Unser, che conquista la pole in una griglia di soli motori turbo, egualmente divisi tra Ford e Offenhauser. La gara, disturbata inizialmente dalla pioggia, non ha storia, con Unser che conduce ben 191 giri, precedendo Mark Donohue, rookie of the year uscente con il team Penske. Il 1971 vede il debutto della nuova McLaren M16, che chiude definitivamente l’era delle monoposto a sigaro ispirandosi chiaramente alla Lotus 72 di F.1. La vettura, che aggira il bando agli alettoni collegando una vistosa appendice aerodinamica posteriore al cofano motore, domina le prove con Donohue, anche se è il pilota ufficiale Peter Revson a centrare la pole. Dopo un incidente in pit lane che vede incredibilmente la pace car investire dei fotografi, Donohue domina la corsa fino alla rottura del cambio, lasciando spazio ad Al Unser, che concede il bis dopo il ritiro del compagno di squadra Leonard.
Con la liberalizzazione degli alettoni e l’avvento delle gomme slick, nel ‘72 le prestazioni cominciano però a diventare inquietanti: Bobby Unser, in pole su una Eagle-Offy a 195.9 mph di media, migliora infatti di oltre 17 mph il record di Revson. In gara però il vincitore ’68 non va oltre il 31° giro e quando anche il dominatore Gary Bettenhausen (figlio dell’indimenticato Tony) si ritira a 20 tornate dal termine, è il compagno Donohue a raccogliere il comando, andando a conquistare il primo successo per Roger Penske e la McLaren. Con ali sempre più grandi e potenze che superano ormai i 1000 cavalli, l’edizione ’73 potrebbe vedere battuto anche il muro delle 200 mph, ma in realtà passa alla storia come l’edizione più buia nella storia della 500 miglia. Dopo la morte in prova di Art Pollard, un clamoroso incidente in partenza vede infatti la McLaren di Salt Walther finire contro le reti, prendere fuoco e poi concludere la sua corsa capovolta. L’incidente causa diversi feriti tra gli spettatori, costando serie ustioni e lesioni alle mani al pilota che però, incredibilmente, sopravvive. Dopo un rinvio di ben due giorni per pioggia, è Al Unser a comandare la corsa quando Swede Savage va in testacoda in curva 4, impattando contro il muretto interno, che fa esplodere letteralmente la sua Eagle. Nella confusione che segue Armando Teron, addetto alla tabella del californiano, muore subito dopo investito da un mezzo dei commissari mentre si reca sul luogo dell’incidente. La corsa riprende un’ora più tardi e dopo il ritiro di Unser è Gordon Johncock a trovarsi in testa quando la pioggia interrompe definitivamente la gara al 133° giro. Savage sopravvive incredibilmente all’incidente, morendo un mese più tardi per complicazioni subentrate ai numerosi interventi subiti.
Drastiche misure si rendono necessarie per calmierare le prestazioni delle vetture, cui viene imposto un controllo della sovralimentazione tramite valvola pop off, oltre a una riduzione nelle dimensioni degli alettoni e dei serbatoi. Il muretto esterno viene inoltre alzato da 91 a 163 cm mentre il muro interno all’uscita della curva 4 viene reso parallelo al rettilineo principale. Nel ’74, ultimo anno di guerra delle gomme per via dell’abbandono della Firestone, AJ Foyt parte dalla pole sulla sua Coyote-Foyt (motore turbo derivato dal Ford ’64), ma il più veloce è Rutherford, che recupera dalla 25° piazza e va definitivamente in testa quando il texano abbandona per una perdita d’olio, centrando il successo per il team McLaren. Foyt si ripete in prova nel 1975, raggiungendo Rex Mays a quota quattro pole position. Dopo aver guidato le prime fasi di gara però nulla può contro la Wildcat-DGS (una versione più aggiornata del turbo Offy) di Wally Dallenbach, che domina fino al 162° giro, tradito da un pistone. Bobby Unser, in lotta con Johnny Rutherford per la vittoria, emerge quindi in testa dall’ultimo pit stop ed è dichiarato vincitore quando un nubifragio si abbatte poco dopo sullo Speedway.
La pioggia è ancora protagonista nell’edizione ’76, che vede il poleman Rutherford superare Foyt poco prima di metà gara, quando la corsa viene sospesa al 103° giro e un nuovo scroscio di pioggia impedisce qualche ora dopo la ripresa delle ostilità, consegnando il successo al pilota McLaren. Per SuperTex l’appuntamento con la quarta, storica affermazione è comunque solo rimandato. Nel 1977 Tom Sneva entra nella storia, sfondando ufficialmente il muro delle 200 mph, complice anche la riasfaltatura della pista. È però Johncock a guidare la corsa più a lungo di tutti, per poi ritirarsi al 179° giro e lasciare il comando a Foyt, che controlla Sneva fino al traguardo conquistando sulla sua Coyote il tanto atteso trionfo. A festeggiarlo nel tripudio generale anche Tony Hulman, all’ultima grande gioia legata allo Speedway prima di venire a mancare nell’ottobre seguente per un improvviso malore.
La prima edizione dell’era post Hulman vede Tom Sneva centrare un’altra pole a oltre 200 mph di media sui quattro giri, dovendosi però ancora accontentare della seconda piazza in gara, beffato questa volta dalla Lola di Al Unser, che conquista il terzo successo personale, il primo per il motore Cosworth DFX (versione turbo del celeberrimo DFV di F.1) e per Jim Hall, al debutto a Indy. Dopo il primo anno di rodaggio, il geniale ex pilota e ingegnere texano nel ’79 decide però di schierare una sua monoposto, la Chaparral 2K, prima Indycar a seguire la strada dell’effetto suolo introdotta in F.1 dalla Lotus 78. In un’edizione che vede al via ben 35 vetture (il numero più alto dal 1933) per via di una diatriba sulla valvola pop-off, Al Unser domina la prima metà gara, prima di incontrare problemi al cambio e lasciare strada al fratello Bobby, che incalzato dal giovane compagno di squadra Rick Mears nel finale accusa a sua volta un guasto alla trasmissione. Con Foyt staccato quasi di un giro, Mears ha quindi gioco facile nel controllare la situazione e cogliere il primo successo allo Speedway, che coincide con la prima affermazione di un telaio Penske e la seconda del motore Cosworth, all’inizio di un dominio che durerà un decennio.
La fine degli anni ’70 segna anche una rivoluzione nella situazione politica attorno all’USAC e alla 500 miglia. L’antiquata, se non addirittura assente, strategia di gestione e promozione del National Championship comincia infatti a non essere più tollerata dalle squadre, alle prese con costi in continua ascesa contrapposti a montepremi striminziti e scarsa appetibilità per gli sponsor, a causa di un’esposizione mediatica inesistente al di fuori della Indy500. Tale malcontento, riassunto in una serie di punti e possibili correttivi, viene espresso inequivocabilmente nel 1978 nel White Paper di Dan Gurney, rigettato però dall’USAC, sempre più sorda alle richieste dei proprietari, che a fine stagione prendono la storica decisione di riunirsi in un’associazione, la CART, e fondare un omonimo campionato in opposizione all’USAC. Nel giro di pochi anni la nuova serie si afferma, potendo contare su tutti i grandi nomi del panorama motoristico, cui si aggiungono progressivamente squadre e piloti della morente Can-Am. Di converso, il campionato USAC affronta un calo verticale di prestigio, partecipanti e corse in calendario, riducendosi dopo il 1985 alla sola 500 miglia. Le due organizzazioni raggiungono quindi nell’83 un compromesso: la Indy500 continua ad essere un evento organizzato dall’USAC con regole indipendenti dal campionato CART, che però può annoverare la corsa nel suo calendario. Una situazione che si manterrà grosso modo stabile fino al 1995.
Dopo i problemi di affidabilità del ‘79 la Chaparral si ripresenta nel 1980 con i favori del pronostico, grazie anche alle vittorie a raffica mietute nel campionato CART. Johnny Rutherford, passato alla corte di Jim Hall dopo l’abbandono di Al Unser e la chiusura del programma McLaren, domina prove e gara, entrando nel ristretto cerchio dei tre volte vincitori, che presto deve fare però spazio a un nuovo membro. Bobby Unser replica infatti a Lone Star, aggiudicandosi la doppietta pole-gara nel 1981 a bordo di una Penske PC9B dalle minigonne finalmente efficaci. La vittoria è però poco limpida, perché all’uscita da un pit stop sotto regime di bandiera gialla Unser, in testa, supera tutte le vetture davanti a se posizionandosi dietro la pace car, una manovra non permessa dal regolamento e che viene punita dall’USAC nei risultati ufficiali del giorno dopo, in cui Unser viene retrocesso al secondo posto dietro Mario Andretti. Al termine di una lunga battaglia legale, in ottobre l’USAC rovescia però la decisione, giudicata eccessiva, perché non punendo Unser durante la corsa la direzione gara ne avrebbe di fatto avallato la condotta.
Vinta a tavolino l‘edizione ’81, la Penske perde invece in pista la 500 miglia del 1982. Dopo un incidente in partenza innescato da Kevin Cogan che elimina tra gli altri Foyt e Andretti, la corsa si risolve in un lungo confronto tra Rick Mears e Gordon Johncock. In un finale infuocato in cui le urla del pubblico arrivano a coprire il rombo dei motori, negli ultimi 10 giri il campione ’79 recupera ben 11” all’avversario, non riuscendo però a passare un determinatissimo Johncock, che al volante di una Wildcat precede la Penske di 16 centesimi nel finale più ravvicinato fino ad allora. Le delusioni per la Penske continuano nell’83 quando è Tom Sneva, due volte campione nazionale non confermato dal Capitano nel ’79, a conquistare una popolarissima vittoria per George Bignotti e il telaio March, che colma il vuoto lasciato dalla McLaren, riaffermando la bontà delle monoposto inglesi. L’edizione, che vede la pole position del rookie Teo Fabi, passa agli annali anche per il debutto di Al Unser Jr., che nel finale ostacola a più riprese Sneva nel tentativo di ritardare l’inevitabile sorpasso sul padre Al Senior. Accantonato momentaneamente il proprio telaio, Roger Penske si rifà però nel biennio successivo, quando Rick Mears conquista un successo schiacciante su una March nei colori Pennzoil, mentre a Danny Sullivan sono necessari due tentativi nel 1985 per passare definitivamente Mario Andretti e andare a vincere nonostante un testacoda, nell’edizione passata alla storia per lo “spin and win”.
La March si conferma poi vincente anche nel 1986, quando al termine di una entusiasmante battaglia a tre con Kevin Cogan e Rick Mears, Bobby Rahal prende il comando in una ripartenza all’ultimo giro, conquistando un commovente successo per Jim Trueman, patron del team Truesports, che nove giorni più tardi perde una lunga battaglia con il cancro. Dopo il successo del ’69 e l’illusione del 1981, l’87 sembra invece l’anno buono per il ritorno al successo di Mario Andretti, che su una Lola spinta dal nuovo e potente motore Ilmor conquista la pole e domina la gara, potendo contare su un giro di vantaggio quando una valvola lo pianta in asso a 23 giri dalla fine. Il comando è quindi rilevato da Roberto Guerrero, che però fa spegnere il motore durante l’ultima decisiva sosta, regalando il successo ad Al Unser, che raggiunge Foyt a quota quattro successi in una gara che né lui, sostituto dell’infortunato Ongais, né la sua March 86C, ritirata in fretta e furia dalla hall di un albergo, avrebbero dovuto disputare. Dopo una vittoria per certi versi fortuita Roger Penske, ormai davanti a Lou Moore come proprietario più vincente della storia, domina il campo nel 1988 anche nelle vesti di costruttore, con Rick Mears che sulla nuova PC17 domina la seconda parte di gara dopo aver recuperato un giro, centrando il terzo successo personale. Nel 1989 il californiano entra poi ulteriormente nella storia arrivando a quota cinque pole position, una più di AJ Foyt e Rex Mays. La gara è però dominata da Emerson Fittipaldi su una Penske del team Patrick, che negli ultimi giri se la deve vedere però con un agguerrito Al Unser Jr., con cui ingaggia un feroce duello nel traffico. L’epilogo arriva a tre miglia dalla fine, quando un contatto ruota a ruota in curva 3 spedisce Unser contro il muro, consegnando al due volte campione del mondo un diamante preziosissimo nella sua collezione di successi.
Il brasiliano, passato al team Penske insieme alla Marlboro, si candida al bis l’anno successivo, dominando per 92 giri prima di incontrare problemi di gomme e lasciare spazio ad Arie Luyendyk. Superato Rahal nel finale l’olandese coglie infatti un insperato successo per Vince Granatelli Jr., segnando anche un record di gara che resisterà ben 23 anni. Il biennio successivo apre invece un nuovo capitolo dell’Andretti Curse, la maledizione degli Andretti, ormai entrata di diritto tra le tradizioni della 500 miglia. Michael Andretti domina infatti l’edizione 1991 tenendo a bada Fittipaldi, che però è costretto ad abbandonare nel finale da problemi al cambio. Dopo l’ultimo pit stop, Michael si ritrova così dietro all’altra Penske di Rick Mears, che supera in ripartenza, all’esterno, con una manovra che manda in visibilio i 400.000 presenti. Sembrerebbe finita, ma al giro seguente Rick restituisce il favore, superando Michael all’esterno della curva 1 a una velocità impossibile. Dopo di che il californiano se ne va, sfruttando solo alla fine tutto il potenziale della sua vettura e raggiungendo di diritto AJ Foyt e Al Unser nel circolo dei quattro volte vincitori. Nel 1992 invece Andretti è semplicemente intoccabile, dominando la corsa sulla sua Lola motorizzata dalla rientrante Ford Cosworth, che annichilisce la concorrenza…fino a 11 giri dalla fine, quando un banale guasto costringe Michael alla resa, lasciando basiti Paul Newman e Carl Haas, che a distanza di 5 anni rivivono la terribile delusione patita con papà Mario nel 1987. Senza più il giovane Andretti a rubare la scena, la corsa si risolve in un duello finale in cui la Galmer di Al Unser Jr. ha la meglio sulla Lola di Scott Goodyear per soli 43 millesimi, ad oggi il margine di vittoria più ridotto di sempre. Oltre ad aggiungere un altro membro della famiglia Unser sul Borg Warner Trophy, Al Jr. fa la storia anche in victory lane, spiegando a Jack Arute le sue lacrime con un “you just don’t know what Indy means” che, dopo il muro colpito nel 1989, lascia pochi dubbi sul posto occupato dalla 500 miglia nel cuore di Little Al.
Il 1992 passa agli annali anche per il nuovo record della pista fatto segnare da Roberto Guerrero su una Lola spinta da un motore Buick stock block, ovvero derivato dalla serie. Sempre restìa al cambiamento, dopo aver accettato giocoforza il pensionamento del mitico 4 cilindri Offenhauser ad opera del DFX Cosworth, che domina ininterrottamente dal ’78 all ’87, per incentivare la partecipazione di piccoli team e costruttori americani l’USAC ammette unità di derivazione di serie con distribuzione ad aste e bilancieri e due sole valvole per cilindro, cui garantisce un largo vantaggio in termini di pressione di sovralimentazione rispetto alle unità a doppio albero a camme in testa. Nonostante le potenze clamorose raggiunte, che già 7 anni prima di Guerrero permettono a Pancho Carter di conquistare pole e record nel 1985, la cronica mancanza di affidabilità non permette però a questi motori, in larga parte prodotti dalla Buick, di essere competitivi in gara prima con i Cosworth DFX e poi con i più moderni Ilmor-Chevrolet, che monopolizzano la scena dall’88 fino al ’93, creando una netta separazione della griglia in quanto inizialmente disponibili solo per i top teams. Il ritorno della Cosworth con il suo potente XB cambia in parte le carte in tavola, ma dopo la delusione del ’92 la casa americana dovrà aspettare ben tre anni per arrivare al successo. In pole nel 1993 con Arie Luyendyk, la Ford sfiora la vittoria con il campione del mondo in carica Nigel Mansell, che riporta l’attenzione internazionale sulla 500 miglia ma è beffato dalla Penske di Emerson Fittipaldi in una ripartenza nel finale.
Penske che fa ancora la storia nel ’94, sfruttando l’apertura a propulsori ad aste e bilancieri non più solo di serie per presentare tre vetture spinte da un potentissimo motore realizzato in gran segreto dalla Ilmor (poi targato Mercedes), con cui Emerson Fittipaldi sfiora il terzo successo personale, che arride invece al poleman e neo compagno di squadra Al Unser Jr., premiato da un errore del brasiliano negli ultimi giri. Sommersa di ordini per il ’95, la Ilmor viene poi gelata dalla decisione dell’USAC di ridurre drasticamente la pressione massima per i motori di tale tipologia. Mossa che segna il punto più basso nei rapporti tra le due organizzazioni, con l’USAC e la dirigenza dello Speedway, passata nel ’90 a Tony George, nipote di Tony Hulman, sempre più indisposti verso la CART e i contratti di leasing sui motori, che di fatto garantiscono il controllo della griglia a Ilmor e Ford. L’eterno conflitto di personalità tra George e i proprietari di team appesantisce poi la lunga discussione per un regolamento tecnico più sostenibile, sfociando nella creazione a partire dal ’96 di un nuovo campionato concorrente alla CART, la Indy Racing League, basato su vetture più semplici ed economiche e incentrato sulla 500 miglia.
L’edizione del ’95, l’ultima quindi a far parte anche del calendario CART, vive subito un incredibile shock quando le Penske di Unser e Fittipaldi, private del potentissimo motore Mercedes, mancano incredibilmente la qualificazione. La corsa è poi un susseguirsi di colpi di scena, dal solito calo delle Menard ex-Buick, in pole con Scott Brayton, agli incidenti che tolgono di mezzo Andretti, Vasser e Pruett, fino alla penalizzazione di Scott Goodyear, che getta al vento una vittoria storica anche per la Honda e la rientrante Firestone, superando la pace car all’ultima ripartenza e lasciando il successo alla Reynard-Ford del giovane Jacques Villeneuve, penalizzato di due giri in precedenza per la stessa infrazione.
In attesa delle nuove vetture in arrivo nel ’97, la prima edizione della corsa sotto le insegne IRL vede impegnate le stesse vetture dell’anno prima ma diversi piloti, a causa del boicottaggio delle squadre CART, indignate dalla decisione di Tony George di riservare 25 dei 33 posti in griglia ai piloti stabilmente impegnati nel suo campionato. La riasfaltatura invernale permette ad Arie Luyendyk di segnare nuovi record sul giro e in qualifica, ma la pole va ancora a Scott Brayton. La gioia dura poco però per il team Menard, sconvolto qualche giorno più tardi dalla scomparsa del suo pilota in un incidente in curva 2 causato da una foratura. Tony Stewart, promettentissimo rookie e compagno di Brayton, è protagonista delle prime fasi sotto una pressione spaventosa. Quando anche lui come altri attesi protagonisti rimane però attardato da vari contrattempi, è Alessandro Zampedri a far sperare nel primo successo tricolore dai tempi di De Palma. Tradito da un ammortizzatore, l’italiano è però costretto a lasciare spazio nel finale a Buddy Lazier, che trionfa nonostante un recente infortunio alla schiena. Un violentissimo incidente multiplo all’ultimo giro costa invece caro a Zampedri, che finendo contro le reti della curva 4 subisce gravi infortuni agli arti inferiori. Il bresciano è comunque ai nastri di partenza nel 1997, quando l’arrivo dei nuovi di motori stock block 4 litri aspirati pone fine all’era dei turbo, in vigore con poche variazioni dalla fine degli anni ’60. La griglia, composta da 35 vetture in seguito al ripescaggio di due esclusi risultati più veloci di alcuni qualificati “di diritto”, vede impegnati veterani, giovani speranze delle ruote scoperte e semi sconosciuti piloti delle divisioni Midget e Sprint Car. Non sorprende quindi che la vittoria vada al campione ’90 Arie Luyendyk, che dopo aver conquistato la pole (15 mph più lenta del ’96, lo scarto più grande dal ‘72) ha la meglio nel finale sul compagno di squadra Scott Goodyear, ancora una volta vicinissimo al successo.
Dopo la prima vittoria del telaio G Force, nel ’98 tocca però alla Dallara imporsi con Eddie Cheever, che dopo aver chiuso miracolosamente il budget alla vigilia della corsa, sopravvive a un contrattempo iniziale per poi contenere d’autorità gli attacchi di Buddy Lazier negli ultimi giri. La casa italiana si ripete poi nel ’99, quando un’incomprensione con il doppiato Carlson spedisce contro il muro il poleman Luyendyk, lasciando campo libero a Kenny Brack. In un finale da brivido lo svedese si ritrova però a inseguire Robby Gordon, in disperata attesa di una bandiera gialla che però non arriva, lasciando il californiano a secco all’inizio dell’ultimo giro. Lo svedese riporta quindi in victory lane patron Foyt 22 anni dopo l’ultimo trionfo su Coyote, oltre alla Oldsmobile, al terzo successo consecutivo.
Dopo tre anni di guerra, piccoli segnali di distensione tra CART e IRL arrivano nel 2000, anno in cui la lega di Tony George adotta motori aspirati 3,5 litri non più derivanti dalla produzione. Il team Ganassi, tricampione CART, partecipa infatti all’evento con Juan Pablo Montoya e Jimmy Vasser. Nell’atteso duello tra i campioni delle due serie in qualifica è Greg Ray a spuntarla sul colombiano, che dopo l’uscita di scena del rivale è però il dominatore della corsa, portando al successo la sua G Force Aurora dopo aver condotto per ben 167 giri. La sfida sale di livello l’anno successivo, quando oltre al team Ganassi anche Roger Penske fa il suo ritorno con due vetture, imitato da Barry Green, che schiera una Dallara Oldsmobile per Michael Andretti. Scott Sharp conquista la pole, ma è solo il primo dei big IRL ad abbandonare la corsa, complicata dalle difficili condizioni atmosferiche. Determinato a lavare l’onta del ’95 e chiudere la bocca a quanti lo avevano deriso nel debutto IRL della sua squadra a Phoenix, Roger Penske centra uno storico 1-2, con Helio Castroneves a prendere il comando su Gil De Ferran dopo l’ultima sosta. La Dallara centra anche il terzo posto con Michael Andretti, che precede quattro vetture del team Ganassi in una classifica dominata dai team CART. Due sconfitte di fila sono troppe per la lega di Tony George, che nel 2002 può però contare tra le sue fila lo stesso team Penske, fuoriuscito clamorosamente dalla CART a fine 2001. Dopo la pole di Junqueira, pilota CART di Chip Ganassi, la corsa è dominata dal rookie Tomas Scheckter, che getta però tutto alle ortiche con un banale errore in curva 4. In un remake del ’99 Castroneves, mai protagonista, evita l’ultima sosta e prende il comando nella speranza di una bandiera gialla. La neutralizzazione questa volta arriva, ma proprio quando Paul Tracy affianca il brasiliano in curva 3 con la bandiera bianca ormai in vista. Nonostante l’assenza di prove certe su chi fosse davanti al momento della bandiera gialla, il brasiliano viene dichiarato vincitore e a nulla valgono le proteste del team Green, vittima probabilmente di una decisione più politica che sportiva.
Dopo 6 anni di dominio quasi incontrastato Oldsmobile/Chevrolet, nel 2003 l’arrivo di Toyota e Honda insieme ai migliori team di una serie CART ormai al collasso cambiano le carte in tavola. Nonostante i migliori sforzi di Scheckter e Kanaan, Roger Penske coglie il terzo successo consecutivo, impresa centrata in precedenza solo da Lou Moore ma che non riesce a Castroneves, che su Dallara è preceduto dalla G Force del compagno De Ferran nella prima vittoria di un costruttore giapponese, la Toyota. Dopo il successo sfiorato nel ’95 e i trionfi in CART è però la Honda negli anni successivi a fare la voce grossa, interpretando meglio dei rivali la nuova formula 3 litri. Nel 2004 è infatti Buddy Rice a regalare al colosso nipponico il primo successo, piazzando la sua G Force del team Rahal davanti alle Dallara di Tony Kanaan e Dan Wheldon. L’inglese si rifà però l’anno successivo, superando nelle ultime fasi un altro pilota del team Rahal, la rookie Danica Patrick, beniamina del pubblico e in testa nel finale per via di una diversa sequenza di rifornimenti.
A dieci anni dall’inizio della guerra IRL-CART(che dopo il fallimento del 2003 sopravvive sotto il nome ChampCar) è chiaro a tutti come l’unico risultato del conflitto sia stato lo svilimento di una corsa il cui primato di popolarità è ormai seriamente minacciato dalla Daytona 500 Nascar, al punto che a fine 2005 Chevrolet e Toyota abbandonano il campo, lasciando alla sola Honda l’onere, più che l’onore, di fornire i motori ai 33 partenti del 2006. Dan Wheldon, passato dal team di Michael Andretti alla corte di Chip Ganassi, domina la corsa, rimanendo però attardato nel finale, deciso da una ripartenza a 5 giri dalla bandiera a scacchi che vede il rientrante Michael Andretti comandare sul figlio Marco, strepitoso rookie. La fine della Maledizione degli Andretti sembra a un passo, ma entrambi non fanno i conti con il poleman Sam Hornish, che dopo un contrattempo in pit lane si fa largo a ruotate nel traffico dell’ultimo restart, avventandosi in volata sul giovane Marco, che precede per 63 millesimi. Il rookie of the year è protagonista anche dell’edizione 2007, condizionata dalla pioggia, che alla fine vede prevalere Dario Franchitti, bravo a recuperare da un contrattempo iniziale e trovarsi al posto giusto quando la pioggia rifà capolino sullo Speedway a 34 giri dal termine.
Il 2008 vede invece il dominatore della stagione Scott Dixon centrare la doppietta pole-vittoria, avendo la meglio su un coriaceo Vitor Meira e Marco Andretti. L’edizione conta alla partenza solo telai Dallara e motori Honda, determinando una forzata condizione di monomarca, lontana anni luce dal concetto ispiratore della corsa. Piuttosto che un livellamento dei valori in campo, il binomio Dallara-Honda promuove un duopolio Penske-Ganassi che domina l’edizione 2009, con il poleman Helio Castroneves che approfitta dei guai di Dixon e Franchitti per conquistare il terzo liberatorio successo allo Speedway, arrivato a cancellare una difficile diatriba legale con l’agenzia delle entrate nell’inverno precedente.
Nel 2010 è invece lo scozzese a candidarsi a una vittoria che non appare a rischio fino agli ultimi giri, giocati sui consumi, in cui Franchitti evita l’ultimo rabbocco incalzato da Wheldon, finché il brutto incidente che chiude la stagione di Mike Conway non provoca la neutralizzazione della corsa con la bandiera a scacchi ormai in vista. Il tre volte campione IndyCar conduce a lungo anche l’edizione successiva, quella del centenario, alternandosi con il compagno Dixon. In un finale fotocopia del 2010 Franchitti è però costretto questa volta a una sosta d’emergenza, lasciando il comando al rookie Hildebrand, che sembra lanciato verso una facile vittoria quando all’ultima curva finisce incredibilmente a muro nel tentativo di doppiare Kimball. Pur riuscendo a tagliare il traguardo, il californiano si vede sfilare il comando negli ultimi metri da Dan Wheldon, al secondo successo in carriera, il primo per il minuscolo team di Bryan Herta. Lo sfortunato pilota inglese, scomparso qualche mese più tardi nell’ovale di Las Vegas, da il nome al nuovo telaio Dallara, il DW12, che inaugura una nuovo pacchetto tecnico comprendente anche nuovi motori 2,2 turbo prodotti da Chevrolet, Honda e Lotus, con quest’ultima che abbandona al termine della prima stagione. Dopo un dominio Chevy in prova è però la Honda a dominare nel 2012 una corsa che, a differenza delle edizioni precedenti, offre un altissimo numero di sorpassi per via della poderosa scia prodotta dalle nuove vetture. Alla fine a spuntarla è ancora Franchitti, che dopo una lunga battaglia con il compagno Dixon resiste all’avventuroso attacco dell’arrembante Takuma Sato, a muro all’ultimo giro.
L’edizione 2013 è invece un festival Chevrolet, con le vetture dei team Andretti, Penske, KV e ECR a scambiarsi continuamente il comando fino all’ultima ripartenza, in cui il leader Hunter-Reay non può nulla contro Tony Kanaan e il giovane Munoz. Il successivo botto a muro di Franchitti obbliga poi al definitivo intervento della pace car, che sancisce la popolarissima vittoria del brasiliano, in testa in 8 delle 11 500 miglia disputate. Lo scontro tra motoristi torna d’attualità nell’edizione 2014, decisa da uno spettacolare duello tra la Chevrolet di Castroneves e la Honda di Ryan Hunter-Reay, con quest’ultimo che prendendo definitivamente il comando all’inizio dell’ultimo giro riporta alla vittoria gli Stati Uniti 8 anni dopo Sam Hornish. L’ equilibrio tra i due marchi viene però sconvolto nell’edizione 2015 degli aerokits, le vesti aerodinamiche prodotte dai costruttori con lo scopo di ampliare la varietà tecnica, che sono però protagonisti di una serie di allarmanti incidenti nelle prove. Dopo gli opportuni correttivi la gara scorre poi relativamente liscia, riducendosi a un dominio delle vetture Chevrolet dei team Penske e Ganassi, con Juan Pablo Montoya che sale in cattedra nel finale, avendo la meglio su Will Power e Scott Dixon e centrando il secondo successo personale (a 15 anni dal trionfo con il team Ganassi), il 16° per Roger Penske.
L’intervento equilibratore della serie ribalta però la situazione nel 2016, che vede la Honda protagonista in prova con James Hinchcliffe, in pole 12 mesi dopo un incidente quasi fatale in prova, e poi vincente in gara con il rookie Alexander Rossi, bravo a evitare l’ultimo rabbocco e tagliare il traguardo a motore spento, per regalare un altro successo al team di Bryan Herta nella 100° edizione della corsa. Ancora sugli scudi nel 2017, la Honda può contare anche sui servigi di Fernando Alonso, che due mesi prima della corsa decide di saltare il Gran Premio di Monaco per tentare l’assalto alla Indy500 su una vettura del team Andretti. Dopo i tremendi incidenti di Bourdais in prova e del poleman Dixon nei primi giri, la corsa vede il ritiro di diverse vetture Honda, tra cui lo stesso Alonso, osannato dal pubblico, risolvendosi in un duello finale in cui Takuma Sato si riprende il successo mancato nel 2012, negando a Helio Castroneves la tanto agognata quarta vittoria, quattro anni dopo la sconfitta patita da Hunter-Reay. Il successo del giapponese porta inoltre a 4-2 il totale di vittorie Honda rispetto a Chevy dall’introduzione della formula turbo 2,2 litri.
Fernando Alonso alla 500 miglia di Indianapolis è la notizia più importante nel mondo delle ruote scoperte americane dai tempi della scissione. Come accaduto con la partecipazione di Nigel Mansell infatti, l’attenzione dell’intero panorama motoristico internazionale tornerà a concentrarsi sulla capitale dell’Indiana per 10 giorni, qualcosa cui sicuramente l’IndyCar non era più abituata.
Certo, negli ultimi 22 anni tanti avvenimenti clamorosi hanno suscitato attenzione e segnato la storia recente della 500 miglia, ma nessuno ha avuto la portata internazionale dell’annuncio di mercoledì scorso.
Lo scontro del 1996 tra Indy500-US500 ha rappresentato l’apice della guerra tra Tony George e la CART, ma il suo impatto immediato ha riguardato solo appassionati e addetti ai lavori, mentre gli effetti della scissione, seppur subito tangibili, hanno richiesto anni per manifestarsi in tutta la loro gravità, sottraendo interesse verso la corsa al punto che anche i ritorni del team Ganassi nel 2000 e del team Penske nel 2001, hanno si rappresentato pietre miliari nella storia dello Speedway, alimentando però solo l’animosità tra i tifosi superstiti delle due serie. Stesso discorso vale per il passaggio del team Penske in IRL, l’evento che ha di fatto segnato la vittoria della IRL sulla CART. L’assorbimento della morente ChampCar da parte della lega di Tony George è invece passato del tutto inosservato al grande pubblico, disperso in 10 anni di conflitto.
Per quanto riguarda le recenti partecipazioni di grandi personaggi, solo due paralleli sono possibili. L’edizione 2014 ha visto il ritorno di due ex vincitori come Villeneuve e Montoya, ma soprattutto il debutto di Kurt Busch, campione Nascar 2004 sempre al centro dell’attenzione, in pista e fuori. La presenza dell’americano ha attirato sulla 500 miglia l’attenzione del mondo delle stock car, tipicamente abbastanza chiuso in se stesso, permettendo l’ennesimo interessante confronto tra le due categorie, che fino a quel momento aveva visto solo piloti a ruote scoperte tentare, con poca fortuna, la via di Daytona. La presenza di Busch aveva però smosso solo il mondo delle corse americano, con scarso impatto sul pubblico generalista o sugli appassionati d’oltreoceano. Diverso il discorso dell’edizione 2005, in cui il debutto di Danica Patrick ha attirato l’attenzione di un pubblico vasto ed eterogeneo, diventando un fenomeno mediatico in grado di trascendere lo sport e le barriere geografiche, tanto da far fioccare per anni bislacche ipotesi di un impegno dell’americana nel Circus.
La partecipazione di Alonso ha però un sapore totalmente diverso, ricordando più il debutto di Mansell a Surfers Paradise o le avventure di Clark, Stewart e Hill (per citarne alcuni) negli anni ’60. Lo spagnolo non smuoverà l’interesse del pubblico americano, né degli appassionati Nascar né tantomeno quello generalista, per cui è bene non attendersi significativi incrementi di audience televisiva locale. Sarà però certamente in grado, lo ha già fatto, di portare l’attenzione di buona parte del pubblico F1 su una corsa e una categoria di cui la gran parte degli appassionati europei poco sa, se non per i classici luoghi comuni vecchi di 40 anni sugli ovali e le corse a stelle e striscie.
Un’occasione da cogliere al volo
L’IndyCar godrà di una visibilità senza precedenti e dopo anni di campagne di promozione fallimentari, è chiamata a trarne il massimo beneficio. Superato brillantemente il disastro del 2015, quando i nuovi aerokit avevano portato a una serie di decolli dalle cause mai del tutto chiarite, il congelamento regolamentare non dovrebbe lasciare spazio a imprevisti di natura tecnica. Deve quindi essere questa l’occasione per tappare la bocca ai tanti critici delle corse su ovali. Le caratteristiche aerodinamiche delle vetture non potranno impedire la gara al risparmio in cui si sono trasformati i primi 150 giri dall’introduzione della DW12, la cui notevole scia ha imposto un modo di correre diverso rispetto al passato, impedendo anche alle vetture più veloci di avvantaggiarsi sul gruppo. La parità tecnica tra Honda e Chevrolet dovrebbe però garantire come nel 2016 un alto numero di contendenti alla vittoria, in grado di creare uno spettacolo eccitante nell’ultimo quarto di gara.
Se poco o nulla si può fare contro la pioggia, che si spera stia alla larga dallo Speedway per prove e week end del Memorial Day, la direzione gara potrà invece influenzare due aspetti decisivi nella riuscita dell’evento: evitare un finale basato sui consumi e far terminare la corsa in regime di gara libera. Il finale 2016, seppur incerto fino all’ultimo, ha lasciato l’amaro in bocca a molti appassionati, privati di una grande battaglia per la vittoria dopo 3 ore di intensa competizione. Si deve quindi scongiurare un’ultima bandiera verde intorno ai 30 giri dal traguardo, la distanza di norma corrispondente a un pieno di etanolo. Dopo aver influenzato il risultato di St. Petersburg con una bandiera gialla assolutamente evitabile, è auspicabile che Brian Barnhart e soci gestiscano con attenzione la permanenza della pace car in pista, allungando nei limiti della logica (e della decenza) le ultime bandiere gialle per permettere a tutti di terminare la corsa senza ulteriori soste. Per quanto riguarda le possibilità di finale in bandiera gialla, se poco si può fare contro un incidente nelle ultimissime battute, nel 2014 la decisione dell’allora direttore di corsa Beaux Barfield di esporre la bandiera rossa a otto giri dalla fine, ha permesso lo spettacolare duello in cui Hunter-Reay ha avuto ragione di Castroneves. Successo americano nell’edizione arricchita dall’effetto Busch, non sfruttato a dovere dalla serie nei mesi successivi.
Un errore che l’IndyCar non può permettersi di ripetere.
La sfida di Alonso
Questo per quanto riguarda la serie, ma come sarà la 500 miglia di Fernando Alonso? Lo spagnolo si ritroverà immerso in un evento unico nel suo genere, lontano anni luce dal glamour e dall’esclusività dei gran premi, Monaco in testa. A Indy i piloti sono infatti chiamati a partecipare a innumerevoli cerimonie e attività con il pubblico e sarà quindi interessante vedere Alonso alle prese con un evento tipicamente americano, in cui la corsa è solo l’apice di quella che rimane in primo luogo una grande festa popolare.
L’adattamento vero però riguarderà ovviamente la pista. La prima presa di contatto con la Dallara potrebbe essere uno shock per Alonso, che abituato ai circa 900 cv della sua McLaren-Honda storcerà probabilmente il naso davanti ai 550-600 cv della DW12 in versione Indy, che vede la pressione del turbo ridotta a 130 kPa, con una perdita di potenza di oltre 100 cv rispetto alla configurazione stradale. A contare veramente sarà però il comportamento della vettura in piena velocità, dove il due volte campione del mondo si troverà alle prese con un’auto insolitamente leggera di aerodinamica, condizione che, unitamente alla disabitudine a certe velocità, potrebbe portare lo spagnolo a rivivere le sensazioni di Jacques Villeneuve.
Intervistato da Racer.com nel 2014 in occasione del ritorno allo Speedway, il canadese infatti diceva: “Il rookie orientation (il percorso di valutazione che i rookies e chi non ha preso parte alla corsa per qualche anno devono obbligatoriamente superare prima di poter provare con gli altri, ndr) è stato un trauma, devo ammetterlo. Tutto appariva sfocato, velocissimo e pensavo, <Hmmm, come va a finire se si rompe qualcosa qui, o qui?> e anche se sai che la macchina può fare tutto il giro in pieno, ci vuole un po’ per riuscirci. Tu pensi <ok, è ora di tenere giù>, ma poi ti ritrovi a dire <Oh, perché ho alzato il piede qui?>. E’ una sorta di istinto di conservazione. Quando poi siamo tornati per le prove però, dopo 10 giri gli automatismi sono tornati e riuscivo a fare tutto il giro in pieno, non sembrava più così veloce.”
A differenza del canadese, Alonso non ha però esperienza pregressa sugli ovali e sarà chiamato a far suo in breve uno stile di guida profondamente diverso da quanto fin’ora affrontato in carriera. La guida su ovale, in particolare i super speedways, richiede movimenti estremamente dolci, sia nella gestione del volante che dell’acceleratore. Il bassissimo carico aerodinamico rende infatti la vettura nervosa e l’alta velocità amplifica gli effetti degli input più semplici. Lo spagnolo dovrà quindi imparare a reagire con compostezza alle sensazioni trasmesse dalla vettura, dosando con attenzione anche gesti banali come il rilascio in curva, la cui conseguente decelerazione sposta il peso sull’asse anteriore, alleggerendo pericolosamente il retrotreno. Per gli stessi motivi l’uso del freno in situazioni d’emergenza, o anche solo in corsia di decelerazione, richiederà una delicatezza cui il pilota McLaren non è forse abituato. La scorrevolezza in curva ottenuta con il minor angolo di sterzo possibile dovrebbe essere invece una tecnica tutto sommato familiare per lo spagnolo, che però dovrà inizialmente adeguarsi alla stranezza di un volante storto in rettilineo, a causa dell’assetto asimmetrico della vettura, che tende a curvare a sinistra in ogni condizione.
Superato il primo impatto, anche grazie all’aiuto di compagni esperti come Hunter-Reay, Andretti, Sato e lo stesso Rossi, oltre a un assetto che nei primi giorni di prove sarà certamente conservativo e volto a far crescere la fiducia nella vettura, il problema sarà raggiungere la velocità (al netto delle scie) per essere competitivi sia in qualifica che in gara. Alonso si troverà così a scontrarsi con un altro aspetto per certi versi frustrante del correre a Indianapolis con la DW12. Dice ancora Villeneuve: “Rispetto a quando vinsi nel ’95, il modo di guidare è cambiato. Ora si corre un po’ come in Nascar a Daytona. Se sei da solo, stai sempre in pieno. Queste macchine hanno meno potenza e se alzi appena il piede, perdi molto slancio. Se come ai vecchi tempi ci fosse da alzare il piede in curva avresti più controllo e quindi sapresti dove guadagnare. Ma stando sempre a tavoletta è davvero difficile capire dov’è il limite. Ho avuto qualche indizio solo dopo essermi intraversato un paio di volte questa settimana. La seconda ho lasciato delle belle strisciate sull’asfalto che mi hanno fatto pensare: <ok, magari da qui facciamo qualche passo indietro!>”.
La capacità di queste vetture di stare sempre in pieno per buona parte di uno stint può facilmente indurre in un rookie una sensazione di totale controllo. La DW12 però ha dimostrato di poter colpire subdolamente, cosa che nel 2014 Kurt Busch ha imparato finendo contro il muro della curva 2 in prova. Sceso dalla vettura, l’americano ha poi ammesso di non aver seguito l’evoluzione della pista e della vettura operando le dovute correzioni nell’abitacolo. Come usa dire il vincitore 1998 Eddie Cheever infatti, “Indy è come un organismo vivente. Cambia di continuo, insieme al vento, sembra avere un spirito. Devi capirla, ogni attimo, perché non sarà mai la stessa. E nel frattempo la tua macchina sta cercando di ucciderti”. Il comportamento della vettura può cambiare notevolmente infatti con il ridursi del carburante a bordo, l’usura delle gomme, ma soprattutto in funzione del vento, della temperatura dell’aria e dell’asfalto. Alonso dovrà quindi familiarizzare in fretta con gli strumenti che dall’abitacolo permettono una regolazione fine dell’assetto: le leve che controllano le barre anti rollio e il weight jacker, che permette di regolare il precarico di una delle quattro molle. Guidato da un ingegnere esperto come Ben Bretzman poi, dovrà per quanto possibile aiutare il muretto nel decidere le modifiche di assetto (soprattutto pressione gomme e ala anteriore) durante i pit stop, così da adattare la vettura alle mutabili condizioni ambientali e della pista, in modo non troppo dissimile da quanto è abituato a fare in F1.
La prova però più difficile per Alonso sarà imparare a gestire il traffico degli ovali. Se l’enorme scia della DW12 è in parte responsabile della serrata competizione osservata negli ultimi anni, la sua elevata deportanza è però ciò che realmente permette alle vetture di procedere a stretto contatto. Questo non significa che la vettura sia però insensibile alle turbolenze, che in un pacchetto serrato di vetture possono costituire un problema critico, variando notevolmente il comportamento della vettura, che può facilmente passare dal sottosterzo al sovrasterzo. In questo caso Alonso dovrà far suo un altro controsenso degli ovali, imparando ancora una volta dall’errore di Kurt Busch. Come dice Mario Andretti a Motorsport.com infatti: ”Gli specialisti degli stradali hanno la tendenza a esagerare nelle correzioni sugli ovali, abbiamo visto molti esempi nel passato in IndyCar. Se senti che stai perdendo il posteriore, devi quasi lasciarlo andare. Se controsterzi troppo e la macchina riguadagna aderenza infatti, finisci per colpire il muro di muso”.
Un altro aspetto nuovo riguardo il traffico sarà poi il rapporto continuo via radio con lo spotter, oltre alla gestione delle distanze di sorpasso dagli specchietti e le traiettorie disponibili, che si ridurranno progressivamente durante la gara, rendendo imperativo evitare il cosiddetto “grey”, lo sporco che si accumula fuori traiettoria, responsabile ogni anno di buona parte degli incidenti.
Prima della corsa Alonso dovrà poi affrontare il complesso sistema di qualifica, che vede i piloti ripetere numerose volte i canonici 4 giri cronometrati, da affrontarsi con il minimo carico aerodinamico possibile, in una condizione di incipiente sovrasterzo che, per quanto detto sopra, rappresenta una prova massacrante per i nervi e, nei casi peggiori, i riflessi dei piloti, chiamati a correzioni fulminee. Una simile sfida, resa ancora più difficile dal traffico, potrebbe ripresentarsi poi nel finale di gara, dove la ricerca della maggior velocità possibile va inevitabilmente a discapito della stabilità. Alonso e Bretzman dovranno allora essere bravi a evitare l’errore di Barrichello e del team KV nel 2012, rimasti indietro nel momento decisivo perché troppo conservativi con il carico aerodinamico, o quello nel 2014 del rientrante Montoya, impossibilitato a inserirsi nella lotta per la vittoria dopo aver sottovalutato l’efficacia degli aggiustamenti, ai box e in vettura.
Solo lati positivi, o quasi…
Sono quindi tante le sfide che soprattutto Alonso, ma anche la stessa IndyCar, dovranno affrontare nel mese di maggio. Se tutto andrà per il meglio, non c’è motivo per cui lo spagnolo non possa inserirsi nella lotta di testa e dimostrare ancora, se ce ne fosse bisogno, la sua enorme classe. Veterani e promesse di Indy avranno invece l’occasione di mettere in mostra il proprio valore di fronte ad una platea molto più vasta del solito e chissà, magari aprirsi possibilità inaspettate per il futuro.
Non si vedono aspetti negativi quindi in questa entusiasmante avventura, a parte la mole già impressionante di autoproclamati esperti di motorsport che hanno cominciato la loro disinformata, quindi ignorante, opera di demolizione di gara e corse su ovali, rifacendosi come detto in apertura a preconcetti vecchi di almeno 40 anni e, probabilmente, falsi già in origine. Di certo a riguardo abbiamo solo il giudizio dei tanti piloti europei (di F.1 e non) che andando a correre aldilà dell’Atlantico hanno trovato (e raccontato) un livello di professionalità e agonismo che poco si rispecchiava nell’atteggiamento scettico al limite della derisione di tanti addetti ai lavori del Circus, alcuni dei quali non hanno mancato di dimostrare la propria ignoranza anche nelle ultime ore. È questo il piccolo prezzo per avere a Indianapolis forse il miglior pilota del mondo…prezzo che tutto sommato tutti noi appassionati veri delle corse USA paghiamo volentieri, nella speranza di una grande 500 miglia, al termine della quale forse anche gli scettici avranno maturato un po’ di rispetto e considerazione per una gara con 800 curve a sinistra e oltre 100 anni di storia.
Seconda gara della stagione 1985 – Indianapolis 500 – 26 maggio 1985
Circuito: Indianapolis Motor Speedway
Tipologia: Super Speedway
Lunghezza: 2.5 mi – 4.02 km
Configurazione aerodinamica: Super speedway, monoplano posteriore
Record della pista: 210.689 mph/42.717s – Tom Sneva, 1984 – March 84C-Cosworth
Distanza di gara: 200 giri – 500 miglia
Vincitore uscente: Rick Mears
Griglia di partenza – Indianapolis
P
Pilota
Velocità (mph)
Pilota
Velocità (mph)
Pilota
Velocità (mph)
1
Pancho Carter
212.583
2
Scott Brayton
212.199
3
Bobby Rahal
211.818
4
Mario Andretti
211.576
5
Emerson Fittipaldi
211.322
6
Don Whittington
210.992
7
Al Unser
210.523
8
Danny Sullivan
210.298
9
Geoff Brabham
210.074
10
Rick Mears
209.796
11
Al Unser Jr.
209.215
12
Bill Whittington
209.006
13
Tom Sneva
208.927
14
Dick Simon
208.536
15
Michael Andretti
208.185
16
Roberto Guerrero
208.062
17
Danny Ongais
207.220
18
Josele Garza
206.677
19
Howdy Holmes
206.372
20
Arie Luyendyk
206.004
21
A.J. Foyt
205.782
22
Ed Pimm
205.724
23
Raul Boesel
206.498
24
John Paul Jr.
206.340
25
Chip Ganassi
206.104
26
Johnny Parsons
205.778
27
Jim Crawford
205.525
28
George Snider
205.455
29
Tony Bettenhausen
204.824
30
Johnny Rutherford
208.254
31
Derek Daly
207.548
32
Kevin Cogan
206.368
33
Rich Vogler
205.653
L’edizione che ha visto entrare Danny Sullivan nella storia di Indianapolis per il suo “spin and win” si è aperta con un’insolita versione di Back home again in Indiana, che ha visto Topolino dirigere il gruppo delle Voices of Liberty in sostituzione di Jim Nabors. Fin dalla partenza le preoccupazioni sull’affidabilità dei potentissimi Buick V6 sono diventate realtà. Dopo aver ceduto la prima posizione a un aggressivo Rahal in curva 1, la gara del polesitter Pancho Carter è subito finita col motore in fumo e sorte analoga è toccata poco più tardi al compagno Scott Brayton.
Le prime battute hanno visto la battaglia per la testa tra Rahal e Andretti ma ben presto anche il pilota dell’Ohio si è dovuto arrendere a problemi al turbo. Il ruolo di inseguitore del campione 1984 è quindi passato ad Al Unser sr., fino a quando una penalità di un giro per essere passato sopra il tubo dell’aria non ha rovinato la corsa del pilota Penske. La fortune della famiglia Unser hanno poi subito un ulteriore colpo quando Little Al, fino a quel momento stabilmente tra i primi 5, ha dovuto abbandonare per problemi al propulsore.
Con Andretti saldamente in testa la corsa ha quindi visto la risalita di Fittipaldi e Sneva, in lotta per la seconda posizione, seguiti da un gruppetto composto da Don Whittington, Johnny Rutherford e il rimontante Danny Sullivan. Installatosi in quarta piazza, il pilota del Kentucky si è quindi candidato come maggior sfidante di Andretti, emergendo al secondo posto dopo il terzo turno di soste, arrivato attorno a metà gara.
Dopo una lunga battaglia nel traffico, il primo attacco di Sullivan in curva 1 si è però concluso con la March in testacoda davanti ad un attonito Andretti. Evitato fortunatamente il contatto col muro, Sullivan è poi stato bravissimo a rimettere immediatamente in carreggiata la sua vettura, riprendendo subito la velocità di gara senza perdere posizioni, fino alla successiva bandiera gialla. La ripartenza successiva ha però avuto vita breve, a causa di un contatto innescato da Holmes che ha visto Rich Vogler finire a muro proprio davanti al gruppo dei primi.
Se Andretti, Sullivan e Fittipaldi sono riusciti ad attraversare il luogo dell’incidente senza danni, la confusione ha tratto in inganno Tom Sneva, che ha perso il controllo della sua Eagle ponendo tristemente fine ad un’ottima prova. Mentre un problema al cambio ha portato al ritiro il rientrante Mears, rallentato in precedenza da problemi alla visiera, alla ripartenza l’inseguimento di Sullivan è stato finalmente coronato da successo quando, intorno al 130° giro, una manovra praticamente identica alla precedente ha visto la March superare la Lola di Andretti e prendere il largo.
L’ennesima bandiera gialla per recuperare la vettura ferma di Ongais ha poi portato al quinto turno di soste, che ha visto Roberto Guerrero spegnere il motore e perdere momentaneamente il terzo posto. Piuttosto che un tentativo di recuperare il primato, la ripartenza ha visto poi Andretti difendersi dagli attacchi di Fittipaldi, fino al deciso attacco vincente del brasiliano al 159° giro. La buone notizie sono però finite lì per il due volte campione del mondo, che ha prima perso il contatto coi primi fermandosi in bandiera verde, poco prima di un brutto incidente di John Paul jr (innescato da una ruota mal serrata, comunque senza gravi conseguenze), poi ha dovuto abbandonare la corsa per problemi tecnici.
Il successivo incidente di Bill Whittington, nel finale di gara, ha concesso un’ultima possibilità di assalto ad Andretti, ma allo sventolare della bandiera verde a tre giri dalla fine Sullivan, protetto da due doppiati, ha nuovamente preso margine senza difficoltà, andando a conquistare la prima Indy 500 in carriera, la quinta per il team Penske. “Solo” una seconda piazza quindi per la Lola di Andretti, che ha preceduto un comunque ottimo Guerrero, l’altra March-Penske di Al Unser sr. e un grande Rutherford, quinto al traguardo dopo essere partito dalle retrovie. Hanno completato la zona punti CART Johnny Parsons, Michael Andretti, Ed Pimm, Howdy Holmes, Kevin Cogan e Derek Daly.